SENTENZA N. 88
ANNO 2012
Commento alla decisione di
I. Renzo Dickmann, La
Corte costituzionale precisa (e ridimensiona) il ruolo del "Tribunale dei
ministri” e delle Camere nel procedimento per reati del Presidente del
Consiglio e dei Ministri, (per
gentile concessione della Rivista telematica Federalismi.it)
II. Arianna Carminati, La
Corte costituzionale decide i conflitti "Berlusconi” e "Mastella” in materia di
reati ministeriali e "taglia i ponti” tra le camere e l’autorità giudiziaria
(per gentile concessione della Rivista telematica dell’AIC – Associazione Italiana dei
Costituzionalisti)
III. Eric Furno,
Le nuove sentenze " gemelle "
della Corte costituzionale sui reati ministeriali: un finale di partita? (per gentile concessione della Rivista Giurisprudenza
Italiana)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
composta dai signori:
-
-
- Luigi MAZZELLA ”
-
-
-
-
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario
Rosario MORELLI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio per conflitto di
attribuzione tra poteri dello Stato sorto in seguito all’apertura delle
indagini da parte del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Santa
Maria Capua Vetere, alle successive richieste di rinvio a giudizio, dell’11 maggio
2009 (R.G.N.R. n. 8213/2009) e del 2 febbraio 2010 (R.G.N.R. n. 5736/2010), da
parte del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli e
all’ordinanza del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Napoli del
20 ottobre 2010, promosso dal Senato della Repubblica con ricorso notificato il
19 aprile 2011, depositato in cancelleria il 16 maggio 2011, ed iscritto al n.
12 del registro conflitti tra poteri dello Stato 2010, fase di merito.
Visto l’atto di intervento della Camera dei deputati;
udito nell’udienza pubblica del 14 febbraio
2012 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi;
uditi gli avvocati Piero
Ritenuto in fatto
1.− Con ricorso depositato il 21
dicembre 2010, il Senato della Repubblica ha sollevato conflitto di
attribuzione tra poteri dello Stato, nei confronti del Procuratore della
Repubblica presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, del Procuratore
della Repubblica presso il Tribunale di Napoli, e del Giudice dell’udienza
preliminare di quest’ultimo Tribunale, chiedendo alla Corte di dichiarare che
non spettava a tali organi aprire e proseguire un procedimento penale a carico
del Ministro della giustizia in carica all’epoca dei fatti Clemente Mastella,
senza trasmettere, invece, gli atti ai sensi dell’art. 6 della legge
costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1 (Modifiche degli articoli 96, 134 e 135
della Costituzione e della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1, e norme in
materia di procedimenti per i reati di cui all’articolo 96 della Costituzione),
perché di tale procedimento fosse investito il Collegio per i reati
ministeriali (di seguito anche tribunale dei ministri), e, comunque, senza
informare
Il Senato contesta alla Procura di Santa
Maria Capua Vetere di avere iniziato l’indagine penale; alla Procura di Napoli
(cui gli atti sono stati trasmessi per competenza territoriale) di averla
proseguita, e di avere formulato una duplice richiesta di rinvio a giudizio a
carico del ministro Mastella; al Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale
di Napoli, investito della richiesta, di avere rigettato l’"eccezione di
incompetenza funzionale” formulata nei suoi confronti dalla difesa
dell’imputato, e di avere disposto che il procedimento proseguisse "secondo il
rito ordinario”.
In particolare, prosegue il Senato, a
seguito di indagini aperte dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere e concluse
da quella di Napoli, senza che, in entrambi i casi, gli atti fossero stati
trasmessi al tribunale dei ministri, sono state formulate due richieste di
rinvio a giudizio a carico del ministro Mastella (l’una dell’11 maggio 2009,
nel procedimento penale di cui al R.G.N.R. n. 8213/09; l’altra, del 2 febbraio
2010, nel procedimento penale di cui al R.G.N.R. n. 5736/10). Nell’udienza del
20 ottobre 2010, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Napoli,
con ordinanza, ha poi disposto che il procedimento avesse corso innanzi a sé.
Con tali omissioni e con tali atti, di
cui il Senato chiede l’annullamento, l’autorità giudiziaria avrebbe menomato le
attribuzioni costituzionali spettanti al Senato in base all’art. 96 Cost., in
forza delle quali
Nel caso di specie, viceversa, il
Senato, ignaro della pendenza del procedimento, sarebbe stato «posto nella
condizione inammissibile di dovere ricercare altrimenti le informazioni
necessarie all’esercizio dei suoi poteri di prerogativa». Dapprima, il 22
dicembre 2009 e il 17 giugno 2010, attivando il Ministro della giustizia pro tempore affinché acquisisse ogni elemento conoscitivo
utile e, in seguito, il 30 ottobre 2010, richiedendo la trasmissione degli atti
direttamente al Presidente del Tribunale di Napoli, che, il 16 novembre 2010,
avrebbe dato atto dell’intervenuta trasmissione, in data 2 novembre 2010, da
parte del Procuratore della Repubblica al Ministro della giustizia, a seguito
di richiesta del precedente 4 ottobre.
Il ricorrente osserva che, fin dalle origini,
l’ordinamento repubblicano, pur devolvendo alla Corte costituzionale il
giudizio sui reati ministeriali, aveva avvertito la necessità di «una
disciplina analitica dei rapporti fra la giurisdizione penale costituzionale e
la giurisdizione penale comune», disposta sia con gli artt. da
A seguito della revisione dell’art. 96
Cost., a parere del Senato ricorrente, permane la medesima esigenza di
coinvolgere in ogni caso
Per tale ragione, e al fine di
consentire l’eventuale esercizio del potere di autorizzazione previsto
dall’art. 96 Cost., «il collegio per i reati ministeriali costituisce il
raccordo indefettibile per la regolazione dei rapporti dell’autorità
giudiziaria con le Camere rappresentative»: esso, perciò, andrebbe investito ai
sensi dell’art. 6 della legge cost. n. 1 del 1989 di ogni notizia di reato
concernente un ministro, affinché eserciti la propria valutazione anche in ordine
al carattere ministeriale del reato ed attivi, in tal caso,
Deve, viceversa, negarsi, secondo il
Senato, che (come avrebbe affermato il Giudice dell’udienza preliminare del
Tribunale di Napoli) sussista «una sorta di competenza esclusiva sulla
competenza del potere parlamentare», esercitabile dall’autorità giudiziaria:
tale sarebbe infatti la conclusione ove quest’ultima potesse procedere per
un’ipotesi di reato avverso un ministro nelle forme ordinarie, eludendo le
attribuzioni del tribunale dei ministri, e conseguentemente quelle, ad esse
collegate da "un nesso strettissimo”, della Camera.
Ciò si sarebbe verificato nel caso di
specie per la condotta sia delle procure, sia del giudice dell’udienza
preliminare, il quale avrebbe dovuto invece «quanto meno (…) provvedere
autonomamente» ad informare il Senato.
Secondo il ricorrente, inoltre, non
sarebbe discutibile la propria legittimazione a sollevare il conflitto, in
quanto il Senato della Repubblica è
Afferma infine il ricorrente di avere
interesse a proporre il ricorso, dal momento che l’illegittima procedura con
cui l’autorità giudiziaria ordinaria ha qualificato come non ministeriale gli
illeciti addebitati al ministro Mastella lo avrebbe privato di ogni possibilità
di partecipazione e coinvolgimento nel procedimento, indispensabili per il
compimento delle proprie valutazioni al riguardo.
2.− Con memoria depositata il 16
febbraio 2011 il Senato ha insistito ai fini dell’ammissibilità del conflitto,
ribadendo tanto la propria legittimazione attiva, quanto la legittimazione
passiva delle autorità giudiziarie coinvolte.
In particolare, il Senato osserva che
non viene lamentato il disconoscimento della qualità ministeriale del reato
contestato al ministro, ma «piuttosto che una tale valutazione gli sia stata
resa impossibile a causa del totale indebito difetto, da parte delle varie
autorità giurisdizionali procedenti, di ogni comunicazione e di qualsiasi
informazione relative al procedimento posto in essere nei confronti del
ministro».
3.− Con ordinanza n. 104
del 2011 questa Corte ha dichiarato ammissibile il conflitto, disponendo la
notifica degli atti anche alla Camera dei deputati.
4.− Con atto depositato il 27
maggio 2011, è intervenuta nel giudizio
5.− In vista dell’udienza
pubblica, sia il Senato ricorrente, sia
Richiamati alcuni passaggi dei lavori
parlamentari relativi alla legge cost. n. 1 del 1989, il ricorrente sottolinea
il particolare intento del legislatore costituzionale di precludere, nella
disciplina in esame, l’esercizio del potere di svolgimento delle indagini
preliminari sia ai pubblici ministeri territorialmente competenti, sia al
procuratore della Repubblica del capoluogo. Secondo il Senato, «una lettura
costituzionalmente orientata del sistema ed attenta ai valori costituzionali in
gioco impone di concludere, in via di superamento dell’interpretazione
puramente letterale dell’art. 6 della legge costituzionale n. 1 del 1989, che
oggetto dell’obbligo di trasmissione al collegio inquirente, per il tramite del
procuratore della Repubblica competente, debbano essere non soltanto le notizie
di reato già qualificate dal pubblico ministero come integranti un reato
ministeriale, bensì tutte le notizie che addebitano un fatto-reato ad un
ministro e comunque relative al tempo delle funzioni ministeriali, soltanto a
tale collegio spettando, una volta accertati gli elementi del fatto, di
qualificarlo come connesso o meno all’esercizio delle funzioni». In via del
tutto subordinata, secondo il Senato della Repubblica, andrebbe riconosciuto
che, nel caso in cui un pubblico ministero, cui sia stata presentata una notitia criminis relativa
ad un’ipotesi di reato addebitata ad un ministro, decida erroneamente di
procedere alle relative indagini, si dovrebbe, «quanto meno, fornire
contemporaneamente adeguata informativa al Presidente della Camera di
appartenenza».
6.− Il Senato della Repubblica ha
depositato una seconda memoria, con la quale insiste per l’accoglimento del
ricorso.
Dopo avere nuovamente riassunto i
termini del conflitto, il Senato osserva che in presenza di reati attribuiti a
un ministro è particolarmente complessa "l’individuazione in concreto” della
loro natura: sarebbe perciò necessario affidare questo compito ad un organo
"terzo” come il tribunale dei ministri.
Al contrario, sarebbe "paradossale” che
il pubblico ministero divenisse «l’autentico deus ex machina dell’applicabilità della speciale normativa
costituzionale», atteso che il disegno costituzionale avrebbe inteso escluderlo
da tale ruolo.
Al contempo, la qualificazione del fatto
può richiedere accertamenti istruttori che, preclusi al pubblico ministero,
neppure questa Corte sarebbe in grado di svolgere in seguito a un eventuale
conflitto di attribuzione, con l’effetto che anche sotto questo aspetto diviene
"risolutivo” avvalersi dell’operato del tribunale dei ministri.
A propria volta la Camera dei deputati
ha depositato una seconda memoria, insistendo per l’accoglimento del conflitto.
La Camera contesta, in particolare, che
la qualificazione giuridica del reato possa spettare in via esclusiva
all’autorità giudiziaria.
Infatti, anche alla luce della sentenza n. 241 del
2009 di questa Corte, si dovrebbe ritenere che «il potere politico autorizzatorio» delle Camere implichi il «potere di
qualificazione dei presupposti della garanzia», in assenza del quale il primo
verrebbe frustrato.
In altri termini, «chi è titolare del
potere di decidere della garanzia, in definitiva, deve necessariamente essere
titolare del potere di qualificazione dei presupposti della garanzia stessa»,
anche perché la qualificazione del fatto «è cruciale per la sorte della
garanzia».
La Camera potrebbe, pertanto, negare
l’autorizzazione a procedere ove «ritenesse carente, in radice, la stessa ministerialità del reato»; per contro, qualora l’autorità
giudiziaria proseguisse nelle forme comuni, le Camere potrebbero non solo
sollevare conflitto innanzi a questa Corte, ma direttamente affermare la ministerialità del fatto, obbligando l’autorità giudiziaria
a farsi promotrice del conflitto.
Infatti, a parere della Camera, potere
(politico) autorizzatorio e giurisdizionalizzazione
sono aspetti del medesimo disegno riformatore.
La Camera non nega che spetti anche
all’autorità giudiziaria la qualificazione del reato, ma contesta che esso sia
esclusivo, e comunque aggiunge che, ove il Parlamento abbia riconosciuto la ministerialità del reato, il giudice dovrà limitarsi a
sollevare conflitto innanzi a questa Corte.
Considerato in diritto
1.− Il Senato della Repubblica ha
sollevato conflitto di attribuzione fra i poteri dello Stato nei confronti del
Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, del
Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli, e del Giudice
dell’udienza preliminare del Tribunale di Napoli, con riguardo all’attività di
indagine e all’attività giurisdizionale svolta da tali organi nei riguardi, tra
gli altri, di Clemente Mastella, Ministro della giustizia in carica all’epoca
dei fatti.
In particolare, la Procura di Santa
Maria Capua Vetere aveva iniziato nei confronti del ministro Mastella un
procedimento penale, attribuendogli, in concorso con terzi, i delitti di abuso
d’ufficio e concussione, asseritamente commessi nella
qualità di "segretario nazionale del partito politico UDEUR”, e nel periodo di
tempo in cui era ministro.
Gli atti erano stati successivamente
trasmessi per competenza territoriale alla Procura di Napoli, che aveva
proseguito le indagini, formulando all’esito di esse una duplice richiesta di
rinvio a giudizio (R.G.N.R. n. 8213/2009 e R.G.N.R. n. 5736/2010) nei
confronti, tra gli altri, del ministro.
Il Giudice dell’udienza preliminare del
Tribunale di Napoli, chiamato a pronunciarsi in merito, con ordinanza del 20
ottobre 2010, aveva infine rigettato l’eccezione di incompetenza funzionale
prospettatagli dalla difesa del ministro Mastella a favore del Collegio per i
reati ministeriali (di seguito anche tribunale dei ministri) previsto dall’art.
7 della legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1 (Modifiche degli articoli
96, 134 e 135 della Costituzione e della legge costituzionale 11 marzo 1953, n.
1, e norme in materia di procedimenti per i reati di cui all’articolo 96 della
Costituzione), escludendo che i reati contestati avessero natura ministeriale
ai sensi dell’art. 96 della Costituzione, e postulando, nel contempo, la
prerogativa esclusiva dell’autorità giudiziaria di procedere a siffatta
qualificazione.
Con l’odierno ricorso, il Senato,
informato dei fatti fin dal 28 ottobre del 2010 dal ministro imputato, ha
chiesto a questa Corte di dichiarare che non spettava ai Procuratori della
Repubblica di Santa Maria Capua Vetere e di Napoli avviare indagini, né a
quest’ultimo formulare le conseguenti richieste di rinvio a giudizio, omettendo
di trasmettere gli atti al tribunale dei ministri, ai sensi dell’art. 6 della
legge cost. n. 1 del 1989; ed inoltre, che non spettava al Giudice dell’udienza
preliminare del Tribunale di Napoli procedere nelle forme ordinarie, invece di
accogliere l’eccezione di incompetenza funzionale sollevata dalla difesa e di
investire del procedimento il tribunale dei ministri. Con ulteriore richiesta
di annullamento degli atti da cui è originato il conflitto.
In secondo luogo, benché tale domanda
non sia resa esplicitamente nelle conclusioni, il Senato, secondo
un’interpretazione del ricorso che questa Corte ritiene univoca, ha altresì
chiesto di dichiarare che all’autorità giudiziaria non spettava comunque
procedere nei confronti del ministro, senza contestualmente informarne
È evidente che si tratta di questioni
circa la spettanza del potere da porre in una linea di subordinazione della
seconda alla prima, per quanto è evincibile dal tenore letterale e logico del
ricorso. Infatti, ove si ritenga che il tribunale dei ministri dovesse essere
investito del procedimento, le modalità di interazione tra gli organi della
giurisdizione ed il Parlamento, ivi compresa l’informazione «per via
istituzionale ed in forma ufficiale» che al Senato sarebbe spettata anche per
l’ipotesi di reato da ultimo ritenuto comune (sentenza n. 241 del
2009), avrebbero dovuto essere interamente regolate dalla procedura a tale
scopo istituita dalla legge cost. n. 1 del 1989, con esclusione di altri,
prematuri, canali formali di comunicazione.
Ne consegue che questa Corte è tenuta
dapprima a decidere se l’autorità giudiziaria, una volta ritenuto che i reati
attribuiti al ministro avevano natura comune, avrebbe potuto procedere nelle
forme ordinarie, o avrebbe, invece, dovuto attivare comunque la procedura che
conduce al tribunale dei ministri.
Solo se quest’ultima soluzione fosse
esclusa, si porrebbe, in seconda istanza, la necessità di stabilire se, in ogni
caso, il Senato dovesse essere informato dall’autorità giudiziaria della
pendenza del procedimento.
Parimenti, distinto è il fondamento
costituzionale delle due questioni oggetto del conflitto. Con riferimento alla
prima, il Senato desume la propria attribuzione costituzionale dall’art. 96
Cost. e dall’art. 6 della legge cost. n. 1 del 1989, giacché postula che tali
disposizioni comportino l’obbligo del pubblico ministero, destinatario di una
notizia di reato a carico di un ministro, di inviare gli atti al procuratore
della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto di corte
d’appello competente per territorio, affinché quest’ultimo, omessa ogni
indagine, ne investa tempestivamente il tribunale dei ministri.
Il Senato, prendendo spunto dalla sentenza n. 241 del
2009 di questa Corte, ritiene che tali passaggi siano funzionali a
proteggere l’esercizio, da parte della Camera competente, dell’attribuzione
garantita dall’art. 96 Cost., ovvero a deliberare sull’autorizzazione a
procedere ivi stabilita per i reati commessi dal Presidente dei Consiglio dei
ministri e dai ministri nell’esercizio delle loro funzioni, negandola quando
«l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato
costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente
interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo» (art. 9, comma 3,
della legge cost. n. 1 del 1989).
Posto che una tale attribuzione
costituzionale potrebbe venire aggirata, ove l’autorità giudiziaria perseguisse
il reato ministeriale come se esso fosse invece di natura comune, sarebbe,
secondo il Senato, giocoforza ammettere che, in presenza di un’indagine penale
a carico di un ministro, il tribunale dei ministri debba operare da necessario
anello di collegamento tra il potere giudiziario, cui esso appartiene, ed il
Parlamento, consentendo in tal modo che quest’ultimo sia in ogni caso reso
edotto della fattispecie, e sia chiamato ad esercitare la propria prerogativa
costituzionale, delibando sulla natura ministeriale dell’imputazione penale.
Infatti, la Camera competente viene
sollecitata a pronunciarsi sull’autorizzazione nell’ipotesi in cui il tribunale
dei ministri concluda per la ministerialità del
reato, ma viene chiamata in causa, se del caso sollevando conflitto innanzi a
questa Corte, anche quando è invece disposta la c.d. archiviazione asistematica.
In altre parole, una volta investito il tribunale dei ministri, se il reato è
ritenuto privo di carattere ministeriale, l’autorità giudiziaria provvede a
perseguirlo nelle forme comuni, ma ne dà comunque informazione al Parlamento
(art. 8, comma 4, della legge cost. n. 1 del 1989), giacché «all’organo
parlamentare (…) non può essere sottratta una propria, autonoma valutazione
sulla natura ministeriale o non ministeriale dei reati oggetto di indagine
giudiziaria, né tantomeno – ove non condivida la conclusione negativa espressa
dal tribunale dei ministri – la possibilità di sollevare un conflitto di
attribuzione davanti alla Corte costituzionale, assumendo di essere stato
menomato, per effetto della decisione giudiziaria, della potestà
riconosciutagli dall’art. 96 Cost.» (sentenza n. 241 del
2009).
Ciò detto con riferimento alla questione
di spettanza posta in via principale, va aggiunto che, ove non sia stato
investito il tribunale dei ministri, l’obbligo dell’autorità giudiziaria di
informare ufficialmente il Parlamento viene invece desunto, da parte del Senato
ricorrente, in forza del principio di leale collaborazione fra i poteri dello
Stato, e sarebbe a propria volta strumentale rispetto all’eventualità di
sollevare conflitto di attribuzione innanzi a questa Corte, ove le Camere
dovessero dissentire dalla qualificazione giuridica del fatto operata
dall’autorità giudiziaria.
2.− In via preliminare, va
affermata definitivamente l’ammissibilità del conflitto, già ritenuta con l’ordinanza n. 104
del 2011, posto che ne sussistono i requisiti oggettivi e soggettivi.
Non vi sono dubbi, in particolare, circa
la legittimazione a sollevare conflitto da parte del Senato della Repubblica (sentenze n. 241 del
2009 e n.
403 del 1994; ordinanze n. 313 e n. 241 del 2011,
n. 211 del 2010,
n. 8 del 2008
e n. 217 del
1994), cui spetterebbe pronunciarsi ai sensi dell’art. 96 Cost. nel caso di
specie, giacché il ministro non è allo stato membro del Parlamento, né più lo
era, ammesso che ciò rilevi, quando l’autorità giudiziaria, adottando gli atti
di cui si chiede l’annullamento, si sarebbe sottratta al proprio dovere di
devolvere l’indagine al tribunale dei ministri, e comunque di informarne il
Senato (art. 5 della legge cost. n. 1 del 1989).
Né può venire in contestazione la
legittimazione a resistere dei Procuratori della Repubblica di Santa Maria
Capua Vetere e di Napoli e del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale
di Napoli, in quanto investiti, con riferimento alla vicenda oggetto di
conflitto, gli uni della quota di potere costituzionale preposta all’esercizio
dell’azione penale e allo svolgimento delle indagini ad esso finalizzate
(ordinanze n.
276 del 2008, n.
73 del 2006 e n.
404 del 2005), e l’altro dell’esercizio di funzioni giurisdizionali svolte
in posizione di piena indipendenza (sentenza n. 241 del
2009; ordinanze n. 241 del 2011,
n. 211 del 2010
e n. 8 del 2008).
Infine, la circostanza che il ricorso abbia
ad oggetto atti tipici propri del potere giudiziario non ne mina, nel caso di
specie, l’ammissibilità.
Questa Corte ha costantemente affermato,
a tale proposito, che il conflitto di attribuzione non può degenerare, a pena
di inammissibilità, in strumento atipico di impugnazione diretto contro atti
giurisdizionali (sentenze n. 222 e n. 2 del 2007; ordinanza n. 334
del 2008) e che non è compito della giurisdizione costituzionale «stabilire
i corretti criteri interpretativi e applicativi delle regole processuali» (sentenza n. 225 del
2001). Tale principio, che va qui pienamente ribadito, non è invocabile,
tuttavia, nelle ipotesi in cui venga posta in discussione non già la fedele
applicazione della legge da parte dell’autorità giudiziaria, ma l’assunzione da
parte di quest’ultima di una decisione estranea all’ambito oggettivo della
giurisdizione di cui il magistrato è titolare, comunque idonea a menomare
l’altrui attribuzione costituzionale.
Coltivando l’azione penale nelle forme
ordinarie, i Procuratori della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere e di
Napoli, e il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Napoli
avrebbero, secondo la prospettazione del Senato, esercitato una funzione,
rispettivamente di indagine e di giudizio, che non sarebbe loro spettata.
Al riguardo non varrebbe obiettare che
il tribunale dei ministri è organo della giurisdizione ordinaria, sicché,
quand’anche si dovesse ritenerlo destinatario di qualsivoglia notizia di reato
nei riguardi di un ministro, non sarebbe comunque sostenibile che il potere
giudiziario sia carente, nei casi in questione, della potestà giurisdizionale,
atteso che essa si limiterebbe a transitare da un organo all’altro
dell’autorità giudiziaria, secondo criteri di competenza per materia e
territorio. Corollario di simile impostazione sarebbe, dunque, la conclusione
che il Senato avrebbe inammissibilmente devoluto a questa Corte non già un
conflitto di attribuzione fra poteri, ma un mero conflitto di competenza tra
organi della giurisdizione ordinaria, estraneo all’ambito della giurisdizione
costituzionale (sentenza
n. 385 del 1996; ordinanza n. 117
del 2006, entrambe con riferimento ai conflitti di giurisdizione, ma senza
dubbio con argomenti direttamente estensibili ai profili di competenza).
Una simile prospettiva trascura di
considerare che in realtà il Senato non ha posto, con l’odierno ricorso, un mero
problema di regolamento di confini tra competenza dell’autorità giudiziaria
comune e tribunale dei ministri, al quale sarebbe infatti stato estraneo.
Piuttosto, l’investitura del tribunale dei ministri, a parere del ricorrente,
sarebbe prodromica al coinvolgimento della Camera competente nella valutazione
concernente la ministerialità del reato.
L’adempimento previsto dall’art. 6 della legge cost. n. 1 del 1989 viene perciò
ricostruito come finalizzato non soltanto ad attivare l’organo giurisdizionale
competente, ma anche a soddisfare una prerogativa costituzionale direttamente e
senza mediazioni intestata al Senato, ai sensi dell’art. 96 Cost. Ciò che viene
in rilievo, pertanto, non è la questione di competenza in sé, ma il fatto che,
omettendo di trasmettere gli atti al tribunale dei ministri, l’autorità
giudiziaria avrebbe menomato l’attribuzione costituzionale propria del Senato,
per l’esercizio della quale detto tribunale agirebbe da indefettibile cerniera
di collegamento.
Nessun dubbio, poi, può nascere a
proposito dell’ammissibilità del ricorso, nella parte in cui, nell’ipotesi di
mancata attivazione del tribunale dei ministri, si contesta al potere
giudiziario di non avere informato il Senato della pendenza del procedimento
penale a carico del ministro: tale prospettazione, svolta sempre in riferimento
all’attribuzione di cui all’art. 96 Cost. ed alla legge cost. n. 1 del 1989,
con riguardo all’osservanza del principio di leale collaborazione, non incide,
infatti, sull’attività giurisdizionale compiuta, se non per il fatto che ad
essa non si è aggiunta, su di un piano parallelo, ma distinto, una condotta che
sarebbe prescritta dal principio di leale collaborazione.
In conclusione, il conflitto è
ammissibile, in quanto diretto anzitutto a preservare un’attribuzione
costituzionale propria del Senato innanzi ad atti assunti dall’autorità
giudiziaria procedente in una situazione che il ricorrente ritiene di carenza
di potestà; e comunque, in linea subordinata, a contestare l’omissione di un
adempimento informativo imposto dal principio di leale collaborazione tra
poteri dello Stato, al fine di consentire al Senato di difendere la medesima
attribuzione.
In tale modo viene delimitato al giusto
l’oggetto del conflitto, con il quale il Senato non afferma, né chiede a questa
Corte di accertare, che i reati per i quali è imputato il ministro abbiano natura ministeriale, ma individua, invece, le
sole modalità procedimentali che, a suo dire, la Costituzione prescriverebbe
sempre di osservare, ove un’indagine penale abbia per destinatario un membro
del Governo.
3.− A parere del Senato della
Repubblica, l’art. 6 della legge cost. n. 1 del 1989 obbligherebbe il pubblico
ministero che abbia acquisito una notizia di reato a carico di un ministro ad
attivarsi, perché il procedimento sia assegnato al Collegio di cui al
successivo art.
Ove tale prospettazione fosse condivisibile,
pertanto, sarebbe sufficiente la sola qualità soggettiva dell’autore del fatto
a incardinare la competenza riservata del tribunale dei ministri, ferma la
possibilità che, all’esito delle indagini, tale organo disponga la c.d.
archiviazione asistematica.
Questa Corte osserva che la posizione
sostenuta dal Senato è in evidente contrasto con la formulazione della norma,
giacché è proprio l’art. 6 della legge cost. n. 1 del
È da aggiungere che la Corte, fin dalla sentenza n. 125 del
1977, non solo ha escluso un simile effetto, ma ha altresì ritenuto che
nella configurazione del reato ministeriale «prevale l’elemento oggettivo su
quello soggettivo».
Tale asserzione è lo specchio
dell’evoluzione che, con l’entrata in vigore della Costituzione, gli istituti
di immunità, e più in generale di deroga alle comuni regole di esercizio della
giurisdizione, hanno assunto, nei confronti di coloro che sono investiti di
pubblici uffici.
Lo Stato costituzionale pone a
fondamento delle proprie dinamiche istituzionali, infatti, i soli poteri legali
che derivano la propria legittimità dalla conformità alle norme superiori
dell’ordine costituzionale, e ne modella lo status
di garanzia con riguardo all’esigenza di preservare l’integrità di
quest’ultimo attraverso il sereno ed equilibrato compimento delle funzioni dei
primi: non vi è spazio nell’ordinamento per potestà sorte in forza di criteri
di legittimazione estranei al sistema delle fonti costituzionali.
La prerogativa stessa, anziché
protezione offerta alla persona, è elemento costitutivo della funzione da
quest’ultima esercitata, che ne limita al contempo l’ambito.
Per tali ragioni, che si collocano alle
fondamenta dello Stato costituzionale, questa Corte è sempre stata costante
nell’escludere che le immunità costituzionali possano trasmodare in privilegi,
come accadrebbe se una deroga al principio di uguaglianza innanzi alla legge
potesse venire indotta direttamente dalla carica ricoperta, anziché dalle
funzioni inerenti alla stessa.
Questo principio è stato affermato in
tutti i casi in cui la Costituzione prevede forme di immunità, sia che si
tratti delle guarentigie dei membri del Parlamento (sentenze n. 10 e n. 11 del 2000),
o del Consiglio regionale (sentenza n. 289 del
1997), sia che venga in gioco la responsabilità penale del Capo dello Stato
(sentenza n. 154
del 2004) o il fondamento costituzionale che assiste l’immunità sostanziale
dei componenti del Consiglio superiore della magistratura per le opinioni
espresse nell’esercizio delle funzioni (sentenza n. 148 del
1983), sia che, infine, venga in questione proprio la responsabilità per
reato ministeriale (sentenza n. 6 del
1970).
Da ultimo, si è anzi precisato che esso
trova applicazione tutte le volte che, in ragione di una prerogativa
costituzionale, vengano introdotte nell’ordito legislativo primario norme di
deroga rispetto al comune regime processuale, giacché «alle origini della
formazione dello Stato di diritto sta il principio della parità di trattamento
rispetto alla giurisdizione» (sentenza n. 24 del
2004). La deviazione dalle ordinarie
regole processuali è tollerata, quanto alla posizione del titolare di un organo
costituzionale, «solo per lo stretto necessario» (sentenza n. 262 del
2009), e, al di fuori di simile limite funzionale, scade in prerogativa
illegittima, se priva di espressa copertura costituzionale (sentenza n. 23 del
2011).
«Le generali regole del processo,
assistite dalle correlative sanzioni, e soggette nella loro applicazione agli
ordinari rimedi processuali», si profilano perciò indefettibili, non appena sia
stato valicato il confine della immunità (sentenza n. 225 del
2001; in seguito, sentenze n. 451 del 2005,
n. 284 del 2004
e n. 263 del
2003).
3.1.– Non vi è dubbio che la
Costituzione abbia inteso riconoscere al Presidente del Consiglio dei ministri
ed ai ministri stessi una forma di immunità in senso lato, consentendo alla
Camera competente di inibire l’esercizio della giurisdizione in presenza degli
interessi indicati dall’art. 9, comma 3, della legge cost. n. 1 del 1989, e
dando vita ad uno speciale procedimento che si innesta nell’ambito delle
peraltro persistenti attribuzioni dell’autorità giudiziaria. Ma l’unica lettura
di questa garanzia compatibile con le premesse appena svolte consiste nel
limitarne l’area al campo dei soli reati commessi nell’esercizio delle
funzioni.
Pur nel silenzio della legge
costituzionale emanata in attuazione dell’art. 96 Cost., pertanto, non sarebbe
stato possibile giungere a conclusioni differenti da quelle che sono, in ogni
caso, chiaramente espresse dalla lettera dell’art. 6 della legge cost. n. 1 del
1989. Né esse potrebbero venire invertite dalla prassi costituzionale, dal
legislatore ordinario, e finanche da questa Corte.
Le immunità riconosciute ai pubblici
poteri, infatti, introducendo una deroga eccezionale al generale principio di
uguaglianza, non possono che originarsi dalla Costituzione (sentenza n. 262 del
2009) e, una volta riscontrata tale derivazione, sono comunque soggette a
stretta interpretazione. Troppo significativo, infatti, nel processo di
formazione dello Stato di diritto, è stato il vincolo progressivo di soggezione
dell’azione degli organi dello Stato al principio di legalità e dunque di piena
sottoposizione al diritto, perché esso possa venire oggi anche solo in parte
affievolito, per effetto di interpretazioni evolutive, che vadano nella
direzione dell’ampliamento dell’area delle immunità costituzionali, oltre le
previsioni della Costituzione.
Nel caso di specie, poi, una tale
operazione ermeneutica è preclusa da ulteriori peculiari considerazioni,
relative alla responsabilità per reato ministeriale.
Come è noto, l’art. 96 Cost., nel testo
originario, stabiliva che il Presidente del Consiglio dei ministri ed i ministri
fossero posti in stato d’accusa (innanzi a questa Corte: art. 134 Cost., nel
testo storico) dal Parlamento in seduta comune per i reati commessi
nell’esercizio delle loro funzioni. L’art. 12 della legge costituzionale 11
marzo 1953, n. 1 (Norme integrative della Costituzione concernenti la Corte
costituzionale), a tale scopo aveva istituito una Commissione parlamentare, cui
la legge 25 gennaio 1962, n. 20 (Norme sui procedimenti e giudizi di accusa),
aveva poi conferito poteri di apprezzamento della effettiva natura del reato e
poteri di indagine. In un simile contesto normativo, la giurisdizione ordinaria
era esclusa da ogni competenza in merito al procedimento, del quale infatti era
tenuta a spogliarsi definitivamente, non appena avesse ravvisato la ministerialità del reato (art. 10 della legge n. 20 del
1962). Si poteva allora concludere che la Costituzione avesse inteso dar luogo
ad un’ipotesi di garanzia nell’ambito dell’ordinamento giuridico, il cui fulcro
riposava sulla integrale sottrazione del reato ministeriale alla giurisdizione
comune.
Il legislatore costituzionale del 1989
si è invece incamminato verso la direzione opposta, optando per la piena riespansione della giurisdizione comune, al di fuori dei
soli limiti eccezionali suggeriti dalla ragione giustificatrice degli istituti
di giustizia politica. A fronte di un reato ministeriale, infatti, oggi spetta
pur sempre ad un organo della giurisdizione ordinaria, ovvero al tribunale dei
ministri, cumulare funzioni inquirenti e giudicanti, al fine di radicare
successivamente, se del caso e previa autorizzazione parlamentare, il giudizio
davanti ad un giudice comune, e secondo l’ordinario rito processuale.
La revisione costituzionale si è mossa,
perciò, da un presupposto di adeguatezza del giudice ordinario all’esercizio
della giurisdizione per reato ministeriale, fugando ogni dubbio che la deroga
rispetto al rito comune trovi giustificazione, quand’anche parziale, nello
scopo di prevenire l’intento persecutorio del magistrato nei confronti del membro
del Governo.
Non è a tale scopo infatti che viene
costruito, in seno a un procedimento destinato ad evolversi secondo le forme
ordinarie, l’intervento della Camera competente, il cui sindacato può e deve
essere limitato all’apprezzamento, in termini insindacabili se congruamente
motivati, della sussistenza dell’interesse qualificato a fronte del quale
l’ordinamento stima recessive le esigenze di giustizia del caso concreto.
Ferma dunque la fase dell’autorizzazione
a procedere, del tutto autonoma rispetto alle finalità di accertamento della
responsabilità penale, rimesso all’autorità giudiziaria, la sola ulteriore
deroga in cui si sostanzia la prerogativa è l’azione, secondo norme del tutto
peculiari, del tribunale dei ministri, anziché del pubblico ministero e del
giudice per le indagini preliminari.
Il legislatore
costituzionale ha ritenuto opportuno non già privare l’ordine giudiziario dei
suoi compiti istituzionali, ma realizzare in seno ad esso un meccanismo
procedimentale, giudicato particolarmente incisivo, ove si cumulassero nel
medesimo organo funzioni inquirenti e giudicanti, sia per effetto della
tradizione repubblicana incentrata, con analoghe modalità, sulla Commissione
parlamentare inquirente, sia per istituire un privilegiato canale di raccordo con
il Parlamento, sia per destinare ad un soggetto di eccezionale natura poteri
«eccezionalmente ampi» (sentenza n. 403 del
1994), di difficile inserimento nel corpo dell’ordinaria procedura penale.
Alla base della creazione del Collegio previsto dalla legge costituzionale si
pone dunque non l’insussistente terzietà rispetto al potere giudiziario, al
quale appartiene strutturalmente, ma l’obiettivo cumulo di funzioni, altrimenti
da ripartirsi secondo criteri di separazione tra giudice e pubblico ministero.
Se, perciò, l’elemento che connota con
maggiore pregnanza l’innovazione costituzionale, per quanto qui interessa, è la
specialità della procedura elaborata con riguardo ai soli reati ministeriali,
non si vede come si potrebbe legittimamente favorire un’estensione di essa alle ipotesi di
illecito comune, posto che, in tal modo, verrebbe ad assumere carattere
generale proprio il tratto che il legislatore costituzionale ha voluto invece
eccezionale.
Al contrario, la sussistenza di una
generale attribuzione della giurisdizione ordinaria in tema di reati
ministeriali contribuisce a rendere residuali gli spazi che ad essa restano
sottratti per esplicita previsione costituzionale.
Del resto, solo se la prerogativa in
questione fosse finalizzata a contrastare intenti persecutori della
magistratura nei confronti del ministro si potrebbe giustificare, in linea
meramente logica, l’edificazione di un filtro all’azione giudiziaria, che si
attivi ogni volta che il membro del Governo sia soggetto ad indagine penale.
Una volta negato, come si deve negare,
un simile presupposto, non resta che rilevare che l’intervento del tribunale
dei ministri si colloca coerentemente nella disciplina di sistema, nelle sole
ipotesi di illecito penale commesso nell’esercizio delle funzioni.
Non giova, pertanto, alla difesa del
Senato ricorrente il richiamo all’art. 12 della legge n. 20 del 1962, peraltro
abrogato fin dall’art. 9 della legge 10 maggio 1978, n. 170 (Nuove norme sui
procedimenti d’accusa di cui alla legge 25 gennaio 1962, n. 20), secondo il
quale «il pubblico ministero che inizia l’azione penale a carico di alcuna
delle persone indicate negli articoli 90 e 96 della Costituzione ne dà notizia
al Presidente della Camera dei deputati».
Il ricorrente ritiene che tale
disposizione, saldandosi senza soluzione di continuità a quanto oggi previsto
dall’art. 8, comma 4, della legge cost. n. 1 del 1989 per i casi di
archiviazione del procedimento da parte del tribunale dei ministri, indichi la
necessità costituzionale di un coinvolgimento del Parlamento nell’attività di
qualificazione del reato attribuito al membro del Governo, reso possibile
grazie all’azione del Collegio di cui all’art. 7 della legge cost. n. 1 del
1989, e non più a quella, in parte corrispondente, della Commissione
inquirente.
Il vizio di questa argomentazione è già
nelle premesse logiche, secondo le quali la revisione costituzionale del 1989 non
avrebbe inciso, per tale parte, sulle competenze parlamentari, quando invece
esse ne sono state profondamente modificate (sentenze n. 134 del 2002
e n. 403 del
1994). Anteriormente alla revisione dell’art. 96 Cost., come si è visto,
alla Commissione inquirente spettava ogni attività necessaria a perseguire il
reato ministeriale, mentre permaneva la competenza dell’autorità giudiziaria
per le ipotesi di illecito penale comune. L’una di tali prerogative non aveva
carattere residuale, ma alternativo rispetto all’altra. Perciò, innanzi ad un
medesimo fatto storico da cui potesse derivare la responsabilità penale del
ministro, era necessario che tanto la Commissione inquirente, quanto il potere
giudiziario ne potessero prendere cognizione, al fine primario di stabilire se
esso ricadesse nella propria area di attribuzione, svolgendo le relative
attività di indagine: questa Corte aveva infatti ritenuto che «la Commissione
inquirente può attivarsi per svolgere indagini sulla base di notizie di
possibili reati di sua competenza, ancorché non tipiche o qualificate» (sentenza n. 13 del
1975). Vi era, in conseguenza di ciò, una concorrente attribuzione qualificatoria del fatto, finalizzata in entrambi i casi,
sia pure in forme del tutto differenti, all’esercizio dell’azione penale nei
confronti del ministro, ferma restando la via del conflitto di attribuzione ove
Parlamento ed autorità giudiziaria dissentissero sulla natura del reato, e con
ciò sui confini della propria competenza costituzionale.
3.2.– Per certi versi, la condizione di
iniziale e paritario concorso di due poteri dello Stato a conoscere del
medesimo fatto ricorda l’attuale assetto dei rapporti tra Camere e potere
giudiziario riguardo all’applicabilità della prerogativa dell’insindacabilità
prevista, per i membri del Parlamento, dall’art. 68, primo comma, Cost.
Anche in questo caso, oramai del tutto
distante dalla regolazione costituzionale del procedimento per reato
ministeriale, si è configurata un’attribuzione tanto dell’ordine giudiziario,
nell’esercizio della giurisdizione (sentenze n. 120 del 2004
e n. 265 del
1997), quanto delle Camere, in relazione allo svolgimento della vita
parlamentare in condizioni di assoluta libertà ed autonomia (sentenza n. 1150
del 1988), a pronunciarsi sulla sussistenza della prerogativa, per quanto,
da ultimo, il legislatore ordinario abbia istituito un meccanismo procedimentale
non irragionevole (sentenza n. 149 del
2007) di coordinamento tra le reciproche competenze, per mezzo della legge
20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della
Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte
cariche dello Stato).
Non vi è chi non veda, invece, il salto
compiuto, rispetto al modello segnato dalla formula ampia contenuta nell’art.
68, primo comma, Cost., con la revisione dell’art. 96 Cost., che ha confinato
l’attribuzione del Parlamento alla sola valutazione delle condizioni per
concedere, o negare, l’autorizzazione a procedere.
Si è appena osservato infatti che, a
seguito di tale revisione, e dell’attuazione conferita a tale riforma con la
legge cost. n. 1 del 1989, e subordinatamente con la legge 20 maggio 1988, n.
163 (Disciplina transitoria delle attività istruttorie per i procedimenti di
cui agli articoli 90 e 96 della Costituzione), l’unica attribuzione delle
Camere consiste oggi nell’apprezzamento dell’interesse previsto dall’art. 9
della legge cost. n. 1 del 1989, e ha modo di manifestarsi, unitamente alla
preliminare delibazione circa la natura ministeriale del reato che ad essa è
strumentale, per il solo caso in cui detta autorizzazione sia stata richiesta,
per il tramite del procuratore della Repubblica, dal tribunale dei ministri.
Il quadro è, pertanto, del tutto diverso
da quello che questa Corte aveva posto a fondamento della deroga ai principi di
autonomia e indipendenza dell’ordine giudiziario, «allo scopo di garantire
d’altro lato l’indipendenza del potere politico contro ogni indebita ingerenza
suscettibile di alterare la reciproca parità e la necessaria distinzione tra i
poteri dello Stato» (sentenza n. 13 del
1975).
Nel vigente ordine costituzionale, il
principio di generale attribuzione all’autorità giudiziaria ordinaria
dell’esercizio della giurisdizione penale, salvo le eccezionali e restrittive
deroghe stabilite espressamente dalla fonte superprimaria, non incontra alcun
limite ulteriore, e torna così in modo del tutto naturale ed automatico a
governare la fattispecie della responsabilità penale del ministro, in accordo con
i principi di uguaglianza, legalità e giustiziabilità dei diritti, ribaditi,
quanto ai pubblici funzionari, dall’art. 28 Cost. (sentenza n. 154 del
2004).
Questa Corte ha a tale proposito già
affermato che sussiste nel nostro ordinamento una «generale competenza delle
autorità giudiziarie all’accertamento dei presupposti della responsabilità» (sentenza n. 154 del
2004), la quale si segnala per costituire la parola ultima, e di
regola definitiva, che l’ordinamento
giuridico pronuncia a livello nazionale
(salve le ipotesi patologiche di conflitti che questa Corte sia competente a
conoscere), venendo così a separarsi qualitativamente da ogni diversa attività
preliminare di valutazione, che altri soggetti possono compiere, nell’ambito
delle proprie competenze, sui medesimi presupposti.
Va da sé che la competenza in questione
non può che implicare la preliminare attività di qualificazione del reato, o
per meglio dire il giudizio con cui un accadimento materiale viene ricondotto
alla previsione generale di una o più disposizioni di legge, che lo sottraggono
all’area di ciò che è giuridicamente indistinto per conferirgli una identità
normativa, alla quale conseguono i tipici effetti processuali e sostanziali
stabiliti dalla legge. Nel caso di specie, componente costitutiva di un tale
giudizio è la stessa natura, ministeriale o comune, del reato, dalla quale
deriva nel primo caso l’investitura del tribunale dei ministri, e
successivamente del ramo competente del Parlamento, ovvero, nel secondo caso,
l’osservanza delle ordinarie regole sull’accertamento della responsabilità
penale. In difetto di esplicite deroghe costituzionali, agli altri poteri dello
Stato, e tra questi alla Camera competente ai sensi dell’art. 96 Cost., non
spetta alcuna attribuzione in merito, con la conseguenza che non ha fondamento
la pretesa di interloquire con l’autorità giudiziaria, secondo un canale istituzionale
indefettibilmente offerto dal tribunale dei ministri, nelle ipotesi in cui
quest’ultima, esercitando le proprie esclusive prerogative, abbia stimato il
reato privo del carattere della ministerialità.
Questa Corte deve però precisare che
tale asserzione non equivale a privare il Parlamento dello spazio di
apprezzamento, anche in ordine alla natura del reato contestato al ministro,
che l’art. 96 Cost. gli riserva, perché è indiscutibile che la Camera
competente debba in ogni caso godere dell’attribuzione di concedere o negare
l’autorizzazione a procedere, ogni qual volta il reato sia stato commesso
nell’esercizio delle funzioni ministeriali.
3.3.– Questo aspetto è stato
particolarmente enfatizzato dalla Camera dei deputati, che è intervenuta nel
giudizio costituzionale e ha osservato, tra l’altro, che «chi è titolare del
potere di decidere della garanzia, in definitiva, deve necessariamente essere
titolare del potere di qualificazione dei presupposti della garanzia stessa»,
fino a giungere alla conclusione che «la Camera competente è senz’altro
titolare del potere di qualificare come ministeriale un determinato reato,
adottando una deliberazione vincolante ed insindacabile dall’Autorità
giudiziaria», salvo che nelle forme del conflitto di attribuzione.
L’impostazione della Camera dei deputati
pone un problema reale, ma non lo risolve nel modo corretto.
Come si è già posto in rilievo,
l’attribuzione esclusiva dell’autorità giudiziaria relativa all’accertamento
degli elementi della fattispecie penale convive, di regola, con la competenza
di altri soggetti pubblici ad assumere determinazioni, che a propria volta
possono essere legate ad un apprezzamento giuridico in ordine alla sussistenza
ed alla natura di un reato, ma allo stesso tempo se ne distingue per il
carattere definitivo che è destinata ad acquisire.
La Camera competente, a propria volta,
si trova investita dell’attribuzione relativa all’autorizzazione a procedere,
rispetto alla quale è strumentale il sindacato incidentale sulla effettiva
natura dell’illecito. Affermare che una valutazione di tale carattere funge da
fase prodromica, ai fini dell’esercizio della sola attribuzione conferita
dall’art. 96 Cost. in punto di autorizzazione a procedere, non equivale a dire
che essa si possa sostituire al giudizio espresso, nell’ambito di una
prerogativa costituzionale esclusiva, dall’autorità giudiziaria, o persino
possa prevalere su di esso, come suggerisce la Camera.
Piuttosto, per il fatto, del tutto
peculiare, che a tale ultima prerogativa del potere giudiziario il Parlamento
possa opporre una propria sfera di attribuzione determinata da norme
costituzionali, che dipende in parte dal corretto esercizio della prima, si
apre la via per superare, mediante gli strumenti della giustizia
costituzionale, uno svolgimento in concreto della funzione giurisdizionale
rivelatosi tale, secondo l’apprezzamento incidentale delle Camere, da menomarne
la competenza ai sensi dell’art. 96 Cost.
In altre parole, la valutazione
parlamentare sulla natura del reato attribuito ad un ministro si colloca
esattamente lungo la linea di confine che questa Corte ha costantemente
tracciato tra i conflitti di attribuzione ove si eserciti una vindicatio potestatis,
ovvero dove risulti in discussione quale potere sia titolare della competenza
costituzionale contesa, e i conflitti di attribuzione derivanti dalla
menomazione, da parte di un potere e nel compimento di una prerogativa che
certamente gli spetta, della sfera competenziale
riservata ad altro potere, con cui il primo abbia interferito.
Entro questi limiti, va riconosciuto che
il ramo del Parlamento competente ai sensi dell’art. 96 Cost. possa esprimere
una propria valutazione sulla natura del fatto contestato al ministro, purché
essa si collochi all’interno della procedura per reato ministeriale attivata
dall’autorità giudiziaria, o sia strumentale a rivendicare che detta procedura
sia seguita, e purché siffatto apprezzamento sfoci nella sola reazione
consentita dall’ordinamento innanzi ad una qualificazione, da parte dell’ordine
giudiziario, del reato come comune anziché ministeriale, ovvero nel ricorso a
questa Corte per mezzo del conflitto di attribuzione.
Tale è dunque il senso dell’affermazione
di questa Corte, secondo la quale «all’organo parlamentare (…) non può essere
sottratta una propria, autonoma valutazione sulla natura ministeriale o non
ministeriale dei reati oggetto di indagine giudiziaria» (sentenza n. 241 del
2009): non è dubbio che essa sia infatti strumentale rispetto alla
possibilità di sollevare conflitto costituzionale da menomazione.
Nell’ipotesi in cui l’autorità
giudiziaria avesse inizialmente qualificato il reato in termini ministeriali,
ma il tribunale dei ministri abbia poi concluso per la natura comune,
procedendo ad archiviazione c.d. asistematica, il Parlamento viene informato
dei fatti per effetto di quanto stabilito espressamente dall’art. 8, comma 4,
della legge cost. n. 1 del 1989. L’informativa ufficiale e in via istituzionale
che spetta alle Camere, nonostante l’illecito non sia stato ritenuto commesso
nell’esercizio delle funzioni del ministro, costituisce perciò l’occasione che
consente loro di prendere cognizione dei fatti, al fine di sollevare conflitto
di attribuzione, benché non si possa escludere, e anzi nei fatti sia ciò che
consuetamente accade, che gli elementi necessari a tale scopo siano già stati
acquisiti in precedenza, spesso per iniziativa dello stesso ministro che si
ritenga indebitamente soggetto ad un’indagine nelle forme comuni. In tale
evenienza, è ovvio che il conflitto potrà essere esperito, anche ove la
comunicazione da parte dell’autorità giudiziaria, che resta comunque
costituzionalmente dovuta (sentenza n. 241 del
2009), sia mancata. Per la stessa ragione, la via del conflitto, nei limiti
appena specificati, è aperta nel caso, distinto dal primo, in cui il reato
attribuito al membro del Governo sia stato fin dall’origine reputato privo di carattere
ministeriale. Per tale ipotesi, non si è ritenuta opportuna a livello normativo
una previsione corrispondente all’art. 8, comma 4, della legge cost. n. 1 del
1989, che trova giustificazione nella finalità di concludere definitivamente
una fase procedimentale pur sempre vertente su di un caso ipotizzato di ministerialità dell’illecito penale; tuttavia, anche al di
là di questa peculiare e tassativa disposizione di legge costituzionale, non
può che spettare al Parlamento l’accesso a questa Corte, affinché sia
verificato, nei modi consentiti dalla Costituzione, se un erroneo esercizio
delle proprie attribuzioni da parte del potere giudiziario abbia menomato la
Camera competente ai sensi dell’art. 96 Cost., impedendole di deliberare
sull’autorizzazione a procedere, prevista ogni qual volta il reato sia stato
commesso nell’esercizio delle funzioni del ministro.
4.− I principi appena esposti
trovano espressione nella vigente disciplina costituzionale che regolamenta le
indagini penali per reato ministeriale.
L’art. 6, comma 1, della legge cost. n.
1 del 1989 stabilisce con chiarezza che devono essere indirizzate al
procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto di
corte d’appello competente per territorio le sole notizie concernenti i reati
indicati dall’art. 96 Cost., ovvero i reati commessi da membri del Governo
nell’esercizio delle funzioni.
Ai sensi del comma 2 seguente, il
procuratore della Repubblica, omessa ogni indagine, nel termine di quindici
giorni trasmette gli atti al tribunale dei ministri.
La competenza per territorio
dell’ufficio del pubblico ministero viene in tal modo individuata in ragione della corrispondente competenza
dell’organo giudicante (art. 11 della legge cost. n. 1 del 1989), sicché fin dall’origine
il procedimento si connota per una vocazione finalistica rispetto all’esercizio
dell’azione penale nei modi consentiti dall’art. 96 Cost.
Non si può obiettare che il divieto
imposto al procuratore della Repubblica di svolgere indagini testimonierebbe
che, perlomeno nelle ipotesi di dubbio circa la qualificazione del reato, la
decisione debba venire necessariamente assunta dal Collegio di cui all’art. 7
della legge cost. n. 1 del 1989. Si può infatti immaginare che vi siano casi in
cui il fatto viene descritto nella notizia di reato in termini
inequivocabilmente ministeriali, cosicché l’investitura del tribunale dei
ministri è immediata e non comporta ulteriori accertamenti da parte
dell’autorità giudiziaria nelle forme ordinarie; parimenti, vi possono essere
casi ove è subito percepibile l’estraneità della condotta all’area funzionale
propria del ministro, con l’effetto che il procedimento, in difetto
dell’eccezionale caso di deroga previsto per i soli illeciti penali
ministeriali, si avvierà e procederà secondo le comuni regole processuali. Non
si può, infine, escludere che la sola descrizione del fatto, con le indicazioni
dedotte a sostegno di essa nella notizia di reato, non sia tale da permetterne
la qualificazione in termini ministeriali, ma che quest’ultima finisca per
emergere solo successivamente, a seguito dell’acquisizione, anche attraverso le
indagini, degli elementi utili a tale scopo. La già ricordata natura
eccezionale della deroga alle regole generali della giurisdizione comporta,
tuttavia, che la stessa possa operare solo allorché ne ricorrano integralmente
tutti i presupposti; fino ad allora, invece, ovvero fino a quando non sia
possibile cogliere i profili di ministerialità del
fatto, tali regole generali dovranno continuare a trovare applicazione, poiché
non sono ancora maturati i requisiti peculiari che ne determinano la
cedevolezza, a fronte della normativa costituzionale speciale.
È dunque solo da tale momento che la
notizia di reato ricade nella previsione del comma 1 dell’art. 6 della legge
cost. n. 1 del 1989, e che, conseguentemente, al pubblico ministero competente
è inibita ogni ulteriore attività,
mentre il procuratore della Repubblica presso il capoluogo del distretto,
oramai chiamato in causa nella veste di congiunzione con il tribunale dei
ministri, incorre a propria volta nel divieto di disporre indagini.
Naturalmente, l’ordinamento offre adeguati rimedi, tra cui l’accesso a questa
Corte, per evitare che l’autorità giudiziaria svolga attività inquirente a
carico del ministro, non appena si consolidi, in forza degli elementi di fatto
acquisiti, anche a seguito dell’attività investigativa svolta dallo stesso, e
delle valutazioni di diritto ad essi conseguenti, l’ipotesi della ministerialità del reato; e anzi, ogni qual volta essa sia
prospettabile in linea astratta, ma non ancora acclarata, è a tale profilo del
fatto che debbono rivolgersi anzitutto e senza indugio le attenzioni degli
inquirenti, al fine di evitare la compressione indebita, anche in via
temporanea, delle attribuzioni costituzionali del tribunale dei ministri e
conseguentemente della Camera competente ai sensi dell’art. 96 Cost.
Una volta emersa la ministerialità
del reato, secondo il primo apprezzamento che compete agli organi ordinari
della giurisdizione penale, le attività inquirenti proprie del pubblico
ministero e le funzioni di giudice per le indagini preliminari sono
immediatamente concentrate presso il tribunale dei ministri (art. 8 della legge
cost. n. 1 del 1989; art. 1 della legge n. 219 del 1989), il quale non incontra
alcun vincolo nella precedente qualificazione del fatto e ben può concludere
che il reato è invece comune, disponendo l’archiviazione c.d. asistematica e
trasmettendo gli atti all’autorità giudiziaria competente a conoscerne (art. 8
della legge cost. n. 1 del 1989; art. 2, comma 1, della legge n. 219 del 1989).
Nel caso di archiviazione, il citato
art. 8, comma 4, impone al procuratore della Repubblica di darne comunicazione
al Presidente della Camera competente: così, come si è già precisato, è dato
modo al Parlamento di valutare se il reato abbia davvero il carattere comune
che il potere giudiziario gli ha infine attribuito, ovvero se esso debba
ritenersi commesso nell’esercizio delle funzioni, al solo scopo, in
quest’ultimo caso, di sollevare conflitto di attribuzione.
Ove, invece, il procedimento per reato
ministeriale non sia mai stato iniziato, nonostante ne prescrivessero
l’attivazione gli elementi acquisiti anche a seguito dell’attività
investigativa svolta dal ministro, la Camera competente potrà parimenti
rivolgersi alla giurisdizione costituzionale, per difendere l’attribuzione a
deliberare sull’autorizzazione a procedere. Questa Corte, in tali casi, sarà
chiamata a decidere, con inevitabile riferimento al carattere del reato, in
forza di tutte le risultanze istruttorie poste a disposizione dalle parti del
conflitto.
È dunque priva di fondamento la
preoccupazione espressa tanto dal Senato ricorrente, quanto dalla Camera dei deputati,
secondo la quale, in difetto dell’azione del tribunale dei ministri, non
sarebbe dato modo né al Parlamento, né a questa Corte di accertare con
cognizione il carattere del reato.
In definitiva, la Camera si trova, nei
limiti innanzi precisati, a soppesare la natura comune o ministeriale del
reato, in forza degli elementi posti a disposizione dall’autorità giudiziaria e
delle ulteriori osservazioni che provengano dai soggetti interessati ai sensi
dell’art. 9, comma 2, della legge cost. n. 1 del 1989: ciò accade, ai fini
dell’esercizio dell’attribuzione conferita dall’art. 96 Cost., sia nel caso in
cui le sia stata richiesta l’autorizzazione a procedere e decida di restituire
gli atti all’autorità giudiziaria (art. 18-ter
del Regolamento della Camera dei deputati e art. 135-bis del Regolamento del Senato della Repubblica), sia, sollevando
conflitto, nel caso in cui il potere giudiziario proceda nelle forme comuni,
nonostante la ministerialità del reato, ovvero nel caso di archiviazione c.d.
asistematica.
Così ricostruito, alla luce del tessuto
normativo e in armonia con i principi dell’ordine costituzionale dello Stato,
il complesso meccanismo della giustizia politica, non resta alla Corte che
prendere atto della estraneità ad esso della fattispecie peculiare che ha
originato l’odierno contenzioso costituzionale.
La vicenda che il Senato della
Repubblica ha posto all’attenzione di questa Corte ha infatti per oggetto reati
che l’autorità giudiziaria ha ritenuto immediatamente privi di carattere
funzionale, poiché commessi dal ministro nella qualità di segretario di un
partito politico, e la cui natura ministeriale non è stata neppure dedotta in
atti, né tantomeno posta a fondamento del conflitto. In tali circostanze, non
solo il potere giudiziario, ritenendo i reati di natura comune, poteva omettere
di investire il tribunale dei ministri delle notizie di reato, ma ne era
costituzionalmente obbligato, ai sensi del combinato disposto degli artt. 96
Cost. e 6 della legge cost. n. 1 del 1989, non essendogli possibile sottrarsi
all’accertamento della penale responsabilità nelle forme proprie della
giurisdizione ordinaria penale (art. 112 Cost.), se non in presenza delle
deroghe tassative prescrivibili dalla sola Costituzione, e che neppure il
legislatore ordinario potrebbe ampliare (sentenze n. 23 del 2011
e n. 262 del
2009).
Questa Corte deve perciò concludere che
spettava al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Santa Maria
Capua Vetere iniziare un procedimento penale nei confronti del ministro
Mastella per reati ritenuti comuni, al Procuratore della Repubblica presso il
Tribunale di Napoli proseguirlo ed esercitare l’azione penale con una duplice
richiesta di rinvio a giudizio, ed al Giudice dell’udienza preliminare di
quest’ultimo tribunale procedere a propria volta nelle forme comuni, rigettando
l’eccezione di "incompetenza funzionale” prospettatagli dalla difesa e quindi
omettendo di trasmettere gli atti al Collegio previsto dall’art. 7 della legge
cost. n. 1 del 1989.
5.− Resta da decidere se
l’autorità giudiziaria, nel procedere nei confronti del ministro Mastella,
avesse l’obbligo di informare il Senato della pendenza del procedimento.
Questa Corte ha già escluso che un tale
dovere possa ricavarsi dalle disposizioni costituzionali concernenti il
procedimento per reato ministeriale, ed in particolar modo dall’art. 8, comma
4, della legge cost. n. 1 del 1989, che inerisce per le ragioni dette
esclusivamente ai casi di archiviazione.
Il fondamento costituzionale
dell’attribuzione rivendicata dal Senato andrebbe perciò ricercato nel
principio di leale collaborazione tra i poteri dello Stato, dal quale si
vorrebbe desumere una regola informativa che non cambia la natura e la pienezza
dei poteri di accertamento del giudice comune, ma si aggiunge ad essi su di un
piano parallelo, obbligandolo a rendere edotta la Camera competente del fatto
storico, affinché quest’ultima sia posta nelle condizioni di valutarne la
natura, e, se del caso, di reagire immediatamente con lo strumento del
conflitto.
Questa Corte ha già affermato che «il
principio di leale collaborazione (…) deve sempre permeare di sé il rapporto
tra poteri dello Stato» (sentenza n. 26 del
2008) e che ad esso non sfugge neppure l’ordine giudiziario, nell’esercizio
della giurisdizione, quando esso ridondi sulle altrui attribuzioni costituzionali
(sentenze n. 149
del 2007, n.
110 del 1998 e n. 403 del 1994).
Presupposto perché la leale
collaborazione venga a dettare regole di azione, sufficientemente elastiche da
rispondere «alle peculiarità delle singole situazioni» (sentenza n. 50 del
2005), è la convergenza dei poteri verso la definizione, ciascuno secondo
la propria sfera di competenza, di una fattispecie di rilievo costituzionale,
ove essi, piuttosto che separati, sono invece coordinati dalla Costituzione,
affinché la fattispecie si definisca per mezzo dell’apporto pluralistico dei
soggetti tra cui è frazionato l’esercizio della sovranità.
Il punto di contatto tra le reciproche
competenze, per quanto concettualmente distinte, non può nell’attuale sistema
costituzionale divenire l’occasione di una contesa, avente ad oggetto le sfere
delle attribuzioni da cui si alimenta la vita democratica della Repubblica, ma
deve consentirne il superamento secondo criteri flessibili di esercizio delle
prerogative, che permettano loro di adattarsi per quanto possibile alla
funzionalità degli altrui compiti.
Ora, se tale è la premessa su cui poggia
il principio di leale collaborazione, è evidente che esso non abbia a
declinarsi laddove non vi sia confluenza delle attribuzioni e la separazione
costituisca l’essenza delle scelte compiute dalla Costituzione, al fine di
ripartire ed organizzare le sfere di competenza costituzionale.
Si tratta di un fenomeno che si
manifesta soprattutto rispetto al potere giudiziario, cui l’attuale sistema
costituzionale fissa limiti rigidi alle prospettive di interazione con gli
altri poteri.
Le regole dell’agire giudiziario, assai
più fitte e rigorose di quanto non siano quelle che accompagnano l’azione degli
organi costituzionali incaricati di tracciare l’indirizzo politico, sono perciò
indisponibili da parte dello stesso ordine giudiziario, e possono venire
arricchite di ulteriori contenuti desumibili dalla clausola generale della
leale collaborazione, solo con la prudenza necessaria ad evitare una
«predisposizione ex novo di un
complesso di regole che non può che essere posto nella sede competente» di
fonte normativa (sentenza
n. 309 del 2000).
Ora, si può anche trascurare che un
obbligo di informazione privo di copertura normativa, se inserito in via
pretoria nelle forme comuni di esercizio della giurisdizione, pone in sé
problemi tecnici di coordinamento, e comunque di bilanciamento con altri
interessi dotati di rilevanza costituzionale, che richiederebbero un articolato
intervento legislativo, con particolare riferimento alla tutela della
segretezza delle indagini, nell’interesse della giustizia e dello stesso
ministro che ne è oggetto. Se, infatti, la Costituzione imponesse una simile
condotta, essa andrebbe comunque osservata dall’autorità giudiziaria.
Ma non è dato, invece, e proprio con
riferimento alle peculiarità dell’ordine giudiziario nel sistema ordinamentale,
introdurre in via interpretativa un simile obbligo, se non quando esso appaia
assolutamente necessario a preservare le altrui attribuzioni costituzionali,
nell’ambito del principio di leale collaborazione tra poteri dello Stato.
È proprio questo presupposto che manca
nell’ipotesi denunciata dal Senato ricorrente: per le ragioni esposte innanzi,
infatti, questa Corte ritiene che un’esigenza di coordinamento con la Camera
competente sia stata apprezzata esclusivamente, sul piano costituzionale, con
riguardo al caso che il reato per cui si procede abbia natura ministeriale,
posto che esso sollecita attribuzioni distinte, ma convergenti dell’autorità
giudiziaria e delle Camere. Ad essa, infatti, rispondono le peculiari regole
dettate dalla legge costituzionale di attuazione dell’art. 96 Cost.
Nell’ipotesi di reato comune, viceversa,
il Parlamento, in difetto di una norma espressa, non ha titolo per pretendere
che l’azione del potere giudiziario sia aggravata da un ulteriore adempimento,
giacché essa si esaurisce interamente nella sfera di attribuzioni proprie di
quest’ultimo, e non interferisce con altrui prerogative, fino a che il
presupposto circa la ministerialità del reato non sia
invece rivendicato in concreto dalla Camera competente.
La sola ipotesi, del tutto astratta, che
il reato possa essere stato commesso nell’esercizio delle funzioni ministeriali
non è sufficiente, in altri termini, in presenza della generale clausola di
competenza dell’autorità giudiziaria di cui si è detto, a far scaturire, anche
in via meramente potenziale, un’area comune di interferenza fra attribuzioni parlamentari
e dell’ordine giudiziario, essendo a tal fine necessario che le prime siano
state in concreto poste in collegamento con le seconde per iniziativa della
Camera competente.
Né si può opporre a tale conclusione che
è proprio in virtù della carenza di un canale informativo tra Camere e ordine
giudiziario, che quest’ultimo potrebbe procedere nelle forme comuni, pur quando
il fatto sia invece ministeriale, impedendo al Parlamento di attivarsi.
Una simile affermazione, in quanto volta
ad introdurre a rimedio del caso patologico un fisiologico obbligo di
informazione, potrebbe venire spesa a buon titolo, solo se la Costituzione
avesse previsto, in via generale, che il potere dello Stato che ritenga di
esercitare congruamente le proprie attribuzioni, sia contestualmente tenuto a
darne notizia ad ogni altro potere, rispetto al quale quell’esercizio possa
produrre la menomazione di un’attribuzione del tutto diversa, per il caso
ipotetico di cattivo uso delle prime.
Va da sé che un simile principio non è
mai stato riconosciuto vigente nell’ordinamento, né ha trovato applicazione di
sorta nella giurisprudenza costituzionale: anteriormente alla legge n. 140 del
2003, doveva ritenersi, ad esempio, che il giudice comune, in difetto di
delibera di insindacabilità da parte della Camera, potesse rendere diretta
applicazione dell’art. 68, primo comma, Cost., eventualmente negando la
sussistenza della prerogativa, senza necessità alcuna di informarne il
Parlamento, per consentirgli di reagire (sentenza n. 149 del
2007).
È infatti normale che ogni potere dello
Stato agisca sul presupposto della conformità della propria condotta al
principio di legalità costituzionale, sicché non si vede a che titolo, nel contempo,
gli si debba fare obbligo, in forza della Costituzione, di prospettare ad altro
potere l’ipotesi, negata in premessa, della incompatibilità costituzionale di
tale condotta, in quanto contraria al riparto delle competenze.
Piuttosto, laddove la Costituzione abbia
effettivamente dato luogo ad un’esigenza di coordinamento e di collaborazione
fra l’esercizio della funzione giurisdizionale e l’area di competenza di altro
organo supremo, questa Corte ha escluso l’illegittimità costituzionale di una
normativa primaria ad hoc, poiché «è
possibile e naturale che il legislatore ordinario predisponga in materia
apposite norme processuali, proprio al fine di meglio assicurare il
coordinamento istituzionale e la leale collaborazione fra i poteri dello Stato
coinvolti», pur precisando nel contempo, e assai significativamente, che si
tratta di «una legislazione di rango ordinario dai contenuti costituzionalmente
non vincolati» (sentenza
n. 149 del 2007). Con il che si è reso chiaro che le forme di tale
coordinamento, ove non ricavabili direttamente dalla Costituzione, sono rimesse
alla non irragionevole discrezionalità del legislatore ordinario, il cui
mancato esercizio comporta «la mera applicazione delle generali disposizioni
processuali» (sentenza
n. 149 del 2007).
Una volta escluso che le fonti
normative, costituzionali e primarie, abbiano introdotto l’obbligo
dell’autorità giudiziaria di informare la Camera competente della pendenza del
procedimento comune per reato attribuibile ad un ministro, e nell’impossibilità
di ricavare simile precetto dal solo principio di leale collaborazione, viene
meno ogni fondamento giuridico su cui poggiare la pretesa del Senato ricorrente
di essere reso edotto dei fatti.
È dunque nello svolgimento della vita
parlamentare e nella disciplina del rapporto fiduciario tra Parlamento e
Governo che si rinviene la via ufficiale di interessamento alla fattispecie da
parte delle Camere, cui i soggetti interessati – e ciò anche al fine di
consentire loro l’esercizio del diritto di difesa – ben possono direttamente
rivolgersi per informarle degli accadimenti e porle nelle condizioni di
sollevare conflitto innanzi a questa Corte.
La Corte deve, difatti, precisare che,
diversamente, per consentire alla Camera competente di maturare un giudizio
basato sulle risultanze istruttorie disponibili, l’autorità giudiziaria
procedente è tenuta ad osservare una condotta ispirata a leale collaborazione,
quando alla stessa si sia rivolto l’organo parlamentare che, venuto a
conoscenza dei fatti, non sia stato in grado di escluderne con certezza
6.− In conclusione, per tali
motivi, questa Corte ritiene che spettava tanto alle Procure di Santa Maria
Capua Vetere e di Napoli, quanto al Giudice dell’udienza preliminare del
Tribunale di Napoli, procedere per reato comune nei confronti del Ministro
della giustizia in carica all’epoca dei fatti, omettendo di informarne il
Senato.
Per
questi motivi
dichiara:
1) che spettava alla Procura della
Repubblica presso il Tribunale ordinario di Santa Maria Capua Vetere avviare un
procedimento penale nei confronti del Ministro della giustizia in carica
all’epoca dei fatti per ipotesi di reati ritenuti non commessi nell’esercizio
delle funzioni ministeriali, e alla Procura della Repubblica presso il
Tribunale ordinario di Napoli proseguirlo ed esercitare l’azione penale con una
duplice richiesta di rinvio a giudizio, omettendo di trasmettere gli atti ai
sensi dell’art. 6 della legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1 (Modifiche
degli articoli 96, 134 e 135 della Costituzione e della legge costituzionale 11
marzo 1953, n. 1, e norme in materia di procedimenti per i reati di cui
all’articolo 96 della Costituzione), perché ne fosse investito il Collegio
previsto dall’art. 7 di detta legge;
2)
che spettava al Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di
Napoli rigettare l’eccezione di incompetenza funzionale avanzata dalla difesa
del Ministro della giustizia imputato, in carica all’epoca dei fatti, e
proseguire nelle forme comuni, per ipotesi di reati ritenuti non commessi
nell’esercizio delle funzioni, omettendo di trasmettere gli atti ai sensi
dell’art. 6 della legge costituzionale n. 1 del 1989, perché ne fosse investito
il Collegio previsto dall’art. 7 di detta legge;
3)
che spettava alla Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di
Santa Maria Capua Vetere, alla Procura della Repubblica presso il Tribunale
ordinario di Napoli, e al Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale
ordinario di Napoli esercitare le proprie attribuzioni, omettendo di informare
il Senato della Repubblica della pendenza del procedimento penale a carico del
Ministro della giustizia in carica all’epoca dei fatti.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, 14 febbraio
2012.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Redattore
Depositata in