SENTENZA N. 63
ANNO 2016
Commenti
alla decisione di
I. Marco Croce, L’edilizia
di culto dopo la sentenza n. 63/2016: esigenze di libertà, ragionevoli
limitazioni e riparto di competenze fra Stato e Regioni, per g.c. di Forum
di Quaderni Costituzionali
II. Angelo Licastro, La
Corte costituzionale torna protagonista dei processi di transizione della
politica ecclesiastica italiana?, per g.c. di Stato, Chiese e pluralismo confessionale
III. Jlia Pasquali Cerioli, Interpretazione
assiologica, principio di bilateralità pattizia e (in)eguale libertà di
accedere alle intese ex art. 8, terzo comma, Cost., per g.c. di Stato, Chiese e pluralismo confessionale
IV. Giuseppe Monaco, Confessioni
religiose: uguaglianza e governo del territorio (brevi osservazioni a margine
della sentenza della Corte costituzionale n. 63/2016), per g.c. di Forum
di Quaderni Costituzionali
V. Andrea Guazzarotti, Diritto
al luogo di culto ed eguaglianza tra Confessioni religiose: il rebus delle
competenze, per g.c. di Forum di Quaderni
Costituzionali
XV. Stefano Magnani, L’esercizio pubblico del culto. Le
preoccupazioni della Corte costituzionale nel suo ruolo di custode "tutelatrice” dei diritti fondamentali, per g.c. dell’Osservatorio AIC
XVI. Stefania Cantisani, Luci e ombre nella sentenza
Corte costituzionale n. 63 del 2016 (e nella connessa sentenza n. 52) tra
affermazioni di competenza ed esigenze di sicurezza, in questa Rivista, Studi 2017/I
XVII. Anna Lorenzetti, La
Corte costituzionale e l’edilizia di culto: alla ricerca di un difficile
equilibrio, fra riparto di competenze, libertà religiosa e il "convitato di
pietra” dell’emergenza terrorismo, per g.c. di Forum
di Quaderni Costituzionali
XVIII. Francesca Oliosi, La
Corte Costituzionale e la legge regionale lombarda: cronaca di una morte annunciata
o di un'opportunità mancata?, per g.c. di Stato,
Chiese e pluralismo confessionale
XIX. Caterina Tomba, Il
principio di laicità: mero strumento rafforzativo del principio di eguaglianza
"senza distinzione di religione” ovvero obbligo positivo nei confronti dei
pubblici poteri? Riflessioni a prima lettura delle sentenze n. 63 e n. 52 del
2016, per g.c. dell’Osservatorio AIC
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta
dai signori:
- Marta CARTABIA Presidente
- Giuseppe FRIGO Giudice
- Paolo GROSSI ”
- Aldo CAROSI ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha
pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di
legittimità costituzionale degli artt. 70, commi 2, 2-bis, 2-ter e 2-quater,
e 72, commi 4, 5 e 7, lettere e) e g), della legge
della Regione Lombardia 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del
territorio), come modificati dall’art. 1, comma
1, lettere b) e c), della legge
della Regione Lombardia 3 febbraio 2015, n. 2, recante «Modifiche alla legge
regionale 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) – Principi
per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi», promosso
dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso
notificato il 3-7 aprile 2015, depositato in cancelleria il 9 aprile 2015 ed
iscritto al n. 47 del registro ricorsi 2015.
Visto l’atto di costituzione della Regione Lombardia, nonché l’atto di
intervento dell’Associazione VOX – Osservatorio italiano sui Diritti;
udito nell’udienza pubblica del 23 febbraio 2016 il Giudice relatore Marta Cartabia;
uditi l’avvocato dello Stato Massimo Giannuzzi per il
Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Pio Dario Vivone per la Regione Lombardia.
Ritenuto in fatto
1.– Con
ricorso notificato il 3-7 aprile 2015 e depositato il 9 aprile 2015 (reg. ric.
n. 47 del 2015), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato gli artt. 70, commi
2, 2-bis, 2-ter
e 2-quater, e 72, commi 4, 5 e 7,
lettere e) e g),
della legge della Regione Lombardia 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo
del territorio), come modificati dall’art. 1, comma 1, lettere b) e c),
della legge della Regione Lombardia 3 febbraio 2015, n. 2, recante «Modifiche
alla legge regionale 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio)
– Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi».
1.1.–
In premessa, il ricorrente riporta il contenuto dei citati artt. 70 e 72 della
l. reg. Lombardia n. 12 del 2005, nel testo anteriore e successivo alle
modifiche oggetto di censura.
1.1.1.–
Prima delle modifiche, l’art. 70, comma 2, regolava l’applicazione agli enti
delle confessioni religiose diverse da quella cattolica delle disposizioni del
capo della legge regionale n. 12 del 2005, del quale lo stesso art. 70 faceva
(e fa) parte: il Capo III del Titolo IV della Parte II, intitolato «Norme per
la realizzazione di edifici di culto e di attrezzature destinate a servizi
religiosi», il quale comprende gli articoli da 70 a 73 e dispone, tra l’altro,
in merito alla pianificazione di tali edifici e attrezzature (art. 72), nonché
ai finanziamenti per la loro realizzazione, per gli interventi su di essi e per
l’acquisto delle aree necessarie (art. 73).
Nella versione anteriore alle modifiche
in questione, l’art. 70, comma 2, affermava l’applicabilità delle norme citate
agli enti delle confessioni religiose diverse da quella cattolica, «come tali
qualificate in base a criteri desumibili dall’ordinamento ed aventi una
presenza diffusa, organizzata e stabile nell’ambito del comune ove siano
effettuati gli interventi disciplinati [dal Capo III], ed i cui statuti
[esprimessero] il carattere religioso delle loro finalità istituzionali e
previa stipulazione di convenzione tra il comune e le confessioni interessate».
L’art. 1, comma 1, lettera b), della legge regionale n. 2 del 2015 ha
sostituito l’art. 70, comma 2, e ha inserito, dopo di esso, i commi 2-bis, 2-ter
e 2-quater.
In seguito a tali modifiche, le
disposizioni del più volte citato Capo III si applicano, oltre che agli enti di
culto della Chiesa cattolica (art. 70, comma 1), anche a quelli delle
confessioni religiose per le quali lo Stato ha già approvato con legge la
relativa intesa, ai sensi dell’art. 8, terzo comma, della Costituzione (art.
70, comma 2), nonché agli enti delle altre confessioni che presentino i
seguenti requisiti: una «presenza diffusa, organizzata e consistente a livello
territoriale» e «un significativo insediamento nell’ambito del comune nel quale
vengono effettuati gli interventi» (art. 70, comma 2-bis,
lettera a); statuti che esprimano il
carattere religioso degli enti stessi «e il rispetto dei principi e dei valori
della Costituzione» (art. 70, comma 2-bis,
lettera b).
Ai fini dell’applicazione di quanto
previsto nel Capo III, gli enti delle confessioni religiose diverse da quella
cattolica devono stipulare una «convenzione a fini urbanistici» con il Comune
interessato (art. 70, comma 2-ter,
primo periodo), la quale deve a sua volta prevedere espressamente la
possibilità di risoluzione o revoca «in caso di accertamento da parte del
Comune di attività non previste nella convenzione (art. 70, comma 2-ter, secondo periodo).
Allo scopo di consentire ai Comuni la
corretta applicazione delle norme per la realizzazione di edifici di culto e
attrezzature destinate a servizi religiosi, è previsto che la sussistenza dei
requisiti di cui all’art. 70, comma 2-bis
sia oggetto di un «parere preventivo e obbligatorio» di una consulta regionale,
istituita e nominata con provvedimento della Giunta regionale, che ne
disciplina altresì composizione e modalità di funzionamento (art. 70, comma 2-quater).
1.1.2.–
L’art. 72 della legge regionale n. 12 del 2005, prima delle modifiche oggetto
di censura, demandava al piano dei servizi di ciascun Comune – previa
valutazione delle istanze avanzate dagli enti delle confessioni religiose di
cui al precedente art. 70 – il compito di individuare, dimensionare e
disciplinare le aree che accogliessero attrezzature religiose o fossero a ciò
destinate. Tra l’altro, l’art. 72 prescriveva che il piano dei servizi
assicurasse nuove aree per le attrezzature religiose in tutti i nuovi
insediamenti residenziali, qualunque fosse la dotazione di tali attrezzature
già esistente (comma 2); consentiva, altresì, ai Comuni la previsione di aree
destinate ad accogliere attrezzature religiose di interesse sovracomunale
(comma 3); stabiliva che le aree destinate ad accogliere attrezzature religiose
fossero ripartite tra gli enti che ne avessero fatto istanza in base alla
consistenza e incidenza sociale delle rispettive confessioni (comma 4).
Dopo la novella di cui all’art. 1, comma
1, lettera c), della legge regionale n.
2 del 2015, l’art. 72 prevede che individuazione, dimensionamento e disciplina
delle aree che accolgono, o sono destinate ad accogliere, attrezzature
religiose avvenga attraverso il piano delle attrezzature religiose, «atto separato
facente parte del piano dei servizi», in base alle esigenze locali e valutate
le istanze degli enti di cui all’art. 70 (art. 72, comma 1).
L’installazione di nuove attrezzature
religiose presuppone l’approvazione del piano omonimo (art. 72, comma 2), la
quale deve avvenire con le stesse procedure previste per gli altri piani che
compongono il piano di governo del territorio (art. 72, comma 3, che rinvia
all’art. 13 della stessa legge regionale n. 12 del 2005). Nel relativo
procedimento, «vengono acquisiti i pareri di organizzazioni, comitati di
cittadini, esponenti e rappresentanti delle forze dell’ordine oltre agli uffici
provinciali di questura e prefettura al fine di valutare possibili profili di
sicurezza pubblica, fatta salva l’autonomia degli organi statali» (art. 72,
comma 4, primo periodo). Inoltre, «[r]esta ferma la facoltà per i comuni di
indire referendum nel rispetto delle
previsioni statutarie e dell’ordinamento statale» (art. 72, comma 4, secondo
periodo). «I comuni che intendono prevedere nuove attrezzature religiose sono
tenuti ad adottare e approvare il piano delle attrezzature religiose» entro
diciotto mesi dall’entrata in vigore della legge regionale n. 2 del 2015 (art.
72, comma 5, primo periodo), avvenuta (a norma dell’art. 2 della stessa legge)
il giorno dopo la sua pubblicazione nel Supplemento al Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia 5 febbraio 2015, n. 6. Decorso
tale termine, il piano delle attrezzature religiose deve essere approvato
unitamente al nuovo piano di governo del territorio (art. 72, comma 5, secondo
periodo).
L’art. 72, oltre a disporre in merito
alla possibile valenza sovracomunale del piano delle attrezzature religiose
(comma 6), stabilisce che il piano debba prevedere (comma 7): a) la presenza o,
altrimenti, l’esecuzione o adeguamento, con onere a carico dei richiedenti, di
strade di collegamento di dimensioni adeguate; b) la presenza o, altrimenti,
l’esecuzione o adeguamento, con onere a carico dei richiedenti, di adeguate
opere di urbanizzazione primaria; c) distanze adeguate tra aree ed edifici
destinati a confessioni diverse, nel rispetto di minimi stabiliti con
deliberazione della Giunta regionale; d) spazi da destinare a parcheggi, in
misure determinate dalla legge stessa ed eventualmente, in aggiunta, dal piano
dei servizi; e) la realizzazione, con onere a carico dei richiedenti, di
impianti di videosorveglianza esterni all’edificio che vigilino su ogni punto
d’ingresso e siano collegati con uffici di polizia; f) la realizzazione di
adeguati servizi igienici e l’accessibilità ai disabili; g) la «congruità
architettonica e dimensionale degli edifici di culto previsti con le
caratteristiche generali e peculiari del paesaggio lombardo», come individuate
nel piano territoriale regionale (di cui agli artt. 19 e seguenti della
medesima legge regionale n. 12 del 2005).
Ai sensi del suo comma 8, l’art. 72,
come modificato, non si applica alle attrezzature religiose già esistenti
all’entrata in vigore della legge regionale n. 2 del 2015.
1.2.–
Tanto premesso, il ricorrente formula otto motivi di censura nei confronti di
diverse parti degli artt. 70 e 72 della legge regionale n. 12 del 2005, come
modificati, rispettivamente, dall’art. 1, comma 1, lettere b) e c)
della legge regionale n. 2 del 2015.
1.2.1.–
Nel primo motivo si osserva che, nel novellato art. 70, i commi 2 e 2-bis – ed in ispecie la lettera a) del comma 2-bis
– contrastano con gli artt.
3, 8 e 19 Cost., in quanto
essi «introducono un’irragionevole disparità di trattamento a danno delle
confessioni acattoliche prive di intesa o con intesa non ancora approvata con
legge, rispetto alla Chiesa Cattolica e alle altre confessioni religiose con
intesa già approvata con legge». In proposito, il ricorrente rileva che «la
tutela della libertà religiosa per le confessioni diverse dalla cattolica esige
cura e attenzione particolari nella considerazione che le condizioni di queste
confessioni (ancor più di quelle di nuova formazione) sono disagiate e precarie
proprio in materia di edifici di culto e di attrezzature religiose essenziali».
Interponendo difficoltà e complicazioni (amministrative, finanziarie e
logistiche) alla realizzazione di nuovi templi, le norme in questione
discriminerebbero irragionevolmente tra soggetti portatori di interessi
identici, limitando e ostacolando l’esercizio della libertà religiosa e in
particolare della libertà di professare la propria fede in forma associata ed
esercitarne il culto in privato o in pubblico (è richiamata in proposito la sentenza della
Corte costituzionale n. 195 del 1993).
1.2.2.–
I commi 2-bis, lettera b), e 2-quater
dell’art. 70 sono censurati per violazione dell’art. 117, secondo comma,
lettera c), Cost. Ad avviso del ricorrente, il contrasto sussiste in
quanto «la valutazione dei requisiti di cui al comma 2-bis (presenza diffusa, organizzata e
consistente a livello territoriale e significativo insediamento nell’ambito del
comune nel quale vengono effettuati gli interventi […], carattere religioso
delle finalità istituzionali e rispetto dei principi e dei valori della
Costituzione da parte degli enti delle confessioni religiose) viene, ai sensi
del comma 2-quater, affidata a una
"consulta regionale”, da nominarsi con provvedimento della Giunta regionale,
competente al rilascio di un parere preventivo e obbligatorio sulla sussistenza
dei requisiti di cui al menzionato comma 2-bis».
In particolare, è denunciata come lesiva delle attribuzioni costituzionalmente
riservate allo Stato la circostanza che si affidi a un organo regionale la
valutazione di caratteristiche degli enti confessionali, quali le loro finalità
istituzionali e il rispetto dei principi e dei valori costituzionali.
1.2.3.–
Il comma 2-ter dell’art. 70 è censurato
per violazione dell’art.
19 Cost., poiché definirebbe con una formula troppo generale e generica i
presupposti della risoluzione o revoca della convenzione, che il Comune può
disporre unilateralmente. In proposito, si osserva che un ente confessionale
ben potrebbe svolgere, purché nel rispetto della pertinente legislazione,
attività anche diverse da quelle di religione e culto, ad esempio di carattere
culturale o sportivo.
1.2.4.–
I commi 2-bis, 2-ter e 2-quater
dell’art. 70 sono inoltre complessivamente censurati per violazione dell’art. 117, commi primo e
secondo, lettera a), Cost., nei quali sarebbero «consacrati» i
«principi europei ed internazionali in materia di libertà di religione e di
culto». In particolare sono richiamati: a) il Trattato sul funzionamento
dell’Unione europea, i cui artt. 10, 17 e 19 impegnano l’Unione a lottare
contro le discriminazioni religiose nell’elaborazione e nell’attuazione delle
politiche europee, affermano il principio del dialogo con le confessioni
religiose, salvaguardano i sistemi nazionali di disciplina dei rapporti tra le
confessioni e gli Stati e affermano la competenza dell’Unione nell’elaborazione
di provvedimenti per contrastare le discriminazioni fondate sulla religione; b)
la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (proclamata a Nizza il 7
dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007), i cui artt. 10, 21
e 22 tutelano la diversità religiosa, garantiscono la libertà di religione e
vietano discriminazioni basate sulla religione; c) il Patto internazionale sui
diritti civili e politici (adottato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato
e reso esecutivo in Italia con legge 25 ottobre 1977, n. 881), il cui art. 18
(interpretato anche alla luce del Commento generale adottato il 20 luglio 1993
dal Comitato per i diritti umani dell’Organizzazione delle Nazioni Unite)
obbliga gli Stati contraenti a rispettare la libertà di religione, la quale si
estende a tutti gli atti che siano espressione diretta di fede, ivi compresa la
realizzazione di luoghi dedicati al culto e alla discussione egli interessi
sociali e culturali della comunità, nonché ad adottare misure infrastrutturali
e condizioni favorevoli per facilitare lo sviluppo libero e non discriminatorio
delle comunità religiose e dei loro membri, con i soli limiti, previsti dalla
legge, che siano necessari – secondo canoni di proporzionalità e diretta
correlazione – alla tutela della sicurezza pubblica, dell’ordine pubblico,
della sanità pubblica, della morale pubblica o di altri diritti e libertà
fondamentali, vietando comunque qualsiasi restrizione imposta o applicata per
fini discriminatori.
1.2.5.–
I [commi 4 e 7: parole sostituite dalle
seguenti: commi 4, primo periodo e 7, con
ordinanza correttiva n. 150 del 2016], lettera e),
dell’art. 72 della legge regionale n. 12 del 2005 (come introdotti dall’art. 1,
comma 1, lettera c) della legge
regionale n. 2 del 2015) sono censurati per violazione degli artt. 117, secondo
comma, lettera h), e 118, terzo comma, Cost.
Le relative norme, prescrivendo l’acquisizione di pareri inerenti a possibili
questioni di sicurezza pubblica, nonché l’installazione di impianti di
videosorveglianza, disporrebbero nella materia «ordine pubblico e sicurezza»,
rimessa alla competenza esclusiva della legge statale, alla quale pure è
riservata la prerogativa di disciplinare eventuali forme di coordinamento tra
Stato e Regioni nella stessa materia. Sono richiamate, in particolare, la sentenza n. 45 del
1957, la quale ha negato la sussistenza, nell’ordinamento vigente, di una
corrispondenza necessaria tra libertà costituzionali e poteri di controllo
preventivo da parte dell’autorità di pubblica sicurezza; nonché la sentenza n. 325 del
2011, dove la Corte ha chiarito che l’esercizio di una competenza propria
della Regione non deve tradursi in uno strumento di politica criminale, né
generare interferenze, anche solo potenziali, con la disciplina statale di
prevenzione e repressione dei reati.
1.2.6.–
L’art. 72, comma 4, ultimo periodo, è censurato per violazione dell’art. 19 Cost., dal
momento che, affermando la facoltà dei Comuni di indire referendum in merito ai piani delle attrezzature religiose, farebbe
sì che la possibilità di destinare a tali attrezzature determinate aree risulti
«subordinata a decisioni espressione di maggioranze politiche o culturali o
altro». È richiamata la sentenza n. 59 del
1958, con cui la Corte ha ricondotto all’ampia formula dell’art. 19 Cost.
tutte le manifestazioni del culto, compresa l’apertura di templi e oratori.
1.2.7.–
L’art. 72, comma 7, lettera g), è
censurato per violazione degli artt. 3, 8 e 19 Cost. perché,
richiamando con formula «già di per sé ambigua e non priva di una qualche
inafferrabilità concettuale», le caratteristiche generali e peculiari del
paesaggio lombardo, si presterebbe ad applicazioni così ampiamente
discrezionali, da consentire facilmente applicazioni discriminatorie nei
confronti di alcuni enti religiosi, tenuto conto delle specificità stilistiche
e architettoniche che possono contraddistinguerne i luoghi di culto, per
ragioni legate alla storia nazionale e a quella delle singole confessioni.
1.2.8.–
Infine, l’art. 72, comma 5, contrasterebbe con l’art. 117, secondo comma,
lettera l), Cost., in quanto stabilirebbe la mera facoltà, per i
Comuni che intendano farlo, e non l’obbligo per tutti i Comuni di prevedere la
realizzazione di nuove attrezzature religiose attraverso l’apposito piano. Per
contro, l’art. 3 del decreto del Ministero dei lavori pubblici 2 aprile 1968,
n. 1444 (Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i
fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti
residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività
collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della
formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli
esistenti, ai sensi dell’art. 17 della L. 6 agosto 1967, n. 765), nel
determinare i rapporti massimi tra gli spazi destinati a insediamenti
residenziali e quelli pubblici o riservati ad attività collettive, richiede che
nella programmazione territoriale comunale siano individuati almeno 2 metri
quadrati per abitante da destinare ad attrezzature di interesse comune, tra cui
quelle religiose. Ad avviso del ricorrente, tale previsione di dotazioni minime
ha carattere inderogabile, attiene alla materia dell’«ordinamento civile» e
risponde a esigenze pubbliche sovrastanti gli interessi dei singoli (sono
richiamate le sentenze n. 232 del 2005
e n. 120 del 1996).
2.– Con
atto depositato il 13 maggio 2015, si è costituita in giudizio la Regione
Lombardia, in persona del Presidente della Giunta regionale in carica,
eccependo l’inammissibilità e l’infondatezza delle questioni sollevate dal
Presidente del Consiglio dei ministri.
2.1.–
La Regione premette una ricognizione dei contenuti degli artt. 70 e 72, con
particolare riguardo alle principali innovazioni apportate ad essi dalla legge
regionale n. 2 del 2015.
Tra l’altro, con riguardo all’art. 70,
la Regione osserva che, prima di tali innovazioni, era previsto un «regime
base» per la Chiesa cattolica, e uno «collaterale» per le altre confessioni,
cui il regime di base era esteso. Attualmente, sarebbero previsti due modelli
«base», pienamente equiparati, per la Chiesa cattolica e le confessioni
religiose per le quali un’intesa sia stata stipulata e approvata con legge; e
un «modello collaterale», per le altre confessioni. Tra le ulteriori novità, la
difesa regionale segnala il requisito, per le confessioni per cui non sia stata
approvata un’intesa con legge, del rispetto dei principi e dei valori della
Costituzione; la risolvibilità della convenzione a fini urbanistici con il
Comune, nel caso di violazione della stessa; l’istituzione di una consulta
regionale che rilasci ai Comuni pareri preventivi e obbligatori, ma non
vincolanti, in merito ai requisiti delle confessioni per cui non sia stata
approvata un’intesa con legge.
2.2.–
Dopo avere ripercorso anche i contenuti dell’art. 72 oggetto di censura, la
Regione replica a ciascuno dei motivi di ricorso.
2.2.1.–
In risposta alle censure rivolte contro l’art. 70, commi 2 e 2-bis, lettera a),
anche la difesa regionale si riporta alla sentenza n. 195 del
1993, per distinguere quanto ivi è stato affermato in merito ai contributi
regionali, alla pianificazione urbanistica delle infrastrutture religiose e,
soprattutto, alla nozione di confessione religiosa rilevante a tali fini. Da un
lato, sarebbe discriminatoria, e contrastante con l’art. 8, primo comma, Cost.,
l’esclusione dai benefici finanziari (vale a dire, dall’attribuzione delle
risorse ricavate dagli oneri di urbanizzazione) delle confessioni per le quali
non sussistano le condizioni di cui all’art. 8, commi secondo e terzo, Cost.;
dall’altro, però, per l’ammissione ai predetti benefici non può bastare l’auto-qualificazione
del richiedente come confessione religiosa; d’altra parte, in mancanza di
intesa, la natura religiosa deve risultare da indici quali precedenti
riconoscimenti pubblici, da chiare enunciazioni statutarie o dalla comune
considerazione.
A fronte del crescente pluralismo
religioso, sociale e culturale che si riscontra nel territorio italiano e
lombardo, si pone per tutti «la necessità, a fini regolativi, di distinguere
tra edifici di culto e sedi di circoli, comitati e associazioni, pur essi da
tutelare in quanto espressione di principi costituzionali (libertà di
associazione, di riunione, di comunicazione)». Le norme in questione avrebbero
inteso predeterminare «criteri e parametri utili(zzabili)»
in concreto, al fine della identificazione di una confessione religiosa,
sopperendo alle difficoltà testimoniate anche dal crescente contenzioso
amministrativo in materia.
Chiarito ciò, la difesa regionale
ribadisce che le norme di cui al Capo III del Titolo IV della Parte II della
legge regionale n. 12 del 2015 (recte:
2005) per la realizzazione di edifici di culto e attrezzature destinate a
servizi religiosi si applicano a tutte le confessioni e che, d’altra parte,
considerata anche la rilevanza urbanistico-territoriale di tali infrastrutture,
non è irragionevole verificare che l’ente promotore sia mosso effettivamente da
una finalità di culto, «non socio-politico-assistenziale-culturale», e sia in
grado di dimostrare la sussistenza di una «domanda non insignificante», sul
territorio, di attività religiose, «onde evitare che sorgano sedi poi
"utilizzate” per finalità diverse (anche commerciali)».
2.2.2.–
In replica alle censure rivolte contro l’art. 70, commi 2-bis, lettera b),
e 2-quater, la difesa regionale osserva
che il riscontro del carattere religioso degli enti e delle loro finalità
istituzionali era già previsto nella precedente legislazione, non è mai stato
contestato ed è inevitabilmente affidato, in tutte le leggi regionali in
materia, ad autorità diverse da quella statale. L’istituzione di un’apposita
consulta regionale è rispettosa delle attribuzioni dei Comuni, poiché la
consulta rilascia pareri non vincolanti, né è irragionevole o superflua, atteso
che, in una materia così delicata, disporre di parametri omogenei e affidati
alla valutazione di esperti favorirebbe la corretta applicazione della legge.
2.2.3.–
A proposito dell’art. 70, comma 2-ter,
e di quanto ivi previsto in merito alla risoluzione della convenzione con il
Comune ove questo accerti lo svolgimento di attività non previste, la Regione
osserva che il legislatore regionale non ha inteso vietare che un ente
confessionale svolga attività diverse da quelle di culto, ma solo richiedere
che esse siano regolate nella convenzione. La revoca della convenzione stessa,
peraltro, sarebbe soggetta alle norme di «tutela dei terzi contraenti» previste
dall’ordinamento civile e amministrativo, sicché eventuali abusi potrebbero
essere accertati e sanzionati in sede giudiziaria.
2.2.4.–
Sarebbero inammissibili, perché generiche, le censure rivolte all’art. 70,
commi 2-bis, 2-ter e 2-quater
in relazione ai richiamati «principi europei e internazionali», i quali
sarebbero pienamente rispettati dalle norme in questione le quali, anzi, li
valorizzerebbero attraverso una regolazione che ne garantisce l’effettività.
Per di più, il legislatore lombardo rimarca la propria scelta innovativa di
includere nel concetto di attrezzature religiose anche gli immobili destinati a
sedi di associazioni, società o comunità di persone, in qualsiasi forma
costituite, le cui finalità statutarie o aggregative siano da ricondurre alla
religione, all’esercizio del culto o alla professione religiosa, quali sale di
preghiera, scuole di religione o centri culturali (art. 71, comma 1, lettera c-bis), della legge regionale n. 12 del 2005,
introdotta dall’art. 12, comma 1, lettera m),
della legge della Regione Lombardia 21 febbraio 2011, n. 3 (Interventi
normativi per l’attuazione della programmazione regionale e di modifica e
integrazione di disposizioni legislative – Collegato ordinamentale 2011). La
Regione respinge, pertanto, la critica di avere nutrito intenti discriminatori;
al contrario, sostiene che dinanzi alla propria legge tutte le confessioni
siano ugualmente libere e responsabili, «non potendo sussistere libertà senza
responsabilità verso i propri fedeli, ma anche verso il territorio di
insediamento»; aggiunge che ogni regolazione implica una restrizione, legittima
purché ragionevolmente finalizzata alla tutela di altri diritti e libertà
fondamentali.
2.2.5.–
Quanto alla denunciata violazione degli artt. 117, secondo comma, lettera h), e 118, terzo comma, Cost. da parte
dell’art. 72, commi 4 e 7, lettera e),
della legge regionale n. 12 del 2005 (introdotti dall’art. 1, comma 1, lettera c, della legge regionale n. 2 del 2015), la
resistente ne contesta la sussistenza, considerato che il citato art. 72, comma
4, prevede espressamente che il coinvolgimento degli organi statali debba
avvenire secondo modalità rispettose della loro autonomia, secondo una prassi
secolare, espressione di leale collaborazione.
2.2.6.–
In replica alle censure rivolte all’art. 72, comma 4, ultimo periodo, per
violazione dell’art. 19 Cost., si osserva che la facoltà per i Comuni di sentire
i propri cittadini non altera in alcun modo le competenze degli enti locali, ma
si limita a suggerire un possibile modulo di consultazione, che non è estraneo
alle attività pianificatorie e territoriali ma, anzi,
ne costituisce fattore di legittimazione, in coerenza con il principio di
sussidiarietà orizzontale previsto dall’art. 118, comma quarto, Cost.
2.2.7.–
Anche le censure rivolte all’art. 72, comma 7, lettera g), sarebbero infondate, dal momento che le
caratteristiche del paesaggio lombardo, oggetto di tutela, sarebbero
qualificate nel piano territoriale regionale e che già oggi la pianificazione
comunale detta norme e indirizzi affinché la realizzazione degli edifici (a uso
pubblico, privato e produttivo) avvenga in armonia con il contesto paesaggistico
ed edilizio, tenuto conto delle sue specificità – considerato che, ad esempio,
un edificio moderno e innovativo per forma o materiali può ragionevolmente
trovare migliore collocazione in un ambito di recente edificazione, che in un
centro storico.
2.2.8.–
Da ultimo, rispondendo alle censure indirizzate all’art. 72, comma 5, per
violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera l),
Cost. e, segnatamente, di quanto previsto all’art. 3 del d.m. n. 1444 del 1968,
la Regione osserva che l’approvazione del piano delle attrezzature religiose
non è facoltativa: deve avvenire entro diciotto mesi dall’entrata in vigore
della legge regionale n. 2 del 2015, oppure unitamente al nuovo piano di
governo del territorio. Dal canto suo, l’art. 3 del d.m. n. 1444 del 1968 non
prevede l’obbligo di realizzare sempre e comunque nuove attrezzature religiose,
mentre è proprio la normativa censurata a precisare le modalità con cui il
Comune disciplina la nuova, e aggiuntiva, realizzazione di tali infrastrutture.
In ogni caso, il vigente Titolo V della Parte II della Costituzione sarebbe
ispirato da una forte valorizzazione delle potestà comunali in materia di
pianificazione territoriale: ben al di là di quanto previsto nella legge 6
agosto 1967, n. 765 (Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica 17 agosto
1942, n. 1150) alla quale il d.m. n. 1444 del 1968 dà attuazione, il Comune
sarebbe in seguito divenuto diretto «responsabile delle scelte di governo del
territorio», titolare di «una competenza pianificatoria
non più eterodiretta che trova la sua giustificazione nella maggiore capacità
dell’ente di rilevare interessi, materiali, spirituali, culturali,
eminentemente locali, facendosene naturale interprete».
3.– Con
atto depositato l’11 maggio 2015, è intervenuta nel giudizio l’Associazione VOX
– Osservatorio italiano sui Diritti. Con memoria depositata il 12 ottobre 2015,
l’interveniente ha sostenuto l’illegittimità costituzionale della legge
regionale n. 2 del 2015.
Considerato in diritto
1.– Con
ricorso notificato il 3-7 aprile 2015 e depositato il 9 aprile 2015 (reg. ric.
n. 47 del 2015), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato gli artt. 70, commi
2, 2-bis, 2-ter
e 2-quater, e 72, commi 4, 5 e 7,
lettere e) e g),
della legge della Regione Lombardia 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo
del territorio), come modificati dall’art. 1, comma 1, lettere b) e c),
della legge della Regione Lombardia 3 febbraio 2015, n. 2, recante «Modifiche
alla legge regionale 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio)
– Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi».
2.–
L’intervento nel giudizio dell’Associazione VOX – Osservatorio italiano sui
Diritti non è ammissibile.
Il giudizio di costituzionalità delle
leggi, promosso in via d’azione ai sensi dell’art. 127 della Costituzione e
degli artt. 31 e seguenti della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla
costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), si svolge
esclusivamente tra soggetti titolari di potestà legislativa, fermi restando,
per i soggetti privi di tale potestà, gli altri mezzi di tutela giurisdizionale
eventualmente esperibili. Pertanto, non è ammesso, nei giudizi di
costituzionalità delle leggi promossi in via d’azione, l’intervento di soggetti
privi di potere legislativo (ex plurimis, sentenze n. 118 e n. 31 del 2015,
n. 210 del 2014,
n. 285, n. 220 e n. 118 del 2013).
3.– Le
disposizioni regionali impugnate apportano alcune modificazioni alla legge
regionale per il governo del territorio n. 12 del 2005, intervenendo sui
principi relativi alla pianificazione delle attrezzature per i servizi
religiosi. Il ricorso del Presidente del Consiglio si articola in numerose
censure che lamentano tanto la violazione dell’eguale libertà religiosa di tutte
le confessioni, garantita dai principi costituzionali e dal diritto
internazionale e sovranazionale, quanto l’eccesso di competenza legislativa da
parte della Regione.
4.–
All’esame delle singole censure, occorre premettere alcune considerazioni sui
principi costituzionali in materia di libertà religiosa e di status delle confessioni religiose con e
senza intesa con lo Stato.
4.1.–
L’ordinamento repubblicano è contraddistinto dal principio di laicità, da
intendersi, secondo l’accezione che la giurisprudenza costituzionale ne ha dato
(sentenze n. 508
del 2000, n.
329 del 1997, n.
440 del 1995, n.
203 del 1989), non come indifferenza di fronte all’esperienza religiosa, bensì
come salvaguardia della libertà di religione in regime di pluralismo
confessionale e culturale: compito della Repubblica è «garantire le condizioni
che favoriscano l’espansione della libertà di tutti e, in questo ambito, della
libertà di religione», la quale «rappresenta un aspetto della dignità della
persona umana, riconosciuta e dichiarata inviolabile dall’art. 2» Cost. (sentenza n. 334 del
1996).
Il libero esercizio del culto è un
aspetto essenziale della libertà di religione (art. 19) ed è, pertanto,
riconosciuto egualmente a tutti e a tutte le confessioni religiose (art. 8,
primo e secondo comma), a prescindere dalla stipulazione di una intesa con lo
Stato. Come questa Corte ha recentemente ribadito, altro è la libertà
religiosa, garantita a tutti senza distinzioni, altro è il regime pattizio
(artt. 7 e 8, terzo comma, Cost.), che si basa sulla «concorde volontà» del Governo e delle confessioni religiose
di regolare specifici aspetti del rapporto di queste ultime con l’ordinamento
giuridico statale (sentenza n. 52 del
2016). Data l’ampia discrezionalità politica del Governo in materia, il
concordato o l’intesa non possono costituire condicio
sine qua non per l’esercizio della libertà religiosa; gli accordi
bilaterali sono piuttosto finalizzati al soddisfacimento di «esigenze specifiche di ciascuna delle confessioni religiose
(sentenza n. 235
del 1997), ovvero a concedere loro particolari vantaggi o eventualmente a
imporre loro particolari limitazioni (sentenza n. 59 del
1958), ovvero ancora a dare rilevanza, nell’ordinamento, a specifici atti
propri della confessione religiosa» (sentenza n. 52 del
2016).
Per questo, in materia di libertà religiosa, la giurisprudenza di questa Corte è costante nell’affermare che «il legislatore non può operare discriminazioni tra confessioni religiose in base alla sola circostanza che esse abbiano o non abbiano regolato i loro rapporti con lo Stato tramite accordi o intese (sentenze n. 346 del 2002 e n. 195 del 1993)» (sentenza n. 52 del 2016). Di conseguenza, quando tale libertà e il suo esercizio vengono in rilievo, la tutela giuridica deve abbracciare allo stesso modo l’esperienza religiosa di tutti, nella sua dimensione individuale e comunitaria, indipendentemente dai diversi contenuti di fede; né in senso contrario varrebbero considerazioni in merito alla diffusione delle diverse confessioni, giacché la condizione di minoranza di alcune confessioni non può giustificare un minor livello di protezione della loro libertà religiosa rispetto a quella delle confessioni più diffuse (sentenza n. 329 del 1997).
4.2.–
L’apertura di luoghi di culto, in quanto forma e
condizione essenziale per il pubblico esercizio dello stesso, ricade nella
tutela garantita dall’art. 19 Cost., il quale riconosce a tutti il diritto di
professare la propria fede religiosa, in qualsiasi forma, individuale o
associata, di farne propaganda e di esercitare in privato o in pubblico il
culto, con il solo limite dei riti contrari al buon costume. L’esercizio della
libertà di aprire luoghi di culto, pertanto, non può essere condizionato a una
previa regolazione pattizia, ai sensi degli artt. 7 e 8, terzo comma, Cost.:
regolazione che può ritenersi necessaria solo se e in quanto a determinati atti
di culto vogliano riconnettersi particolari effetti civili (sentenza n. 59 del
1958).
Più in particolare, nell’esaminare
questioni in parte simili alle odierne, questa Corte ha già affermato che, in
materia di edilizia di culto, «tutte le confessioni religiose sono idonee a
rappresentare gli interessi religiosi dei loro appartenenti» e la previa
stipulazione di un’intesa non può costituire «l’elemento di discriminazione
nell’applicazione di una disciplina, posta da una legge comune, volta ad
agevolare l’esercizio di un diritto di libertà dei cittadini», pena la
violazione del principio affermato nel primo comma dell’art. 8 Cost., oltre che
nell’art. 19 Cost. (sentenza n. 195 del
1993). Al riguardo, vale il divieto di discriminazione, sancito in generale
dall’art. 3 Cost. e ribadito, per quanto qui specificamente interessa, dagli
artt. 8, primo comma, 19 e 20 Cost.; e ciò anche per assicurare «l’eguaglianza
dei singoli nel godimento effettivo della libertà di culto, di cui l’eguale
libertà delle confessioni di organizzarsi e di operare rappresenta la
proiezione necessaria sul piano comunitario» (sentenza n. 346 del
2002).
Ciò non vuol dire – come ha chiarito la
stessa giurisprudenza già citata e come si dirà ancora più avanti – che a tutte
le confessioni debba assicurarsi un’eguale porzione dei contributi o degli
spazi disponibili: come è naturale allorché si distribuiscano utilità limitate,
quali le sovvenzioni pubbliche o la facoltà di consumare suolo, si dovranno
valutare tutti i pertinenti interessi pubblici e si dovrà dare adeguato rilievo
all’entità della presenza sul territorio dell’una o dell’altra confessione,
alla rispettiva consistenza e incidenza sociale e alle esigenze di culto
riscontrate nella popolazione.
5.–
Alla luce di tali principi, costantemente affermati dalla giurisprudenza di
questa Corte, sono fondate le questioni di legittimità costituzionale aventi ad
oggetto i commi 2, 2-bis, lettere a) e b),
e 2-quater, dell’art. 70 della legge regionale
n. 12 del 2005, come modificati dall’art. 1, comma 1, lettera b), della legge regionale n. 2 del 2015, per
violazione degli artt. 3, 8, 19 e 117, secondo comma, lettera c), Cost.
5.1.–
In virtù delle modifiche apportate dalla legge regionale n. 2 del 2015, la
legge regionale n. 12 del 2005, sul governo del territorio, nel capo dedicato
alla realizzazione di edifici di culto e di attrezzature destinate a servizi
religiosi (artt. 70-73), distingue tre ordini di destinatari: gli enti della
Chiesa cattolica (art. 70, comma 1); gli enti delle altre confessioni religiose
con le quali lo Stato abbia già approvato con legge un’intesa (art. 70, comma
2); gli enti di tutte le altre confessioni religiose (art. 70, comma 2-bis). A questa terza categoria di enti,
collegati alle confessioni "senza intesa”, i citati artt. 70-73 sono
applicabili solo a condizione che sussistano i seguenti requisiti: «a) presenza diffusa, organizzata e
consistente a livello territoriale e un significativo insediamento nell’ambito
del comune nel quale vengono effettuati gli interventi disciplinati dal
presente capo; b) i relativi statuti esprim[a]no il carattere religioso delle loro finalità
istituzionali e il rispetto dei principi e dei valori della Costituzione». In
virtù del comma 2-quater dell’art. 70,
la valutazione di tali requisiti è obbligatoriamente rimessa al vaglio
preventivo, ancorché non vincolante, di una consulta regionale, da istituirsi e
nominarsi con provvedimento della Giunta regionale della Lombardia. Tuttavia,
come affermato in udienza dalla difesa regionale, la consulta non è ancora
stata istituita, benché sia passato oltre un anno dall’entrata in vigore della
censurata legge regionale n. 2 del 2015.
5.2.–
La normativa regionale illustrata, in quanto disciplina la pianificazione
urbanistica dei luoghi di culto, attiene senz’altro al «governo del
territorio», cosicché, riguardata dal punto di vista materiale, rientra nelle
competenze regionali concorrenti, ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost. (ex plurimis, sentenze
n. 272, n. 102 e n. 6 del 2013).
Nondimeno, la valutazione sul rispetto del riparto di competenze tra Stato e
Regioni, richiede di tenere conto, oltre che dell’oggetto, anche della ratio della normativa impugnata e di
identificare correttamente e compiutamente gli interessi tutelati, nonché le
finalità perseguite (ex plurimis,
sentenze n. 140
del 2015, n.
167 e n. 119
del 2014). Il legislatore regionale, nell’esercizio delle sue competenze,
qual è quella in materia di «governo del territorio» che qui viene in rilievo,
non può mai perseguire finalità che esorbitano dai compiti della Regione.
Da questo punto di vista occorre
ribadire che la legislazione regionale in materia di edilizia del culto «trova
la sua ragione e giustificazione – propria della materia urbanistica –
nell’esigenza di assicurare uno sviluppo equilibrato ed armonico dei centri abitativi
e nella realizzazione dei servizi di interesse pubblico nella loro più ampia
accezione, che comprende perciò anche i servizi religiosi» (sentenza n. 195 del
1993). In questi limiti soltanto la regolazione dell’edilizia di culto
resta nell’ambito delle competenze regionali. Non è, invece, consentito al
legislatore regionale, all’interno di una legge sul governo del territorio,
introdurre disposizioni che ostacolino o compromettano la libertà di religione,
ad esempio prevedendo condizioni differenziate per l’accesso al riparto dei
luoghi di culto. Poiché la disponibilità di luoghi dedicati è condizione
essenziale per l’effettivo esercizio della libertà di culto, un tale tipo di
intervento normativo eccederebbe dalle competenze regionali, perché finirebbe
per interferire con l’attuazione della libertà di religione, garantita agli
artt. 8, primo comma, e 19 Cost., condizionandone l’effettivo esercizio.
Pertanto, una lettura unitaria dei principi
costituzionali sopra richiamati ed evocati dal ricorrente porta a concludere
che la Regione è titolata, nel governare la composizione dei diversi interessi
che insistono sul territorio, a dedicare specifiche disposizioni per la
programmazione e realizzazione di luoghi di culto; viceversa, essa esorbita
dalle sue competenze, entrando in un ambito nel quale sussistono forti e
qualificate esigenze di eguaglianza, se, ai fini dell’applicabilità di tali
disposizioni, impone requisiti differenziati, e più stringenti, per le sole
confessioni per le quali non sia stata stipulata e approvata con legge
un’intesa ai sensi dell’art. 8, terzo comma, Cost.
Per queste ragioni, deve essere
dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 70, commi 2-bis, sia nelle lettere a) e b),
sia nella parte dell’alinea che le introduce (vale a dire, nelle parole «che
presentano i seguenti requisiti:»), e 2-quater, della legge reg. Lombardia
n. 12 del 2005.
Per contro, non sono oggetto del
presente giudizio l’art. 72, comma 1, della stessa legge regionale n. 12 del
2005, il quale ricollega alla valutazione delle «esigenze locali», previo esame
delle diverse istanze confessionali, la programmazione urbanistica delle
attrezzature religiose; e il successivo art. 73, comma 3, il quale fa
riferimento alla «consistenza ed incidenza sociale» delle diverse confessioni
nel territorio di un Comune, ai fini della ripartizione da parte di
quest’ultimo dei contributi di cui allo stesso art. 73.
6.– È
censurato anche il comma 2-ter
dell’art. 70 (introdotto anch’esso dall’art. 1, comma 1, lettera b), della legge regionale n. 2 del 2015), il
quale prevede che gli enti delle confessioni religiose diverse dalla Chiesa
cattolica, di cui ai commi 2 e 2-bis,
«devono stipulare una convenzione a fini urbanistici con il comune interessato»
e che tali convenzioni devono prevedere espressamente «la possibilità della
risoluzione o della revoca, in caso di accertamento da parte del comune di
attività non previste nella convenzione».
Il ricorrente lamenta la lesione
dell’art. 19 Cost., poiché la disposizione impugnata definirebbe con una
formula troppo generica i presupposti della risoluzione o revoca della
convenzione, tra l’altro interferendo con la libertà di un ente confessionale
di svolgere anche attività diverse da quelle strettamente attinenti al culto
(ad esempio, culturali o sportive). La censura, dunque, si riferisce
esclusivamente al secondo periodo del comma 2-ter.
La questione non è fondata, nei sensi di
seguito precisati.
La convenzione prevista dalla
disposizione in esame, necessaria nella fase di applicazione della normativa in
questione da parte del Comune, deve essere ispirata alla finalità, tipicamente
urbanistica, di assicurare lo sviluppo equilibrato e armonico dei centri
abitati. Naturalmente la convenzione potrà stabilire le conseguenze che
potranno determinarsi nel caso in cui l’ente che l’ha sottoscritta non ne
rispetti le stipulazioni, graduando l’effetto delle violazioni in base alla
loro entità. La disposizione impugnata consente di annoverare tra queste
conseguenze, a fronte di comportamenti abnormi, la possibilità di risoluzione o
di revoca della convenzione. Si tratta, con ogni evidenza, di rimedi estremi,
da attivarsi in assenza di alternative meno severe. Nell’applicare in concreto
le previsioni della convenzione, il Comune dovrà in ogni caso specificamente
considerare se, tra gli strumenti che la disciplina urbanistica mette a
disposizione per simili evenienze, non ve ne siano altri, ugualmente idonei a
salvaguardare gli interessi pubblici rilevanti, ma meno pregiudizievoli per la
libertà di culto, il cui esercizio, come si è detto, trova nella disponibilità
di luoghi dedicati una condizione essenziale. Il difetto della ponderazione di
tutti gli interessi coinvolti potrà essere sindacato nelle sedi competenti, con
lo scrupolo richiesto dal rango costituzionale degli interessi attinenti alla
libertà religiosa.
La disposizione in questione, così
interpretata, si presta a soddisfare il principio e il test di proporzionalità,
che impongono di valutare se la norma oggetto di scrutinio, potenzialmente
limitativa di un diritto fondamentale, qual è la libertà di culto, sia
necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in
quanto, tra più misure appropriate, prescriva di applicare sempre quella meno
restrittiva dei diritti individuali e imponga sacrifici non eccedenti quanto
necessario per assicurare il perseguimento degli interessi ad essi
contrapposti.
7.– In
un ulteriore motivo di ricorso, i commi 2-bis,
2-ter e 2-quater
dell’art. 70 della legge regionale n. 12 del 2005 (tutti introdotti dall’art.
1, comma 1, lettera b), della legge
regionale n. 2 del 2015) sono censurati congiuntamente per violazione dell’art.
117, commi primo e secondo, lettera a),
Cost., in relazione ai «principi europei ed internazionali in materia di
libertà di religione e di culto». In particolare sono richiamati gli artt. 10,
17 e 19 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE); gli artt.
10, 21 e 22 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea
(proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre
2007); e, infine, l’art. 18 del Patto internazionale sui diritti civili e
politici (adottato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo
in Italia con legge 25 ottobre 1977, n. 881).
La questione è inammissibile.
Per giurisprudenza costante, il ricorso
in via principale deve identificare esattamente la questione nei suoi termini normativi,
indicando le norme costituzionali (ed eventualmente interposte) e ordinarie, la
definizione del cui rapporto di compatibilità o incompatibilità costituisce
l’oggetto della questione e, inoltre, deve contenere una argomentazione di
merito a sostegno della richiesta declaratoria di illegittimità costituzionale
(sentenze n. 251,
n. 233, n. 218, n. 153 e n. 142 del 2015).
Sul punto, invece, il ricorso, dopo
avere menzionato nel proprio titolo le disposizioni sovranazionali e regionali
ritenute reciprocamente incompatibili, illustra sinteticamente il contenuto
delle prime, ma trascura del tutto le seconde. Di conseguenza, non risulta
chiaro quali siano gli specifici contenuti della normativa regionale ritenuti
incompatibili con i principi sovranazionali e nemmeno in quali esatti termini
si ponga l’incompatibilità. Tale difetto argomentativo non può essere rimediato
mediante una lettura complessiva del ricorso: la quale, al contrario, rende
ancor più oscuro il senso del motivo ora in esame. In particolare, non è chiaro
se il Presidente del Consiglio dei ministri abbia inteso semplicemente
sottolineare il rilievo anche sovranazionale dei principi di eguaglianza e libertà
religiosa, richiamati in altri motivi di ricorso, oppure denunciare
l’incompatibilità, con gli anzidetti principi sovranazionali, di specifici
contenuti dei commi censurati dei quali non è stata messa in dubbio la
compatibilità con i corrispondenti principi della Costituzione italiana.
In riferimento alle disposizioni della
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, la censura presenta un
ulteriore profilo di inammissibilità. A norma del suo art. 51 (nonché dell’art.
6, paragrafo 1, primo alinea, del Trattato sull’Unione europea e della
Dichiarazione n. 1 allegata al Trattato di Lisbona) e di una consolidata
giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, le disposizioni
della Carta sono applicabili agli Stati membri solo quando questi agiscono
nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione: «[l]e disposizioni della
presente Carta si applicano […] agli Stati membri esclusivamente
nell’attuazione del diritto dell’Unione» (art. 51 della Carta). Come questa
Corte ha già affermato, perché la Carta dei diritti UE sia invocabile in un
giudizio di legittimità costituzionale, occorre, dunque, che la fattispecie
oggetto di legislazione interna «sia disciplinata dal diritto europeo – in
quanto inerente ad atti dell’Unione, ad atti e comportamenti nazionali che
danno attuazione al diritto dell’Unione, ovvero alle giustificazioni addotte da
uno Stato membro per una misura nazionale altrimenti incompatibile con il
diritto dell’Unione – e non già da sole norme nazionali prive di ogni legame con
tale diritto» (sentenza
n. 80 del 2011).
L’assenza di qualsiasi argomentazione in
merito ai presupposti di applicabilità delle norme dell’Unione europea alla
legge in esame rende il riferimento a queste ultime generico (sentenze n. 199 del 2012
e n. 185 del
2011), peraltro in un caso in cui i punti di contatto tra l’ambito di
applicazione di tali norme e quello delle disposizioni censurate sono
tutt’altro che evidenti (vedi, a contrario,
sentenza n. 114
del 2012).
Lo stesso vale, a maggior ragione, per
gli artt. 10, 17 e 19 del TFUE, i quali si rivolgono esplicitamente all’Unione
e alle sue istituzioni e non stabiliscono ulteriori obblighi in capo agli Stati
membri.
Ciò costituisce un ulteriore difetto di
motivazione, e quindi causa di inammissibilità, del motivo di ricorso in esame,
cui si deve infine aggiungere l’inconferenza del
riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera a),
Cost., il quale non può essere considerato un diverso ed ulteriore presidio,
rispetto agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., del rispetto della conformità
ai vincoli comunitari (sentenza n. 185 del
2011).
8.–
Dell’art. 72 della legge regionale n. 12 del 2005 (interamente novellato
dall’art. 1, comma 1, lettera c, della
legge regionale n. 2 del 2015), sono censurati i commi 4 e 7, lettera e). Il comma 4 – qui considerato solo nel suo
primo periodo – prevede che, nel corso del procedimento per la predisposizione
del piano delle attrezzature religiose di cui allo stesso art. 72 (denominato
«Piano per le attrezzature religiose» nella rubrica di tale articolo), vengano
acquisiti «i pareri di organizzazioni, comitati di cittadini, esponenti e
rappresentanti delle forze dell’ordine oltre agli uffici provinciali di
questura e prefettura al fine di valutare possibili profili di sicurezza
pubblica, fatta salva l’autonomia degli organi statali». La seconda
disposizione censurata esige che, nel piano predetto, sia prevista, per ciascun
edificio di culto (se non già esistente all’entrata in vigore della legge
regionale n. 2 del 2015, in virtù dell’art. 72, comma 8), «la realizzazione di
un impianto di videosorveglianza esterno all’edificio, con onere a carico dei
richiedenti, che ne monitori ogni punto di ingresso, collegato con gli uffici
della polizia locale o forze dell’ordine». Prescrivendo l’acquisizione di
pareri inerenti a questioni di sicurezza pubblica, nonché l’installazione di
impianti di videosorveglianza, le disposizioni censurate entrerebbero nella
materia «ordine pubblico e sicurezza», rimessa alla competenza legislativa
esclusiva dello Stato, anche con riguardo alle possibili forme di coordinamento
con le Regioni (artt. 117, secondo comma, lettera h,
e 118, terzo comma, Cost.).
La questione è fondata.
Nella Costituzione italiana ciascun
diritto fondamentale, compresa la libertà di religione, è predicato unitamente
al suo limite; sicché non v’è dubbio che le pratiche di culto, se contrarie al
«buon costume», ricadano fuori dalla garanzia costituzionale di cui all’art. 19
Cost.; né si contesta che, qualora gli appartenenti a una confessione si
organizzino in modo incompatibile «con l’ordinamento giuridico italiano», essi
non possano appellarsi alla protezione di cui all’art. 8, secondo comma, Cost.
Tutti i diritti costituzionalmente protetti sono soggetti al bilanciamento
necessario ad assicurare una tutela unitaria e non frammentata degli interessi
costituzionali in gioco, di modo che nessuno di essi fruisca di una tutela
assoluta e illimitata e possa, così, farsi "tiranno” (sentenza n. 85 del
2013). Tra gli interessi costituzionali da tenere in adeguata
considerazione nel modulare la tutela della libertà di culto – nel rigoroso rispetto
dei canoni di stretta proporzionalità, per le ragioni spiegate sopra – sono
senz’altro da annoverare quelli relativi alla sicurezza, all’ordine pubblico e
alla pacifica convivenza. Tuttavia, il perseguimento di tali interessi è
affidato dalla Costituzione, con l’art. 117, secondo comma, lettera h),
in via esclusiva allo Stato, mentre le Regioni possono cooperare a tal fine
solo mediante misure ricomprese nelle proprie attribuzioni (ex plurimis, sentenza n. 35 del
2012). Nel caso di specie, invece, le disposizioni censurate, considerate
nella loro ratio e nel loro contenuto
essenziale (sentenze n. 118, n. 35 e n. 34 del 2012),
perseguono evidenti finalità di ordine pubblico e sicurezza: da valutare ex ante, nella programmazione (art. 72, comma
4: «[n]el corso del procedimento di predisposizione
del piano […] vengono acquisiti i pareri di […] rappresentanti delle forze
dell’ordine oltre agli uffici provinciali di questura e prefettura, al fine di
valutare possibili profili di sicurezza pubblica»); e da gestire a posteriori, in ogni nuovo luogo di culto,
mediante la realizzazione di capillari sistemi di videosorveglianza, collegati
con le forze dell’ordine (art. 72, comma 7, lettera e).
Sotto questo profilo, pertanto, le disposizioni censurate sono da ritenersi
costituzionalmente illegittime, in quanto eccedono dai limiti delle competenze
attribuite alla Regione.
9.– È
censurato anche l’art. 72, comma 4, secondo periodo, della legge regionale n.
12 del 2005, a norma del quale, con riguardo al piano delle attrezzature
religiose, «[r]esta ferma la facoltà per i comuni di indire referendum nel rispetto delle previsioni
statutarie e dell’ordinamento statale». Il ricorso lamenta la violazione
dell’art. 19 Cost., in quanto, affermando la facoltà dei Comuni di indire tali referendum, farebbe sì che la
possibilità di destinare a edilizia di culto determinate aree risulti
«subordinata a decisioni espressione di maggioranze politiche o culturali o
altro».
La questione è inammissibile.
Come è evidente dal suo chiaro tenore
testuale, la disposizione non modifica in alcun modo il procedimento di
approvazione del piano, né incide sulla disciplina dei referendum comunali,
limitandosi, in proposito, a rinviare a quanto già previsto dalla rilevante
normativa locale e nazionale. La disposizione è quindi meramente ricognitiva,
priva di «autonoma forza precettiva o, se si preferisce, di quel carattere
innovativo che si suole considerare proprio degli atti normativi» (sentenza n. 346 del
2010); sicché deve ritenersi insussistente l’interesse della parte
ricorrente a impugnarla (sentenze n. 230 del 2013
e n. 401 del
2007).
10.– Il
vigente art. 72, comma 7, lettera g),
della legge regionale n. 12 del 2005 prevede che il piano delle attrezzature
religiose garantisca «la congruità architettonica e dimensionale degli edifici
di culto previsti con le caratteristiche generali e peculiari del paesaggio
lombardo, così come individuate nel PTR». La citata lettera g) è censurata per violazione degli artt. 3,
8 e 19 Cost. perché, richiamando con formula ambigua le caratteristiche del
paesaggio lombardo, attribuirebbe all’amministrazione una discrezionalità
troppo ampia, tale da consentire facilmente applicazioni discriminatorie.
La questione non è fondata, nei sensi
precisati di seguito.
Diversamente da quanto suggerito dal
rimettente, la disposizione impugnata non richiede, genericamente, che gli
edifici di culto si conformino a non meglio identificate caratteristiche del
«paesaggio lombardo»; essa specifica invece che le caratteristiche a cui
debbono conformarsi anche gli edifici di culto sono quelle «individuate nel
PTR», vale a dire, nel piano territoriale regionale, di cui agli artt. 19 e
seguenti della stessa legge regionale n. 12 del 2005. Letta nella sua
integralità, comprensiva del rimando al piano territoriale regionale, la
disposizione esige che, nel valutare la conformità paesaggistica degli edifici
di culto, si debba avere riguardo, non a considerazioni estetiche soggettive,
occasionali ed estemporanee, come tali suscettibili di applicazioni arbitrarie
e discriminatorie, bensì alle indicazioni predeterminate dalle pertinenti
previsioni del piano territoriale regionale. Si conferma così che quest’ultimo,
anche con riguardo allo specifico ambito qui considerato, è atto di
orientamento di tutta la programmazione e pianificazione territoriale locale
della Lombardia, nonché quadro di riferimento per le valutazioni sulla
compatibilità degli atti di governo del territorio, anche comunali, sulle cui
eventuali previsioni contrastanti ha la prevalenza. Così intesa, la
disposizione censurata non è altro che una specificazione di quanto previsto,
in generale, dagli artt. 19 e 20 della legge regionale n. 12 del 2005. Un
eventuale cattivo uso della discrezionalità programmatoria, atto a penalizzare
surrettiziamente l’insediamento delle attrezzature religiose, potrà essere
censurato nelle sedi competenti.
11.– A
norma del vigente art. 72, comma 5, della legge regionale n. 12 del 2005, «[i]
comuni che intendono prevedere nuove attrezzature religiose sono tenuti ad
adottare e approvare il piano delle attrezzature religiose entro diciotto mesi
dalla data di entrata in vigore della [legge regionale n. 2 del 2015]» (primo
periodo); «[d]ecorso detto termine il piano è
approvato unitamente al nuovo PGT» (secondo periodo). Il citato comma 5, ad
avviso della difesa statale, contrasterebbe con l’art. 117, secondo comma,
lettera l), Cost., in quanto
stabilirebbe la mera facoltà, per i Comuni che intendano farlo, di prevedere la
realizzazione di nuove attrezzature religiose attraverso l’apposito piano. In
tal modo, la disposizione si porrebbe in contrasto con il decreto del Ministero
dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444 (Limiti inderogabili di densità
edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi
destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o
riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da
osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della
revisione di quelli esistenti, ai sensi dell’art. 17 della legge 6 agosto 1967,
n. 765) e, in particolare, con il suo art. 3, a norma del quale negli
insediamenti residenziali deve essere assicurata, per ogni abitante, una
dotazione minima di 18 metri quadrati per spazi pubblici o riservati alle
attività collettive, a verde pubblico o a parcheggio, da ripartire normalmente
in modo tale che 2 metri quadrati siano destinati ad attrezzature di interesse
comune, anche «religiose», oltre che «culturali, sociali, assistenziali,
sanitarie, amministrative, per pubblici servizi» e altre. Il ricorrente ricorda
che la giurisprudenza costituzionale ha già ricollegato alla competenza di cui
all’art. 117, secondo comma, lettera l),
Cost. alcune previsioni del d.m. n. 1444 del 1968: sono citate, in proposito,
le sentenze di questa Corte n. 232 del 2005
e n. 120 del 1996.
La questione è manifestamente
inammissibile.
F.to:
Marta CARTABIA, Presidente e Redattore
Carmelinda MORANO, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 24 marzo 2016.