SENTENZA
N. 87
ANNO
2018
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME
DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE
COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Giorgio LATTANZI
Presidente
- Aldo CAROSI Giudice
- Marta CARTABIA ”
- Mario
Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Augusto
Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
- Giovanni AMOROSO ”
- Francesco
VIGANO’ ”
ha pronunciato la
seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art.
1, commi 269, 270, 271, 272 e 275, della legge 11 dicembre 2016, n. 232
(Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2017 e bilancio
pluriennale per il triennio 2017-2019), promosso con ricorso
della Regione Veneto, notificato il 16 febbraio 2017, depositato in cancelleria
il 23 febbraio 2017 ed iscritto al n. 19 del registro ricorsi 2017.
Visto l’atto di
costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 20 marzo 2018 il Giudice relatore
Giuliano Amato;
uditi gli avvocati Luca
Antonini e Andrea Manzi per la Regione Veneto e l’avvocato dello Stato
Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto
in fatto
1.– Con ricorso notificato il 16 febbraio 2017 e
depositato il 23 febbraio 2017, la Regione Veneto ha promosso, in riferimento
agli artt. 3, 5, 97, 117, terzo e quarto
comma, 118, 119 e 120 della
Costituzione, tra le altre, questioni di legittimità costituzionale dell’art.
1, commi 269, 270, 271, 272 e 275, della legge 11 dicembre 2016, n. 232
(Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2017 e bilancio
pluriennale per il triennio 2017-2019).
1.1.– In primo luogo, la
Regione Veneto impugna i commi 269, 270 e 272 dell’art. 1 della legge n. 232
del 2016, i quali statuiscono:
«269. Ai fini della gestione delle risorse del
fondo di cui all’articolo 18 del decreto legislativo 29 marzo 2012, n. 68,
ciascuna regione razionalizza l’organizzazione degli enti erogatori dei servizi
per il diritto allo studio mediante l’istituzione, entro sei mesi dalla data di
entrata in vigore della presente legge, di un unico ente erogatore dei medesimi
servizi, prevedendo comunque una rappresentanza degli studenti nei relativi
organi direttivi. Sono comunque fatti salvi i modelli sperimentali di gestione
degli interventi di cui all’articolo 12 del decreto legislativo 29 marzo 2012,
n. 68.
270. La norma del comma 269 costituisce
principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica.
272. Le risorse del fondo di cui all’articolo
18, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 29 marzo 2012, n. 68, sono
direttamente attribuite al bilancio dell’ente regionale erogatore dei servizi
per il diritto allo studio, a norma del comma 269 del presente articolo, entro
il 30 settembre di ciascun anno. Nelle more della razionalizzazione di cui al
medesimo comma 269, tali risorse sono comunque trasferite direttamente agli
enti regionali erogatori, previa indicazione da parte di ciascuna regione della
quota da trasferire a ciascuno di essi.».
Tale disciplina sarebbe lesiva degli artt. 3, 5,
97, 117, terzo e quarto comma, 118, 119 e 120 Cost.
1.1.1.– La Regione Veneto
sottolinea che la qualificazione di principio di coordinamento della finanza
pubblica della disposizione di cui al comma 269, operata dal comma 270, non
assumerebbe alcun valore prescrittivo. Infatti, come più volte affermato da
questa Corte, al fine d’individuare la materia a cui ascrivere le disposizioni
impugnate, non rileva la definizione data dallo stesso legislatore, dovendosi
invece fare riferimento all’oggetto della disciplina in questione (ex plurimis, sono richiamate le sentenze n. 203,
n. 200 e n. 164 del 2012,
n. 182 del 2011,
n. 247 del 2010
e n. 237 del
2009).
La disposizione di cui al comma 269, alla luce
della ormai costante giurisprudenza costituzionale (tra le tante, vengono
richiamate le sentenze
n. 64 e n.
43 del 2016, n.
79 e n. 44
del 2014, n.
236, n. 205
e n. 36 del 2013,
n. 262, n. 211 e n. 139 del 2012,
n. 182 del 2011,
n. 207 e n. 128 del 2010,
n. 297, n. 237 e n. 139 del 2009,
n. 289, n. 159 e n. 120 del 2008
e n. 169 del
2007), non potrebbe comunque essere inquadrata all’interno del
«coordinamento della finanza pubblica». Infatti, i limiti posti dal legislatore
statale al fine di garantire l’equilibrio complessivo dei conti pubblici
possono considerarsi rispettosi dell’autonomia delle Regioni e degli enti
locali solo qualora stabiliscano un limite complessivo, che lasci agli enti
stessi ampia libertà di allocazione delle risorse fra i diversi ambiti e
obiettivi di spesa, nonché quando abbiano il carattere della transitorietà. Sarebbe
necessario, quindi, che il legislatore renda comunque possibile
l’estrapolazione dalle disposizioni statali di principi rispettosi di uno
spazio aperto all’esercizio dell’autonomia regionale, non prevedendo in modo
esaustivo strumenti o modalità per il perseguimento degli obiettivi di
contenimento della spesa. In caso contrario, la norma statale non potrebbe
essere ritenuta di principio, a prescindere dall’auto-qualificazione operata
dal legislatore.
A conferma di ciò, vengono ricordate le misure
previste dall’art. 9, commi da 1 a 6, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95
(Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei
servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese
del settore bancario), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto
2012, n. 135, ove si prevedeva la soppressione o l’accorpamento di enti,
agenzie o organismi degli enti territoriali. Tali disposizioni sono state
ricondotte all’interno dei principi fondamentali di coordinamento finanziario,
ma soltanto perché limitate all’inderogabile risultato di una riduzione del 20
per cento dei costi del funzionamento degli enti strumentali degli enti locali
(così la sentenza
n. 236 del 2013). L’accorpamento o la soppressione di taluni di questi
enti, pertanto, poteva essere uno strumento per ottenere tale riduzione, ma non
l’unico strumento.
Le disposizioni impugnate, in violazione degli
artt. 117, terzo comma, e 119 Cost., invece, non
indicherebbero alcun obiettivo di contenimento della spesa regionale,
limitandosi ad una generica affermazione circa l’esigenza di razionalizzare
l’organizzazione degli enti erogatori dei servizi per il diritto allo studio.
Inoltre, le stesse non avrebbero carattere transitorio, imponendo una modifica
definitiva all’assetto organizzativo di tali enti, senza lasciare uno spazio di
libertà alle scelte delle Regioni, in virtù del contenuto strettamente
vincolante dell’obbligo di creare un unico ente erogatore.
1.1.2.– La disciplina
statale sarebbe altresì in contrasto con i principi di ragionevolezza e di buon
andamento dell’azione amministrativa, di cui agli artt. 3 e 97 Cost., incidendo
direttamente sulle competenze residuali delle Regioni in materia di
«organizzazione amministrativa regionale» e di «diritto allo studio» e ledendo
così gli artt. 117, quarto comma, e 118 Cost.
Non tenendo conto delle peculiarità territoriali
e delle diverse modalità di erogazione dei servizi, infatti, verrebbero
compromesse l’efficacia, l’efficienza e l’economicità dell’attuale modello
organizzativo regionale, basato sulla necessità di assicurare, in una realtà
regionale policentrica, una distribuzione capillare dei servizi di diritto allo
studio all’interno del territorio. Per tali ragioni, la Regione Veneto
sottolinea di aver già manifestato, in sede di Conferenza permanente per i
rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano
(da qui: Conferenza Stato-Regioni), la propria contrarietà alla creazione di un
unico ente, come risulta dal parere sul disegno di legge di bilancio del 17
novembre 2016.
1.1.3.– Le disposizioni
censurate, infine, sarebbero illegittime in quanto non recherebbero alcuna
forma di coinvolgimento delle Regioni, in violazione del principio di leale
collaborazione di cui agli artt. 5 e 120 Cost.
Infatti, in ambiti caratterizzati da una
pluralità di competenze, qualora non risulti possibile comporre il concorso di
competenze statali e regionali mediante un criterio di prevalenza, l’intervento
del legislatore statale deve avvenire nel rispetto del principio di leale
collaborazione, da ritenersi congruamente attuato mediante la previsione
dell’intesa (ex plurimis, sono richiamate le sentenze n. 21
e n. 1 del 2016,
n. 44 del 2014,
n. 237 del 2009,
n. 168 e n. 50 del 2008).
Un’esigenza di coinvolgimento delle Regioni e degli enti locali riconosciuta,
nella forma dell’intesa, anche nella diversa ipotesi della "attrazione in
sussidiarietà” della funzione legislativa allo Stato (vengono richiamate in
particolare la sentenza
n. 303 del 2003, nonché, tra le più recenti, le sentenze n. 251
e n. 7 del 2016).
1.2.– In secondo luogo,
la ricorrente impugna l’art. 1, comma 271, della legge n. 232 del 2016, che
così dispone:
«271. Nelle more dell’emanazione del decreto di cui
all’articolo 7, comma 7, del decreto legislativo 29 marzo 2012, n. 68, e allo
scopo di consentire che l’assegnazione delle risorse del fondo di cui al comma
268 del presente articolo avvenga, in attuazione dell’articolo 18, commi 1,
lettera a), e 3, del medesimo decreto legislativo n. 68 del 2012, in misura
proporzionale al fabbisogno finanziario delle regioni, il Ministro
dell’istruzione, dell’università e della ricerca, con decreto emanato entro tre
mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, di concerto con il
Ministro dell’economia e delle finanze, previo parere della Conferenza
permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di
Trento e di Bolzano, che si esprime entro sessanta giorni dalla data di
trasmissione, decorso il quale [sic] il decreto può essere comunque adottato,
determina i fabbisogni finanziari regionali.».
La disposizione sarebbe lesiva dell’art. 117,
quarto comma, Cost., e del principio di leale
collaborazione, di cui agli artt. 5 e 120 Cost., prevedendo un semplice parere,
anziché un’apposita intesa, riguardo al decreto che determina i fabbisogni
finanziari regionali in una competenza regionale residuale, quale il «diritto
allo studio».
1.2.1.– Premette la parte
ricorrente che, riguardo a tale materia, questa Corte, pur non avendo avuto
l’occasione di esprimersi direttamente sul relativo inquadramento, ne avrebbe
riconosciuto la pertinenza alla competenza regionale residuale in diversi obiter dicta (sono richiamate le sentenze n. 61 del
2011, n. 299
e n. 134 del
2010). Ciò sarebbe stato confermato anche dallo stesso legislatore statale
con il decreto legislativo 29 marzo 2012, n. 68, recante «Revisione della
normativa di principio in materia di diritto allo studio e valorizzazione dei
collegi universitari legalmente riconosciuti, in attuazione della delega
prevista dall’articolo 5, comma 1, lettere a), secondo periodo, e d), della
legge 30 dicembre 2010, n. 240, e secondo i principi e i criteri direttivi
stabiliti al comma 3, lettera f), e al comma 6», che ha definito un sistema
integrato di strumenti e servizi in cui allo Stato spetta la determinazione dei
livelli essenziali delle prestazioni, mentre le Regioni hanno la competenza in
materia di diritto allo studio (in particolare, art. 3, comma 2, del d.lgs. n.
68 del 2012).
Le Regioni, d’altronde, insieme alle università,
avrebbero svolto funzioni attive in tale ambito già a partire dal decreto del
Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616 (Attuazione della delega di
cui all’art. 1 della L. 22 luglio 1975, n. 382). In base a tale assetto
normativo, quindi, la legge della Regione Veneto 7 aprile 1998, n. 8 (Norme per
l’attuazione del diritto allo studio universitario), ha disposto che gli
interventi finalizzati all’attuazione del diritto allo studio sono gestiti
dalle tre aziende regionali per il diritto allo studio universitario,
prevedendo che l’erogazione delle borse di studio possa essere affidata alle
università, previa stipula di apposita convenzione con la Regione.
1.2.2.– Ciò premesso, il fondo vincolato statale
a cui si riferisce la disposizione impugnata è disciplinato dall’art. 18, comma
1, lettera a), del d.lgs. n. 68 del 2012 e concorre, assieme al gettito
derivante dall’importo della tassa regionale per il diritto allo studio e alle
risorse proprie delle Regioni, alla copertura del fabbisogno finanziario
necessario affinché queste ultime possano garantire l’erogazione delle borse di
studio agli studenti universitari in possesso dei relativi requisiti. I criteri
e le modalità di riparto di tale fondo sono definiti con un decreto del
Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, di concerto con il
Ministro dell’economia e delle finanze, d’intesa con la Conferenza
Stato-Regioni, sentito il Consiglio nazionale degli studenti universitari. Il
medesimo decreto interministeriale (aggiornato con cadenza triennale) individua
anche l’importo delle borse di studio, nonché i requisiti di eleggibilità per
l’accesso alle stesse.
Siffatto decreto, nondimeno, non risulterebbe ad
oggi emanato e l’ultimo riparto delle risorse del fondo, relativo alle risorse
disponibili nel 2015, sarebbe stato operato con il decreto del Presidente del
Consiglio dei ministri 24 ottobre 2016, sulla base dei criteri di cui all’art.
16 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 9 aprile 2001 e dei
dati trasmessi dalle Regioni.
Il comma 271 dell’art. 1 della legge n. 232 del
2016, dunque, introdurrebbe una disposizione di fatto elusiva e contraddittoria
del coerente percorso previsto dal d.lgs. n. 68 del 2012, il quale, per
giungere ad una definizione del fabbisogno finanziario delle Regioni rispettosa
della relativa autonomia, aveva previsto la necessaria intesa per la
definizione dell’importo della borsa e dei criteri e delle modalità di riparto
del fondo integrativo statale.
Questa Corte, del resto, avrebbe più volte
dichiarato costituzionalmente illegittime disposizioni che disciplinavano il
riparto o la riduzione di fondi e trasferimenti destinati ad enti territoriali,
nella misura in cui, rinviando a fonti secondarie di attuazione, non
prevedevano "a monte” lo strumento dell’intesa, sia nei casi d’intreccio di
materie riconducibili alla potestà legislativa statale e regionale, sia in
quelli d’interferenza con la potestà legislativa regionale residuale (tra le
tante, sono richiamate le sentenze n. 211
e n. 147 del
2016, n. 273,
n. 182 e n. 117 del 2013,
n. 27 del 2010,
n. 168 del 2008
e n. 222 del
2005). Inoltre, come recentemente statuito nella sentenza n. 251 del
2016 «[i]l parere come strumento di coinvolgimento delle autonomie
regionali e locali non può non misurarsi con la giurisprudenza di questa Corte
che, nel corso degli anni, ha sempre più valorizzato la leale collaborazione
quale principio guida nell’evenienza, rivelatasi molto frequente, di uno
stretto intreccio fra materie e competenze e ha ravvisato nell’intesa la
soluzione che meglio incarna la collaborazione (di recente, sentenze n. 21
e n. l del 2016)».
1.3.– Da ultimo, la
Regione Veneto ha impugnato il comma 275 dell’art. 1 della legge n. 232 del
2016, ove si prevede:
«275. Entro il 30 aprile di ogni anno, la
"Fondazione Articolo 34”, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra
lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, bandisce
almeno 400 borse di studio nazionali, ciascuna del valore di 15.000 euro
annuali, destinate a studenti capaci, meritevoli e privi di mezzi, al fine di
favorirne l’immatricolazione e la frequenza a corsi di laurea o di laurea
magistrale a ciclo unico, nelle università statali, o a corsi di diploma
accademico di I livello, nelle istituzioni statali dell’alta formazione
artistica, musicale e coreutica, aventi sedi anche differenti dalla residenza
anagrafica del nucleo familiare dello studente.».
La disposizione impugnata introduce forme di
sostegno al diritto allo studio, affidando l’erogazione di borse di studio
nazionali alla «Fondazione Articolo 34», prevista dal precedente comma 273 –
già «Fondazione per il Merito», di cui all’art. 9, comma 3, del decreto-legge
13 maggio 2011, n. 70 (Semestre Europeo – Prime disposizioni urgenti per
l’economia), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 2011, n. 106
– istituita per la realizzazione degli obiettivi di interesse pubblico del
Fondo per il merito di cui all’art. 4, della legge 30 dicembre 2010, n. 240
(Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e
reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e
l’efficienza del sistema universitario), nonché allo scopo di promuovere la
cultura del merito e della qualità degli apprendimenti nel sistema scolastico e
nel sistema universitario.
1.3.1.– Secondo la
ricorrente, indicando che sia solamente sentita la Conferenza Stato-Regioni, la
disposizione censurata violerebbe gli artt. 117, quarto comma, e 119, Cost.,
nonché il principio di leale collaborazione di cui agli artt. 5 e 120 Cost.
Trattandosi di un intervento rientrante nella materia di competenza residuale
regionale concernente il «diritto allo studio», infatti, la disciplina delle
relative modalità di erogazione dovrebbe necessariamente stabilire una sede
adeguata di coinvolgimento delle Regioni, segnatamente nella forma dell’intesa.
D’altronde, misure di questo tipo sarebbero già state adottate dal legislatore,
prevedendo appunto lo strumento dell’intesa (come per il Piano nazionale per il
merito di cui all’art. 59 del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, recante
«Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia», convertito, con
modificazioni, nella legge 9 agosto 2013, n. 98).
La lesione delle attribuzioni regionali,
peraltro, sarebbe aggravata da quanto previsto dal successivo comma 283,
secondo cui gli studenti percettori di tale borsa nazionale sono esonerati dal
pagamento della tassa regionale per il diritto allo studio. Il gettito
derivante dalla riscossione di tale tassa, infatti, è interamente devoluto
all’erogazione delle borse di studio regionali (art. 3, comma 23, della legge
28 dicembre 1995, n. 549, recante «Misure di razionalizzazione della finanza
pubblica»). La previsione di qualsiasi forma di esonero inciderebbe, quindi,
sulla copertura del fabbisogno finanziario delle Regioni necessario per
garantire l’erogazione delle borse stesse, comportando di conseguenza un
aggravio sul bilancio regionale. A maggior ragione, pertanto, la disposizione
impugnata dovrebbe prevedere il coinvolgimento delle Regioni nella forma
dell’intesa.
2.– Con atto depositato
il 28 marzo 2017, si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, chiedendo che il ricorso promosso dalla Regione Veneto sia dichiarato
infondato. Le relative argomentazioni, per gli aspetti qui in esame, sono state
illustrate soltanto nella successiva memoria depositata in prossimità
dell’udienza.
2.1.– Con riferimento alla prima questione
promossa dalla parte ricorrente, la creazione di un unico ente regionale
risponderebbe a diverse esigenze, non solo di coordinamento della finanza
pubblica e di contenimento e razionalizzazione della spesa, essendo finalizzata
a garantire l’effettiva erogazione delle borse e a tutelare il diritto allo
studio in maniera uniforme sull’intero territorio nazionale, salvaguardando gli
studenti capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, nel rispetto dell’art.
34 Cost.
2.1.1.– Nel dettaglio,
dovrebbe ritenersi infondata la censura relativa alla violazione del riparto di
competenze in materia di «organizzazione amministrativa regionale». Infatti,
l’ordinamento degli uffici e degli enti amministrativi dipendenti dalla
Regione, pur essendo materia riconducibile al novero delle competenze regionali
residuali, incontrerebbe il limite dell’esercizio della potestà legislativa
statale sul «coordinamento della finanza pubblica», dal momento che lo Stato
potrebbe imporre alle Regioni prescrizioni organizzative connesse ad esigenze
di equilibrio complessivo della finanza pubblica e al rispetto del patto di
stabilità interno e comunitario.
La giurisprudenza costituzionale, anche in
considerazione della situazione di eccezionale gravità del contesto
finanziario, avrebbe fornito una lettura estensiva delle norme di principio di
coordinamento finanziario, che potrebbero recare anche vincoli specifici per il
contenimento della spesa delle Regioni e degli enti locali (sono richiamate le sentenze n. 52 del
2010, n. 237
del 2009 e n.
417 del 2005). Così, ad esempio, per le riduzioni di spesa per incarichi di
studio e consulenza (è richiamata la sentenza n 262 del
2012), per l’obbligo di soppressione o accorpamento da parte degli enti
locali di agenzie ed enti che esercitino funzioni fondamentali e funzioni loro
conferite (è richiamata la sentenza n. 236 del
2013), per la determinazione del numero massimo di consiglieri e assessori
regionali e per la riduzione degli emolumenti dei consiglieri (sono citate le sentenze n. 23 del
2014 e n.
198 del 2012). Inoltre, la specificità delle prescrizioni, di per sé, non
farebbe escludere il carattere di principio di una norma, qualora essa risulti
legata al principio stesso da un evidente rapporto di coessenzialità
e di necessaria integrazione (sono richiamate le sentenze n. 237 del
2009 e n.
430 del 2007). Infine, nella dinamica dei rapporti tra Stato e Regioni, la
stessa nozione di principio fondamentale non potrebbe essere cristallizzata in
una formula valida in ogni circostanza, dovendo tenere conto del contesto e del
momento congiunturale in relazione ai quali l’accertamento va compiuto e della
peculiarità della materia (è citata la sentenza n. 16 del
2010).
2.1.2.– Quanto alla
violazione della competenza regionale sul «diritto allo studio universitario»,
la difesa statale precisa che tale materia non compare né tra quelle di
esclusiva competenza statale, né tra quelle di competenza concorrente; la qual
cosa, com’è noto, non ne comporterebbe però l’attribuzione alla potestà
residuale delle Regioni.
Il diritto allo studio, previsto dai commi terzo
e quarto dell’art. 34 Cost., sarebbe un diritto
sociale, di cui dovrebbe essere garantito un determinato livello di tutela su
tutto il territorio nazionale. Esso rappresenterebbe, dunque, un settore sul
quale s’innesta, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., quel limite alle competenze regionali rappresentato
dalla «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i
diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio
nazionale». E, a tal proposito, proprio il d.lgs. n. 68 del 2012 prevede,
all’art. 3, comma 2, che «[f]erma restando la competenza esclusiva dello Stato
in materia di determinazione dei LEP, al fine di garantirne l’uniformità e l’esigibilità
su tutto il territorio nazionale, le regioni esercitano la competenza esclusiva
in materia di diritto allo studio, disciplinando e attivando gli interventi
volti a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale per il concreto
esercizio di tale diritto. Le regioni, nei limiti delle proprie disponibilità
di bilancio, possono integrare la gamma degli strumenti e dei servizi di cui
all’articolo 6.».
L’intervento del legislatore statale, dunque,
potrebbe anche essere ricondotto alla determinazione dei livelli essenziali
delle prestazioni, di esclusiva competenza dello Stato, provvedendo a garantire
livelli minimi di uniformità di trattamento ed omogeneità di una serie di
strutture che rivestono carattere assolutamente primario sul piano dei diritti
dell’individuo e, in particolare del diritto allo studio universitario. In
relazione a tale potestà, quindi, sarebbe irrilevante l’invocazione di
competenze regionali.
2.2.– Riguardo alla
questione relativa all’art. l, comma 271, della legge n. 232 del 2016, la
difesa statale asserisce che tale disposizione non recherebbe alcuna violazione
delle competenze regionali, essendo la definizione dei fabbisogni finanziari
delle Regioni strettamente connessa alla determinazione dei livelli essenziali
delle prestazioni, materia rientrante nella competenza legislativa statale.
Pertanto, la previsione del parere della Conferenza Stato-Regioni costituirebbe
un sufficiente strumento di raccordo tra lo Stato e la Regione.
2.3.– Infine, con
riferimento all’art. l, comma 275, della legge n. 232 del 2016, la parte
resistente afferma che, riconducendosi la disposizione impugnata anche in tal
caso alla definizione dei livelli essenziali delle prestazioni, la previsione
del parere della Conferenza Stato-Regioni dovrebbe ritenersi un’idonea forma di
coinvolgimento delle Regioni.
3.– Con memoria
depositata in prossimità dell’udienza, la Regione Veneto ha ribadito le
argomentazioni del ricorso introduttivo, nonché replicato alle difese
dell’Avvocatura generale dello Stato, anche alla luce dei più recenti sviluppi
normativi.
3.1.– Riguardo alla prima
questione, la ricorrente ribadisce l’illegittimità della previsione in capo
alla Regioni dell’obbligo di istituire un unico ente regionale per l’erogazione
del diritto allo studio.
3.1.1.– In primo luogo,
infatti, non potrebbe ritenersi, come sostiene la difesa statale, che la misura
sia finalizzata, o comunque idonea, a garantire livelli essenziali delle
prestazioni, poiché non vi sarebbe alcun rapporto di consequenzialità tra
l’obbligo di accorpamento regionale e la determinazione dei livelli delle
prestazioni. L’individuazione degli standard strutturali organizzativi e
qualitativi degli enti operanti nel campo dei servizi educativi e di istruzione
– quali quelli di cui alle disposizioni impugnate – sarebbe, invece, di
esclusiva competenza del legislatore regionale, limitandosi ad incidere
sull’assetto organizzativo e gestorio di tali enti
(sono richiamate le sentenze n. 284 del
2016 e n.
120 del 2005).
3.1.2.– In secondo luogo,
il modello organizzativo sarebbe strategicamente speculare alla conformazione
delle Università del Veneto – a cui è attribuita la gestione delle borse di
studio regionali per gli studenti iscritti alle stesse – poiché ogni Azienda
regionale per il diritto allo studio universitario (ESU) è ubicata in
corrispondenza della sede universitaria di riferimento (Padova, Venezia e
Verona).
L’istituzione di un unico ente per il diritto
allo studio a livello regionale, pertanto, rischierebbe di travolgere tale
impostazione e di dissipare il know-how di gestione aziendale del Veneto,
nonché di compromettere la presenza degli studenti negli organi di governo in
un numero significativo, come attualmente previsto nei consigli di
amministrazione degli enti erogatori.
L’irragionevolezza dell’accorpamento, inoltre,
sarebbe rafforzata dal fatto che gli enti attualmente operanti presenterebbero
caratteristiche ottimali sotto il profilo organizzativo, gestorio
e finanziario, mantenendo un elevatissimo livello qualitativo dei servizi di
diritto allo studio in tutto il territorio regionale, nonché l’equilibrio di
bilancio, nonostante i vincoli imposti dal legislatore statale (fra cui quello
relativo al blocco delle assunzioni) e la riduzione del 20 per cento del
contributo regionale di funzionamento, di cui all’art. 20 della legge della
Regione Veneto 21 dicembre 2012, n. 47 (Disposizioni per la riduzione e il
controllo delle spese per il funzionamento delle istituzioni regionali, in
recepimento e attuazione del decreto-legge 10 ottobre 2012, n. 174
"Disposizioni urgenti in materia di finanza e funzionamento degli enti
territoriali, nonché ulteriori disposizioni in favore delle zone terremotate
nel maggio 2012”, convertito con modificazioni dalla legge 7 dicembre 2012, n.
213 e istituzione e disciplina del Collegio dei revisori dei conti della
Regione del Veneto).
Andrebbe altresì considerato che neppure si
avrebbero significativi risparmi di spesa. La necessità di mantenere un’elevata
qualità dei servizi in tutto il territorio regionale, infatti, farebbe sì che
le principali voci di costo relative al funzionamento di tali enti – personale,
patrimonio, approvvigionamenti – rimarrebbero sostanzialmente invariate.
L’unica eventuale e limitata riduzione di costi potrebbe derivare dalla
creazione di un’unica direzione regionale, che sarebbe almeno in parte
compensata dall’aumento del trattamento economico associato ai ruoli apicali,
necessario in considerazione del maggiore carico di responsabilità sugli stessi
gravante. Inoltre, la creazione di un unico ente comporterebbe la necessità
d’individuare una nuova struttura dedicata, al momento non disponibile, con le
relative spese per gli uffici istituzionali, che andrebbero a sommarsi a quelle
degli attuali uffici periferici facenti capo agli enti preesistenti.
3.1.3.– Da ultimo, con riferimento alla lesione
del principio di leale collaborazione, la parte ricorrente richiama la recente sentenza n. 261 del
2017, che ha ritenuto l’intervento del legislatore statale volto a ridurre
il numero delle camere di commercio, mediante l’accorpamento di quelle
preesistenti, giustificato dalla finalità di realizzare una razionalizzazione
organizzativa di tali enti e di perseguire una maggiore efficienza nello
svolgimento della loro attività. Tuttavia, incidendo anche su competenze
regionali, si è ivi affermata la necessità della previsione di strumenti tesi
al rispetto del principio di leale collaborazione, da individuarsi nell’intesa
in sede di Conferenza Stato-Regioni.
3.2.– Per quanto concerne
la questione relativa all’art. l, comma 271, della legge n. 232 del 2016, in
via preliminare, la Regione Veneto ricorda che, in data 11 ottobre 2017, il
decreto interministeriale previsto dalla disposizione impugnata è stato
adottato, previa intesa con la Conferenza Stato-Regioni (sancita il 27 luglio
2017). Intesa che, come risulta dal preambolo del decreto, è stata ritenuta
comunque "opportuna”.
L’attuazione della disposizione mediante intesa
non escluderebbe la permanenza dell’interesse a ricorrere (e, anzi,
confermerebbe ulteriormente i dubbi di legittimità), poiché il comma 271, pur
avendo natura transitoria (intervenendo nelle more dell’adozione del decreto di
cui all’art. 7, comma 7, del d.lgs. n. 68 del 2012), non avrebbe effetti limitati
nel tempo (e lo stesso decreto interministeriale ha vigenza triennale).
Pertanto, sino alla piena attuazione del d.lgs. n. 68 del 2012, la disposizione
impugnata potrebbe ancora produrre effetti. Inoltre, come più volte ribadito da
questa Corte, «l’intesa in Conferenza unificata non provoca la cessazione della
materia del contendere, poiché un’eventuale pronuncia di accoglimento potrebbe
comunque "reintegrare l’ordine costituzionale asseritamente
violato, venendo a cadere sulla previsione normativa che ha costituito la causa
dell’intesa stessa” (sentenza n. 40 del
2010; nello stesso senso, sentenza n. 98 del
2007; nonché, nel senso della persistenza dell’interesse a ricorrere a
seguito di intesa, sentenza n. 141 del
2016)» (sentenza
n. 125 del 2017).
Nel merito, non potrebbe accogliersi la tesi,
prospettata dalla difesa statale, secondo cui la definizione dei fabbisogni
finanziari regionali sarebbe strettamente connessa alla determinazione dei
livelli essenziali delle prestazioni, di competenza esclusiva statale.
Tale titolo di legittimazione, infatti,
atterrebbe alla fissazione del livello strutturale e qualitativo delle
prestazioni (sentenza
n. 192 del 2017), rappresentando degli standard minimi da assicurare in
modo uniforme su tutto il territorio nazionale. Con specifico riferimento ai
livelli essenziali delle prestazioni in sanità (LEA), questa Corte ha affermato
che la deroga alla competenza legislativa delle Regioni «è ammessa solo nei
limiti necessari ad evitare che, in parti del territorio nazionale, gli utenti
debbano assoggettarsi ad un regime di assistenza sanitaria inferiore, per
quantità e qualità, a quello ritenuto intangibile dallo Stato (sentenza n. 207 del
2010)» (sentenza
n. 125 del 2015). Inoltre, anche se la determinazione dei LEA è un obbligo
del legislatore statale, la sua proiezione in termini di fabbisogno regionale
coinvolgerebbe necessariamente le Regioni «per cui la fisiologica dialettica
tra questi soggetti deve essere improntata alla leale collaborazione» (sentenza n. 169 del
2017). E lo strumento che meglio garantirebbe il coinvolgimento delle
Regioni sarebbe l’intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni (ex multis, sono richiamate le sentenze n. 297 del
2012 e n.
134 del 2006).
3.3.– Infine, riguardo
all’art. 1, comma 275, della legge n. 232 del 2016, la parte ricorrente
sottolinea che il procedimento di attuazione di tale disposizione non sarebbe
nemmeno iniziato. Il comma 288 dell’art. l della legge n. 232 del 2016,
infatti, in attesa del raggiungimento della piena operatività della «Fondazione
Articolo 34», prevedeva l’istituzione, mediante decreto del Presidente del
Consiglio dei ministri, di una «cabina di regia», incaricata di attivare le
procedure relative all’emanazione del bando per l’assegnazione delle borse. Tale
atto non sarebbe stato adottato e la stessa fondazione non risulterebbe ancora
costituita.
Ciò, tuttavia, non farebbe venir meno
l’interesse a ricorrere della Regione, in quanto la disposizione censurata non
avrebbe un’applicazione limitata nel tempo.
Considerato
in diritto
1.– La Regione Veneto
ha promosso questioni di legittimità costituzionale di diverse disposizioni
della legge 11 dicembre 2016, n. 232 (Bilancio di previsione dello Stato per
l’anno finanziario 2017 e bilancio pluriennale per il triennio 2017-2019).
L’esame di questa Corte è qui limitato alle
questioni relative all’art. 1, commi 269, 270, 271, 272 e 275, della suddetta
legge, promosse in riferimento agli artt. 3, 5, 97, 117, terzo e quarto comma,
118, 119 e 120 della Costituzione, restando riservata a separate pronunce la
decisione delle ulteriori questioni di legittimità costituzionale promosse
dalla ricorrente.
1.1.– Un primo gruppo di questioni concerne
l’art. 1, commi 269, 270 e 272, della legge n. 232 del 2016, ove si stabilisce
che, per finalità di «coordinamento della finanza pubblica», le Regioni
provvedano a creare, entro sei mesi dall’entrata in vigore della stessa legge,
un unico ente adibito all’erogazione dei servizi per il diritto allo studio, al
bilancio del quale vengano direttamente attribuite le risorse del fondo
integrativo statale per la concessione di borse di studio di cui all’art. 18
del decreto legislativo 29 marzo 2012, n. 68, recante «Revisione della
normativa di principio in materia di diritto allo studio e valorizzazione dei
collegi universitari legalmente riconosciuti, in attuazione della delega
prevista dall’articolo 5, comma 1, lettere a), secondo periodo, e d), della
legge 30 dicembre 2010, n. 240, e secondo i principi e i criteri direttivi
stabiliti al comma 3, lettera f), e al comma 6».
Secondo la Regione Veneto, le disposizioni
impugnate violerebbero gli artt. 117, terzo comma, e 119 Cost.,
poiché non si limiterebbero a fissare un limite complessivo di spesa né
obiettivi generali di risparmio, ma introdurrebbero una precisa norma di
dettaglio. Le disposizioni sarebbero altresì in contrasto con i principi di
ragionevolezza e di buon andamento dell’azione amministrativa, di cui agli
artt. 3 e 97 Cost., incidendo direttamente sulle
competenze residuali delle Regioni in materia di «organizzazione amministrativa
regionale» e di «diritto allo studio», violando così anche gli artt. 117,
quarto comma, e 118 Cost. Da ultimo, verrebbe altresì leso il principio di
leale collaborazione di cui agli artt. 5 e 120 Cost, non essendo prevista
alcuna forma di coinvolgimento delle Regioni.
1.2.– Una seconda questione riguarda l’art. 1,
comma 271, della legge n. 232 del 2016, che, ai fini del riparto delle risorse
del fondo integrativo statale per la concessione di borse di studio, prevede
che i fabbisogni finanziari regionali siano determinati con decreto del
Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, di concerto con il
Ministro dell’economia e delle finanze, previo parere della Conferenza
permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di
Trento e di Bolzano (da qui: Conferenza Stato-Regioni).
Asserisce la parte ricorrente che la
disposizione sarebbe lesiva dell’art. 117, quarto comma, Cost. e del principio di leale collaborazione, poiché, pur
intervenendo su una competenza regionale residuale, quale il «diritto allo
studio», prevedrebbe un semplice parere, anziché un’apposita intesa, sul
decreto interministeriale che determina i fabbisogni finanziari regionali.
1.3.– Un’ultima questione
è promossa in relazione all’art. 1, comma 275, della legge n. 232 del 2016, che
affida l’erogazione di borse di studio nazionali alla «Fondazione Articolo 34»,
prevista al precedente comma 273, già «Fondazione per il merito», di cui
all’art. 9, comma 3, del decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70 (Semestre Europeo
– Prime disposizioni urgenti per l’economia), convertito, con modificazioni,
nella legge 12 luglio 2011, n. 106.
La disposizione censurata lederebbe gli artt.
117, quarto comma, e 119 Cost., nonché il principio di
leale collaborazione, poiché, la disciplina delle modalità di erogazione
dovrebbe necessariamente prevedere un adeguato coinvolgimento delle Regioni,
segnatamente nella forma dell’intesa.
2.– Si è costituito il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, il quale ha concluso per la non fondatezza del ricorso.
2.1.– In particolare, con riferimento alla prima
questione, la creazione di un unico ente regionale di erogazione dei servizi
per il diritto allo studio risponderebbe ad esigenze di coordinamento della
finanza pubblica e di contenimento e razionalizzazione della spesa, in
conformità agli artt. 117, terzo comma, e 119, Cost., nonché alla necessità di
garantire l’effettiva erogazione delle borse e a tutelare il diritto allo
studio in maniera uniforme sull’intero territorio nazionale, ai sensi dell’art.
117, secondo comma, lettera m), Cost.
2.2.– Riguardo alla
seconda questione, invece, la previsione del parere della Conferenza
Stato-Regioni costituirebbe un sufficiente strumento di raccordo, tenuto conto
che la definizione dei fabbisogni finanziari delle Regioni sarebbe strettamente
connessa alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, materia
ascritta alla competenza legislativa esclusiva statale.
2.3.– Infine, in
relazione alla terza questione, rientrando l’erogazione di borse di studio
nazionali nella definizione dei livelli essenziali delle prestazioni, la
previsione del parere della Conferenza Stato-Regioni dovrebbe ritenersi un
sufficiente strumento di raccordo tra lo Stato e le Regioni.
3.– Le questioni di
legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 269, 270 e 272, della legge n. 232
del 2016, sono fondate.
3.1.– Le disposizioni
impugnate pongono un obbligo assai puntuale in capo alle Regioni, tenute ad
organizzare il sistema di erogazione dei servizi di diritto allo studio
attraverso un unico ente, salvo poter accedere ai modelli sperimentali di
gestione previsti dall’art. 12 del d.lgs. n. 68 del 2012. L’intervento
legislativo incide, pertanto, su ambiti in cui può esercitarsi la competenza
legislativa regionale, quali l’«organizzazione
amministrativa della Regione» (sentenze n. 293 del
2012, n. 95
del 2008 e n.
387 del 2007) e il «diritto allo studio» (sentenze n. 2 del
2013, n. 61
del 2011, n.
299 e n. 134
del 2010, n.
50 del 2008, n.
300 e n. 33
del 2005).
Il comma 270 definisce il vincolo posto dal
legislatore statale quale principio di coordinamento della finanza pubblica,
idoneo a giustificare la compressione dell’autonomia regionale. Come questa
Corte ha già avuto modo di affermare, tuttavia, l’autoqualificazione
legislativa non è vincolante e, quindi, al fine d’individuare l’ambito di
competenza su cui incidono le disposizioni «occorre fare riferimento
all’oggetto e alla disciplina delle medesime, tenendo conto della loro ratio e
tralasciando gli effetti marginali e riflessi, in guisa da identificare
correttamente anche l’interesse tutelato» (sentenza n. 203 del
2012; nello stesso senso, tra le tante, sentenze n. 125 del
2017, n. 188
e n. 39 del 2014,
n. 182 del 2011,
n. 207 del 2010,
n. 237 del 2009
e n. 169 del
2007).
Secondo tale giurisprudenza, inoltre, lo Stato
può imporre limitazioni all’autonomia di spesa degli enti, purché preveda solo
un limite complessivo, anche se non generale, della spesa corrente – lasciando
alle Regioni libertà di allocazione delle risorse tra i diversi ambiti ed
obiettivi di spesa – e le suddette limitazioni abbiano il carattere della
transitorietà (ex plurimis, sentenze n. 43 del
2016, n. 156
del 2015, n.
23 del 2014, n.
236 del 2013, n.
139 del 2012, n.
159 del 2008, n.
417 del 2005 e n. 36 del 2004).
È ben vero che questa Corte ha talvolta dato una
lettura estensiva dei principi di coordinamento finanziario, a cui sono state
ricondotte anche talune misure recanti vincoli specifici per il contenimento
della spesa delle Regioni e degli enti locali, sovente in virtù del rapporto di
coessenzialità e di necessaria integrazione con i
principi fondamentali. È il caso, ad esempio, delle misure di
razionalizzazione, anche mediante soppressione o accorpamento, di enti e
agenzie (sentenza
n. 236 del 2013) o degli interventi per la riduzione delle Comunità montane
(sentenza n. 237
del 2009). Tuttavia, si trattava pur sempre di misure che, sebbene
potessero portare anche alla soppressione o fusione di enti, non stabilivano
direttamente il mezzo attraverso cui conseguire il risultato, limitandosi a
fissare soglie ed obiettivi di riduzione di costi, nonché a prevedere
indicatori in base a cui adottare interventi di riordino. Inoltre, anche quando
le competenze statali prevedevano interventi tesi alla razionalizzazione
mediante soppressione di enti, come nel caso delle camere di commercio,
l’intreccio con le competenze regionali comportava che tali interventi fossero
realizzati mediante procedure concertate con le Regioni (sentenza n. 261 del
2017).
Nel caso di specie, invece, richiamando
generiche esigenze di razionalizzazione organizzativa, lo Stato ha previsto (e
non in via transitoria) direttamente il modello organizzativo e gestorio a cui le Regioni sono tenute ad adeguarsi, cioè
l’erogazione dei servizi di diritto allo studio attraverso un unico ente. Si tratta
di una previsione puntuale e specifica, che non lascia alcun margine di
attuazione alle stesse Regioni (se non riguardo alla struttura organizzativa
dell’ente), né si presenta coessenziale all’esigenza di razionalizzare
l’erogazione dei servizi per il diritto allo studio, esulando in tal modo dalla
competenza statale attinente ai principi di coordinamento della finanza
pubblica.
3.2.– Con particolare
riferimento al diritto allo studio, trattandosi di un diritto sociale, non c’è
dubbio che esso costituisca uno degli ambiti in cui lo Stato può esercitare la
competenza di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m). Lo stesso d.lgs. n.
68 del 2012, d’altronde, prevede un sistema integrato di strumenti e servizi,
in cui allo Stato spetta la determinazione dei livelli essenziali delle
prestazioni, mentre alle Regioni competono la disciplina e l’attivazione degli
interventi volti a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale per il
concreto esercizio di tale diritto, tra cui l’erogazione delle borse di studio.
Tuttavia, a differenza di quanto asserito dalla
difesa statale, deve escludersi che le disposizioni impugnate siano ascrivibili
alla potestà di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m). Siffatto parametro
costituzionale, infatti, può essere invocato solo in relazione a specifiche
prestazioni delle quali le norme statali definiscono il livello essenziale di
erogazione (ex plurimis, sentenze n. 10 del
2010, n. 328
del 2006, n.
285 e n. 120
del 2005 e n.
423 del 2004). In particolare, non possono ricondursi a tale titolo di
legittimazione quelle disposizioni che non determinano alcun livello di
prestazione, ma incidono direttamente sull’assetto organizzativo e gestorio demandato alla potestà legislativa delle Regioni,
alle quali compete l’individuazione degli standard organizzativi e qualitativi
degli enti operanti nel campo dei servizi educativi e di istruzione (sentenze n. 284 del
2016 e n.
120 del 2005).
Nel caso di specie, le disposizioni impugnate
non provvedono a fissare alcun livello o standard delle prestazioni,
stabilendo, invece, una determinata forma organizzativa per l’erogazione di un
diritto sociale. La qual cosa, come sottolineato, esula dalla potestà esclusiva
statale in esame.
3.3.– Deve pertanto
dichiararsi l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, commi 269, 270 e 272,
della legge n. 232 del 2016, per violazione degli artt. 117, terzo e quarto
comma, e 119 Cost., con assorbimento delle ulteriori censure.
4.– È altresì fondata
la questione di legittimità costituzionale relativa all’art. 1, comma 271,
della legge n. 232 del 2016.
4.1.– In via preliminare,
va precisato che il decreto interministeriale di cui al comma 271 è stato
adottato in data 11 ottobre 2017, previa intesa con la Conferenza Stato-Regioni
(sancita il 27 luglio 2017), sebbene la disposizione di legge impugnata preveda
il mero parere. Come risulta dalle premesse di tale atto, infatti, l’intesa è
stata ritenuta comunque "opportuna”. Ciò, tuttavia, non fa venir meno
l’interesse a ricorrere della Regione Veneto, né incide sulla materia del
contendere, poiché la disposizione impugnata, sebbene di natura transitoria,
può trovare applicazione sino all’adozione del decreto di cui all’art. 7, comma
7, del d.lgs. n. 68 del 2012.
4.2.– La disciplina in
esame individua le modalità per la determinazione dei fabbisogni regionali al
fine del riparto delle risorse del fondo integrativo statale per la concessione
di borse di studio, che, ai sensi dell’art. 18 del d.lgs. n. 68 del 2012,
concorre, assieme al gettito della tassa regionale per il diritto allo studio e
alle risorse proprie delle Regioni, al finanziamento degli interventi a
sostegno di tale diritto.
Si tratta, in altri termini, di un fondo in
materia di competenza regionale teso a garantire l’effettività del diritto allo
studio. E la disciplina di un fondo siffatto, com’è noto, può sì intervenire
anche in materie di competenza delle Regioni (sentenze n. 273 del
2013 e n.
232 del 2011), ma con il pieno coinvolgimento delle stesse nelle relative
modalità di gestione (tra le tante, sentenze n. 211
e n. 147 del
2016, n. 168
e n. 94 del 2008
e n. 222 del
2005). L’art. 7, comma 7, del d.lgs. n. 68 del 2012, pertanto, prevede che
il riparto di tale fondo è effettuato, in misura proporzionale al fabbisogno
finanziario delle Regioni, con decreto del Ministro dell’istruzione,
dell’università e della ricerca scientifica, di concerto con il Ministro
dell’economia e delle finanze, d’intesa con la Conferenza Stato-Regioni,
sentito il Consiglio nazionale degli studenti universitari. In via transitoria,
sino all’adozione di siffatto decreto, ad oggi non ancora avvenuta, al riparto
si è provveduto sulla base dei criteri di cui all’art. 16 del decreto del
Presidente del Consiglio dei ministri del 9 aprile 2001, da ultimo con il
decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 7 agosto 2017, adottato
previa intesa con le Regioni.
Ebbene, la determinazione dei fabbisogni
regionali è strettamente collegata e prodromica al riparto delle risorse del
fondo statale, ma l’art. 1, comma 271, della legge n. 232 del 2016 prevede che
sia effettuata con il mero parere della Conferenza Stato-Regioni, discostandosi
così da quanto previsto per il riparto del fondo stesso.
Ciò, tuttavia, non può giustificarsi, come
dedotto dall’Avvocatura generale dello Stato, ascrivendo la disciplina in esame
alla competenza esclusiva statale in materia di determinazione di livelli
essenziali delle prestazioni, sebbene sia evidente che la disposizione
impugnata persegua anche il fine di assicurare gli strumenti idonei alla
realizzazione ed attuazione di un diritto sociale. Come già sottolineato,
infatti, il titolo di legittimazione invocato dalla difesa statale è
circoscritto a quanto necessario ad evitare che, in parti del territorio
nazionale, gli utenti siano assoggettati ad un regime di assistenza inferiore,
per quantità e qualità, a quello ritenuto intangibile dallo Stato (sentenze n. 192 del
2017 e n.
125 del 2015).
D’altronde, come già sottolineato da questa
Corte riguardo ai livelli essenziali di assistenza sanitaria (LEA), se la
determinazione degli stessi è un obbligo del legislatore statale, la sua
proiezione in termini di fabbisogno regionale coinvolge necessariamente le
Regioni. La dialettica tra Stato e Regioni, dunque, «dovrebbe consistere in un
leale confronto sui fabbisogni e sui costi che incidono sulla spesa
costituzionalmente necessaria, tenendo conto della disciplina e della
dimensione della fiscalità territoriale nonché dell’intreccio di competenze
statali e regionali in questo delicato ambito materiale» (sentenza n. 169 del
2017).
Tale intreccio di competenze non può non
risolversi, nel rispetto dei canoni della leale collaborazione (tra le tante, sentenze n. 192 del
2017, n. 251,
n. 63, n. 21 e n. 1 del 2016, n. 273 del 2013,
n. 27 del 2010,
n. 168, n. 94 e n. 50 del 2008,
n. 222 del 2005
e n. 423 del
2004), attraverso l’intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni (ex multis, sentenze n. 169 del
2017, n. 297
del 2012 e n.
134 del 2006).
4.3.– Pertanto, deve
dichiararsi l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 271, della legge
n. 232 del 2016, nella parte in cui prevede che il decreto interministeriale
che determina i fabbisogni finanziari regionali è adottato previo parere della
Conferenza Stato-Regioni, anziché previa intesa con detta Conferenza.
5.– Anche la questione
di legittimità costituzionale concernente l’art. 1, comma 275, della legge n.
232 del 2016, è fondata.
5.1.– Va premesso che la
disposizione impugnata è stata sinora disapplicata e, inoltre, sostanzialmente
svuotata dai successivi interventi del legislatore statale.
In primo luogo, la «Fondazione Articolo 34» non
risulta ancora costituita e neppure è stato adottato il decreto del Presidente
del Consiglio dei ministri che, ai sensi del successivo comma 288, avrebbe
dovuto istituire la «cabina di regia» incaricata, sino alla piena operatività
della Fondazione, di attivare le procedure relative all’emanazione del bando.
In secondo luogo, l’art. 1, comma 636, della legge 27 dicembre 2017, n. 205
(Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio
pluriennale per il triennio 2018-2020), ha previsto l’incremento del fondo
integrativo statale per la concessione di borse di studio per 20 milioni di
euro a decorrere dal 2018, utilizzando a tal fine parte delle risorse stanziate
dall’art. 1, comma 286, della legge n. 232 del 2016 per l’attuazione della
disposizione impugnata, risorse che a decorrere dal 2020 saranno del tutto
cancellate.
Siffatti sviluppi, tuttavia, non fanno venir meno
l’interesse a ricorrere della Regione Veneto, in quanto il comma 275 potrebbe
trovare comunque una, seppur limitata, applicazione, qualora il legislatore
statale provveda a darvi attuazione.
5.2.– Neppure in questo
caso l’intervento legislativo può ritenersi espressione del titolo di
legittimazione di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., come
asserito dalla difesa statale. La disposizione impugnata, infatti, prevede
direttamente l’erogazione di una determinata prestazione relativa al diritto
allo studio in favore dei singoli, individuando l’ente deputato ad adottare il
relativo bando, sebbene con il parere della Conferenza Stato-Regioni.
Come affermato dalla costante giurisprudenza
costituzionale, solo in circostanze eccezionali, quando ricorrano imperiose
necessità sociali, la potestà statale in questione può consentire l’erogazione
di provvidenze ai cittadini o la gestione di sovvenzioni direttamente da parte
dello Stato in materie di competenza regionale (sentenze n. 192 del
2017, n. 273
e n. 62 del 2013,
n. 203 del 2012,
n. 121 e n. 10 del 2010).
In particolare, ha scritto questa Corte, quando ciò «[…] risulti necessario
allo scopo di assicurare effettivamente la tutela di soggetti i quali, versando
in condizioni di estremo bisogno, vantino un diritto fondamentale che, in
quanto strettamente inerente alla tutela del nucleo irrinunciabile della
dignità della persona umana, soprattutto in presenza delle peculiari situazioni
sopra accennate, deve potere essere garantito su tutto il territorio nazionale
in modo uniforme, appropriato e tempestivo, mediante una regolamentazione
coerente e congrua rispetto a tale scopo» (sentenza n. 10 del
2010).
Tali circostanze eccezionali non ricorrono nel
caso di specie, come conferma, d’altronde, il successivo svuotamento
dell’intervento legislativo.
La disposizione impugnata incide direttamente su
competenze regionali e configura una "chiamata in sussidiarietà”, giustificata
dall’esigenza di rafforzare, in modo uniforme sul territorio nazionale, l’effettività
del diritto allo studio. Tuttavia, la fase amministrativa che, sulla base dei
criteri individuati dalla legge, si conclude con l’erogazione delle borse di
studio, limita il coinvolgimento delle Regioni alla mera audizione della
Conferenza Stato-Regioni. Non sono correttamente rispettati, quindi, i canoni
di leale collaborazione richiesti per la "chiamata in sussidiarietà”,
individuati da costante giurisprudenza di questa Corte nello strumento
dell’intesa (ex multis, sentenze n. 105 del
2017, n. 7
del 2016, n.
33 del 2011, n.
278 del 2010, n.
383 del 2005, n.
6 del 2004 e n.
303 del 2003).
5.3.– Pertanto, deve
dichiararsi l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 275, della legge
n. 232 del 2016, nella parte in cui prevede che, entro il 30 aprile di ogni
anno, la «Fondazione Articolo 34» bandisce almeno 400 borse di studio
nazionali, sentita la Conferenza Stato-Regioni, anziché d’intesa con detta
Conferenza.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riservata a separate pronunce
la decisione delle ulteriori questioni di legittimità costituzionale promosse
con il ricorso indicato in epigrafe;
1) dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, commi 269, 270 e 272, della legge
11 dicembre 2016, n. 232 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno
finanziario 2017 e bilancio pluriennale per il triennio 2017-2019);
2) dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 271, della legge n. 232 del
2016, nella parte in cui prevede che il decreto del Ministro dell’istruzione,
dell’università e della ricerca che determina i fabbisogni finanziari regionali
è adottato «previo parere della Conferenza permanente per i rapporti tra lo
Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, che si esprime
entro sessanta giorni dalla data di trasmissione, decorso il quale il decreto
può essere comunque adottato», anziché «previa intesa con la Conferenza
permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di
Trento e di Bolzano»;
3)
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 275, della legge
n. 232 del 2016, nella parte in cui prevede che la «Fondazione Articolo 34»,
entro il 30 aprile di ogni anno, bandisce almeno 400 borse di studio nazionali
«sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le
province autonome di Trento e di Bolzano», anziché «d’intesa con la Conferenza
permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di
Trento e di Bolzano».
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 marzo 2018.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Giuliano AMATO, Redattore
Filomena PERRONE, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 26 aprile 2018.