SENTENZA N. 62
ANNO 2013
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
composta dai signori:
-
- Luigi MAZZELLA Giudice
-
-
-
-
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario
Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità
costituzionale degli articoli 29, 40, 41, 50, comma 1, 53, comma 7, e 60 del
decreto-legge 9 febbraio 2012, n. 5 (Disposizioni urgenti in materia di
semplificazione e di sviluppo), convertito, con modificazioni, dalla legge 4
aprile 2012, n. 35, promosso dalla Regione Veneto, con ricorso notificato il 5
giugno 2012, depositato in cancelleria l’11 giugno 2012 ed iscritto al n. 89
del registro ricorsi 2012.
Visto l’atto di costituzione del Presidente del Consiglio
dei ministri;
uditi nell’udienza pubblica del 26 febbraio 2013 il
Giudice relatore Paolo Maria Napolitano;
uditi gli avvocati Bruno Barel
e Daniela Palumbo per la Regione Veneto e l’avvocato
dello Stato Vittorio Cesaroni per il Presidente del Consiglio dei ministri.
1.– Con ricorso notificato il 5 giugno
2012 e depositato il successivo 11 giugno la Regione Veneto ha impugnato, tra
gli altri, gli articoli 29, 40, 41, 50, comma 1, 53, comma 7, e 60 del
decreto-legge 9 febbraio 2012, n. 5 (Disposizioni urgenti in materia di
semplificazione e di sviluppo), convertito, con modificazioni, dalla legge 4
aprile 2012, n. 35, per violazione degli articoli 117, quarto comma, 118 e 120
della Costituzione, in relazione al principio di leale collaborazione tra Stato
e Regioni.
1.1.– In particolare, l’art. 29 del d.l.
n. 5 del 2012, recante «Disposizioni a favore del settore
bieticolo-saccarifero», al comma 1 dispone che i progetti di riconversione del
comparto bieticolo-saccarifero approvati dall’apposito Comitato
interministeriale «rivestono carattere di interesse nazionale anche ai fini
della definizione e del perfezionamento dei processi autorizzativi e
dell’effettiva entrata in esercizio» e, al comma 2, stabilisce che entro 30
giorni dall’entrata in vigore del decreto-legge «il Comitato interministeriale
di cui al comma 1 dispone le norme idonee nel quadro delle competenze
amministrative regionali atte a garantire l’esecutività dei progetti suddetti,
nomina, nei casi di particolare necessità, ai sensi dell’art. 20 del
decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla
legge 28 gennaio 2009, n. 2, un commissario ad acta per l’attuazione degli
accordi definiti in sede regionale con coordinamento del Comitato
interministeriale».
La ricorrente precisa che il contesto
normativo nel quale viene a collocarsi la disposizione impugnata è
rappresentato dal decreto-legge 10 gennaio 2006, n. 2 (Interventi urgenti per i
settori dell’agricoltura, dell’agroindustria, della pesca, nonché in materia di
fiscalità d’impresa), convertito, con modificazioni, dalla legge 11 marzo 2006,
n. 81.
L’art. 2 del decreto citato, al fine di
fronteggiare la grave crisi del settore bieticolo-saccarifero, ha istituito
presso la Presidenza del Consiglio dei ministri un Comitato interministeriale,
col compito (comma 2): a) di approvare entro 45 giorni «il piano per la
razionalizzazione e la riconversione della produzione bieticola-saccarifera»;
b) di coordinare «le misure comunitarie e nazionali previste per la
riconversione industriale del settore e per le connesse problematiche sociali»;
c) di formulare «direttive per l’approvazione dei progetti di riconversione».
La medesima disposizione statale ha
previsto poi (comma 3) l’approvazione da parte del Ministro per le politiche
agricole dei progetti di riconversione presentati per ciascuno degli impianti
industriali ove sarebbe cessata la produzione di zucchero, ed ulteriori misure
di sostegno, anche da parte dell’AGEA (commi da 4 a 5-bis, variamente
modificati in sede di conversione e da leggi sopravvenute).
Le misure adottate erano coerenti con
quelle decise a livello comunitario, per la ristrutturazione dell’industria
comunitaria dello zucchero, mediante il regolamento CE n. 320/2006 del
Consiglio, del 20 febbraio 2006 (relativo a un regime temporaneo per la
ristrutturazione dell’industria dello zucchero nella Comunità europea e che
modifica il regolamento CE n. 1290/2005 relativo al funzionamento della
politica agricola comune).
La Regione Veneto ha dato attuazione a
quanto previsto dal regolamento comunitario e dalle correlate disposizioni
statali, relativamente allo stabilimento saccarifero presente nel territorio
regionale di Porto Viro, con un accordo di riconversione approvato, con
deliberazione di Giunta regionale n. 1234 dell’8 maggio 2007 (in B.U.R. n. 49
del 29 maggio 2007), accordo poi modificato con un "Accordo integrativo”
approvato con deliberazione di Giunta regionale n. 983 del 21 aprile 2009 (in
B.U.R. n. 37 del 5 maggio 2009).
La Regione evidenzia che la disposizione
statale impugnata affida al Comitato interministeriale sia l’emanazione di non
meglio precisate «norme idonee nel quadro delle competenze amministrative
regionali atte a garantire l’esecutività dei progetti suddetti», sia la
«nomina, nei casi di particolare necessità, ai sensi dell’art. 20 del
decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla
legge 28 gennaio 2009, n. 2, di un commissario ad acta per l’attuazione degli
accordi definiti in sede regionale con coordinamento del Comitato
interministeriale».
La ricorrente lamenta che le nuove
disposizioni statali, col riclassificare di interesse nazionale
l’implementazione di tutti gli accordi regionali, in via generale e generica,
sottopongono la connessa attività amministrativa regionale a vigilanza e
controllo del Comitato ministeriale e consentono la nomina, da parte del
medesimo Comitato, di commissari ad acta dotati anche di poteri sostitutivi.
Secondo la Regione, l’art. 29 del
decreto-legge in oggetto andrebbe ascritto alla materia «agricoltura» e,
pertanto, violerebbe la sfera di competenza legislativa e amministrativa
esclusiva propria della Regione del Veneto, ai sensi dell’art. 117, quarto
comma, Cost.
La norma impugnata, inoltre, violerebbe
anche l’art. 118 Cost. in quanto avocherebbe allo Stato, oltre ad un’attività
normativa non meglio precisata, perfino l’attuazione in sede amministrativa
degli accordi regionali finalizzati alla ristrutturazione dell’industria saccarifera
nel quadro del regime temporaneo di aiuti istituito a livello dell’Unione.
In tal modo, infine, sarebbe leso anche
il principio costituzionale di leale collaborazione, sotteso all’art. 120
Cost., perché con la disposizione in esame si disarticolerebbe quell’equilibrio
nella cooperazione fra Stato e Regioni delineato dalla previgente normativa,
fino a prefigurare una sorta di commissariamento delle Regioni perfino nella
gestione operativa e dettagliata degli adempimenti amministrativi finalizzati
all’implementazione di accordi con parti private.
Spetterebbe invece alla Regione, oltre
alla conclusione degli Accordi di ristrutturazione nel quadro del Programma
nazionale, anche – a maggior ragione – la loro attuazione, attraverso la
disciplina e l’attivazione degli appropriati procedimenti amministrativi.
1.2.– La seconda delle norme impugnate è
l’art. 40 del d.l. n. 5 del 2012 dal titolo «Soppressione del vincolo in
materia di chiusura domenicale e festiva per le imprese di panificazione di
natura produttiva» che abroga il secondo periodo dell’art. 11, comma 13, della
legge 3 agosto 1999, n. 265 (Disposizioni in materia di autonomia e ordinamento
degli enti locali, nonché modifiche alla legge 8 giugno 1990, n. 142).
L’art. 11, comma 13, della legge n. 265
del 1999 dispone: «È abrogata la legge 13 luglio 1966, n. 611. All’attività di
panificazione autorizzata ai sensi della legge 31 luglio 1956, n. 1002, si
applicano gli articoli 11, comma 4, 12 e 13 del decreto legislativo 31 marzo
1998, n. 114».
La disposizione statale censurata va,
dunque, ad abrogare quella proposizione normativa (secondo periodo) che
assoggettava l’attività di panificazione ad alcune disposizioni del decreto
legislativo 31 marzo 1998, n. 114 (Riforma della disciplina relativa al settore
del commercio, a norma dell’articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n.
59).
La finalità della novella, resa evidente
fin dalla rubrica e perseguita mediante l’abrogazione del rinvio alle
disposizioni che regolamentavano la chiusura domenicale e festiva, è costituita
dalla liberalizzazione delle aperture dei panifici per la commercializzazione
della propria produzione. Si intende estendere anche alle imprese artigiane di
panificazione che curano la commercializzazione diretta di prodotti propri la
cosiddetta liberalizzazione delle aperture degli esercizi commerciali al
dettaglio, già disposta con il decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201
(Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti
pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214.
Secondo la ricorrente la norma impugnata
violerebbe l’art. 117, quarto comma, Cost.
In particolare, la disposizione statale
andrebbe a confliggere con la specifica disciplina dettata dalla Regione Veneto
con la legge 21 settembre 2007, n. 29 (Disciplina dell’esercizio dell’attività
di somministrazione di alimenti e bevande), art. 25, nell’esercizio della
propria competenza legislativa esclusiva sia in materia di commercio che di
artigianato.
In proposito la Regione Veneto rammenta
di aver già impugnato l’art. 31 del decreto-legge n. 201 del 2011 e,
coerentemente con quanto dedotto nel suddetto ricorso, a tutela delle proprie
prerogative costituzionali e segnatamente della potestà legislativa regionale
in materia di commercio e di artigianato, ritiene di dover censurare anche
l’art. 40 del decreto-legge in oggetto, per violazione della competenza
legislativa regionale residuale, ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost.
Secondo la ricorrente sarebbe indubbio,
secondo la giurisprudenza costituzionale, che la materia del commercio, cui la
Regione ritiene appropriato ricondurre la disciplina delle aperture e degli
orari ai fini della commercializzazione dei prodotti anche di propria
produzione – analogamente comunque alla materia dell’artigianato – sia di
competenza legislativa residuale regionale (sentenze n. 150 del 2011,
n. 288 e n. 247 del 2010,
n. 350 del 2008,
n. 430, n. 165 e n. 64 del 2007,
n. 1 del 2004;
ordinanza n. 199
del 2006).
Rispetto alle prerogative regionali, la
tutela della concorrenza rappresenterebbe un limite «interno», da intendere in modo
che non possa determinare lo svuotamento della competenza esclusiva regionale
nella materia del commercio. La legislazione regionale deve certamente
conformarsi ai generali obiettivi di non discriminazione fra operatori
economici, di apertura al mercato e di eliminazione di barriere e vincoli al
libero esplicarsi dell’attività economica, ma allo stesso tempo non le può
essere negato ogni margine di intervento per modellare la disciplina concreta
in modo tale da salvaguardare altri valori che pure trovano fondamento nella
Carta costituzionale e nell’insieme dell’ordinamento italiano.
La completa liberalizzazione delle
aperture domenicali e festive non perseguirebbe affatto l’obiettivo di una più
efficace tutela della concorrenza, dal momento che essa determinerebbe, al
contrario, il rafforzamento nel mercato delle sole aziende che per le loro
maggiori dimensioni sono in grado di cogliere tale opportunità, a discapito
delle imprese minori le quali, non essendo in grado di garantire una apertura
continuativa, risulterebbero penalizzate e giocoforza emarginate dal mercato.
La totale liberalizzazione delle
aperture degli esercizi commerciali finirebbe col produrre effetti opposti a
quelli voluti, non sarebbe adeguata e proporzionata rispetto all’obiettivo e priverebbe
di qualsiasi tutela altri interessi pubblici specifici pur meritevoli anch’essi
di cura.
L’esigenza di un ragionevole
contemperamento tra valori sarebbe ben presente nella giurisprudenza
costituzionale (sono citate le sentenze n. 288 del 2010
e n. 64 del 2007).
La disposizione di legge censurata, così
come formulata, nella sua assolutezza e inderogabilità, non troverebbe base
giuridica legittimante né nel diritto dell’Unione, cui il tema sarebbe
estraneo, né nell’art. 117, secondo comma, Cost., e violerebbe la competenza
esclusiva regionale in materia di commercio attribuita dall’art. 117, quarto
comma, Cost.
La Regione nel ricorso riporta, a
sostegno delle sue argomentazioni, ampi stralci di giurisprudenza
amministrativa nella quale si fa riferimento alla pluralità dei valori
coinvolti nella disciplina dei giorni ed orari di apertura e chiusura degli
esercizi commerciali e dove si afferma che le norme sugli orari e sulle
giornate di apertura e chiusura degli esercizi commerciali devono essere lette
anche alla luce del contemperamento operato dal legislatore tra tali plurimi
interessi.
1.3.– La terza norma impugnata è l’art.
41 del d.l. n. 5 del 2012 che testualmente recita: «L’attività temporanea di
somministrazione di alimenti e bevande in occasione di sagre, fiere,
manifestazioni religiose, tradizionali e culturali o eventi locali
straordinari, è avviata previa segnalazione certificata di inizio attività
priva di dichiarazioni asseverate ai sensi dell’art. 19 della legge 7 agosto
1990, n. 241, e non è soggetta al possesso dei requisiti previsti dall’art. 71
del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59».
Secondo la ricorrente, la disciplina
dell’attività di somministrazione di alimenti e bevande, anche se relativa a
situazioni temporanee e particolari, rientrerebbe nella materia del commercio,
e, pertanto, l’intervento statale sarebbe lesivo della competenza legislativa
residuale delle Regioni in tale materia ex art. 117, quarto comma, Cost.
La Regione Veneto precisa di aver già
esercitato tale competenza, successivamente alla riforma costituzionale del
2001, con la legge regionale n. 29 del 2007, ponendo fra l’altro una
regolamentazione specifica delle autorizzazioni temporanee in occasione di
fiere, feste o altre riunioni straordinarie di persone, incidente sia sui
requisiti che il richiedente deve soddisfare (art. 11, comma 3), che sulle
modalità (art. 11, commi l e 4).
La ricorrente, infine, richiama un
precedente analogo, costituito dalla sentenza n. 1 del
2004, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale di una
norma statale (art. 52, comma 17, legge 28 dicembre 2001, n. 448, recante
«Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato
– legge finanziaria 2002»), che escludeva l’applicabilità della legge 11 giugno
1971, n. 426 (Disciplina del commercio), alle sagre, fiere e manifestazioni a
carattere religioso, benefico o politico, per lesione della competenza
riconosciuta alle regioni nella materia del commercio dall’art. 117, quarto
comma, Cost.
1.4.– Anche l’art. 50, comma 1, del d.l.
n. 5 del 2012 è oggetto di impugnazione da parte della regione Veneto. Tale
disposizione rimette ad un decreto del Ministro dell’istruzione,
dell’università e della ricerca, di concerto con il Ministro dell’economia e
delle finanze, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le
Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, l’adozione di linee
guida orientate al perseguimento degli obiettivi specificati dalla norma
medesima al comma 1, lettere da a) ad e).
Secondo la ricorrente, benché le
finalità perseguite dalla norma impugnata, in quanto afferenti alla «autonomia
delle istituzioni scolastiche» e alla «ridefinizione degli organici» siano
indubbiamente ascrivibili ad un ambito di competenza esclusiva statale quale è
appunto quello rubricato «norme generali sull’istruzione» di cui all’art.117,
secondo comma, lettera n), Cost., la disposizione in esame interferirebbe con
le competenze regionali laddove si intreccia con il dimensionamento delle
istituzioni scolastiche di spettanza regionale che, a propria volta, si correla
necessariamente al diverso ambito di competenza residuale regionale dei
«servizi sociali».
Per questi motivi la previsione di un
mero parere in luogo della necessaria intesa, ai fini dell’emanazione del
suddetto decreto, violerebbe l’art. 117, quarto comma, Cost., valutato in
relazione al disposto del terzo comma e al principio di leale collaborazione,
in quanto si porrebbe in contrasto con le prerogative regionali legislative
esistenti in materia di dimensionamento scolastico e di servizi sociali,
considerato che il mero parere non costituisce un adeguato modello di
concertazione in tale ambito.
La Regione svolge un’ampia e
approfondita ricostruzione sistematica del contesto normativo di riferimento
osservando che, nell’alveo generico qualificato come «istruzione pubblica»,
esistono in realtà molteplici ambiti specifici, i cui contorni sono stati
progressivamente delineati in forza di una notevolissima, intensa, attività
della giurisprudenza costituzionale. In particolare – prosegue la Regione –
sono state definite, sotto il profilo oggettivo, le linee di demarcazione della
competenza insistente in materia e sono stati così individuati come ambiti di
attribuzione regionale il dimensionamento della rete scolastica e la programmazione
dell’offerta formativa. Nel ricorso si aggiunge che tale competenza deve
necessariamente connettersi alla materia dei servizi sociali, particolarmente
per quanto attiene alle scuole dell’infanzia, nonché alle misure di prevenzione
e contrasto del disagio di particolari utenti del servizio scolastico.
Pertanto, il contenuto del decreto
ministeriale, pur riguardando espressamente gli organici delle istituzioni
scolastiche e l’autonomia delle medesime, di indiscussa competenza esclusiva
statale, non potrebbe collocarsi, secondo la ricorrente, in una posizione
giuridica sistematicamente avulsa e distante da quella relativa alla competenza
regionale in materia di dimensionamento della rete scolastica di cui si è
detto.
In tale prospettiva, la definizione
degli organici delle istituzioni scolastiche sembrerebbe costituire il
presupposto indefettibile affinché la Regione sia posta nelle condizioni
effettive, e non meramente virtuali, di programmare l’apertura e la chiusura
delle istituzioni scolastiche, nonché gli eventuali accorpamenti.
La ricorrente richiama, a tal proposito,
la decisione n. 34 del 2005, con la quale si è precisato che il dimensionamento
della rete delle istituzioni scolastiche è un ambito di spettanza regionale,
nonché quelle n. 92 del 2011 e n. 200 del 2009.
La norma impugnata nel ridefinire un
«organico dell’autonomia», assegnerebbe a tale locuzione la funzione di
indicatore della sussistenza di quei requisiti essenziali del soggetto
giuridico indispensabili per il conseguimento ed il correlativo riconoscimento
di quella differenziazione amministrativa che trova la propria legittimazione
nella capacità autosufficiente di funzionamento in una logica complessiva di
gestione ottimale delle risorse.
La disposizione impugnata introdurrebbe,
inoltre, un sistema di definizione riferito non più esclusivamente «alla
singola istituzione scolastica» bensì alla «rete delle istituzioni»,
strutturata in base a criteri e parametri del dimensionamento scolastico.
In altri termini, lo Stato, nel disciplinare
l’organico dell’autonomia, per un verso differenzierebbe tra «singola
istituzione scolastica» (art. 50, comma 1, lettera b) e «rete delle
istituzioni» (art. 50, comma 1, lettera c), assoggettando la seconda e non la
prima ad un’intesa obbligatoria da raggiungere in Conferenza Unificata; per
altro verso, disporrebbe che alla costituzione degli organici di entrambe (art.
50, comma 1, lettera e) si possa procedere, con il medesimo decreto, solo
sentita la Conferenza Stato-Regioni, così interferendo con il dimensionamento
della rete scolastica, e ledendo la potestà legislativa della Regione
sussistente in detto ambito, seppure connessa alla potestà legislativa statale
sul personale scolastico, con simultanea violazione del principio di leale
cooperazione di cui all’art. 120 Cost.
Infatti, nelle more dell’emanazione di
una compiuta legislazione regionale al riguardo, lo Stato – per la Regione –
non può ridefinire gli organici per un periodo triennale, in assenza di un
adeguato coinvolgimento delle Regioni che si troverebbero esautorate delle
proprie competenze, potendo solo esprimere un mero parere con evidenti effetti
compromissori e limitativi della propria potestà legislativa.
Nella specie, non sembrerebbe potersi
negare – sempre ad avviso della ricorrente – che il dimensionamento scolastico
produca un decisivo impatto sul sistema regionale delle reti scolastiche, come
già strutturato in attuazione dell’esercizio della pluralità di funzioni
conferite dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di
funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali,
in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59), nonché su una serie
di funzioni regionali relative al governo del territorio, per quanto attiene all’edilizia
scolastica, alla formazione professionale ed alla programmazione dell’offerta
formativa.
La Regione riconosce la competenza
statale a legiferare in materia di personale scolastico, docente e non docente,
trattandosi, appunto, di personale direttamente ed immediatamente dipendente
dal Ministero competente, così come la funzione concernente la ripartizione di
detto personale, ma ritiene non possa negarsi che debba essere assicurato il
pieno coinvolgimento regionale, attraverso lo strumento dell’intesa, proprio
per l’interferenza che tale profilo presenta con quello della potestà
legislativa regionale.
La ricorrente soggiunge che, anche
considerando che l’obiettivo perseguito dallo Stato consiste nel progressivo
dimensionamento della rete scolastica, programmato in una prospettiva di
medio/lungo termine, non possono da questo essere adottati atti normativi che
incidano sulle attribuzioni regionali sussistenti in ordine a tale profilo,
soprattutto in relazione agli interventi finalizzati alla riduzione del disagio
di particolari utenti, laddove tale particolare aspetto, pure presente nel
contesto del dimensionamento della rete scolastica, appartiene però all’ambito
della legislazione esclusiva regionale in materia di servizi sociali.
1.5.– La Regione Veneto impugna anche
l’art. 53, comma 7, del d.l. n. 5 del 2012 recante «Modernizzazione del
patrimonio immobiliare scolastico e riduzione dei consumi e miglioramento
dell’efficienza degli usi finali di energia», nella parte in cui prevede
l’adozione di un decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della
ricerca, di concerto con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti e con
il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, sentita la
Conferenza unificata di cui all’art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997,
n. 281 (Definizione ed ampliamento delle attribuzioni della Conferenza
permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di
Trento e Bolzano ed unificazione, per le materie ed i compiti di interesse
comune delle regioni, delle province e dei comuni, con la Conferenza
Stato-città ed autonomie locali), finalizzato a determinare le norme
tecniche-quadro, contenenti gli indici minimi e massimi di funzionalità
urbanistica, edilizia, anche riferite alle tecnologie in materia di efficienza
e risparmio energetico e produzione da fonti energetiche rinnovabili, nonché
didattica, indispensabili a garantire indirizzi progettuali adeguati ed
omogenei sul territorio nazionale.
Secondo la ricorrente, la norma
violerebbe il principio di leale collaborazione di cui all’art. 120 Cost.
perché il decreto deve essere emanato senza il necessario coinvolgimento delle
Regioni, ma solo con il parere in conferenza unificata, e non è prescritta la
necessaria intesa.
Inoltre, non esistendo una materia
relativa ai «lavori pubblici», la competenza legislativa si determinerebbe in
relazione all’oggetto dei lavori, cioè alla tipologia dell’opera pubblica che
può afferire a settori riconducibili a materie sia di competenza esclusiva
statale, sia di competenza concorrente, sia di competenza residuale regionale.
La Regione richiama anche l’art. 3 della
legge 11 gennaio 1996, n. 23 (Norme per l’edilizia scolastica), che individua,
quali soggetti giuridici pubblici competenti alla realizzazione degli edifici
scolastici, i Comuni e le Province, secondo un riparto ancorato alla
destinazione dell’edificio nel quale la Regione è titolare anche di specifiche
funzioni amministrative, riconducibili all’alveo dell’art. 118 Cost., di natura
programmatoria dell’edilizia scolastica e consistenti nel potere di adottare
piani annuali e triennali, predisposti ed approvati in conformità alle istanze
provenienti dagli enti territoriali minori.
Pertanto la disposizione impugnata si configurerebbe
certamente lesiva del principio di leale collaborazione, laddove la
predisposizione di norme tecniche, anche in tale settore, interferirebbe tanto
con attribuzioni regionali, quanto con funzioni amministrative esercitabili
dalle Regioni, atteso che l’esercizio delle funzioni di cui si tratta è stato
ripartito in vari livelli di governo.
Nel ricorso si afferma che l’art. 5
della legge n. 23 del 1996 prevede che le Regioni approvino specifiche norme
tecniche per la progettazione esecutiva degli interventi, definendo, in
particolare, indici diversificati in ragione della specificità dei centri
storici e delle aree metropolitane e, per l’effetto, assegna inequivocabilmente
alle Regioni funzioni non solamente pianificatorie ma
anche di legislazione di dettaglio di natura concretamente «tecnica».
Per queste ragioni, ai fini
dell’emanazione del decreto, il parere previsto dalla norma impugnata dovrebbe
essere sostituito, secondo la Regione, con la più corretta ed adeguata
previsione dell’intesa, da raggiungere in sede di Conferenza Unificata.
Viene dedotto che, anche qualora si
reputasse ammissibile, in tale ambito, invocare, a fondamento dell’intervento
normativo statale, prevalenti ragioni di sicurezza ed incolumità pubblica, in
ogni caso non potrebbe non ritenersi violato il principio della leale
collaborazione, di cui all’art. 120 Cost., che postula appunto il
coinvolgimento regionale. Da ultimo, in riferimento all’esercizio delle
funzioni di tipo amministrativo, viene rammentato che già con il d.lgs. n. 112
del 1998 lo Stato si era riservato la predisposizione di norme tecniche
nazionali concernenti le costruzioni in zone sismiche, subordinando però
l’esercizio concreto di tale funzione alla preventiva intesa in sede di
Conferenza Unificata.
1.6.– Infine la Regione Veneto impugna
l’art. 60, comma 1, del d.l. n. 5 del 2012 concernente la proroga del programma
«carta acquisti» per violazione dell’art. 117, quarto comma, e dell’art. 120
Cost., in riferimento al principio di leale collaborazione.
In particolare, secondo la ricorrente,
il comma 1 del citato art. 60 si porrebbe in contrasto con l’art.117, quarto
comma, Cost., che riserva alla competenza legislativa residuale della Regione
la materia dei servizi sociali e di assistenza, e con l’art. 119 Cost., che
vieta allo Stato di prevedere finanziamenti a destinazione vincolata in ambiti
di competenza regionale residuale o concorrente, mentre il comma 2 violerebbe
il principio di leale collaborazione, nella parte in cui non prevede il
necessario coinvolgimento delle regioni nell’emanazione del citato decreto.
La ricorrente rammenta che l’art. 81,
comma 32, del d.l. n. 112 del 2008, cui la disposizione investita dal presente
ricorso fa rinvio, ha istituito la carta acquisti, «in considerazione delle
straordinarie tensioni cui sono sottoposti i prezzi dei generi alimentari e il
costo delle bollette energetiche, nonché il costo per la fornitura di gas da
privati, al fine di soccorrere le fasce deboli di popolazione in stato di
particolare bisogno».
Tale norma era stata impugnata da varie
regioni, con ricorsi che questa Corte aveva giudicato infondati con la sentenza n. 10 del
2010. Secondo la Regione, le motivazioni della sentenza n. 10 del
2010, potrebbero essere utilmente applicate, con effetti diametralmente
opposti, anche alla disposizione impugnata, in quanto nel percorso
argomentativo seguito dalla Corte, la previsione e la diretta erogazione di una
determinata provvidenza da parte dello Stato è stata ritenuta ammissibile solo
«quando ciò sia reso imprescindibile da peculiari circostanze e situazioni,
quale una fase di congiuntura economica eccezionalmente negativa». Conseguentemente,
la presenza di tali «peculiari situazioni» sembra costituire la condizione di
legittimità costituzionale di un intervento diretto da parte dello Stato che
investa una materia, come nel caso di specie, di competenza regionale.
In altri termini, ad avviso della
Regione, se è sulla situazione eccezionale di crisi che si fonda la legittimità
dell’art. 81 del d.l. n. 112 del 2008, non sembrerebbe che la medesima
situazione di eccezionalità possa giustificare l’emanazione della norma oggetto
del ricorso. Infatti, stante l’innegabile lasso di tempo intercorso, seppure in
un contesto generale di non risolta crisi internazionale, tra la disposizione
di cui all’art. 81, comma 32, del d.l. n. 112 del 2008 citato, istitutiva del
Fondo e della carta acquisti, e quella di cui all’art. 60 del d.l. n. 5 del
2012, non viene ritenuta ammissibile la reiterazione di una misura che aveva
trovato la propria legittimazione nell’eccezionalità temporalmente
circoscritta.
Dal tenore letterale della disposizione
risulterebbe poi, inequivocabilmente, che la pretesa sperimentazione, destinata
a cessare decorsi dodici mesi, si pone in realtà in termini anticipatori di
quella che è dichiaratamente destinata a divenire una misura strutturale,
dovendosene valutare «la possibile generalizzazione come strumento di contrasto
alla povertà assoluta».
Quanto al comma 2 dell’art. 60, sarebbe
violato il principio di leale collaborazione, nella parte in cui la citata
disposizione non prevede il coinvolgimento delle regioni nell’emanazione del
decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, da adottarsi di
concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze.
Anche a tale proposito, nel ricorso, si
rinvia alla sentenza
n. 10 del 2010, nella parte in cui, ponendo a fondamento dell’intervento –
significativamente realizzato con decreto-legge e in corso d’anno – le
straordinarie tensioni cui sono sottoposti i prezzi dei generi alimentari e il
costo delle bollette energetiche e della fornitura di gas da privati, induce a
ritenere che, al di fuori degli interventi straordinariamente consentiti per
circostanze eccezionali, l’attività istituzionale concertativa possa e debba
essere correttamente ripresa.
2.– In data 13 luglio 2012 si è
costituito il Presidente del Consiglio dei ministri rappresentato e difeso
dall’Avvocatura dello Stato concludendo nel senso dell’inammissibilità o
dell’infondatezza delle questioni sollevate dalla Regione Veneto.
2.1.– Con riferimento alla prima
questione, l’Avvocatura dello Stato evidenzia che l’art. 29 del d.l. n. 5 del
2012 si colloca in un contesto di disposizioni volte a dare concreta attuazione
ai regolamenti comunitari che hanno riformato il settore dello zucchero, al
fine di renderlo adeguato agli impegni giuridici e politici assunti dall’Unione
europea a livello internazionale. Si tratta, pertanto, di disposizioni coerenti
con quanto previsto dall’art. 117, primo comma, Cost., che impone allo Stato e
alle Regioni il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e
dagli obblighi internazionali.
In particolare, la norma impugnata, nel
disporre che i progetti di riconversione del comparto bieticolo-saccarifero,
realizzati ai sensi dell’art. 2, comma 3, del d.l. n. 2 del 2006, rivestono
«carattere di interesse nazionale», anche ai fini della definizione e del
perfezionamento dei processi autorizzativi e dell’effettiva entrata in
esercizio, si porrebbe l’obiettivo di rendere esecutiva la riforma comunitaria
nel settore in esame.
In ogni caso, non sussisterebbe alcuna
violazione dei richiamati principi costituzionali, in quanto le «norme idonee
nel quadro delle competenze amministrative regionali atte a garantire
l’esecutività dei progetti suddetti» verranno disposte dal citato Comitato
interministeriale, nella cui composizione rientrano anche tre Presidenti di
regione designati dalla Conferenza Stato-Regioni, nel rispetto proprio del
principio di leale collaborazione.
2.2.– Per quanto riguarda l’art. 40 del
d.l. n. 5 del 2012, secondo l’Avvocatura dello Stato la norma rientrerebbe
nell’esercizio della competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela
della concorrenza.
La difesa statale cita la giurisprudenza
costituzionale con la quale si è ritenuto che, poiché la promozione della
concorrenza ha portata generale o trasversale, può accadere che una misura che
abbia una valenza pro-competitiva, vada, legittimamente, ad incidere su materie
attribuite alla competenza legislativa residuale o concorrente delle Regioni.
Infatti, l’espressione tutela della
concorrenza utilizzata dal legislatore costituzionale, coerentemente con quella
operante nell’ordinamento comunitario, comprende, tra le altre fattispecie, gli
interventi regolatori che a titolo principale incidono sulla concorrenza,
quali: le misure legislative di tutela in senso proprio, che hanno ad oggetto
gli atti ed i comportamenti delle imprese che incidono negativamente
sull’assetto concorrenziale dei mercati e ne disciplinano le modalità di
controllo, eventualmente anche di sanzione; le misure legislative di
promozione, che mirano ad aprire un mercato o a consolidarne l’apertura,
eliminando barriere all’entrata, riducendo o eliminando vincoli al libero
esplicarsi della capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese, in
generale i vincoli alle modalità di esercizio delle attività economiche (è
citata la sentenza
n. 430 del 2007).
Pertanto, per accertare se determinate
disposizioni possano essere ricondotte alla materia «tutela della concorrenza»,
si deve verificare – continua il resistente – «se le norme adottate dallo Stato
siano essenzialmente finalizzate a garantire la concorrenza fra i diversi
soggetti del mercato (cfr. sent. n. 285/2005),
allo scopo di accertarne la coerenza rispetto all’obiettivo di assicurare un
mercato aperto e in libera concorrenza».
Tale verifica condurrebbe ad esito
positivo in quanto l’intento perseguito con la soppressione del vincolo in
materia di chiusura domenicale e festiva per le imprese di panificazione è
proprio quello di «favorire l’apertura del mercato alla concorrenza» garantendo
i mercati ed i soggetti che in essi operano e a tali norme dovrebbe essere
riconosciuto quell’effetto di ampliare «l’area di libera scelta sia dei
cittadini che delle imprese».
Secondo la difesa statale, dunque,
sussisterebbero le condizioni per la qualificazione della norma nell’ambito
della materia «tutela della concorrenza».
2.3.– In relazione alla censura relativa
all’art. 41 del d.l. n. 5 del 2012 recante «semplificazioni in materia di
alimenti e bevande», preliminarmente l’Avvocatura dello Stato evidenzia che la
Regione Veneto fa riferimento alla stesura originaria dell’articolo nonostante
che nel corso dell’iter legislativo di conversione la norma sia stata oggetto
di rilevanti modifiche.
In particolare, la nuova formulazione
prevede che «L’attività temporanea di somministrazione di alimenti e bevande in
occasione di sagre, fiere, manifestazioni religiose, tradizionali e culturali o
eventi locali straordinari, è avviata previa segnalazione certificata di inizio
attività priva di dichiarazioni asseverate ai sensi dell’articolo 19 della
legge 7 agosto 1990, n. 241, e non è soggetta al possesso dei requisiti
previsti dal comma 6 dell’articolo 71 del decreto legislativo 26 marzo 2010, n.
59». Ne consegue, per la difesa dello Stato, che i requisiti non più richiesti,
per l’esercizio dell’attività temporanea di somministrazione di alimenti e
bevande, sono solo quelli di cui al citato art. 71, comma 6, ovvero i
«requisiti professionali».
Ciò premesso, l’Avvocatura dello Stato
ritiene che la disposizione in esame si inserisca nell’ambito degli interventi
pro-concorrenziali di competenza esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117,
secondo comma, lettera e), Cost. nel solco delle direttive di liberalizzazione
intraprese dal Governo in attuazione anche della direttiva 2006/123/CE,
relativa ai servizi nel mercato interno.
Inoltre, la stessa disposizione, nel
semplificare gli adempimenti necessari per la somministrazione temporanea di
alimenti e bevande, si collocherebbe in un quadro di norme volte a ridurre
l’incidenza degli oneri amministrativi sul fatturato, anche al fine di favorire
l’avvio dell’attività economica, a fronte della crescente crisi internazionale
e dei costi della burocrazia sempre più gravosi per le imprese.
Si tratterebbe, dunque, di norme
coerenti con il principio costituzionale di libertà dell’iniziativa economica
di cui all’art. 41 Cost., che legittima il legislatore nazionale a porre in
essere gli interventi ritenuti più opportuni per il coordinamento dell’attività
economica pubblica o privata a fini sociali e per favorire la crescita
dell’economia nazionale.
2.4.– Con riferimento alla censura
relativa all’art. 50 del d.l. n. 5 del 2012, la difesa statale evidenzia che,
al contrario di quanto sostenuto dalla ricorrente, la norma in questione non
inciderebbe sulle prerogative regionali, essendo finalizzata a consolidare e
sviluppare l’autonomia delle istituzioni scolastiche, potenziandone l’autonomia
gestionale secondo criteri di flessibilità e valorizzando la responsabilità e
la professionalità del personale della scuola.
La difesa statale richiama la sentenza n. 147 del
2012, ove si è affermato che compete allo Stato definire i requisiti che
connotano l’autonomia scolastica, per gli aspetti concernenti le modalità di
regolamentazione e il grado di autonomia delle istituzioni rispetto alle
amministrazioni, sia statale che regionale. Inoltre, la medesima sentenza, nel
dichiarare la legittimità costituzionale di disposizioni volte a ridurre il
numero dei dirigenti scolastici attraverso nuovi criteri per la loro
assegnazione nella copertura dei posti di dirigenza, ha definito chiaramente il
riparto di competenze tra Stato e Regioni in materia di organici delle
istituzioni scolastiche. Infatti, le norme, come quella in esame, concernenti gli
organici delle istituzioni scolastiche – costituiti da dipendenti pubblici
statali e non regionali, come risulta sia dal loro reclutamento che dal loro
complessivo status giuridico – rientrano nella competenza esclusiva statale di
cui all’art. 117, secondo comma, lettera g), Cost. (ordinamento e
organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali),
assumendo un peso prevalente rispetto alla competenza concorrente prevista in
materia di istruzione dal medesimo art. 117, terzo comma, Cost.
2.5.– Quanto al censurato art. 53, comma
7, il resistente afferma che esso sarebbe da collocare nell’ambito delle
previsioni dirette a ridurre gli oneri per le imprese, migliorarne la
competitività e semplificare gli adempimenti, assicurando anche la coerenza con
gli standard comunitari. Si tratterebbe, dunque, di disposizioni coerenti con
quanto previsto dall’art. 117. primo comma, Cost. che impone allo Stato e alle
Regioni il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli
obblighi internazionali. Peraltro, del tutto insussistente sarebbe la dedotta
violazione del principio di leale collaborazione, dal momento che il decreto
del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca dovrà essere
adottato previo parere della Conferenza unificata.
2.6.– L’ultima delle norme impugnate
dalla Regione Veneto è l’art. 60 del d.l. n. 5 del 2012.
L’Avvocatura dello Stato ritiene che la
nuova previsione legislativa non differisce nella sostanza da quanto stabilito
con l’art. 81, comma 29 e seguenti, del d.l. n. 112 del 2008, quanto a contesto
e finalità, e che non vi è alcun mutamento della natura dello strumento
introdotto, ma solo un tentativo di collocarlo in un più vasto contesto di
collaborazione interistituzionale con i comuni. Inoltre, rileva che la
situazione di crisi finanziaria posta a base della normativa sulla social card
purtroppo non è cessata e solo al termine della fase di sperimentazione,
unitamente all’auspicata cessazione della situazione di emergenza, si potranno
recuperare gli strumenti concertativi.
Conclude nel senso che l’attribuzione
allo Stato della competenza esclusiva in materia di «determinazione dei livelli
essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono
essere garantiti su tutto il territorio nazionale» di cui all’art. 117, secondo
comma, lettera m), Cost., deve intendersi riferita alla fissazione dei livelli
strutturali e qualitativi di prestazioni che, riguardando il soddisfacimento di
diritti civili e sociali, devono essere garantiti, con carattere di generalità,
a tutti gli aventi diritto. Si tratterebbe, quindi, di una competenza
trasversale, idonea ad investire tutte le materie, rispetto alle quali il
legislatore statale deve poter predisporre le misure necessarie per attribuire
a tutti i destinatari sull’intero territorio nazionale il godimento di
prestazioni garantite che costituiscono il contenuto essenziale di tali
diritti, senza che la legislazione regionale possa limitarle o condizionarle.
Siffatto parametro costituzionale
consentirebbe, quindi, una restrizione dell’autonomia legislativa delle
Regioni, giustificata dallo scopo di assicurare un livello uniforme di
godimento dei diritti civili e sociali tutelati dalla stessa Costituzione.
3.– In prossimità dell’udienza la Regione
ha presentato una memoria con la quale ha ribadito le ragioni a sostegno della
illegittimità costituzionale della norme impugnate.
1.– La Regione Veneto ha sollevato, in
via principale, questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto, tra
gli altri, gli articoli 29, 40, 41, 50, comma 1, 53, comma 7, e 60 del
decreto-legge 9 febbraio 2012, n. 5 (Disposizioni urgenti in materia di
semplificazione e di sviluppo), convertito, con modificazioni, dalla legge 4
aprile 2012, n. 35, in riferimento agli articoli 117, quarto comma, 118 e 120
della Costituzione, in relazione al principio di leale collaborazione tra Stato
e Regioni.
1.1.– Restano riservate ad altre
decisioni le questioni sollevate col medesimo ricorso dalla Regione Veneto e
riguardanti altre disposizioni.
1.2.– L’art. 29 è impugnato nella parte
in cui prevede, con riferimento ai progetti di riconversione del comparto
bieticolo-saccarifero, che «Entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore
del presente decreto, il Comitato interministeriale di cui al comma 1 dispone
le norme idonee nel quadro delle competenze amministrative regionali atte a
garantire l’esecutività dei progetti suddetti, nomina, nei casi di particolare
necessità, ai sensi dell’articolo 20 del decreto-legge 29 novembre 2008, n.
185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, un
commissario ad acta per l’attuazione degli accordi definiti in sede regionale
con coordinamento del Comitato interministeriale». Secondo la Regione Veneto,
la citata disposizione viola gli artt. 117, quarto comma, e 120 Cost., in
quanto la produzione saccarifera rientra nella materia agricoltura e spetta
alle regioni la conclusione e l’attuazione degli accordi di ristrutturazione
nel quadro del programma nazionale.
1.3.– La questione è fondata.
Al fine di fronteggiare la grave crisi
del settore bieticolo-saccarifero è stato approvato dapprima il regolamento CE
n. 320/2006 del Consiglio, del 20 febbraio 2006 (relativo a un regime
temporaneo per la ristrutturazione dell’industria dello zucchero nella Comunità
europea, che modifica il regolamento CE n. 1290/2005 relativo al funzionamento
della politica agricola comune) e, successivamente, il decreto-legge 10 gennaio
2006, n. 2 (Interventi urgenti per i settori dell’agricoltura,
dell’agroindustria, della pesca, nonché in materia di fiscalità d’impresa),
convertito, con modificazioni, dalla legge 11 marzo 2006, n. 81. Con tali
disposizioni si è intesa regolare la ristrutturazione dell’industria dello
zucchero nella Comunità prevedendo misure di sostegno al settore e di
riconversione delle attività relative alla coltivazione e alla produzione.
In particolare, il d.l. n. 2 del 2006 ha
istituito un Comitato interministeriale composto dal Presidente del Consiglio
dei ministri, dal Ministro delle politiche agricole e forestali, dal Ministro
dell’economia e delle finanze, dal Ministro delle attività produttive, dal
Ministro del lavoro e delle politiche sociali, dal Ministro per le politiche
comunitarie e dal Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio nonché
da tre Presidenti di regione designati dalla Conferenza permanente per i
rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano
con il compito di: a) approvare il piano per la razionalizzazione e la
riconversione della produzione bieticolo-saccarifera; b) coordinare le misure
comunitarie e nazionali previste per la riconversione industriale del settore e
per le connesse problematiche sociali; c) formulare direttive per l’approvazione
dei progetti di riconversione.
Le imprese saccarifere, ai sensi
dell’art. 2, comma 3, del citato decreto-legge, dovevano presentare al
Ministero delle politiche agricole e forestali un progetto di riconversione per
ciascuno degli impianti industriali, ove era prevista la cessazione della
produzione di zucchero. I progetti di riconversione, finalizzati anche alla
salvaguardia dell’occupazione nel territorio oggetto dell’intervento, dovevano
essere approvati dal Ministero delle politiche agricole e forestali.
Il comma 1 dell’art. 29 del d.l. n. 5
del 2012 prevede che i progetti di riconversione già approvati dal comitato
interministeriale di cui sopra «rivestono carattere di interesse nazionale
anche ai fini della definizione e del perfezionamento dei processi
autorizzativi e dell’effettiva entrata in esercizio».
Il comma 2, oggetto di impugnazione,
prevede, come già detto, che entro trenta giorni dalla data di entrata in
vigore del decreto, il Comitato interministeriale di cui al comma 1 «dispone le
norme idonee nel quadro delle competenze amministrative regionali atte a
garantire l’esecutività dei progetti suddetti, nomina, nei casi di particolare
necessità, ai sensi dell’articolo 20 del decreto-legge 29 novembre 2008, n.
185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, un
commissario ad acta per l’attuazione degli accordi definiti in sede regionale
con coordinamento del Comitato interministeriale».
Dalla lettura della norma non è agevole
ricavare la natura dei compiti affidati al comitato interministeriale in base
alla locuzione «dispone norme idonee nel quadro delle competenze amministrative
regionali atte a garantire l’esecutività dei suddetti progetti», cioè se si
tratti di una potestà regolamentare o dell’attribuzione di funzioni amministrative.
L’art. 29 in esame deve essere ascritto
alla materia agricoltura riservata alla competenza legislativa residuale delle
Regioni: ne consegue che la norma viene a porsi in contrasto con l’art. 117
Cost. tanto se la si interpreti come attributiva di un potere regolamentare,
quanto amministrativo.
Nel primo caso sarebbe pacificamente
violato l’art. 117, sesto comma, Cost. trattandosi di una materia riservata
alla competenza legislativa residuale delle regioni.
Nel secondo, invece, si dovrebbe ipotizzare
una chiamata in sussidiarietà da parte dello Stato per assicurare il
perseguimento di interessi unitari che sarebbero compromessi dall’inerzia o
dall’inadempimento da parte del livello di governo inferiore.
In astratto, infatti, è ammissibile una
deroga al normale riparto di competenze qualora «la valutazione dell’interesse
pubblico sottostante all’assunzione di funzioni regionali da parte dello Stato
sia proporzionata» e «non risulti affetta da irragionevolezza alla stregua di
uno scrutinio stretto di costituzionalità» (sentenza n. 303 del
2003).
Tuttavia nei casi in cui vi sia uno
spostamento di competenze amministrative a seguito di attrazione in
sussidiarietà, questa Corte ha escluso che possa essere previsto un potere
sostitutivo, dovendosi ritenere che la leale collaborazione, necessaria in tale
evenienza, non possa essere sostituita puramente e semplicemente da un atto
unilaterale dello Stato (sentenze n. 165 del 2011
e n. 383 del
2005).
L’art. 29, invece, prevede un potere di
intervento sostitutivo dello Stato che si attiva mediante la predisposizione da
parte del comitato interministeriale di norme idonee a dare esecutività ai
progetti nel quadro delle competenze regionali e in casi di particolare
necessità (non specificati) con il diretto intervento di un commissario ad
acta.
Inoltre la norma introduce una forma di
potere sostitutivo (per dare attuazione al diritto comunitario) che non
risponde ai requisiti richiesti dall’art. 120 Cost. e dall’art. 8 della legge 5
giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica
alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3).
2.– La seconda questione sollevata dalla
Regione Veneto riguarda l’art. 40 del medesimo d.l. n. 5 del 2012, che sopprime
il vincolo in materia di chiusura domenicale e festiva per le imprese di panificazione
di natura produttiva. Tale disposizione violerebbe l’art. 117, quarto comma,
Cost. in quanto la materia degli orari degli esercizi commerciali e delle
giornate di apertura e di chiusura rientrerebbe nella competenza regionale
residuale in materia di commercio.
2.1.– La questione è inammissibile.
L’art. 40 impugnato si limita ad
abrogare il riferimento contenuto nell’art. 11, comma 13, della legge 3 agosto
1999, n. 265 (Disposizioni in materia di autonomia e ordinamento degli enti
locali, nonché modifiche alla legge 8 giugno 1990, n. 142), mediante il quale
era stata estesa l’applicabilità degli artt. 11, comma 4, 12 e 13 del decreto
legislativo 31 marzo 1998, n. 114 (Riforma della disciplina relativa al settore
del commercio, a norma dell’articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n.
59), anche all’attività di panificazione autorizzata ai sensi della legge 31
luglio 1956, n. 1002 (Nuove norme sulla pianificazione).
La Regione, pertanto, avrebbe dovuto
motivare in relazione alla specifica categoria delle imprese di panificazione
le quali non rientravano, se non a seguito del rinvio che viene abrogato, nel
campo di applicazione della normativa di «liberalizzazione» del settore del
commercio, mentre nel ricorso si fa riferimento esclusivamente alla norma di
liberalizzazione statale di cui all’art. 3 del decreto-legge 4 luglio 2006, n.
223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il
contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in
materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con
modificazioni, dall’art. 1 della legge 4 agosto 2006, n. 248, come modificato
dall’art. 31, comma 1, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni
urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici),
convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214.
Una simile lacuna comporta
l’inammissibilità della questione, dovendosi richiamare, in proposito, la
giurisprudenza di questa Corte, la quale richiede che la questione di
legittimità costituzionale sia definita nei suoi precisi termini e
adeguatamente motivata, al fine di rendere possibile l’inequivoca
determinazione dell’oggetto del giudizio e la verifica della fondatezza dei
dubbi di costituzionalità sollevati e della sussistenza in concreto
dell’interesse a ricorrere (ex plurimis sentenze n. 120 del 2008,
n. 64 del 2007
e n. 214 del
2006).
3.– La medesima violazione della
competenza legislativa regionale in materia di commercio è invocata dalla
ricorrente avverso l’art. 41 del d.l. n. 5 del 2012, nella parte in cui prevede
che «L’attività temporanea di somministrazione di alimenti e bevande in
occasione di sagre, fiere, manifestazioni religiose, tradizionali e culturali o
eventi locali straordinari, è avviata previa segnalazione certificata di inizio
attività priva di dichiarazioni asseverate ai sensi dell’art. 19 della legge 7
agosto 1990, n. 241, e non è soggetta al possesso dei requisiti previsti
dall’art. 71, comma 6, del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59».
La Regione ha impugnato l’art. 41 nella
versione del d.l. n. 5 del 2012 che escludeva il possesso di tutti i requisiti
soggettivi previsti dall’art. 71 del d.lgs. 26 marzo 2010, n. 59 (Attuazione
della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno), e non
solo di quelli professionali previsti dal comma 6 cui fa esclusivo riferimento
la norma nella versione contenuta nella legge di conversione.
In primo luogo, va rilevato che il
ricorso è ammissibile, in quanto, secondo la giurisprudenza di questa Corte,
«la Regione che ritenga lese le proprie competenze da norme contenute in un
decreto-legge può sollevare la relativa questione di legittimità costituzionale
anche in relazione a questo atto, con effetto estensivo alla legge di
conversione, ovvero può riservare l’impugnazione a dopo l’entrata in vigore di
quest’ultima (tra le molte, sentenze n. 383 del 2005;
n. 287 del 2004
e n. 272 del
2004)».
Inoltre, deve ritenersi sussistente e
attuale l’interesse della Regione Veneto al ricorso, dato che la modifica
intervenuta in sede di conversione non incide in alcun modo, e tantomeno in
senso satisfattivo, sulla doglianza relativa alla lesione della competenza
legislativa residuale delle Regioni nella materia del commercio.
3.1.– La questione non è fondata.
Le norme di semplificazione
amministrativa sono state ricondotte da questa Corte alla competenza
legislativa esclusiva dello Stato in materia di determinazione dei livelli
essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, in quanto
«anche l’attività amministrativa, […] può assurgere alla qualifica di "prestazione”
(quindi, anche i procedimenti amministrativi in genere), della quale lo Stato è
competente a fissare un "livello essenziale” a fronte di una specifica pretesa
di individui, imprese, operatori economici ed, in generale, di soggetti
privati» (sentenze n. 207 e n. 203 del 2012).
La determinazione dei livelli essenziali
delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, come già precisato
più volte da questa Corte, non è una «materia» in senso stretto, quanto una
competenza del legislatore statale «idonea ad investire tutte le materie,
rispetto alle quali il legislatore stesso deve poter porre le norme necessarie per
assicurare a tutti, sull’intero territorio nazionale, il godimento di
prestazioni garantite, come contenuto essenziale di tali diritti, senza che la
legislazione regionale possa limitarle o condizionarle» (sentenze n. 322 del 2009
e n. 282 del
2002).
Alla stregua di tali principi, deve
riconoscersi che anche con la disciplina di semplificazione in esame il legislatore
statale ha voluto dettare regole del procedimento amministrativo, valide in
ogni contesto geografico della Repubblica, le quali, adeguandosi a canoni di
proporzionalità e adeguatezza, si sovrappongono al normale riparto di
competenze contenuto nel Titolo V della Parte II della Costituzione (sentenza n. 207 del
2012).
La disciplina in esame, infatti, è
diretta ad impedire che le funzioni amministrative risultino inutilmente gravose
per i soggetti amministrati ed è volta a semplificare le procedure in un’ottica
di bilanciamento tra l’interesse generale e l’interesse particolare
all’esplicazione dell’attività di somministrazione di alimenti e bevande.
La normativa censurata prevede che gli
interessati, in condizioni di parità su tutto il territorio nazionale, possano
svolgere temporaneamente l’attività di somministrazione di alimenti e bevande
in occasione di sagre, fiere, manifestazioni religiose, tradizionali e
culturali o eventi locali straordinari, mediante una mera segnalazione di
inizio attività priva di dichiarazioni asseverate ai sensi dell’art. 19 della
legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento
amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), e anche in
assenza del possesso dei requisiti previsti dall’art. 71, comma 6, del d.lgs.
n. 59 del 2010.
Si tratta di un atto che si colloca
all’inizio della fase procedimentale, la quale è strutturata secondo un modello
ad efficacia legittimante immediata, che attiene al principio di
semplificazione dell’azione amministrativa ed è finalizzata ad agevolare
l’iniziativa economica (art. 41, primo comma, Cost.), tutelando il diritto
dell’interessato ad un sollecito esame, da parte della pubblica amministrazione
competente, dei presupposti di diritto e di fatto che autorizzano l’iniziativa
medesima (sentenza
n. 203 del 2012).
4.– La Regione Veneto ha impugnato anche
l’art. 50, comma 1, del d.l. n. 5 del 2012, nella parte in cui rimette ad un
decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, di
concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, l’adozione di linee
guida orientate al perseguimento degli obiettivi specificati dalla norma
medesima alle lettere da a) ad e), sentita la Conferenza permanente per i
rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di
Bolzano, in riferimento all’art. 117, terzo e quarto comma, Cost. Il conseguimento
dell’intesa con la Conferenza unificata, come sarà successivamente specificato,
è previsto solo con riferimento alla lettera c).
Secondo la ricorrente, la previsione di
un mero parere in luogo della necessaria intesa ai fini dell’emanazione del
decreto viola l’art. 117, quarto comma, Cost., valutato in relazione al
disposto del terzo comma, in quanto si pone in contrasto con le prerogative
regionali legislative esistenti in materia di dimensionamento scolastico e di
servizi sociali, considerato che il mero parere non costituisce un adeguato
modello di concertazione in tale ambito.
4.1.– La questione non è fondata.
L’art. 50 impugnato prevede che «Allo
scopo di consolidare e sviluppare l’autonomia delle istituzioni scolastiche,
potenziandone l’autonomia gestionale secondo criteri di flessibilità e
valorizzando la responsabilità e la professionalità del personale della scuola,
con decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, di
concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, sentita la Conferenza
permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di
Trento e di Bolzano, sono adottate, entro sessanta giorni dalla data di entrata
in vigore della legge di conversione del presente decreto, nel rispetto dei
principi e degli obiettivi di cui all’articolo 64 del decreto-legge 25 giugno
2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133,
e successive modificazioni, linee guida per conseguire le seguenti finalità: a)
potenziamento dell’autonomia delle istituzioni scolastiche, anche attraverso
l’eventuale ridefinizione, nel rispetto della vigente normativa contabile,
degli aspetti connessi ai trasferimenti delle risorse alle medesime, previo
avvio di apposito progetto sperimentale; b) definizione, per ciascuna
istituzione scolastica, di un organico dell’autonomia, funzionale all’ordinaria
attività didattica, educativa, amministrativa, tecnica e ausiliaria, alle
esigenze di sviluppo delle eccellenze, di recupero, di integrazione e sostegno
agli alunni con bisogni educativi speciali e di programmazione dei fabbisogni
di personale scolastico, anche ai fini di una estensione del tempo scuola; c)
costituzione, previa intesa in sede di Conferenza unificata di cui all’articolo
8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni,
di reti territoriali tra istituzioni scolastiche, al fine di conseguire la
gestione ottimale delle risorse umane, strumentali e finanziarie; d)
definizione di un organico di rete per le finalità di cui alla lettera c)
nonché per l’integrazione degli alunni con bisogni educativi speciali, la
formazione permanente, la prevenzione dell’abbandono e il contrasto
dell’insuccesso scolastico e formativo e dei fenomeni di bullismo, specialmente
per le aree di massima corrispondenza tra povertà e dispersione scolastica; e)
costituzione degli organici di cui alle lettere b) e d), nei limiti previsti
dall’articolo 64 del citato decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito,
con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, e successive
modificazioni, sulla base dei posti corrispondenti a fabbisogni con carattere
di stabilità per almeno un triennio sulla singola scuola, sulle reti di scuole
e sugli ambiti provinciali, anche per i posti di sostegno, fatte salve le
esigenze che ne determinano la rimodulazione annuale».
La giurisprudenza di questa Corte ha
chiarito la differenza esistente tra le norme generali sull’istruzione –
riservate alla competenza esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117, secondo
comma, lettera n), Cost. – e i principi fondamentali della materia istruzione,
che l’art. 117, terzo comma, Cost. riserva alla legislazione dello Stato in
materia di competenza legislativa concorrente. Si è detto, a questo proposito,
che rientrano tra le norme generali sull’istruzione «quelle disposizioni
statali che definiscono la struttura portante del sistema nazionale di
istruzione e che richiedono di essere applicate in modo necessariamente
unitario e uniforme in tutto il territorio nazionale, assicurando, mediante una
offerta formativa omogenea, la sostanziale parità di trattamento tra gli utenti
che fruiscono del servizio dell’istruzione (interesse primario di rilievo
costituzionale), nonché la libertà di istituire scuole e la parità tra le
scuole statali e non statali». Sono, invece, espressione di principi
fondamentali della materia dell’istruzione «quelle norme che, nel fissare
criteri, obiettivi, direttive o discipline, pur tese ad assicurare la esistenza
di elementi di base comuni sul territorio nazionale in ordine alle modalità di
fruizione del servizio dell’istruzione, da un lato, non sono riconducibili a
quella struttura essenziale del sistema d’istruzione che caratterizza le norme
generali sull’istruzione, dall’altra, necessitano, per la loro attuazione (e
non già per la loro semplice esecuzione) dell’intervento del legislatore
regionale» (sentenze n. 147 del 2012,
n. 92 del 2011
e n. 200 del
2009).
Il censurato art. 50, comma 1, contiene
disposizioni che devono essere senz’altro qualificate come «norme generali
sull’istruzione», dal momento che, per evidenti ragioni di necessaria unità ed
uniformità della disciplina in materia scolastica, sono preordinate ad
introdurre una normativa operante sull’intero territorio nazionale avente ad
oggetto «caratteristiche basilari» dell’assetto ordinamentale, organizzativo e
didattico del sistema scolastico.
D’altra parte, l’ascrivibilità
alla materia «norme generali sull’istruzione» della norma in esame è condivisa
anche dalla Regione ricorrente, la quale, tuttavia, ritiene che per l’intreccio
con materie di sua competenza, quali il dimensionamento e i servizi sociali,
sia necessario al fine di emanare il decreto un procedimento con partecipazione
rafforzata mediante il meccanismo dell’intesa.
Una volta ricondotta la norma impugnata,
anche sulla base del criterio di prevalenza, alla competenza esclusiva dello
Stato nella materia «norme generali sull’istruzione», deve ritenersi
ingiustificata – per ciò che riguarda le linee guida relative alle lettere a),
b), d), e) – la richiesta della Regione di essere coinvolta con il meccanismo
dell’intesa dovendosi ritenere sufficiente, come momento partecipativo, il
parere della conferenza unificata.
Deve anche sottolinearsi, come si è già
anticipato, che la lettera c) del comma 1 dell’art. 50 del d.l. n. 5 del 2012
prevede, ai fini delle linee guida relative alla costituzione della rete
territoriale tra istituzioni scolastiche, l’intesa in sede di Conferenza
unificata di cui all’art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281
(Definizione ed ampliamento delle attribuzioni della Conferenza permanente per
i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano
ed unificazione, per le materie ed i compiti di interesse comune delle regioni,
delle province e dei comuni, con la Conferenza Stato-città ed autonomie
locali), e successive modificazioni. Pertanto la norma impugnata già prevede il
meccanismo dell’intesa allorché sussistano esigenze di partecipazione
rafforzata delle Regioni, in quanto coinvolgenti anche il dimensionamento
dell’offerta formativa, esigenze che non si rinvengono, invece, per la
definizione dell’organico delle autonomie, per la definizione dell’organico di
rete e per la costituzione dei rispettivi organici.
5.– La Regione censura l’art. 53, comma
7, del d.l. n. 5 del 2012, recante «Modernizzazione del patrimonio immobiliare
scolastico e riduzione dei consumi e miglioramento dell’efficienza degli usi
finali di energia», nella parte in cui prevede «al fine di adeguare la
normativa tecnica vigente agli standard europei e alle più moderne concezioni
di realizzazione e impiego degli edifici scolastici, perseguendo altresì, ove
possibile, soluzioni protese al contenimento dei costi» l’adozione di un
decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, di
concerto con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti e con il Ministro
dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, da emanare sentita la
Conferenza unificata di cui all’art. 8 del d.lgs. n. 281 del 1997, finalizzato
a determinare «le norme tecniche-quadro, contenenti gli indici minimi e massimi
di funzionalità urbanistica, edilizia, anche riferite alle tecnologie in
materia di efficienza e risparmio energetico e produzione da fonti energetiche
rinnovabili, nonché didattica, indispensabili a garantire indirizzi progettuali
adeguati ed omogenei sul territorio nazionale».
Secondo la ricorrente, la disposizione
violerebbe il principio di leale collaborazione di cui all’art. 120 Cost.
perché, nonostante si verta in materie attribuite alla competenza concorrente,
come, sicuramente, «il governo del territorio», ai fini dell’emanazione del
decreto non è prevista l’intesa con le Regioni, ma solo il parere della
Conferenza unificata.
5.1.– La questione non è fondata.
La norma si colloca nell’ambito di un
piano nazionale di edilizia scolastica previsto dal comma 1 dell’art. 53
citato. Tale piano, che deve essere adottato dal CIPE, su proposta del Ministro
dell’istruzione, dell’università e della ricerca e del Ministro delle
infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro dell’economia e
delle finanze e con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e
del mare, previa intesa in sede di Conferenza unificata di cui all’art. 8 del
d.lgs. n. 281 del 1997, ha ad oggetto la realizzazione di interventi di
ammodernamento e recupero del patrimonio scolastico esistente, anche ai fini
della messa in sicurezza degli edifici, e di costruzione e completamento di
nuovi edifici scolastici, da realizzare, in un’ottica di razionalizzazione e
contenimento delle spese correnti di funzionamento, nel rispetto dei criteri di
efficienza energetica e di riduzione delle emissioni inquinanti.
Il comma 7 dell’art. 53 demanda ad un
decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, di
concerto con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti e con il Ministro
dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, da emanare sentita la
Conferenza unificata di cui all’art. 8 del d.lgs. 28 agosto n. 281 del 1997,
l’adozione delle norme tecniche-quadro contenenti gli indici minimi e massimi
di funzionalità urbanistica, edilizia, anche riferite alle tecnologie in
materia di efficienza e risparmio energetico e produzione da fonti energetiche
rinnovabili, nonché didattica, indispensabili a garantire indirizzi progettuali
adeguati ed omogenei sul territorio nazionale.
Nella disciplina in esame si intersecano
più materie, quali il «governo del territorio», «l’energia» e la «protezione
civile», tutte rientranti nella competenza concorrente Stato-Regioni di cui al
terzo comma dell’art. 117 Cost.
Questa Corte ha affermato che, nelle
materie di competenza concorrente, allorché vengono attribuite funzioni
amministrative a livello centrale allo scopo di individuare norme di natura
tecnica che esigono scelte omogenee su tutto il territorio nazionale improntate
all’osservanza di standard e metodologie desunte dalle scienze, il
coinvolgimento della conferenza Stato Regioni può limitarsi all’espressione di
un parere obbligatorio (sentenze n. 265 del 2011,
n. 254 del 2010,
n. 182 del 2006,
n. 336 e n. 285 del 2005).
In tali casi la disciplina statale costituisce principio generale della materia
(sentenze n. 254
del 2010 e n.
182 del 2006).
Deve, inoltre, sottolinearsi che l’art.
53, comma 1, prevede, ai fini dell’approvazione del piano di edilizia
scolastica da parte del CIPE, il massimo coinvolgimento delle Regioni mediante
il meccanismo dell’intesa. Gli interessi regionali, dunque, trovano adeguata
tutela nella predisposizione del piano, mentre per l’individuazione delle
«norme tecniche quadro», per i motivi sopra esposti, è sufficiente il parere
della conferenza unificata di cui all’art. 8 del d.lgs. n. 281 del 1997.
6.– Infine, è impugnato l’art. 60, comma
1 e 2, del d.l. n. 5 del 2012, nella parte in cui, al comma 1, avvia la
sperimentazione della «carta acquisti» istituita dall’art. 81, comma 32, del
decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo
economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della
finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni,
dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, nei comuni con più di 250.000 abitanti e, al
comma 2, prevede l’emanazione di un decreto del Ministro del lavoro e delle
politiche sociali, da adottarsi di concerto con il Ministro dell’economia e
delle finanze, per la determinazione delle modalità esecutive della
sperimentazione.
L’art. 60 del d.l. n. 5 del 2012, come
si è detto, avvia una sperimentazione della carta acquisti istituita dall’art.
81, comma 32, del d.l. n. 112 del 2008 nei comuni con più di 250.000 abitanti,
al fine di favorirne la diffusione tra le fasce di popolazione in condizione di
maggiore bisogno, anche al fine di valutarne la possibile generalizzazione come
strumento di contrasto alla povertà assoluta.
Tale sperimentazione viene attuata
mediante un decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, adottato
di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, con il quale sono
stabiliti: a) i nuovi criteri di identificazione dei beneficiari per il tramite
dei Comuni, con riferimento ai cittadini italiani e di altri Stati dell’Unione
europea ovvero ai cittadini di Stati esteri in possesso del permesso di
soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo; b) l’ammontare della
disponibilità sulle singole carte acquisto, in funzione del nucleo familiare;
c) le modalità con cui i comuni adottano la carta acquisti, anche attraverso
l’integrazione o evoluzione del Sistema di gestione delle agevolazioni sulle
tariffe energetiche (SGATE), come strumento all’interno del sistema integrato
di interventi e servizi sociali di cui alla legge 8 novembre 2000, n. 328
(Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e
servizi sociali); d) le caratteristiche del progetto personalizzato di presa in
carico, volto al reinserimento lavorativo e all’inclusione sociale, anche
attraverso il condizionamento del godimento del beneficio alla partecipazione
al progetto; e) la decorrenza della sperimentazione, la cui durata non può
superare i dodici mesi; f) i flussi informativi da parte dei Comuni sul cui
territorio è attivata la sperimentazione, anche con riferimento ai soggetti
individuati come gruppo di controllo ai fini della valutazione della
sperimentazione stessa.
Per le risorse necessarie alla
sperimentazione si provvede, nel limite massimo di 50 milioni di euro,
attingendo al Fondo di cui all’art. 81, comma 29, del d.l. n. 112 del 2008, che
viene corrispondentemente ridotto.
Secondo la ricorrente, il comma 1 si
porrebbe in contrasto con l’art.117, quarto comma, Cost., che riserva alla
competenza legislativa residuale della Regione la materia dei servizi sociali e
di assistenza, e con l’art. 119 Cost., che vieta allo Stato di prevedere
finanziamenti a destinazione vincolata in ambiti di competenza regionale residuale
o concorrente, mentre il comma 2 violerebbe il principio di leale
collaborazione, nella parte in cui non prevede il necessario coinvolgimento
delle regioni nell’emanazione del citato decreto.
6.1.– La questione relativa al comma 1
dell’art. 60 del d.l. n. 5 del 2012 non è fondata.
Occorre premettere che la carta acquisti
è stata istituita dall’art. 81, comma 32, del d.l. n. 112 del 2008, richiamato
espressamente dalla norma impugnata e oggetto di una recente pronuncia di
questa Corte (sentenza
n. 10 del 2010).
In tale occasione si è ritenuto che:
«una normativa posta a protezione delle situazioni di estrema debolezza della
persona umana, qual è quella oggetto delle disposizioni impugnate, benché
incida sulla materia dei servizi sociali e di assistenza di competenza
residuale regionale, deve essere ricostruita anche alla luce dei principi
fondamentali degli artt. 2 e 3, secondo comma, Cost., dell’art. 38 Cost. e
dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost. Il complesso di queste norme
costituzionali permette, anzitutto, di ricondurre tra i "diritti sociali” di
cui deve farsi carico il legislatore nazionale il diritto a conseguire le
prestazioni imprescindibili per alleviare situazioni di estremo bisogno – in
particolare, alimentare – e di affermare il dovere dello Stato di stabilirne le
caratteristiche qualitative e quantitative, nel caso in cui la mancanza di una
tale previsione possa pregiudicarlo. Inoltre, consente di ritenere che la finalità
di garantire il nucleo irriducibile di questo diritto fondamentale legittima un
intervento dello Stato che comprende anche la previsione della appropriata e
pronta erogazione di una determinata provvidenza in favore dei singoli».
L’intervento dello Stato, dunque, è
stato ritenuto ammissibile quando, oltre a rispondere ai principi di
eguaglianza e solidarietà, presenti caratteri di straordinarietà, eccezionalità
e urgenza come quelli conseguenti alla situazione di crisi internazionale
economica e finanziaria che ha investito il nostro Paese.
La situazione di oggettiva gravità che
ha determinato l’adozione dello strumento della carta acquisti e le finalità
perseguite, ricollegabili direttamente ai principi fondamentali di cui agli
artt. 2 e 3 Cost., sono valse a differenziare tale intervento dalle ipotesi,
soltanto apparentemente omologhe, in cui il legislatore statale, in materie di
competenza regionale, prevede finanziamenti vincolati, ovvero rimette alle
Regioni l’istituzione di una determinata misura, pretendendo poi anche di
fissare la relativa disciplina.
Si è dunque ricondotta la disciplina
allora sottoposta al vaglio di questa Corte alla materia «determinazione dei
livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che
devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale» (art. 117, secondo
comma, lettera m, Cost.).
La norma in questa sede impugnata
presenta gli stessi aspetti di quella oggetto del precedente citato, sia in
relazione alle finalità di protezione delle situazioni di estrema debolezza
della persona umana, sia in relazione alla situazione di estrema gravità in
ordine alla crisi economica che ha investito il nostro paese i cui effetti,
purtroppo, si sono ulteriormente aggravati rispetto a quelli già riconosciuti
dalla sentenza
n. 10 del 2010 per gli anni 2008 e 2009.
In tale contesto deve riconoscersi il
potere per il legislatore statale ai sensi dell’art. 117, secondo comma,
lettera m), Cost. di assicurare le prestazioni imprescindibili per alleviare
situazioni di estremo bisogno, in particolare, alimentare. La finalità di
garantire il nucleo irriducibile di questi diritti fondamentali «legittima un
intervento dello Stato che comprende anche la previsione della appropriata e
pronta erogazione di una determinata provvidenza in favore dei singoli» (sentenza n. 10 del
2010).
Un tale intervento da parte dello Stato
deve, in altri termini, ritenersi ammissibile nel caso in cui esso risulti
necessario allo scopo di assicurare effettivamente la tutela di soggetti i
quali, versando in condizioni di estremo bisogno, vantino un diritto
fondamentale che, in quanto strettamente inerente alla tutela del nucleo
irrinunciabile della dignità della persona umana, soprattutto in presenza delle
peculiari situazioni sopra accennate, deve potere essere garantito su tutto il
territorio nazionale in modo uniforme, appropriato e tempestivo, mediante una
regolamentazione coerente e congrua rispetto a tale scopo (sentenze n. 166 del 2008
e n. 94 del 2007,
in riferimento al caso della determinazione dei livelli minimali di fabbisogno
abitativo, a tutela di categorie particolarmente svantaggiate e sentenza n. 10 del
2010).
6.2.– La questione relativa al comma 2
dell’art. 60 del d.l. sopra citato non è fondata.
La qualificazione della norma in esame
come esercizio della competenza dello Stato nella materia della «determinazione
dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali
che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale» (art. 117,
secondo comma, lettera m, Cost.) – in quanto la situazione eccezionale di crisi
economico-sociale ha ampliato i confini entro i quali lo Stato deve esercitare
la suddetta competenza legislativa esclusiva – rende inconferente il richiamo
della ricorrente al principio di leale collaborazione e comporta che spetta al
legislatore statale sia l’esercizio del potere regolamentare (art. 117, sesto
comma, Cost.), sia la fissazione della disciplina di dettaglio.
Tuttavia è necessario ribadire in questa
sede che «una volta cessata la situazione congiunturale che ha imposto un
intervento di politica sociale esteso alla diretta erogazione della
provvidenza, dagli strumenti di coinvolgimento delle regioni e delle province
autonome non si possa prescindere, avendo cura così di garantire anche la piena
attuazione del principio di leale collaborazione, nell’osservanza del riparto
delle competenze definito dalla Costituzione» (sentenza n. 10 del
2010).
LA CORTE COSTITUZIONALE
riservata a separate pronunce ogni
decisione sulle ulteriori questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto
altre disposizioni del decreto-legge 9 febbraio 2012, n. 5 (Disposizioni
urgenti in materia di semplificazione e di sviluppo), convertito, con
modificazioni, dalla legge 4 aprile 2012, n. 35, promosse dalla Regione Veneto
con il ricorso indicato in epigrafe;
1) dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’articolo 29, comma 2, del suddetto
decreto-legge n. 5 del 2012;
2) dichiara
inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 40 del
decreto-legge n. 5 del 2012, promossa dalla Regione Veneto, in riferimento
all’art. 117, quarto comma, della Costituzione, con il ricorso indicato in
epigrafe;
3) dichiara
non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 41, 50, comma
1, 53, comma 7, 60, commi 1 e 2, del decreto-legge n. 5 del 2012 promosse dalla
Regione Veneto, in riferimento agli artt. 117, terzo e quarto comma, Cost. e al
principio di leale collaborazione, con il ricorso indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della
Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 marzo 2013.
F.to:
Franco GALLO, Presidente
Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 5 aprile
2013.