SENTENZA N. 52
ANNO 2016
Commenti alla
decisione di
I. Annamaria Poggi, Una
sentenza 'preventiva' sulle prossime richieste di intese da parte di
confessioni religiose? per g.c.
di Federalismi.it
II. Renzo Dickmann,
La
delibera del Consiglio dei ministri di avviare o meno le trattative finalizzate
ad una intesa di cui all’art. 8, terzo comma, Cost. è un atto politico
insindacabile in sede giurisdizionale, per g.c.
di Forum di Quaderni
Costituzionali
III. Antonio Ruggeri Confessioni
religiose e intese tra iurisdictio e gubernaculum, ovverosia l'abnorme dilatazione dell'area
delle decisioni politiche non giustiziabili (a prima lettura di Corte cost. n.
52 del 2016), per g.c. di Federalismi.it
IV. Andrea Pin, L'inevitabile
caratura politica dei negoziati tra il Governo e le confessioni e le
implicazioni per la libertà religiosa, per g.c.
di Federalismi.it
V. Daniele Porena, Atti
politici e prerogative del governo in materia di confessioni religiose, per g.c. di Federalismi.it
VI.
Ida Nicotra, Le
intese con le confessioni religiose: in attesa di una legge che razionalizzi la
discrezionalità del Governo, per g.c. di Federalismi.it
VII. Antonio Ferrara, Corte
cost. n. 52 del 2016, ovvero dello svuotamento delle intese Stato-Confessioni
religiose e dell'upgrading del giudizio concernente
il diniego all'avvio delle trattative, per g.c.
di Federalismi.it
VIII. Caterina Tomba, Il
principio di laicità: mero strumento rafforzativo del principio di eguaglianza
"senza distinzione di religione” ovvero obbligo positivo nei confronti dei
pubblici poteri? Riflessioni a prima lettura delle sentenze n. 63 e n. 52 del
2016, per g.c. dell’Osservatorio AIC
IX. Valeria Vita, Della
non obbligatorietà dell’avvio delle trattative finalizzate alla conclusione di
un’intesa. Riflessioni a margine della sentenza n. 52 del 2016, per g.c. dell’Osservatorio AIC
X. Stefania Leone, L’aspettativa
di avviare con lo Stato una trattativa finalizzata alla stipula di un’intesa ex
art. 8, comma terzo, Cost. non è assistita da enforcement giudiziario. Ma il
diniego governativo non pregiudica, ad altri fini, la posizione giuridica
dell’istante, per g.c. di Forum di Quaderni Costituzionali
XI. Angelo Licastro, La
Corte costituzionale torna protagonista dei processi di transizione della
politica ecclesiastica italiana?, per
g.c. di Stato, Chiese e pluralismo
confessionale
XII. Jlia Pasquali Cerioli, Interpretazione
assiologica, principio di bilateralità pattizia e (in)eguale libertà di
accedere alle intese ex art. 8, terzo comma, Cost.,
per g.c. di Stato,
Chiese e pluralismo confessionale
XIII. Giuseppe Monaco, Confessioni
religiose: uguaglianza e governo del territorio (brevi osservazioni a margine
della sentenza della Corte costituzionale n. 63/2016), per g.c. di Forum
di Quaderni Costituzionali
XIV. Gianfranco Macrì, Il
futuro delle intese (anche per l’UAAR) passa attraverso una legge generale
sulla libertà religiosa. Brevi considerazioni sulla sentenza della Corte
costituzionale n. 52 del 2016, per g.c. dell’Osservatorio AIC
XV. Stefano Magnani, L’esercizio pubblico del culto. Le
preoccupazioni della Corte costituzionale nel suo ruolo di custode "tutelatrice” dei diritti fondamentali, per g.c. dell’Osservatorio AIC
XVI. Stefania Cantisani, Luci e ombre nella sentenza
Corte costituzionale n. 63 del 2016 (e nella connessa sentenza n. 52) tra
affermazioni di competenza ed esigenze di sicurezza, in questa Rivista, Studi 2017/I
XVII. Giuseppe Laneve, Conflitti costituzionali e conflitti di
giurisdizione sul procedimento relativo alla stipula delle intese ex art. 8,
comma 3, cost: riflessioni a partire da un delicato
(e inusuale) conflitto fra poteri, tra atto politico e principio di laicità, per g.c. della Rivista
AIC
XVIII. Fabio Pacini, Corte
costituzionale e negoziazione legislativa. Considerazioni a margine del "caso
UAAR”, per g.c. dell’Osservatorio sulle fonti
XIX. Sergio Lariccia, Un
passo indietro sul fronte dei diritti di libertà e di eguaglianza in
materia religiosa [?], per g.c. di Stato,
Chiese e pluralismo confessionale
XX. Marco Canonico, Libera
scelta del Governo l’avvio di trattative finalizzate alla stipulazione di intesa
con confessione religiosa ai sensi dell’art. 8, terzo comma, Cost., per g.c. di Stato, Chiese e pluralismo confessionale
XXI. Vincenzo Cocozza, La
garanzia dell'«intesa» nell’art. 8 Cost., terzo comma,
per g.c. di Stato,
Chiese e pluralismo confessionale
XXII. Marco Parisi, Principio
pattizio e garanzia dell’eguaglianza tra le confessioni religiose: il punto di
vista della Consulta nella sentenza n. 52 del 2016, per g.c.
di Stato, Chiese e pluralismo
confessionale
XXIII. Alberto Fabbri, Le
intese alla prova: nuovi attori e vecchi contenuti, per g.c.
di Stato, Chiese e pluralismo
confessionale
XXIV. Valentina Capuozzo, L’
"atto politico” davanti alla Corte costituzionale: la tensione tra funzione di
indirizzo politico e diritto d'accesso al giudice nella sent.
10 marzo 2016, n. 52, per g.c. di Diritti fondamentali
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta
dai signori:
- Marta CARTABIA Presidente
- Giuseppe FRIGO Giudice
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO
”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha
pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello
Stato sorto a seguito della sentenza
della Corte di cassazione, sezioni unite civili, 28 giugno 2013, n. 16305,
promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 19
marzo 2015, depositato in cancelleria il 26 marzo 2015 ed iscritto al n. 5 del
registro conflitti tra poteri dello Stato 2014, fase di merito.
Visto l’atto di intervento della Unione degli Atei e degli
Agnostici Razionalisti (UAAR);
udito nell’udienza pubblica del 26 gennaio 2016 il Giudice
relatore Giorgio Lattanzi, sostituito per la redazione della decisione dal
Giudice Nicolò Zanon;
uditi l’avvocato dello Stato Giovanni Palatiello
per il Presidente del Consiglio dei ministri e gli avvocati Fabio Corvaja e Stefano Grassi per l’Unione degli Atei e degli
Agnostici Razionalisti (UAAR).
Ritenuto in
fatto
1.– Con ricorso depositato in data 22
settembre 2014, il Presidente del Consiglio dei ministri, in proprio e a nome
del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale
dello Stato, ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei
confronti della Corte di cassazione, sezioni unite civili, in relazione alla sentenza 28 giugno 2013, n. 16305, con la quale è stato
respinto il ricorso per motivi attinenti alla giurisdizione, proposto dallo
stesso Presidente del Consiglio avverso la sentenza del Consiglio
di Stato, sezione quarta, 18 novembre 2011, n. 6083.
Espone il ricorrente che l’Unione degli
Atei e degli Agnostici Razionalisti
(d’ora in avanti «UAAR»), associazione non riconosciuta, costituita con
atto notarile nel 1991, aveva proposto ricorso avanti al Tribunale
amministrativo regionale del Lazio chiedendo l’annullamento della delibera del
Consiglio dei ministri del 27 novembre 2003, la quale, recependo il parere
dell’Avvocatura generale dello Stato, decideva di non avviare le trattative
finalizzate alla conclusione dell’intesa ai sensi dell’art. 8, terzo comma,
della Costituzione, ritenendo che la professione di ateismo non potesse essere
assimilata ad una confessione religiosa.
Con sentenza 31 dicembre 2008, n. 12539,
il TAR Lazio, sezione prima, dichiarava inammissibile, per difetto assoluto di
giurisdizione, il ricorso proposto dall’UAAR avverso la deliberazione del
Consiglio dei ministri, ritenendo che la determinazione impugnata abbia natura
di atto politico «non giustiziabile» (ai sensi dell’art. 31 del regio decreto
26 giugno 1924, n. 1054, recante «Approvazione del testo unico delle leggi sul
Consiglio di Stato», ora art. 7, comma 1, ultimo periodo, del decreto
legislativo 2 luglio 2010, n. 104, denominato «Attuazione dell’articolo 44
della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino
del processo amministrativo»).
Il Consiglio di Stato, sezione quarta,
con sentenza
n. 6083 del 2011, riformando la decisione di primo grado, affermava,
invece, la giurisdizione del giudice amministrativo, ritenendo che la scelta
relativa all’avvio delle trattative non abbia natura politica, ma presenti i
tratti tipici della discrezionalità valutativa come ponderazione di interessi:
da un lato, quello dell’associazione istante ad addivenire all’intesa,
dall’altro, l’interesse pubblico alla selezione dei soggetti con cui avviare le
trattative. Secondo il Consiglio di Stato, l’accertamento circa la riconduzione
dell’organizzazione richiedente alla categoria delle "confessioni religiose”
non sarebbe insindacabile, e quanto meno l’avvio delle trattative sarebbe
obbligatorio qualora si pervenisse ad un giudizio di qualificabilità
del soggetto istante come confessione religiosa, salva restando la facoltà del
Governo di non stipulare l’intesa all’esito delle trattative ovvero di non
tradurre in legge l’intesa medesima. Le parti venivano quindi rimesse avanti al
primo giudice.
Avverso tale decisione, il Presidente
del Consiglio dei ministri proponeva ricorso ai sensi dell’art. 111, ultimo
comma, della Costituzione, alle sezioni unite della Corte di cassazione,
sostenendo che il rifiuto di avviare le trattative per la conclusione
dell’intesa ex art. 8, terzo comma,
Cost. debba qualificarsi "atto politico”, come tale insindacabile.
Le sezioni unite della Corte di
cassazione, con la ricordata sentenza
n. 16305 del 2013 – che ha dato origine al presente conflitto –
respingevano il ricorso, affermando che l’accertamento preliminare relativo
alla qualificazione dell’istante come confessione religiosa costituisca
esercizio di discrezionalità tecnica da parte dell’amministrazione, come tale
sindacabile in sede giurisdizionale.
Ponendo in relazione il primo comma
dell’art. 8 Cost., che garantisce l’eguaglianza delle confessioni religiose
davanti alla legge, con il successivo terzo comma, che assegna all’intesa la
regolazione dei rapporti tra lo Stato e le confessioni diverse da quella
cattolica, la Corte di cassazione riteneva che la stipulazione dell’intesa sia
volta anche alla migliore realizzazione dei valori di eguaglianza tra
confessioni religiose. Per tale ragione, assumeva che l’attitudine di un culto
a stipulare le intese con lo Stato non possa essere rimessa all’assoluta
discrezionalità del potere esecutivo, pena – appunto – il sacrificio
dell’eguale libertà tra confessioni religiose. Pur non ritenendolo un argomento
decisivo, la Corte di cassazione osservava, tra l’altro, che le intese «si
stanno atteggiando, nel tempo, in guisa di normative "per adesione”,
innaturalmente uniformandosi a modelli standardizzati». Ne conseguirebbe che il
Governo avrebbe l’obbligo giuridico di avviare le trattative ex art. 8 Cost. per il solo fatto che
una qualsiasi associazione lo richieda, e a prescindere dalle evenienze che si
possano verificare nel prosieguo dell’iter
legislativo.
Successivamente a tale pronuncia, il TAR
Lazio, sezione prima, con sentenza 3 luglio 2014, n. 7068, respingeva nel
merito il ricorso dell’UAAR, escludendo che la valutazione compiuta dal Governo
in ordine al carattere non confessionale dell’Associazione ricorrente sia
«manifestamente inattendibile o implausibile, risultando viceversa coerente con
il significato che, nell’accezione comune, ha la religione».
Cionondimeno, il Presidente del
Consiglio dei ministri, non condividendo i principi affermati dalle sezioni
unite della Corte di cassazione e ritenendo che il rifiuto di avviare le
trattative finalizzate alla stipulazione dell’intesa sia un atto politico,
espressione della funzione di indirizzo politico che la Costituzione assegna al
Governo in materia religiosa e, come tale, sottratto al sindacato
giurisdizionale, ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri nei
confronti della Corte di cassazione.
In ordine all’ammissibilità del
conflitto, il ricorrente sostiene che sarebbe pacifica la legittimazione
soggettiva del Presidente del Consiglio dei ministri a dichiarare
definitivamente la volontà del potere cui appartiene, ai sensi dell’art. 92,
primo comma, Cost. Nel caso di specie, poiché il rifiuto all’avvio delle
trattative sarebbe stato opposto dal Consiglio dei ministri, al quale – ai
sensi dell’art. 2, comma 3, lettera l),
della legge 23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina dell’attività di Governo e
ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri) – sono riservate le
determinazioni sulle intese, ne conseguirebbe la qualificazione di potere dello
Stato in capo al Consiglio dei ministri e al suo Presidente.
In ordine alla legittimazione passiva,
le sezioni unite della Corte di cassazione sarebbero competenti a dichiarare la
definitiva volontà del potere giudiziario, in considerazione dell’efficacia
vincolante per tutti i giudici comuni, anche in altri processi, delle decisioni
da essa assunte in ordine alla giurisdizione a seguito di ricorso ai sensi
dell’art. 111, ultimo comma, Cost.
Quanto al profilo oggettivo, il
ricorrente osserva come la Corte di cassazione, con la sentenza
n. 16305 del 2013, avrebbe illegittimamente esercitato il suo potere
giurisdizionale, menomando la funzione di indirizzo politico che la
Costituzione assegna al Governo in materia religiosa (artt. 7, 8, terzo comma,
92 e 95 Cost.), funzione «assolutamente libera nel fine» e quindi
«insuscettibile di controllo da parte dei giudici comuni».
Nel merito, il ricorrente osserva come
non possa essere condivisa la conclusione delle sezioni unite in ordine alla
doverosità dell’avvio delle trattative per la conclusione dell’intesa ex art. 8, terzo comma, Cost.
Tale ultima disposizione, infatti,
costituirebbe norma sulle fonti, dal momento che le intese integrerebbero il
presupposto per l’avvio del procedimento legislativo finalizzato
all’approvazione della legge che regola i rapporti tra Stato e confessione
religiosa, e pertanto parteciperebbero della stessa natura, di atto politico
libero, delle successive fasi dell’iter legis. La dottrina avrebbe, altresì, chiarito che le
intese, in quanto dirette all’approvazione di una legge, coinvolgerebbero la
responsabilità politica del Governo, ma non la responsabilità
dell’amministrazione.
In sostanza – sostiene il ricorrente –
poiché l’omesso esercizio della facoltà di iniziativa legislativa in materia
religiosa rientra tra le determinazioni politiche sottratte al controllo dei
giudici comuni, così come il Governo è libero di non dare seguito alla
stipulazione dell’intesa omettendo di esercitare l’iniziativa per
l’approvazione della legge prevista dall’art. 8, terzo comma, Cost., a maggior
ragione dovrebbe essere libero, nell’esercizio delle sue valutazioni politiche,
di non avviare alcuna trattativa. Ancora, si osserva che se il Governo può
recedere dalle trattative o comunque è libero, pur dopo aver stipulato
l’intesa, di non esercitare l’iniziativa legislativa per il recepimento
dell’intesa con legge, ciò significa che il preteso "diritto” all’apertura
delle trattative è, in realtà, un «interesse di mero fatto non qualificato,
privo di protezione giuridica».
Tale conclusione troverebbe conferma
nella sentenza
della Corte costituzionale n. 346 del 2002, ove si afferma che il Governo
non è vincolato a norme specifiche per quanto riguarda l’obbligo di negoziare e
stipulare l’intesa. È menzionata anche la sentenza di questa
Corte n. 81 del 2012, che avrebbe riconosciuto l’esistenza di spazi
riservati alla scelta politica.
Infine, il ricorrente afferma che il
rifiuto del Consiglio dei ministri di avviare le trattative per la conclusione
dell’intesa sarebbe espressione della fondamentale funzione di direzione ed
indirizzo politico del Governo. «[A]bnorme»,
pertanto, sarebbe la sentenza del giudice amministrativo che annullasse il
diniego di avvio delle trattative, imponendo al Governo di riesaminare la
questione o di concludere l’intesa con un determinato soggetto.
Conseguentemente, è chiesto alla Corte
costituzionale di dichiarare che non spetta alla Corte di cassazione, sezioni
unite civili, affermare la sindacabilità, ad opera dei giudici comuni, del
rifiuto del Consiglio dei ministri di avviare le trattative finalizzate alla
conclusione dell’intesa di cui all’art. 8, terzo comma, Cost.
2.– Il conflitto è stato dichiarato
ammissibile da questa Corte con ordinanza n. 40 del
2015.
3.– È intervenuta in giudizio, in data
14 aprile 2015, l’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti (UAAR),
chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile e, in subordine,
infondato.
L’UAAR premette di essere legittimata ad
intervenire, poiché l’esito del giudizio costituzionale potrebbe compromettere
definitivamente l’azione proposta innanzi al giudice amministrativo.
L’interveniente – parte del giudizio definito con la sentenza delle sezioni
unite della Corte di cassazione – è ora ricorrente di fronte al Consiglio di
stato, presso il quale ha appellato la sentenza del TAR Lazio n. 7068 del 2014.
L’interveniente, anzitutto, eccepisce
l’inammissibilità del ricorso, poiché diretto a far valere un mero error in iudicando da parte del giudice
ordinario. La Corte di cassazione avrebbe, infatti, risolto una questione di
giurisdizione, e tale competenza sarebbe fatta espressamente salva dall’art.
37, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e
sul funzionamento della Corte costituzionale), secondo il quale «[r]estano ferme le norme vigenti per le questioni di
giurisdizione». Il ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri sarebbe
quindi volto a trasformare il conflitto tra poteri in un mezzo di gravame
atipico avverso le pronunce giudiziarie (viene ricordato quanto deciso da
questa Corte, in un caso asseritamente analogo, con sentenza n. 81 del
2012).
Nel merito, a sostegno dell’infondatezza
del ricorso, l’UAAR osserva che i parametri costituzionali indicati dal
ricorrente (artt. 7, 8, 92 e 95 Cost.) non fonderebbero alcuna competenza
costituzionale del Governo attinente alla decisione di stipulare l’intesa:
l’art. 7 Cost. riguarderebbe i rapporti tra Stato e Chiesa cattolica; l’art. 8
Cost. non assegnerebbe al Governo la prerogativa di stipulare l’intesa, in
quanto è solo la legge ordinaria – in particolare l’art. 2, comma 3, lettera l), della legge n. 400 del 1988 – ad
attribuire tale competenza al Consiglio dei ministri (è ricordato, peraltro,
che, in precedenza, essa spettava al Ministro dell’interno); l’art. 92 Cost.
regolerebbe solo il procedimento di formazione del Governo; l’art. 95 Cost.,
infine, sancirebbe il principio di responsabilità del Presidente e del Consiglio
dei ministri, responsabilità che è anche di tipo giuridico.
L’UAAR ritiene, piuttosto, che «il
problema della impugnabilità degli atti relativi alle trattative per l’intesa ex art. 8, terzo comma, Cost. vada
riguardato muovendo dalla verifica della sussistenza − naturalmente in
chiave di mera prospettazione − di una situazione giuridica soggettiva in
capo alla confessione istante». L’art. 8, terzo comma, Cost. non avrebbe
soltanto il significato di negare allo Stato la possibilità di introdurre una
disciplina unilaterale, ma avrebbe anche la funzione di dare riconoscimento
alla pretesa di una confessione di minoranza di concludere con lo Stato
un’intesa, o almeno di avviare le trattative, allo scopo di conseguire una
condizione di "eguale libertà” con le altre confessioni di analoga natura.
Ricordando che il principio di laicità dello Stato ha, quali corollari,
l’equidistanza e l’imparzialità verso tutte le confessioni, l’UAAR assume che
da ciò derivi, logicamente, che gli organi statali sono tenuti a prendere in
considerazione le richieste di intesa provenienti da soggetti legittimati, e a
non discriminare le confessioni nell’accesso ai benefici connessi con la
stipulazione di un’intesa.
La qualificazione della pretesa di una
confessione religiosa di negoziare un’intesa con lo Stato in termini di
posizione soggettiva protetta sarebbe inoltre confermata dalla giurisprudenza
della Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale, in più occasioni, avrebbe
riconosciuto come interesse tutelato dagli artt. 9, 11 e 14 della Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali
(d’ora in avanti «CEDU»), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa
esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, l’aspirazione della confessione
religiosa a concludere accordi con lo Stato per accedere ad uno status più favorevole, ed avrebbe
chiarito come la garanzia di un’equa opportunità nell’accesso al regime
privilegiato da parte di confessioni di minoranza rappresenti una condizione
necessaria per la legittimità convenzionale di regimi paraconcordatari analoghi
a quello italiano.
Una volta riconosciuto che la
confessione religiosa è titolare della pretesa di addivenire all’intesa, tale
pretesa deve essere inderogabilmente assicurata in sede giurisdizionale ai
sensi degli artt. 24 e 113 Cost., e degli artt. 6 e 13 della CEDU.
La difesa dell’UAAR aggiunge che appare
dubbia la stessa sussistenza, nell’attuale ordinamento costituzionale, di atti
dell’esecutivo del tutto immuni da ogni sindacato giurisdizionale, mentre,
invece, possono esservi spazi di discrezionalità riservati al potere politico e
come tali non sindacabili (viene ricordata, sul punto, la sentenza di questa
Corte n. 81 del 2012). Seguendo questa impostazione, la questione dovrebbe
consistere nel verificare se le censure svolte nel ricorso dell’UAAR innanzi al
giudice amministrativo avessero denunciato la violazione di norme giuridiche
ovvero avessero preteso di sindacare una discrezionalità politica. Ma tale
valutazione, riguardando un problema di mera interpretazione di parametri di
legittimità, non dovrebbe essere sindacabile in un conflitto tra poteri.
In ogni caso, di fronte al giudice
amministrativo sarebbero stati dedotti solo profili di legittimità, tra i quali
– per quanto qui in particolare rileva – la valutazione preliminare compiuta
dal Consiglio dei ministri in ordine all’idoneità dell’UAAR ad essere
qualificata come "confessione religiosa” ai sensi dell’art. 8 Cost.,
valutazione che sarebbe priva di qualsiasi politicità, trattandosi di un
giudizio che sia l’amministrazione, sia i giudici, sono chiamati ad operare ai
più diversi fini.
Né, infine, gli atti impugnati dall’UAAR
in sede giurisdizionale potrebbero essere qualificati "atti politici” ai sensi
dell’art. 7, comma 1, del d.lgs. n. 104 del 2010, difettando sia il requisito
soggettivo, poiché la competenza ad assumere la decisione non è attribuita al
Governo dalla Costituzione, ma dalla legge ordinaria; sia il requisito
oggettivo, in quanto la determinazione del Consiglio dei ministri non avrebbe
attinenza con la direzione suprema e generale dello Stato, ma con la sola «cura
concreta dell’interesse religioso delle minoranze confessionali, tramite la
conclusione di negozi di diritto pubblico».
Contesta, infine, la difesa dell’UAAR
che la decisione di non avviare le trattative partecipi della natura di atto
politico proprio della legge di approvazione dell’intesa: l’intesa rimane
esterna al procedimento legislativo, in quanto precede la relativa iniziativa,
e in quanto sopravvive al procedimento legislativo e alla stessa legislatura.
Per questa ragione la giurisdizione comune dovrebbe arrestarsi a partire
dall’iniziativa legislativa, ma non prima.
Né sarebbe convincente osservare che il
Governo può comunque astenersi dall’esercitare l’iniziativa legislativa, poiché
quest’ultima non è "riservata” a tale organo, come dimostrano alcuni progetti
di legge di iniziativa parlamentare, avviati sulla base di intese.
4.– In data 12 maggio 2015 la difesa
dell’UAAR ha depositato ulteriore memoria, ove ribadisce le conclusioni già
formulate.
In particolare, essa contesta
l’argomento – addotto dal ricorrente – secondo cui vi sarebbe la necessità di
preservare la libertà della «politica ecclesiastica» del Governo: tale nozione
sembrerebbe fondarsi sull’idea che il Governo sia libero di favorire questo o
quel culto secondo contingenti ed insindacabili ragioni di opportunità
politica, mentre – come già argomentato nella prima memoria – il sistema dei
rapporti tra Stato e confessioni religiose si fonda sull’imperativo di laicità
dello Stato, da cui deriva la necessaria equidistanza e imparzialità dello
stesso verso tutte le religioni. Né basterebbe che dei criteri di selezione
degli interlocutori il Governo risponda sul piano della responsabilità
politica, poiché qui vengono in gioco i diritti delle minoranze confessionali,
«rispetto alle quali i meccanismi della rappresentanza e della responsabilità
politica, connotati dalla logica maggioritaria, non costituiscono, per
definizione, uno strumento di tutela effettivo».
In secondo luogo, la difesa dell’UAAR
insiste nell’escludere che l’intesa con le confessioni religiose, atto
presupposto del procedimento legislativo che segue, assorba da quest’ultimo una
dimensione politica che non le spetta. Afferma di non condividere l’argomento
secondo cui, se il Governo è libero di non concludere l’intesa e di non
esercitare l’iniziativa legislativa, non potrebbe neppure esservi una pretesa
giustiziabile in capo alla confessione istante ad ottenere l’avvio delle
trattative. I due piani – a suo avviso – andrebbero tenuti distinti: non
sarebbe, cioè, corretto estendere il trattamento tipico della legge (e
dell’iniziativa legislativa) ad un atto che si colloca a monte dell’iniziativa
legislativa stessa e che rimane imputabile all’esecutivo.
5.– Nell’imminenza dell’udienza
pubblica, in data 31 dicembre 2015, la difesa dell’UAAR ha ancora depositato
memoria, insistendo per il rigetto del conflitto.
Dopo aver ribadito l’eccezione di
inammissibilità del conflitto, in quanto volto a lamentare un error in iudicando delle sezioni unite della
Corte di cassazione, l’interveniente sottolinea che l’UAAR ha contestato di fronte
al giudice amministrativo la mancata qualificazione della richiedente come
confessione religiosa, e che tale potere del Governo non può essere ricondotto
all’esercizio di una funzione di indirizzo politico.
La difesa dell’UAAR ricorda come l’art.
7 del d.lgs. n. 104 del 2010, interpretato alla luce dell’art. 113 Cost.,
sottragga al controllo giurisdizionale non atti, ma «i soli profili
specificamente politici contenuti in atti che rimangono comunque impugnabili».
Una contraria lettura di tale disposizione sarebbe lesiva degli artt. 24 e 113
Cost., oltre che dell’art. 117, primo comma, Cost., in riferimento agli artt. 6
e 13 della CEDU. La tesi che sostiene l’insindacabilità degli atti politici si
porrebbe dunque in frontale contrasto con le acquisizioni del diritto
costituzionale europeo e del particolare contributo dato ad esso dalla
Costituzione italiana e dalla stessa Corte costituzionale (è ricordata, sul
punto, la sentenza
di questa Corte n. 238 del 2014).
L’interveniente aggiunge che una
valutazione politica sull’intesa spetterebbe semmai alle Camere, in sede di
approvazione della legge ex art. 8,
comma terzo, Cost., e non al Governo.
Infine, oltre a ribadire che l’intesa
sta fuori dal procedimento legislativo e non può partecipare della natura
"politica” della legge, la difesa dell’UAAR conclude osservando che, in linea
generale, lo stesso esercizio della funzione legislativa, come non esclude la
permanenza di situazioni soggettive, così non esclude l’azionabilità di una
loro tutela giurisdizionale.
6.– In data 5 gennaio 2016, il
Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato memoria, insistendo per
l’accoglimento del ricorso e svolgendo osservazioni in ordine alle argomentazioni
dell’interveniente UAAR.
Il ricorrente osserva, anzitutto, che
non vi sarebbero problemi di ammissibilità del conflitto, in quanto il ricorso
– pur rivolto avverso una pronuncia giudiziaria – è preordinato a contestare la
sussistenza in radice del potere giurisdizionale. Il Governo, inoltre, prima di
ricorrere alla Corte costituzionale, ha esaurito i rimedi giurisdizionali
comuni.
Nel merito, esso ribadisce che il
rifiuto del Consiglio dei ministri di avviare le trattative per la conclusione
dell’intesa ex art. 8, terzo comma,
Cost. rientrerebbe nel novero degli atti politici, in quanto espressione della
fondamentale funzione di direzione e di indirizzo politico, assegnata al
Governo ai sensi degli artt. 7, secondo comma, 8, terzo comma, 94, primo comma,
e 95, primo comma, Cost. Inoltre, poiché le trattative per la stipulazione
delle intese non sono normativamente disciplinate, non vi sarebbe un parametro
o vincolo legislativo idoneo a circoscrivere e/o limitare le valutazioni in
materia dell’esecutivo. Tale assunto sarebbe confermato da quanto stabilito da
questa Corte nella sentenza n. 346 del
2002.
In secondo luogo, il ricorrente osserva
che, posto che la legge di approvazione delle intese dovrebbe avere «identità
di contenuti» con queste ultime, il procedimento finalizzato alla stipulazione
dell’intesa non potrebbe che partecipare della natura di «atto politico libero»
propria della legge.
D’altro canto – osserva il ricorrente –
la legge sulle intese è annoverata, non a caso, nella categoria delle
cosiddette leggi rinforzate, e ciò ulteriormente confermerebbe che il
sub-procedimento di intesa (nel quale sono incluse anche le trattative)
costituisce parte integrante dell’iter
formativo della legge, alla cui approvazione esso è preordinato. Tale
conclusione sarebbe ulteriormente rafforzata dalla circostanza che le intese
possono dare vita a normative «differenziate», per le quali si impongono
«valutazioni di opportunità politica».
In terzo luogo, argomenta la difesa del
ricorrente come dall’art. 8 Cost. non possa dedursi un "diritto” delle
confessioni religiose all’avvio delle trattative, né un corrispondente diritto
potrebbe venire ricavato dalla CEDU, le cui disposizioni avrebbero «il rango di
legge ordinaria» e dovrebbero perciò recedere davanti alle previsioni
costituzionali (le sole, in base alle quali risolvere il conflitto).
Infine, sarebbe irrilevante, ai fini della
risoluzione del conflitto, una questione di legittimità costituzionale –
asseritamente prospettata dall’interveniente – vertente sull’art. 7, comma 1,
ultimo periodo, del d.lgs. n. 104 del 2010, posto che l’insindacabilità della
decisione del Governo discenderebbe dalle più volte ricordate disposizioni
costituzionali, di cui il citato art. 7 sarebbe mera attuazione.
Considerato in diritto
1.– Il ricorso per conflitto di
attribuzione fra poteri dello Stato è proposto dal Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, in
proprio e a nome del Consiglio dei ministri, contro la
Corte di cassazione, sezioni unite civili, in relazione alla sentenza 28 giugno
2013, n. 16305, con la quale è stato respinto il ricorso per motivi
attinenti alla giurisdizione proposto dallo stesso Presidente del Consiglio
avverso la sentenza
del Consiglio di Stato, sezione quarta, 18 novembre 2011, n. 6083.
Nel ricorso alle sezioni unite della
Corte di cassazione, il Presidente del Consiglio aveva lamentato il difetto
assoluto di giurisdizione e la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 7,
comma 1, ultimo periodo, del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104
(Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega
al governo per il riordino del processo amministrativo), in relazione alla
delibera attraverso la quale il Consiglio dei ministri, in data 27 novembre
2003, decideva di non avviare le trattative finalizzate alla conclusione
dell’intesa, ai sensi dell’art. 8, terzo comma, della Costituzione, con
l’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti (d’ora in avanti «UAAR»),
ritenendo che la professione di ateismo, affermata dall’associazione in
questione, non consenta la sua assimilazione ad una confessione religiosa.
La Corte di cassazione, rigettando il
ricorso, affermava che l’accertamento preliminare relativo alla qualificazione
dell’istante come confessione religiosa costituisce esercizio di
discrezionalità tecnica da parte dell’amministrazione, come tale sindacabile in
sede giurisdizionale. Ponendo in relazione il primo comma dell’art. 8 Cost.,
che garantisce l’eguaglianza delle confessioni religiose davanti alla legge,
con il successivo terzo comma, che assegna all’intesa la regolazione dei
rapporti tra Stato e confessioni diverse da quella cattolica, la Corte di
cassazione riteneva che la stipulazione dell’intesa sia volta anche alla
migliore realizzazione dei valori di eguaglianza tra confessioni religiose. Per
tale ragione, assumeva che l’attitudine di un culto a stipulare le intese con
lo Stato non possa essere rimessa all’assoluta discrezionalità del potere
esecutivo, pena – appunto – il sacrificio dell’eguale libertà tra confessioni
religiose. Pur non ritenendolo un argomento decisivo, la Corte di cassazione
osservava, tra l’altro, che le intese «si stanno atteggiando, nel tempo, in guisa
di normative "per adesione”, innaturalmente uniformandosi a modelli
standardizzati». Ne conseguirebbe che il Governo avrebbe l’obbligo giuridico di
avviare le trattative ex art. 8 Cost.
per il solo fatto che un’associazione lo richieda, e a prescindere dalle
evenienze che si possano verificare nel prosieguo dell’iter legislativo.
Il ricorrente, nell’articolare le
proprie censure nei confronti della pronuncia del giudice di legittimità,
sostiene che essa avrebbe menomato la funzione d’indirizzo politico, che la
Costituzione assegna al Governo in materia religiosa (artt. 7, 8, terzo comma,
92 e 95 Cost.), funzione «assolutamente libera nel fine» e quindi
«insuscettibile di controllo da parte dei giudici comuni».
Rileva, in particolare, come non possa
in alcun modo sostenersi la tesi della doverosità dell’avvio delle trattative
per la conclusione dell’intesa ex
art. 8, terzo comma, Cost. Tale ultima disposizione, infatti, costituirebbe
norma sulle fonti, dal momento che le intese integrerebbero il presupposto per
l’avvio del procedimento legislativo finalizzato all’approvazione della legge
che regola i rapporti tra Stato e confessione religiosa, e pertanto
parteciperebbero della stessa natura, di atto politico libero, delle successive
fasi dell’iter legis.
Le intese, in quanto dirette all’approvazione di una legge, coinvolgerebbero la
responsabilità politica del Governo, ma non la responsabilità
dell’amministrazione.
In sostanza – sostiene il ricorrente –
poiché l’omesso esercizio della facoltà di iniziativa legislativa in materia
religiosa rientra tra le determinazioni politiche sottratte al controllo dei
giudici comuni, così come il Governo è libero di non dare seguito alla
stipulazione dell’intesa, omettendo di esercitare l’iniziativa per
l’approvazione della legge prevista dall’art. 8, terzo comma, Cost., a maggior
ragione dovrebbe essere libero, nell’esercizio delle sue valutazioni politiche,
di non avviare alcuna trattativa. Ancora, si osserva che se il Governo può
recedere dalle trattative o comunque è libero, pur dopo aver stipulato
l’intesa, di non esercitare l’iniziativa legislativa per il recepimento
dell’intesa con legge, ciò significa che il preteso "diritto” all’apertura
delle trattative è, in realtà, un «interesse di mero fatto non qualificato, privo
di protezione giuridica».
Conseguentemente, è chiesto alla Corte
costituzionale di dichiarare che non spetta alla Corte di cassazione, sezioni
unite civili, affermare la sindacabilità, ad opera dei giudici comuni, del
rifiuto del Consiglio dei ministri di avviare le trattative finalizzate alla
conclusione dell’intesa di cui all’art. 8, terzo comma, Cost.
2.– In via preliminare, deve essere
dichiarato ammissibile l’intervento, spiegato nel presente giudizio, dall’UAAR,
parte resistente nel giudizio in cui è stata resa l’impugnata sentenza della
Corte di cassazione.
Nei giudizi per conflitto di
attribuzione non è, di norma, ammesso l’intervento di soggetti diversi da
quelli legittimati a promuovere il conflitto o a resistervi. Tale regola,
tuttavia, non opera quando la pronuncia resa nel giudizio costituzionale
potrebbe precludere la tutela giudiziaria della situazione giuridica soggettiva
vantata dall’interveniente, senza che gli sia data la possibilità di far valere
le proprie ragioni (da ultimo, sentenze n. 144 del
2015, n. 222
e n. 221 del
2014, pronunciate in conflitti fra poteri dello Stato, e sentenze n. 107 del
2015, n. 279
del 2008, n.
195 del 2007 e n. 386 del 2005,
rese in conflitti tra enti). Tale è la situazione dell’UAAR nel giudizio in
esame, poiché l’accoglimento del ricorso impedirebbe all’interveniente di
giovarsi di una pronuncia giudiziaria, al fine di ottenere l’apertura delle
trattative preordinate alla stipulazione di un’intesa ai sensi dell’art. 8,
terzo comma, Cost.
3.– Va confermata, ai sensi dell’art. 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’ammissibilità del conflitto – già dichiarata da questa Corte, in sede di prima e sommaria delibazione, con l’ordinanza n. 40 del 2015 – sussistendone i presupposti soggettivi e oggettivi.
3.1.– Con riguardo al profilo soggettivo, deve essere ribadita la legittimazione a proporre il ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, sia in proprio, sia in rappresentanza del Consiglio dei ministri.
Il Presidente del Consiglio dei ministri è l’organo competente a dichiarare la volontà del Governo: il potere esecutivo, infatti, non è un "potere diffuso”, ma si concentra nell’intero Governo, in nome dell’unità di indirizzo politico e amministrativo affermata dall’art. 95, primo comma, Cost. (sentenza n. 69 del 2009 e ordinanze n. 221 del 2004 e n. 123 del 1979). E le determinazioni concernenti i rapporti previsti dall’art. 8 Cost. sono espressamente assegnate al Consiglio dei ministri dall’art. 2, comma 3, lettera l), della legge 23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri), ovvero proprio dalla legge che dà attuazione all’art. 95 Cost., definendo l’organizzazione e le attribuzioni del Governo.
Nel conflitto in esame, va riconosciuta la legittimazione attiva anche del Presidente del Consiglio dei ministri in proprio, poiché nel procedimento di stipulazione delle intese – e in particolare nella fase iniziale di cui qui si discute, quando cioè si tratta di individuare l’interlocutore e avviare le trattative – la Presidenza del Consiglio assume autonomo rilievo, come è stabilito nell’art. 2, comma 1, lettera e), del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 303 (Ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri, a norma dell’articolo 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59), in cui si afferma che il Presidente del Consiglio si avvale della Presidenza del Consiglio nei rapporti tra il Governo e le confessioni religiose ai sensi dell’art. 8, terzo comma, Cost., e come è confermato dalla prassi.
Non sussistono dubbi nemmeno sulla
legittimazione della Corte di cassazione ad essere parte di un conflitto tra
poteri dello Stato, a fronte della costante giurisprudenza di questa Corte, che
tale legittimazione riconosce ai singoli organi giurisdizionali in quanto
competenti, in posizione di piena indipendenza garantita dalla Costituzione, a
dichiarare definitivamente, nell’esercizio delle relative funzioni, la volontà
del potere cui appartengono (ex multis,
con specifico riferimento alla legittimazione della Corte di cassazione, sentenze n. 29
e n. 24 del 2014,
n. 320 del 2013
e n. 333 del
2011).
3.2.– L’ammissibilità del conflitto deve
essere confermata anche sotto il profilo oggettivo, in quanto il ricorso, per
quanto promosso avverso una decisione giudiziaria, non lamenta un error in iudicando (sentenza n. 81 del
2012), ma prospetta un conflitto «per la delimitazione della sfera di attribuzioni
determinata per i vari poteri da norme costituzionali» (art. 37, primo comma,
della legge n. 87 del 1953). Infatti, il ricorrente non chiede a questa Corte
di riesaminare la decisione con la quale la Corte di cassazione ha risolto un
conflitto di giurisdizione attraverso l’interpretazione di fonti primarie. Se
questa fosse la richiesta, ne conseguirebbe l’inammissibilità del conflitto,
non potendo quest’ultimo istituto trasformarsi in un improprio mezzo
d’impugnazione di decisioni giudiziarie (sentenza n. 259
del 2009 e ordinanza
n. 117 del 2006). Il ricorrente contesta, invece, l’esistenza stessa del
potere giurisdizionale nei propri confronti (sentenze n. 88 del
2012, n. 195
del 2007 e n.
276 del 2003) e, dunque, lamenta il superamento, per mezzo della sentenza
delle sezioni unite della Corte di cassazione, dei limiti che tale potere
incontra nell’ordinamento, a garanzia delle attribuzioni costituzionali del Governo.
Né rileva che oggetto del ricorso per
conflitto sia una sentenza resa in un giudizio volto a dirimere una questione
di giurisdizione ai sensi dell’art. 111, ultimo comma, Cost., come eccepito
dalla parte interveniente, ad avviso della quale le questioni di giurisdizione
non potrebbero mai essere oggetto di un conflitto costituzionale. È ben vero
che, nel disciplinare l’istituto del conflitto di attribuzione tra poteri dello
Stato, l’art. 37, secondo comma, della legge n. 87 del 1953 precisa che «[r]estano ferme le norme vigenti per le questioni di
giurisdizione»; ma la disposizione da ultimo citata è appunto preordinata
soltanto ad assicurare la persistenza, nell’ordinamento, della competenza della
Corte di cassazione a dirimere i conflitti di giurisdizione, non, invece, ad
escludere che la Corte costituzionale possa essere chiamata a decidere un
conflitto tra poteri, quando il vizio denunciato sia comunque destinato a
ripercuotersi sulla corretta delimitazione di attribuzioni costituzionali. Del
resto, regolamento di giurisdizione e ricorso per conflitto tra poteri sono due
rimedi distinti, operanti su piani diversi. Da un lato, non si può escludere
che essi siano attivati entrambi, di fronte ad una pronuncia giudiziaria alla
quale siano contemporaneamente imputabili l’erronea applicazione delle norme
sulla giurisdizione e l’invasività in sfere d’attribuzione costituzionale (sentenze n. 259 del
2009 e n.
150 del 1981); dall’altro, ben può accadere che oggetto del ricorso, come
in questo caso, sia proprio una pronuncia della Corte di cassazione, resa in
sede di regolamento di giurisdizione ex
art. 111, ultimo comma, Cost.
Non è, pertanto, fondata l’eccezione
d’inammissibilità del ricorso, prospettata dalla parte interveniente.
4.– Il ricorrente chiede che questa
Corte, decidendo il conflitto, stabilisca che non spetta alla Corte di
cassazione affermare la sindacabilità da parte dei giudici comuni del diniego,
opposto dal Consiglio dei ministri, alla richiesta del soggetto interveniente
di avviare le trattative finalizzate alla conclusione dell’intesa, ai sensi
dell’art. 8, terzo comma, Cost.
Le opposte tesi che questa Corte è
chiamata a valutare possono così riassumersi: da una parte, si ritiene che il
diniego di avvio delle trattative, opposto dal Governo alla richiesta di
un’associazione, non potrebbe essere oggetto di sindacato in sede giudiziaria,
a pena della lesione della sfera di attribuzioni costituzionali dello stesso
Governo, definite dagli artt. 8, terzo comma, e 95 Cost.; dall’altra, si
ritiene invece che tale sindacabilità dovrebbe essere affermata, poiché
l’azionabilità della pretesa giuridica all’avvio delle trattative stesse
sarebbe corollario dell’eguale libertà di cui godono, ai sensi dell’art. 8,
primo comma, Cost., tutte le confessioni religiose, e servirebbe a impedire che
un’assoluta discrezionalità governativa in materia dia luogo ad arbitrarie discriminazioni.
Quanto all’esistenza di una situazione
giuridica soggettiva, in ipotesi tutelata dall’ordinamento, consistente nella
pretesa alla conclusione delle trattative o, addirittura, alla presentazione
del disegno di legge sulla base dell’intesa stipulata, il ricorrente la
contesta in radice; mentre l’interveniente ritiene che – con riferimento al
procedimento per la stipulazione dell’intesa – la giurisdizione del giudice
comune dovrebbe arrestarsi a partire dal momento in cui l’iniziativa
legislativa sulla base dell’intesa sia esercitata, ma non prima: non
escludendo, così, la configurabilità della pretesa soggettiva ora in questione,
e di un sindacato del giudice su di essa. La sentenza delle sezioni unite della
Corte di cassazione, dalla quale origina il conflitto, afferma di non doversi
pronunciare, nella risoluzione del regolamento di giurisdizione, sull’esistenza
di un «diritto alla chiusura della trattativa», o all’esercizio dell’iniziativa
legislativa successiva all’eventuale stipulazione dell’intesa.
Questa Corte ritiene, invece, che, per
la soluzione del conflitto, pur delimitato nei termini anzidetti, non siano
secondarie considerazioni in ordine all’effettiva configurabilità di una
pretesa giustiziabile alla conclusione delle trattative, mentre restano estranee all’oggetto del conflitto
valutazioni sugli adempimenti governativi successivi alla conclusione
dell’intesa stessa, e sulle caratteristiche del procedimento che, ai sensi
dell’art. 8, terzo comma, Cost., conduce all’approvazione della legge
destinata, sulla base dell’intesa, a regolare i rapporti tra lo Stato e la
confessione non cattolica.
5.– Il ricorso è fondato, nei sensi di
seguito precisati.
5.1.– La soluzione del presente
conflitto non può prescindere da considerazioni attinenti alla natura e al
significato che, nel nostro ordinamento costituzionale, assume l’intesa per la
regolazione dei rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose diverse da
quella cattolica, ai sensi dell’art. 8, terzo comma, Cost.
Il significato della disposizione
costituzionale consiste nell’estensione, alle confessioni non cattoliche, del
"metodo della bilateralità”, in vista dell’elaborazione della disciplina di
ambiti collegati ai caratteri peculiari delle singole confessioni religiose (sentenza n. 346 del
2002). Le intese sono perciò volte a riconoscere le esigenze specifiche di
ciascuna delle confessioni religiose (sentenza n. 235
del 1997), ovvero a concedere loro particolari vantaggi o eventualmente a
imporre loro particolari limitazioni (sentenza n. 59 del
1958), ovvero ancora a dare rilevanza, nell’ordinamento, a specifici atti
propri della confessione religiosa. Tale significato dell’intesa, cioè il suo
essere finalizzata al riconoscimento di esigenze peculiari del gruppo
religioso, deve restare fermo, a prescindere dal fatto che la prassi mostri una
tendenza alla uniformità dei contenuti delle intese effettivamente stipulate,
contenuti che continuano tuttavia a dipendere, in ultima analisi, dalla volontà
delle parti.
Ciò che la Costituzione ha inteso evitare
è l’introduzione unilaterale di una speciale e derogatoria regolazione dei
rapporti tra lo Stato e la singola confessione religiosa, sul presupposto che
la stessa unilateralità possa essere fonte di discriminazione: per questa
fondamentale ragione, gli specifici rapporti tra lo Stato e ciascuna singola
confessione devono essere retti da una legge «sulla base di intese».
È essenziale sottolineare, nel solco
della giurisprudenza di questa Corte, che, nel sistema costituzionale, le
intese non sono una condizione imposta dai pubblici poteri allo scopo di
consentire alle confessioni religiose di usufruire della libertà di
organizzazione e di azione, o di giovarsi dell’applicazione delle norme, loro
destinate, nei diversi settori dell’ordinamento. A prescindere dalla
stipulazione di intese, l’eguale libertà di organizzazione e di azione è
garantita a tutte le confessioni dai primi due commi dell’art. 8 Cost. (sentenza n. 43 del
1988) e dall’art. 19 Cost, che tutela l’esercizio della libertà religiosa
anche in forma associata. La giurisprudenza di questa Corte è anzi costante
nell’affermare che il legislatore non può operare discriminazioni tra
confessioni religiose in base alla sola circostanza che esse abbiano o non
abbiano regolato i loro rapporti con lo Stato tramite accordi o intese (sentenze n. 346 del
2002 e n.
195 del 1993).
Allo stato attuale del diritto positivo,
non risultano perciò corretti alcuni assunti dai quali muovono sia la sentenza
delle sezioni unite della Corte di cassazione che ha dato origine al presente
conflitto, sia il soggetto interveniente. Non può affermarsi, infatti, che la
mancata stipulazione di un’intesa sia, di per sé, incompatibile con la garanzia
di eguaglianza tra le confessioni religiose diverse da quella cattolica,
tutelata dall’art. 8, primo comma, Cost.
Nel nostro ordinamento non esiste una
legislazione generale e complessiva sul fenomeno religioso, alla cui
applicazione possano aspirare solo le confessioni che stipulano un accordo con
lo Stato. Peraltro, la necessità di una tale pervasiva disciplina legislativa non
è affatto imposta dalla Costituzione, che tutela al massimo grado la libertà
religiosa. E sicuramente la Costituzione impedisce che il legislatore, in vista
dell’applicabilità di una determinata normativa attinente alla libertà di
culto, discrimini tra associazioni religiose, a seconda che abbiano o meno
stipulato un’intesa.
Con riferimento agli ordinamenti che,
invece, subordinano l’accesso alla disciplina prevista per le associazioni
religiose ad un riconoscimento pubblico, o a quelli ove si riscontra, comunque,
un più dettagliato assetto normativo in tema di associazioni e confessioni
religiose, la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenze
12 marzo 2009, Gütl contro Austria e Löffelmann contro Austria; sentenza 19 marzo 2009, Lang
contro Austria; sentenza
9 dicembre 2010, Savez crkava
"Riječ života” e altri
contro Croazia; sentenza
25 settembre 2012 Jehovas Zeugen
in Österreich contro Austria) ha potuto
identificare casi nei quali un’applicazione discriminatoria della normativa
comporta una violazione degli artt. 9 e 14 della Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma
il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n.
848. Nel nostro ordinamento, invece, caratterizzato dal principio di laicità e,
quindi, di imparzialità ed equidistanza rispetto a ciascuna confessione
religiosa (sentenze
n. 508 del 2000 e n. 329 del 1997),
non è in sé stessa la stipulazione dell’intesa a consentire la realizzazione
dell’eguaglianza tra le confessioni: quest’ultima risulta invece
complessivamente tutelata dagli artt. 3 e 8, primo e secondo comma, Cost.,
dall’art. 19 Cost., ove è garantito il diritto di tutti di professare
liberamente la propria fede religiosa, in forma individuale o associata, nonché
dall’art. 20 Cost..
Per queste ragioni, non è corretto
sostenere che l’art. 8, terzo comma, Cost. sia disposizione procedurale
meramente servente dei – e perciò indissolubilmente legata ai – primi due
commi, e quindi alla realizzazione dei principi di eguaglianza e pluralismo in
materia religiosa in essi sanciti. Il terzo comma, invece, ha l’autonomo
significato di permettere l’estensione del "metodo bilaterale” alla materia dei
rapporti tra Stato e confessioni non cattoliche, ove il riferimento a tale
metodo evoca l’incontro della volontà delle due parti già sulla scelta di
avviare le trattative.
Diversa potrebbe essere la conclusione,
anche in ordine alla questione posta dal presente conflitto, se il legislatore
decidesse, nella sua discrezionalità, di introdurre una compiuta regolazione
del procedimento di stipulazione delle intese, recante anche parametri
oggettivi, idonei a guidare il Governo nella scelta dell’interlocutore. Se ciò
accadesse, il rispetto di tali vincoli costituirebbe un requisito di
legittimità e di validità delle scelte governative, sindacabile nelle sedi
appropriate (sentenza
n. 81 del 2012).
5.2.– La decisione del presente
conflitto richiede preliminarmente di stabilire se nel nostro ordinamento sia
configurabile una pretesa giustiziabile all’avvio delle trattative –
preordinate alla conclusione di un’intesa ex
art. 8, terzo comma, Cost. – con conseguente sindacabilità, da parte dei
giudici comuni, del diniego eventualmente opposto dal Governo, a fronte di una
richiesta avanzata da un’associazione che alleghi il proprio carattere
religioso.
Ritiene questa Corte che ragioni
istituzionali e costituzionali ostino alla configurabilità di una siffatta
pretesa.
Vi osta, innanzitutto, il riferimento al
metodo della bilateralità, immanente alla ratio
del terzo comma dell’art. 8 Cost., che – tanto più in assenza di una specifica
disciplina procedimentale – pretende una concorde volontà delle parti, non solo
nel condurre e nel concludere una trattativa, ma anche, prima ancora, nell’iniziarla.
L’affermazione di una sindacabilità in sede giudiziaria del diniego di avvio
delle trattative – con conseguente possibilità di esecuzione coattiva del
riconosciuto "diritto”, e del correlativo obbligo del Governo, all’avvio di
quelle – inserirebbe, invece, un elemento dissonante rispetto al metodo della
bilateralità, ricavabile dalla norma costituzionale in esame.
In secondo luogo, un’autonoma pretesa
giustiziabile all’avvio delle trattative non è configurabile proprio alla luce
della non configurabilità di una pretesa soggettiva alla conclusione positiva
di esse.
La sentenza impugnata afferma di non
doversi pronunciare su tale ultimo aspetto; mentre l’interveniente – asserendo
che la giurisdizione del giudice comune dovrebbe arrestarsi solo a partire dal
momento in cui l’iniziativa legislativa sulla base dell’intesa, ormai conclusa,
sia esercitata – sembra per vero intendere che una siffatta pretesa, sotto il
controllo del giudice comune, sarebbe configurabile. Il ricorrente, per parte
sua, sottolinea di poter recedere, in qualunque momento, dalle trattative,
ricavandone che il preteso "diritto” all’apertura di esse sarebbe, in realtà,
un «interesse di mero fatto non qualificato, privo di protezione giuridica».
Orbene – essendo caratteristica del
procedimento il suo scopo unitario, in tal caso la stipulazione dell’intesa, ed
essendo l’apertura del negoziato strutturalmente e funzionalmente collegata a
tale atto finale – risulta contraddittorio negare l’azionabilità di un
"diritto” all’intesa, quale risultato finale delle trattative, e al contempo
affermare la giustiziabilità del diniego all’avvio delle stesse: giacché non si
comprende a che scopo imporre l’illusoria apertura di trattative di cui non si
assume garantita giudizialmente la conclusione.
Di converso, e conseguentemente, è
proprio la non configurabilità di una pretesa alla conclusione positiva del
negoziato e quindi alla stipulazione dell’intesa, a svuotare di significato
l’affermazione di una pretesa soltanto al suo avvio. Non si vedrebbe, del
resto, in quali forme giudiziali e con quali strumenti tale stipulazione
potrebbe essere garantita all’associazione richiedente e imposta al Governo.
La non giustiziabilità della pretesa
all’avvio delle trattative, inoltre, si fonda su ulteriori argomenti del
massimo rilievo istituzionale e costituzionale.
Per il Governo, l’individuazione dei
soggetti che possono essere ammessi alle trattative, e il successivo effettivo
avvio di queste, sono determinazioni importanti, nelle quali sono già impegnate
la sua discrezionalità politica, e la responsabilità che normalmente ne deriva
in una forma di governo parlamentare.
Vi è qui, in particolare, la necessità
di ben considerare la serie di motivi e vicende, che la realtà mutevole e
imprevedibile dei rapporti politici interni ed internazionali offre copiosa, i
quali possono indurre il Governo a ritenere non opportuno concedere
all’associazione, che lo richiede, l’avvio delle trattative.
A fronte di tale estrema varietà di
situazioni, che per definizione non si presta a tipizzazioni, al Governo spetta
una discrezionalità ampia, il cui unico limite è rintracciabile nei principi
costituzionali, e che potrebbe indurlo a non concedere nemmeno quell’implicito
effetto di "legittimazione” in fatto che l’associazione potrebbe ottenere dal
solo avvio delle trattative. Scelte del genere, per le ragioni che le motivano,
non possono costituire oggetto di sindacato da parte del giudice.
Questa Corte ha già affermato che, in
una situazione normativa in cui la stipulazione delle intese è rimessa non solo
alla iniziativa delle confessioni interessate, ma anche al consenso del
Governo, quest’ultimo «non è vincolato oggi a norme specifiche per quanto
riguarda l’obbligo, su richiesta della confessione, di negoziare e di stipulare
l’intesa» (sentenza
n. 346 del 2002). Ciò dev’essere in questa sede confermato, considerando
altresì che lo schema procedurale, unicamente ricavabile dalla prassi fin qui
seguita nella stipulazione d’intese, non può dare origine a vincoli
giustiziabili.
Negando l’avvio alle trattative, il
Governo non sfuggirebbe, tuttavia, ad ogni imputazione di responsabilità.
L’art. 2, comma 3, lettera l), della
legge n. 400 del 1988 sottopone alla deliberazione dell’intero Consiglio dei
ministri «gli atti concernenti i rapporti previsti dall’articolo 8 della
Costituzione». E poiché tra questi atti è sicuramente ricompresa la
deliberazione di diniego di avvio delle trattative, è giocoforza riconoscere
che anche di tale decisione il Governo risponde di fronte al Parlamento, con le
modalità attraverso le quali la responsabilità politica dell’esecutivo è
attivabile in una forma di governo parlamentare. La riserva di competenza a
favore del Consiglio dei ministri, in ordine alla decisione di avviare o meno
le trattative, ha l’effetto di rendere possibile, secondo i principi propri del
governo parlamentare, l’effettività del controllo del Parlamento fin dalla fase
preliminare all’apertura vera e propria delle trattative, controllo ben
giustificato alla luce dei delicati interessi protetti dal terzo comma
dell’art. 8 Cost.
In definitiva, un insieme complesso di
ragioni, apprezzabili su piani diversi, inducono a giudicare non fondata la
tesi esposta nella sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione e
negli scritti difensivi dell’interveniente. Tutte queste ragioni, invece,
convergono nel far ritenere che, alla luce di un ragionevole bilanciamento dei
diversi interessi protetti dagli artt. 8 e 95 Cost., non sia configurabile – in
capo ad una associazione che ne faccia richiesta, allegando la propria natura
di confessione religiosa – una pretesa giustiziabile all’avvio delle trattative
ex art. 8, terzo comma, Cost.
Dal disconoscimento dell’esistenza di tale
pretesa, discende l’accoglimento del ricorso per conflitto, nei termini che
verranno di seguito precisati.
5.3.– Spetta, dunque, al Consiglio dei
ministri valutare l’opportunità di avviare trattative con una determinata
associazione, al fine di addivenire, in esito ad esse, alla elaborazione
bilaterale di una speciale disciplina dei reciproci rapporti. Di tale decisione
– e, in particolare, per quel che in questa sede interessa, della decisione di
non avviare le trattative – il Governo può essere chiamato a rispondere
politicamente di fronte al Parlamento, ma non in sede giudiziaria. Non spettava
perciò alla Corte di cassazione, sezioni unite civili, affermare la
sindacabilità di tale decisione ad opera dei giudici comuni.
Va, tuttavia, precisato che – così come
la valutazione riservata al Governo è strettamente riferita e confinata
all’oggetto di cui si controverte nel presente conflitto, cioè alla decisione
se avviare le trattative in parola – allo stesso modo l’atto di diniego di cui
si ragiona non può produrre, nell’ordinamento giuridico, effetti ulteriori
rispetto a quelli cui è preordinato.
Tale atto – nella misura e per la parte
in cui si fondi sul presupposto che l’interlocutore non sia una confessione
religiosa, come avvenuto nel caso da cui origina il presente conflitto – non
determina ulteriori conseguenze negative, diverse dal mancato avvio del
negoziato, sulla sfera giuridica dell’associazione richiedente, in virtù dei
principi espressi agli artt. 3, 8, 19 e 20 Cost.
Le confessioni religiose, a prescindere
dalla circostanza che abbiano concluso un’intesa, sono destinatarie di una
serie complessa di regole, in vari settori. E la giurisprudenza di questa Corte
afferma che, in assenza di una legge che definisca la nozione di "confessione
religiosa”, e non essendo sufficiente l’auto-qualificazione, «la natura di
confessione potrà risultare anche da precedenti riconoscimenti pubblici, dallo
statuto che ne esprima chiaramente i caratteri, o comunque dalla comune
considerazione», dai criteri che, nell’esperienza giuridica, vengono utilizzati
per distinguere le confessioni religiose da altre organizzazioni sociali (sentenza n. 195 del
1993; in termini analoghi, sentenza n. 467 del
1992).
In questo contesto, l’atto governativo
di diniego all’avvio delle trattative, nella parte in cui nega la qualifica di
"confessione religiosa” all’associazione richiedente, non può avere efficacia
esterna al procedimento di cui all’art. 8, terzo comma, Cost., e non può
pregiudicare ad altri fini la sfera giuridica dell’associazione stessa.
Un eventuale atto lesivo, adottato in
contesti ovviamente distinti rispetto a quello ora in questione, potrà essere
oggetto di controllo giudiziario, nelle forme processuali consentite
dall’ordinamento, allo scopo di sindacare la mancata qualificazione di
confessione religiosa che pretendesse di fondarsi sull’atto governativo.
Nel delicato ambito del pluralismo
religioso disegnato dalla Costituzione, non sono infatti configurabili "zone
franche” dal sindacato del giudice, che è posto a presidio dell’uguaglianza di
tutte le confessioni garantita dagli artt. 3, 8, 19 e 20 Cost.
In definitiva, un conto è
l’individuazione, in astratto, dei caratteri che fanno di un gruppo sociale con
finalità religiose una confessione, rendendola, come tale, destinataria di
tutte le norme predisposte dal diritto comune per questo genere di associazioni.
Un altro conto è la valutazione del Governo circa l’avvio delle trattative ex art. 8, terzo comma, Cost., nel cui
ambito ricade anche l’individuazione, in concreto, dell’interlocutore.
Quest’ultima è scelta nella quale hanno peso decisivo delicati apprezzamenti di
opportunità, che gli artt. 8, terzo comma, e 95 Cost. attribuiscono alla
responsabilità del Governo.
In quest’ambito circoscritto, e solo in
esso, appartiene dunque al Consiglio dei ministri discrezionalità politica,
sotto il sempre possibile controllo del Parlamento, cui non può sovrapporsi il
sindacato del giudice.
Va, pertanto, annullata l’impugnata
sentenza della Corte di cassazione, sezioni unite civili.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara che non spettava alla Corte di cassazione affermare
la sindacabilità in sede giurisdizionale della delibera con cui il Consiglio
dei ministri ha negato all’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti
l’apertura delle trattative per la stipulazione dell’intesa di cui all’art. 8,
terzo comma, della Costituzione e, per l’effetto, annulla la sentenza
della Corte di cassazione, sezioni unite civili, 28 giugno 2013, n. 16305.
Così deciso in Roma, nella sede della
Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 27 gennaio 2016.
F.to:
Marta
CARTABIA, Presidente
Nicolò
ZANON, Redattore
Roberto
MILANA, Cancelliere
Depositata
in Cancelleria il 10 marzo 2016.