Sentenza n. 267 del 2007

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SENTENZA N. 267

ANNO 2007

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-      Franco                           BILE                                            Presidente

-      Giovanni Maria             FLICK                                          Giudice

-      Francesco                      AMIRANTE                                      "

-      Ugo                               DE SIERVO                                      "

-      Paolo                             MADDALENA                                 "

-      Alfio                             FINOCCHIARO                               "

-      Alfonso                         QUARANTA                                    "

-      Franco                           GALLO                                             "

-      Luigi                             MAZZELLA                                     "

-      Gaetano                        SILVESTRI                                       "

-      Sabino                           CASSESE                                          "

-      Maria Rita                     SAULLE                                           "

-      Giuseppe                       TESAURO                                        "

-      Paolo Maria                   NAPOLITANO                                 "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 11-quinquies, comma 7, del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all’evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), inserito dalla legge di conversione 2 dicembre 2005, n. 248 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203, recante misure di contrasto all’evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), promossi con n. 2 ordinanze del 2 agosto 2006 dal Consiglio di Stato sui ricorsi proposti da Angelucci Paola ed altri e da Badiali Antonietta ed altri contro l’INPS ed altra, rispettivamente iscritte ai nn. 691 e 692 del registro ordinanze 2006 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 6 prima serie speciale, dell’anno 2007.

Visti gli atti di costituzione di Angelucci Paola ed altri e di Badiali Antonietta ed altri, dell’INPS e della SCIP Società per la cartolarizzazione degli immobili pubblici nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 5 giugno 2007 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro;

uditi gli avvocati Gennaro Terracciano per Angelucci Paola ed altri e per Badiali Antonietta ed altri, Pietro Collina per l’INPS e per la SCIP Società per la cartolarizzazione degli immobili pubblici e l’avvocato dello Stato Giuseppe Fiengo per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. – Il Consiglio di Stato, con due ordinanze del 2 agosto 2006, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 81, 97, 103 e 113 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 11-quinquies, comma 7, del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all’evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), inserito dalla legge di conversione 2 dicembre 2005, n. 248 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203, recante misure di contrasto all’evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), disposizione che così recita: «Gli immobili siti in Roma, via Nicola Salvi n. 68 e via Monte Oppio n. 12, già inseriti nelle procedure di vendita di cui al decreto-legge 25 settembre 2001, n. 351, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 novembre 2001, n. 410, sono esclusi da dette procedure di vendita».

2. – Il Consiglio di Stato è stato adito, in sede di giudizio di ottemperanza, in relazione a due sentenze pronunciate dallo stesso giudice (Sez. VI, 26 ottobre 2005, n. 5960 e n. 5961), che hanno deciso altrettante controversie concernenti la dismissione di immobili di proprietà dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), ubicati in Roma, via Nicola Salvi, n. 68, e via Monte Oppio, n. 12.

Le pronunce hanno confermato le sentenze di primo grado che, in accoglimento dei ricorsi proposti da alcuni conduttori di appartamenti siti in detti edifici, hanno annullato il decreto del 1° aprile 2003 (Identificazione degli immobili di pregio), emesso dal Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, nella parte in cui aveva inserito detti immobili fra quelli di pregio, affermando, conseguentemente, l’obbligo dell’INPS «di applicare le modalità di vendita degli immobili pubblici, previste per gli edifici non di pregio». L’Istituto non ha dato esecuzione alle sentenze, invocando la sopravvenienza della norma impugnata, che ha sottratto entrambi gli immobili alla procedura di dismissione.

Secondo il Consiglio di Stato, nella specie non è applicabile il principio di intangibilità del giudicato, in quanto, alla data di entrata in vigore del citato art. 11-quinquies, comma 7, non era ancora decorso il termine per proporre ricorso in Cassazione per motivi di giurisdizione e, tuttavia, le pronunce erano suscettibili di essere portate ad esecuzione mediante il giudizio di ottemperanza.

Ad avviso dei rimettenti, la norma censurata è applicabile in entrambi i giudizi ed impedisce l'esecuzione delle sentenze; l’INPS non può, infatti, procedere alla vendita degli immobili in base al prezzo stabilito nelle pronunce, poiché la disposizione in esame li ha esclusi dalla procedura di dismissione. È precisamente, pertanto, detta norma che impedisce l’accoglimento delle domande.

2.1. – Secondo i giudici a quibus, benché la legge caratterizzata da un contenuto concreto e particolare (cosiddetta legge-provvedimento) non sia, di per sé, illegittima, il legislatore ordinario, nell’emanare leggi di siffatta natura, deve osservare sia il limite specifico costituito dal rispetto della funzione giurisdizionale in ordine alla decisione delle cause in corso, sia il limite generale costituito dal principio di ragionevolezza.

Nella specie, la successione degli eventi dimostrerebbe che unica finalità della norma censurata sarebbe stata quella di impedire che potesse essere data esecuzione alle citate sentenze del Consiglio di Stato. Il legislatore, a fronte dell’obbligo, stabilito in dette pronunce, di alienare gli immobili al prezzo previsto per gli immobili non di pregio, avrebbe scelto di ritirare l’immobile dalle procedure di vendita, operando una valutazione discrezionale riservata, di regola, alla sede amministrativa. Scopo della norma sarebbe stato di incidere sulla funzione giurisdizionale in riferimento a controversie che neppure potevano, sostanzialmente, ritenersi in corso, in quanto erano state pronunciate le sentenze di ultimo grado ed era sì formalmente pendente il termine per il ricorso per Cassazione per motivi di giurisdizione, ma sussisteva pur sempre l’obbligo per l’amministrazione di darvi esecuzione ed era ammissibile il giudizio di ottemperanza.

Pertanto, la norma censurata si porrebbe in contrasto con gli artt. 3, 24, 103 e 113 della Costituzione, vulnerando il diritto di difesa ed il principio di effettività della tutela giurisdizionale. La disposizione avrebbe, infatti, vanificato il diritto di difesa dei ricorrenti, esercitato con la proposizione dell’azione e soddisfatto con le pronunce di accoglimento delle domande, alterando la regolamentazione degli interessi stabilita da sentenze esecutive, pronunciate nel secondo grado.

2.2. – Sotto un ulteriore profilo, l’art. 3 della Costituzione sarebbe violato in quanto le leggi-provvedimento sono soggette ad uno scrutinio stretto di legittimità costituzionale e, nella specie, la scelta operata dal legislatore sarebbe irragionevole ed arbitraria, dato che mai una legge-provvedimento ha inciso su un numero determinato e così limitato di persone.

L’art. 3 della Costituzione sarebbe violato anche in relazione al principio di eguaglianza, poiché la norma censurata realizza una irragionevole discriminazione in danno dei locatari degli immobili dalla stessa considerati, rispetto ai locatari di altri immobili pubblici inseriti nelle procedure di dismissione in base alla stessa fonte normativa. I secondi hanno potuto, infatti, acquistare gli immobili, a seguito dell’inserimento dei medesimi nei decreti ministeriali del 31 luglio 2002 (Individuazione degli immobili di pregio) e del 1° aprile 2003. I ricorrenti, benché gli immobili siano stati inclusi nel decreto ministeriale del 1° aprile 2003 ed essi versassero nelle medesime condizioni degli altri inquilini, sono stati esclusi dalla procedura di vendita, nonostante la pronuncia di una sentenza favorevole, di ultimo grado. Questa discriminazione non sarebbe sorretta da una plausibile giustificazione, non sussistendo una ragione giuridicamente rilevante per escludere gli immobili da quelli da alienare, dopo che erano stati compresi tra essi.

2.3. – Ad avviso dei rimettenti, la norma in esame, mirando ad evitare che sia data esecuzione ad una sentenza definitiva ed esecutiva, violerebbe inoltre il canone di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione ed il principio del legittimo affidamento del cittadino (artt. 3 e 97 della Costituzione).

Il citato art. 11-quinquies, comma 7, si porrebbe, infine, in contrasto con l’art. 81 della Costituzione. La procedura di dismissione degli immobili pubblici è preordinata a reperire risorse economiche per lo Stato, con una modalità inidonea ad elidere la riferibilità al medesimo dei suoi effetti economici. Pertanto, la sottrazione di due immobili alla procedura di vendita comporterebbe una minore entrata per lo Stato, in relazione alla quale la legge avrebbe dovuto indicare la relativa copertura, come invece non è accaduto.

3. – Nei due giudizi si sono costituiti, con separati atti, i ricorrenti nei giudizi a quibus, chiedendo l’accoglimento della questione e svolgendo, anche nelle memorie depositate in prossimità dell’udienza pubblica, argomenti sostanzialmente coincidenti con quelli contenuti nelle ordinanze di rimessione.

3.1. – In entrambi i giudizi si è costituito l’INPS, parte convenuta nei processi principali, che, anche quale mandatario della Società di cartolarizzazione immobili pubblici s.r.l. (SCIP s.r.l.), con distinti atti, di contenuto sostanzialmente identico, ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o comunque infondata.

L’Istituto, dopo avere sintetizzato la disciplina del procedimento di dismissione degli immobili, osserva che quelli rientranti nel patrimonio disponibile degli enti previdenziali – tra questi anche i due stabili oggetto dei giudizi a quibus – sono stati individuati con decreti dirigenziali dell’Agenzia del demanio e, quindi, trasferiti, con decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze, di concerto con il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, alla SCIP s.r.l. Una disciplina specifica è stata stabilita per gli immobili cosiddetti di pregio, concernente la modalità di individuazione degli stessi e la loro esclusione dalle agevolazioni previste per i conduttori delle restanti abitazioni.

Nell’ambito di detto procedimento di dismissione sono state avviate due operazioni di cartolarizzazione, sulla base di programmi di vendita predisposti da vari enti previdenziali con i Ministeri interessati, previa stima dei fabbricati affidata all’Agenzia del territorio.

Secondo l’INPS, la norma censurata va valutata nel contesto di siffatta operazione, alla luce della necessità di garantire che i ricavi delle vendite non siano inferiori al valore di stima. Il mantenimento degli immobili oggetto dei giudizi principali nel portafoglio cartolarizzato al valore stabilito dal Consiglio di Stato avrebbe comportato un aggravio della spesa pubblica, a causa dell’obbligo di pagare la differenza rispetto al minore introito derivante dalla vendita del bene ad un prezzo ridotto, evitato appunto grazie alla norma censurata. Pertanto, detta disposizione sarebbe strumentale alla tutela di un rilevante interesse pubblico e non mirerebbe ad eludere un giudicato, non ancora formatosi al momento della sua emanazione.

Inoltre, il citato art. 11-quinquies, comma 7, non avrebbe determinato una discriminazione in danno dei conduttori degli immobili dallo stesso contemplati, i quali verserebbero in una situazione differenziata rispetto ai conduttori degli altri stabili oggetto di dismissione. La considerazione che la norma censurata sarebbe stata ispirata dalla necessità di razionalizzare la alienazione degli immobili, evitando i danni derivanti da una riduzione degli introiti, condurrebbe, infine, ad escludere la denunciata violazione dell’art. 97 della Costituzione.

3.2. – In entrambi i giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, infondata.

Secondo la difesa erariale, le sentenze del Consiglio di Stato avrebbero avuto ad oggetto soltanto la qualificazione degli immobili come non di pregio, mentre la determinazione dell’an e del quomodo della vendita non potrebbe costituire oggetto del giudizio di ottemperanza, con conseguente irrilevanza della questione.

 Nel merito, la norma in esame sarebbe giustificata dallo scopo di eliminare una difficoltà procedimentale della pubblica amministrazione e, in relazione alla conclusione della vendita, non sussisterebbe un giudicato, con conseguente inesistenza della lesione del principio di effettività della tutela giurisdizionale (artt. 24, 103, 113 della Costituzione).

La ratio del citato art.11-quinquies, comma 7, di tutelare l’interesse dell’amministrazione pubblica a non essere obbligata a corrispondere alla SCIP s.r.l. la differenza tra il prezzo pieno a cui l’immobile è stato dalla medesima acquistato, in quanto classificato all’inizio come di pregio, ed «il prezzo scontato a cui esso rischiava di essere rivenduto all’occupante, in forza di una diversa classificazione fatta dal giudice amministrativo», conforterebbe la ragionevolezza della norma.

Secondo l’interveniente, sarebbero, infine, infondate le censure riferite agli artt. 3 e 97 della Costituzione. La peculiare situazione e le specifiche caratteristiche degli stabili in esame giustificherebbero, infatti, un trattamento differenziato dei conduttori degli appartamenti negli stessi ubicati e la disposizione sarebbe strumentale rispetto alla tutela dell’interesse pubblico alla razionale ed economica gestione del patrimonio immobiliare della collettività.

4. – All’udienza pubblica le parti e l’interveniente hanno chiesto l’accoglimento delle conclusioni rese nelle difese scritte.

Considerato in diritto

1. – Il Consiglio di Stato, con due ordinanze del 2 agosto 2006, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 81, 97, 103 e 113 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 11-quinquies, comma 7, del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all'evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), inserito dalla legge di conversione 2 dicembre 2005, n. 248 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203, recante misure di contrasto all'evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria).

1.1. – Secondo i rimettenti, la norma impugnata, disponendo che gli immobili nella stessa indicati sono esclusi dalle procedure di vendita di cui al decreto-legge 25 settembre 2001, n. 351, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 novembre 2001, n. 410, dopo che in due sentenze definitive del Consiglio di Stato era stato affermato l’obbligo dell’ente proprietario di alienarli al prezzo previsto per quelli non di pregio, si porrebbe in contrasto con gli artt. 3, 24, 103 e 113 della Costituzione. Scopo della norma sarebbe, infatti, soltanto quello di eludere l'obbligo di dare esecuzione ad una decisione giurisdizionale, in violazione del diritto di difesa e del principio di effettività della tutela giurisdizionale.

La disposizione violerebbe, inoltre, l’art. 3 della Costituzione, sotto un primo profilo, in quanto sottrae alla procedura di dismissione due soli immobili, dopo che l’INPS ed i locatari degli appartamenti avevano, rispettivamente, manifestato la volontà di venderli e di acquistarli, alterando la regolamentazione degli interessi stabilita da una sentenza definitiva ed esecutiva, sebbene non ancora passata in giudicato. Sotto un secondo profilo, la norma realizzerebbe una irragionevole discriminazione in danno dei locatari degli immobili dalla stessa considerati, i quali, in mancanza di ogni plausibile giustificazione, non possono acquistare gli appartamenti, nonostante la pronuncia di una sentenza favorevole, di ultimo grado.

Il citato art. 11-quinquies, comma 7, si porrebbe in contrasto con gli artt. 3 e 97 della Costituzione anche in quanto, mirando ad evitare che sia data esecuzione ad una sentenza definitiva ed esecutiva, lederebbe il canone di imparzialità e buon andamento dell'amministrazione, con pregiudizio del principio del legittimo affidamento del cittadino.

Infine, secondo i giudici a quibus, sarebbe violato l’art. 81 della Costituzione, poiché la disposizione in questione mancherebbe di copertura finanziaria, dato che comporta una minore entrata per lo Stato, in difetto di indicazione della relativa copertura.

2. – L’identità delle argomentazioni svolte nelle ordinanze di rimessione, aventi ad oggetto la stessa norma, impone la riunione dei giudizi.

3. – L’eccezione di inammissibilità della questione per difetto di rilevanza, sollevata dalla difesa erariale, è infondata.

Entrambe le ordinanze di rimessione sottolineano che le controversie definite con le sentenze delle quali è stata chiesta l’esecuzione hanno «avuto per oggetto solo l’esatta qualificazione dell’immobile, come di pregio o non di pregio, al fine di determinare la conseguente misura del prezzo», e, quindi, hanno «affermato l’obbligo dell’amministrazione di applicare le modalità di vendita» previste per gli edifici riconducibili alla seconda categoria.

Dalla premessa dell’obbligo dell’amministrazione di vendere gli immobili al prezzo stabilito per quelli non di pregio, il Consiglio di Stato ha desunto che soltanto la norma censurata «impedisce di dare esecuzione» alle sentenze, non sussistendo altri «ostacoli di sorta» al perfezionamento del procedimento di alienazione. Questa interpretazione della disciplina della dismissione è, peraltro, l’unica coerente con il contenuto e la finalità della norma impugnata, posto che la stessa è giustificabile soltanto in considerazione del citato obbligo e cioè dell’insussistenza del potere di revocare la proposta di alienazione, una volta che il consenso delle parti si sia perfezionato ed il prezzo di vendita sia stato determinato all’esito dei giudizi amministrativi. I rimettenti hanno, pertanto, plausibilmente motivato in ordine alla rilevanza della questione e tanto, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, è sufficiente a renderla ammissibile (per tutte, sentenze n. 176 del 2000 e n. 521 del 1995).

4. – La questione, nel merito, è fondata.

La norma impugnata stabilisce che «gli immobili siti in Roma, via Nicola Salvi n. 68, e via Monte Oppio n. 12, già inseriti nelle procedure di vendita di cui al decreto-legge 25 settembre 2001, n. 351, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 novembre 2001, n. 410, sono esclusi da dette procedure di vendita».

La questione ha, quindi, ad oggetto la valutazione, alla stregua dei parametri sopra indicati, della conformità alla Costituzione di una disposizione che può essere qualificata come “norma-provvedimento”, in quanto incide su un numero determinato e molto limitato di destinatari ed ha contenuto particolare e concreto.

Al riguardo, va ricordato che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, non è preclusa alla legge ordinaria la possibilità di attrarre nella propria sfera di disciplina oggetti o materie normalmente affidati all’autorità amministrativa, non sussistendo un divieto di adozione di leggi a contenuto particolare e concreto, ossia di leggi-provvedimento (sentenza n. 347 del 1995).

Tuttavia, queste leggi sono ammissibili entro limiti sia specifici, qual è quello del rispetto della funzione giurisdizionale in ordine alla decisione delle cause in corso, sia generali, e cioè del principio della ragionevolezza e non arbitrarietà (sentenze n. 492 del 1995, n. 346 del 1991, n. 143 del 1989). La legittimità di questo tipo di leggi deve, quindi, essere valutata in relazione al loro specifico contenuto.

In considerazione del pericolo di disparità di trattamento insito in previsioni di tipo particolare o derogatorio (sentenze n. 185 del 1998, n. 153 del 1997), la legge-provvedimento è, conseguentemente, soggetta ad uno scrutinio stretto di costituzionalità (sentenze n. 429 del 2002, n. 364 del 1999, nn. 153 e 2 del 1997), essenzialmente sotto i profili della non arbitrarietà e della non irragionevolezza della scelta del legislatore. Ed un tale sindacato deve essere tanto più rigoroso quanto più marcata sia, come nella specie, la natura provvedimentale dell’atto legislativo sottoposto a controllo (sentenza n. 153 del 1997).

4.1. – Nel caso in esame peculiare valenza sintomatica assume la considerazione del tempo, delle modalità e del contesto in cui è stata emanata la disposizione censurata. Infatti, detta norma non era contenuta nel testo del decreto-legge del 25 settembre 2005, n. 203, che recava disposizioni dirette ad introdurre misure di contrasto all’evasione fiscale, nonché disposizioni in tema di riscossione delle imposte, perequazione delle basi imponibili, previdenza e sanità. Il citato art. 11-quinquies, comma 7, è stato introdotto dalla legge di conversione del 2 dicembre 2005, n. 248 (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 2 dicembre 2005, n. 281), dunque la norma è stata emanata ed è divenuta efficace soltanto dopo che le sentenze del Consiglio di Stato erano state pubblicate (in data 26 ottobre 2005) – ed anche notificate all’amministrazione (in data 21 novembre 2005) – definendo controversie in corso da anni, che avevano visto l’amministrazione soccombente.

Questa successione cronologica e la considerazione che il decreto-legge nel quale la norma è stata inserita concerneva materia diversa dalla dismissione degli immobili degli enti previdenziali rivelano che, sebbene alla data di emanazione della norma censurata non sussistesse un giudicato formale, finalità della medesima è stata quella di eludere l’esecuzione di due sentenze, impugnabili solo per motivi di giurisdizione.

La norma ha, infatti, sottratto alla procedura di dismissione esclusivamente i due immobili dalla stessa considerati, nonostante che l’INPS ed i conduttori degli appartamenti avessero manifestato, rispettivamente, la volontà di venderli e di acquistarli, per la ragione che due sentenze avevano accertato l’erroneità della qualificazione datane dall’amministrazione e soltanto dopo che la fase di merito si era completamente esaurita con la pubblicazione delle pronunce, le quali, sia pure con diversa motivazione, avevano confermato quelle di primo grado.

La ratio invocata dalla parte e dalla difesa erariale – di evitare l’aggravio della spesa pubblica per l’obbligo della rifusione dell’introito derivante dalla vendita dei beni ad un prezzo ridotto – nel contesto sopra sintetizzato non costituisce idonea giustificazione della discriminazione in danno dei conduttori degli immobili in esame rispetto a quelli degli altri immobili oggetto della stessa procedura di dismissione.

Inoltre, siffatta finalità neppure permette di escludere la lesione del legittimo affidamento dei predetti, consolidatosi a seguito delle sentenze sopra richiamate e da ritenersi vulnerato da una norma che ha stabilito un irrazionale regolamento di una situazione sostanziale, in quanto non ha avuto ad oggetto una generalità di casi ed è stata giustificata dall’intento di eludere quello definito da pronunce giurisdizionali, le quali avevano accertato l’erroneità della valutazione espressa dall’amministrazione.

Pertanto, il citato art. 11-quinquies, comma 7, non è immune dalle censure di irragionevolezza ed arbitrarietà e, ponendosi in contrasto con l’art. 3 della Costituzione, va dichiarato costituzionalmente illegittimo.

Restano, in tal modo, assorbite le censure incentrate sugli ulteriori parametri costituzionali invocati dai rimettenti.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 11-quinquies, comma 7, del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all’evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), inserito dalla legge di conversione 2 dicembre 2005, n. 248 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203, recante misure di contrasto all’evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria).

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 luglio 2007.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giuseppe TESAURO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 13 luglio 2007.