SENTENZA N.265
ANNO 1997
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Dott. Renato GRANATA, Presidente
- Prof. Giuliano VASSALLI
- Prof. Francesco GUIZZI
- Prof. Cesare MIRABELLI
- Prof. Fernando SANTOSUOSSO
- Avv. Massimo VARI
- Dott. Cesare RUPERTO
- Dott. Riccardo CHIEPPA
- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY
- Prof. Valerio ONIDA
- Prof. Carlo MEZZANOTTE
- Prof. Guido NEPPI MODONA
- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio promosso con ricorso della Camera dei deputati, notificato il 13 maggio 1997, depositato in Cancelleria il 14 successivo, per conflitto di attribuzione sorto a seguito della sentenza n. 749 del 1996, del 26 aprile - 1° giugno 1996, con la quale il Tribunale di Foggia, II sez. civile, si é pronunciato in ordine alla domanda di risarcimento del danno non patrimoniale proposta dal dott. Luigi Picardi contro l'on. Francesco Cafarelli, ed iscritto al n. 29 del registro conflitti 1997.
Udito nell'udienza pubblica del 1° luglio 1997 il Giudice relatore Valerio Onida;
udito l'avvocato Giuseppe Abbamonte per la Camera dei deputati.
Ritenuto in fatto
1.- Con atto di citazione notificato il 12 marzo 1992 il dott. Luigi Picardi, magistrato, già sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Foggia, conveniva in giudizio il deputato on. Francesco Cafarelli, per il risarcimento dei danni non patrimoniali, indicati in lire 1 mil su richiesta dello stesso CSM.
Il convenuto resisteva in giudizio contestando la sussistenza degli elementi costitutivi del reato di diffamazione, ed eccependo comunque l'insindacabilità delle opinioni del parlamentare, ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione.
Nel corso del giudizio veniva acquisita agli atti la relazione in data 16 marzo 1993 che accompagnava una proposta della Giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera dei deputati, approvata il 25 marzo 1993 dall'assemblea della Camera stessa. La Giunta riferiva sulla richiesta, pervenuta alla Camera dalla Procura della Repubblica presso la Pretura di Roma il 26 ottobre 1992, di autorizzazione a procedere nei confronti dell'on. Cafarelli per il reato di diffamazione a danno del dott. Antonio Baldi, magistrato in servizio presso il Tribunale di Foggia. Quest'ultimo aveva sporto querela in relazione a dichiarazioni rese dallo stesso on. Cafarelli, il 7 aprile 1992, in sede di audizione dinanzi alla prima commissione referente del CSM, ove era stato ascoltato a seguito dell'esposto da lui presentato il 29 aprile 1987, concernente l'amministrazione della giustizia nel circondario di Foggia: quel medesimo esposto che aveva dato origine alla causa civile intentata dal dott. Picardi dinanzi al Tribunale di Foggia.
La Giunta aveva ritenuto la "assoluta liceità delle dichiarazioni rese", nell'audizione cui si riferiva la richiesta di autorizzazione a procedere, dall'on. Cafarelli, il quale si sarebbe limitato a "confermare gli esposti inoltrati, riportandosi anche alle iniziative adottate dalla Commissione parlamentare antimafia e ad una sua precedente interrogazione parlamentare". Aveva ritenuto altresì che il deputato, "con l'esposto e l'interrogazione" avesse "esercitato legittimamente il suo diritto-dovere di sindacato politico, coperto dalla prerogativa dell'insindacabilità di cui al primo comma dell'articolo 68 della Costituzione", e che nel caso della sua audizione, oggetto di querela, avesse "solo ribadito affermazioni contenute nei suddetti atti". Per questi motivi la Giunta aveva proposto alla Camera - che deliberò in conformità - di restituire gli atti all'autorità giudiziaria (la Procura presso la Pretura circondariale di Roma), "trattandosi di ipotesi rientrante nella fattispecie prevista dal primo comma dell'articolo 68 della Costituzione".
Il giudizio civile promosso dal dott. Picardi nei confronti dell'on. Cafarelli veniva definito dal Tribunale di Foggia con sentenza depositata il 1° giugno 1996, che accoglieva la domanda condannando il convenuto al pagamento in favore dell'attore della somma di lire dieci milioni, oltre a rivalutazione e interessi, nonchè alla rifusione delle spese di giudizio.
Motivando la propria pronuncia il Tribunale, in sintesi, argomentava come segue. In primo luogo il giudice afferma che l'insindacabilità prevista dall'art. 68, primo comma, della Costituzione rappresenta una causa di esclusione della pena, con la conseguenza che essa non escluderebbe la configurabilità del reato, e l'ammissibilità della conseguente azione civile di risarcimento del danno.
Tale considerazione, secondo il Tribunale, renderebbe superflua la valutazione dell'effettiva portata e natura dell'attività svolta dall'on. Cafarelli, per accertare se essa si sia tradotta in una delle tipiche attività parlamentari.
Peraltro il Tribunale proseguiva affermando che non poteva riconoscersi la natura di sindacato politico alle dichiarazioni dell'on. Cafarelli, destando "forti perplessità" le motivazioni della decisione della Giunta della Camera relativa all'autorizzazione a procedere richiesta nel procedimento penale instaurato a seguito della querela del dott. Baldi. Secondo il Tribunale, l'esposto dell'on. Cafarelli al CSM non sarebbe stato configurabile come atto compiuto in rappresentanza della Commissione parlamentare antimafia e in adempimento di un dovere istituzionale, non essendo stato dimostrato dal convenuto che le notizie apprese dalla commissione sul conto del dott. Picardi fossero state escluse dal segreto funzionale, nè che la Commissione avesse deliberato di trasmetterle al CSM delegando il segretario on. Cafarelli ad inoltrare l'esposto. In sostanza il Tribunale riteneva che l'esposto non fosse stato inoltrato dall'on. Cafarelli nella qualità di rappresentante della Commissione antimafia.
Ritenuto poi che fossero integrati nella fattispecie i caratteri del reato di diffamazione, il Tribunale concludeva, come si é detto, con la condanna del convenuto al risarcimento del danno.
2.- In relazione alla sentenza, la Camera dei deputati, con ricorso depositato il 2 aprile 1997, ha proposto conflitto di attribuzione nei confronti del Tribunale di Foggia, "per riaffermare - come recita l'atto introduttivo - il suo potere di valutare la perseguibilità dei fatti commessi da un proprio membro, definendo sia la natura del comportamento (espressione di opinioni e voti) sia la sussistenza o meno della connessione tra lo stesso comportamento, divenuto oggetto del giudizio civile, e l'esercizio della funzione parlamentare".
Ciò premesso, la ricorrente lamenta in primo luogo una invasione della sfera di attribuzioni della Camera dei deputati ex artt. 64 e 68 della Costituzione, nonchè delle prerogative dei singoli parlamentari ex art. 68, per avere il Tribunale di Foggia, nella sentenza impugnata, limitato al giudizio penale gli effetti dell'"accertamento di insindacabilità degli atti dell'on. Cafarelli" già espresso dalla Camera, disattendendolo indebitamente. Osserva la ricorrente che l'art. 68, primo comma, della Costituzione, sia nel testo originario, sia più ancora nel testo risultante dalla riforma operata con la legge costituzionale 29 ottobre 1993, n. 3, esclude che il parlamentare possa essere chiamato a rispondere in qualunque sede giudiziaria, e dunque anche in sede civile, per "fatti commessi nell'esercizio del mandato". Conseguentemente il Tribunale si sarebbe dovuto arrestare di fronte alla pronuncia negativa della Camera sulla richiesta di autorizzazione a procedere per diffamazione nei confronti dell'on. Cafarelli (a seguito della querela del dott. Baldi), in quanto il fatto ivi considerato sarebbe stato lo stesso fatto posto a base della domanda di risarcimento in sede civile avanzata dal dott. Picardi: non esistendo nel nostro ordinamento alcun potere dell'autorità giudiziaria ordinaria di disapplicare gli atti di prerogativa del Parlamento. Se il Tribunale - prosegue la ricorrente - avesse dissentito dalla decisione della Camera, avrebbe potuto semmai sollevare conflitto di attribuzione davanti a questa Corte.
3.- Con un secondo ordine di motivi la ricorrente denuncia nuovamente una invasione della sfera di attribuzioni costituzionali del Parlamento ex artt. 64 e 68 della Costituzione, perchè tali norme tutelerebbero l'autonomia delle Camere, riconoscendo ad esse potestà normative, di autoamministrazione e giudiziarie, per quanto necessario a garantire la libertà nell'esercizio delle funzioni parlamentari, esentando l'esercizio di tali funzioni dalla giurisdizione, e attribuendo determinate potestà di accertamento e di giudizio circa la delimitazione e l'individuazione in concreto dell'esercizio delle funzioni parlamentari. Solo l'organo elettivo potrebbe delimitare e valutare gli atti costituenti esercizio del mandato politico, che avrebbero "una dimensione necessariamente ultraindividuale" e non sarebbero "costringibili nelle angustie del rapporto intersoggettivo".
Richiamando la giurisprudenza di questa Corte, la ricorrente osserva che essa non distingue a questo fine fra giurisdizione civile e penale: ciò che sarebbe ulteriormente comprovato dalla tesi a suo tempo prevalente, a proposito della cosiddetta garanzia amministrativa (venuta meno in Italia per effetto della sentenza n. 4 del 1965 di questa Corte), che la riteneva applicabile anche al giudizio civile di responsabilità per danni.
4.- Con un terzo ordine di motivi la ricorrente lamenta la invasione di potestà delle Camere in quanto non esisterebbe, in concreto, alcun atto fonte di responsabilità, essendosi il parlamentare limitato ad informare l'organo di autogoverno della magistratura di fatti risultati alla Commissione antimafia circa l'attività del magistrato, ai sensi dell'art. 129 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, che impone al pubblico ministero, il quale esercita l'azione penale nei confronti di un impiegato pubblico, di informare l'autorità da cui l'impiegato dipende, dando notizia dell'imputazione. Tale norma si applicherebbe anche alle commissioni parlamentari d'inchiesta, che operano, ai sensi dell'art. 82 della Costituzione, con gli stessi poteri e gli stessi limiti dell'autorità giudiziaria. In proposito la ricorrente richiama una sentenza delle sezioni unite penali della Corte di cassazione (20 febbraio 1984, n. 4), ove si afferma che il carattere politico delle commissioni parlamentari d'inchiesta esclude in radice la protezione giuridica, e, quindi, la tutela giurisdizionale degli interessi dei terzi nei confronti di atti delle medesime commissioni.
5.- La difesa della Camera chiede conclusivamente che questa Corte dichiari "che spetta esclusivamente alla Camera dei deputati, ai sensi degli artt. 64, 68, 72 e 82 Cost., esercitare la valutazione del comportamento dei parlamentari per le opinioni ed i voti espressi nell'esplicazione del mandato ricevuto anche nei confronti del giudice civile"; e che, "in particolare, l'autorità giudiziaria é carente di giurisdizione in ordine alla proponibilità dell'azione civile per risarcimento dei danni senza la previa deliberazione della Camera di appartenenza del parlamentare in ordine alla valutazione se la fattispecie concreta rientri o meno nell'ipotesi di cui all'art. 68 Cost.". Conseguentemente chiede che la Corte annulli la sentenza del Tribunale di Foggia "perchè viziata da difetto assoluto di potestà in quanto il fatto rientra nella previsione di cui all'art. 68, primo comma, della Costituzione, con riaffermazione della competenza esclusiva della Camera a pronunciarsi in proposito".
6.- Il conflitto é stato dichiarato ammissibile con ordinanza n. 132 del 7 maggio 1997. Il ricorso é stato successivamente notificato e regolarmente depositato con la prova della avvenuta notifica. Il Tribunale di Foggia non si é costituito in giudizio.
Considerato in diritto
1.- Il ricorso, come si é detto nell'esposizione in fatto, trae origine da una sentenza del Tribunale civile di Foggia, che ha pronunciato nei confronti dell'ex deputato on. Francesco Cafarelli condanna al risarcimento dei danni non patrimoniali, che sarebbero derivati all'attore dott. Luigi Picardi, magistrato - all'epoca - della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Foggia, da dichiarazioni diffamatorie contenute in un esposto inoltrato nel 1987 dal parlamentare, allora segretario della Commissione "antimafia", al Consiglio superiore della magistratura, e confermate agli ispettori del Ministero di grazia e giustizia nell'ambito dell'indagine aperta su richiesta dello stesso CSM a seguito di detto esposto.
Di fronte all'eccezione di insindacabilità delle opinioni espresse dal parlamentare, in forza dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, il Tribunale ha opposto che la prerogativa di insindacabilità non si estenderebbe al giudizio civile, e che comunque le dichiarazioni del parlamentare non avrebbero avuto natura di sindacato politico, non essendo stato l'esposto al Consiglio superiore della magistratura presentato nella qualità di rappresentante della Commissione parlamentare antimafia.
Il Tribunale non ha attribuito efficacia impeditiva della propria decisione alla deliberazione della Camera dei deputati, con la quale la Camera, su conforme proposta della Giunta per le autorizzazioni a procedere, restituiva all'autorità giudiziaria gli atti relativi ad una richiesta di autorizzazione a procedere per diffamazione nei confronti del medesimo parlamentare, ma a seguito di querela di altro magistrato in servizio a Foggia, diverso dall'attore nel giudizio civile (il dott. Antonio Baldi), sul rilievo che l'ipotesi rientrava nella fattispecie prevista dal primo comma dell'art. 68 della Costituzione.
La Camera ricorrente lamenta che il Tribunale abbia erroneamente ritenuto che l'efficacia della insindacabilità di cui all'art. 68, primo comma, della Costituzione sia limitata al giudizio penale, e abbia indebitamente disatteso la valutazione di insindacabilità compiuta dalla stessa Camera, la quale si riferirebbe allo stesso fatto oggetto del giudizio civile; afferma poi che comunque il Tribunale non avrebbe potuto giudicare senza la previa deliberazione della Camera in ordine alla applicabilità dell'art. 68, primo comma, Cost.; infine sostiene che nella specie l'esposto inoltrato dal parlamentare non potrebbe essere fonte di responsabilità, essendo volto alla doverosa informazione dell'organo di autogoverno della magistratura circa fatti risultati alla Commissione parlamentare antimafia.
2.- Deve anzitutto confermarsi l'ammissibilità del conflitto, già ritenuta con l'ordinanza n. 132 del 1997, sotto i profili della natura degli organi che ne sono parte e delle attribuzioni in contestazione.
Sotto il primo profilo, infatti, la Camera dei deputati é titolare della potestà di valutare se un'opinione espressa da un proprio membro sia riconducibile all'esercizio delle funzioni parlamentari, ai sensi dell'art.68, primo comma, della Costituzione (cfr. sentenza n. 1150 del 1988), esprimendo definitivamente la volontà del potere che essa rappresenta; il Tribunale di Foggia, a sua volta, in quanto investito del giudizio civile nel cui ambito é sorta la questione relativa alla sindacabilità dell'opinione del parlamentare convenuto, manifesta in modo potenzialmente definitivo la volontà del potere giurisdizionale di cui é espressione (cfr. ordinanze n. 228 e n. 229 del 1975; sentenza n. 231 del 1975).
Sotto il secondo profilo, ciò di cui si discute é proprio la delimitazione delle rispettive sfere costituzionali di attribuzioni, in rapporto alla sindacabilità o meno, e dunque alla sottoponibilità o meno alla giurisdizione civile, della condotta del parlamentare per cui é giudizio.
3.- La Corte deve peraltro esaminare se il conflitto risulti ammissibile, sotto l'ulteriore profilo della attuale esistenza della materia del conflitto medesimo.
A tal fine é necessario in primo luogo ricostruire sinteticamente il sistema normativo costituito dall'art. 68, primo comma, della Costituzione, e dalle implicazioni che ne discendono, cominciando da quelle affermate nella consolidata giurisprudenza di questa Corte.
Il primo comma dell'art. 68 della Costituzione non attribuisce alle Camere un potere di tipo autorizzativo il cui esercizio condizioni l'esplicazione della funzione giurisdizionale, da parte degli organi allo scopo investiti, in ordine alle condotte dei parlamentari alle quali esso si riferisce: un potere cioé del tipo di quello che il testo originario dell'art. 68, secondo comma, della Costituzione conferiva ai fini del procedimento penale, sottoponendo quest'ultimo, quando si riferisse al fatto di un parlamentare in carica, alla preventiva autorizzazione a procedere della Camera di appartenenza (cfr. sentenza n. 1150 del 1988). La norma costituzionale ha piuttosto natura sostanziale, limitando la possibilità di far valere in giudizio una ipotetica responsabilità del parlamentare per le opinioni espresse nell'esercizio della funzione.
Siffatta limitazione, contrariamente a quanto sbrigativamente ritenuto, nella specie, dal Tribunale di Foggia, vale egualmente in ordine a qualunque sede giurisdizionale nella quale si pretenda di far valere una responsabilità del parlamentare, e dunque anche in sede di giudizio civile. Ciò é ora fuori discussione, dopo che la legge costituzionale n. 3 del 1993, modificando l'art. 68, primo comma, della Costituzione, ne ha sostituito l'originaria dizione ("i membri del Parlamento non possono essere perseguiti") con una più univocamente comprensiva ("non possono essere chiamati a rispondere"). Ma già nel vigore del testo originario (sotto il cui impero hanno avuto luogo i fatti che hanno dato origine al giudizio di cui si discute), convergevano in tale interpretazione la giurisprudenza e la dottrina prevalenti, tanto più dopo che essa é stata esplicitamente accolta da questa Corte, la quale, proprio con riguardo ad una vicenda sorta a proposito di un giudizio civile, individuò per la prima volta i principi di questa materia (con la citata sentenza n. 1150 del 1988; da ultimo, cfr. sentenza n. 129 del 1996).
La prerogativa costituzionale, diretta a garantire la libera espressione delle opinioni manifestate nell'esercizio delle funzioni del parlamentare, si riferisce non solo alla responsabilità penale, ma anche a quella civile, come a qualsiasi altra forma di responsabilità diversa da quella che può essere fatta valere nell'ambito dell'ordinamento interno della Camera di appartenenza.
4.- Poichè una tale regola di limitazione della responsabilità (o della possibilità di farla valere in giudizio, che non é, in definitiva, cosa diversa) é dettata non solo a tutela della libertà di espressione del singolo membro delle Camere, ma a tutela, attraverso questa, della piena libertà di discussione e di deliberazione delle Camere stesse, e in definitiva a "tutela della autonomia delle istituzioni parlamentari" (sentenza n. 379 del 1996); e poichè, come ha ritenuto questa Corte, "le prerogative parlamentari non possono non implicare un potere dell'organo a tutela del quale sono disposte" (sentenze n. 443 del 1993; n. 1150 del 1988), ne deriva che la prerogativa in questione "attribuisce alla Camera di appartenenza il potere di valutare la condotta addebitata ad un proprio membro, con l'effetto, qualora sia qualificata come esercizio delle funzioni parlamentari, di inibire in ordine ad essa una difforme pronuncia giudiziale di responsabilità, sempre che il potere sia stato correttamente esercitato" (sentenze n. 129 del 1996; n. 1150 del 1988).
Pertanto é solo l'esercizio in concreto, da parte della Camera di appartenenza del parlamentare, della propria potestà, che produce "l'effetto inibitorio dell'inizio o della prosecuzione di qualsiasi giudizio di responsabilità, penale o civile per il risarcimento dei danni", discendendo direttamente dalla norma costituzionale "l'obbligo per l'autorità giudiziaria di prendere atto della deliberazione parlamentare e di adottare le pronunce conseguenti" (sentenza n. 129 del 1996); mentre sul punto della sindacabilità può e deve, specie di fronte alla eccezione sollevata in giudizio, "pronunciarsi il giudice ordinario ove manchi ogni pronuncia della Camera di appartenenza del parlamentare" (sentenza n. 443 del 1993).
5.- Non può dunque seguirsi la prospettazione della ricorrente, secondo cui l'autorità giudiziaria, la quale si trovi dinanzi ad una questione di sindacabilità della opinione espressa da un parlamentare, sarebbe "carente di giurisdizione" senza la "previa deliberazione della Camera di appartenenza del parlamentare in ordine alla valutazione se la fattispecie concreta rientri o meno nell'ipotesi di cui all'art. 68 Cost.": prospettazione che condurrebbe a ricostruire impropriamente il sistema nei termini di una sorta di "pregiudizialità parlamentare" che si imporrebbe in tutti i giudizi in cui si controverta di ipotetiche responsabilità di un membro delle Camere suscettibili di essere ricondotte ad una sua manifestazione di opinione, collegabile all'esplicazione del mandato; e in definitiva a configurare nuovamente una specie di "autorizzazione a procedere" della Camera di appartenenza, in assenza della quale non potrebbe essere esercitata la funzione giurisdizionale. E' invece la concreta deliberazione della Camera, adottata nell'esercizio della potestà ad essa spettante, che produce l'effetto di obbligare il giudice ad adeguarsi alla valutazione dalla stessa compiuta, a meno che egli non ritenga che la Camera stessa, con la dichiarazione di insindacabilità, abbia illegittimamente esercitato il proprio potere, per vizi in procedendo, oppure perchè "mancavano i presupposti di detta dichiarazione - tra i quali essenziale quello del collegamento delle opinioni espresse con la funzione parlamentare -", ovvero perchè "tali presupposti siano stati arbitrariamente valutati" (sentenza n. 443 del 1993).
In tale ultima ipotesi, tuttavia, il giudice non é abilitato a disattendere direttamente la valutazione dell'organo parlamentare, bensì può solo provocare il controllo della Corte costituzionale sollevando conflitto di attribuzione (sentenza n. 1150 del 1988): conflitto che si configura non già nei termini di una mera vindicatio potestatis, bensì "come contestazione di quel potere in concreto, per vizi del procedimento oppure per omessa o erronea valutazione dei presupposti di volta in volta richiesti per il suo valido esercizio" (sentenza n. 443 del 1993, nonchè sentenza n. 1150 del 1988).
6.- Queste premesse consentono altresì di precisare la posizione e il compito della Corte in questo genere di controversie. Il giudice dei conflitti non é chiamato, e non può esserlo, a pronunciarsi direttamente sulla sindacabilità o meno di un'opinione espressa da un parlamentare, ciò che é compito, per un verso, dell'autorità giudiziaria cui spetta far valere le responsabilità e dunque anche i limiti che nell'ordinamento incontrano le responsabilità medesime o il loro accertamento, per altro verso della Camera di appartenenza, nell'esercizio della potestà connessa alla propria prerogativa. Nè la Corte può essere chiamata a rivedere - quasi come un giudice dell'impugnazione - vuoi le sentenze pronunciate dai giudici, che abbiano fatto erronea applicazione dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, vuoi le decisioni delle Camere che abbiano deliberato in assenza o con erronea o arbitraria valutazione dei relativi presupposti. Da un lato infatti il controllo delle pronunce dei giudici, anche sotto questo profilo, spetta ai giudici delle eventuali impugnazioni e in definitiva all'organo di nomofilachia; dall'altro lato la deliberazione della Camera di appartenenza del parlamentare, espressione della sua autonomia costituzionale, non é soggetta ad impugnazioni, e ad essa il giudice é normalmente vincolato.
La Corte può essere chiamata ad intervenire solo quando sorga un contrasto fra la valutazione espressa dall'organo parlamentare ed il contrario apprezzamento del giudice: e dunque il giudizio della Corte può intervenire solo a posteriori e per così dire dall'esterno, in funzione di risoluzione del conflitto in tal modo manifestatosi tra organo parlamentare e giudice, quindi in funzione di garanzia dell'equilibrio costituzionale fra salvaguardia della potestà autonoma della Camera e tutela della "sfera di attribuzioni dell'autorità giudiziaria", su cui la deliberazione parlamentare viene ad incidere inibendone l'esercizio (cfr. sentenza n. 1150 del 1988).
7.- Nella specie, come si é visto, il Tribunale di Foggia ha giudicato nel merito, e la Camera, col ricorso proposto in questa sede, lamenta la lesione che alle proprie attribuzioni deriverebbe da questo giudizio.
Ora, se il Tribunale si fosse fermato alla (erronea) negazione in via di principio della applicabilità dell'art. 68, primo comma, della Costituzione ai giudizi di responsabilità civile, e se la Camera avesse a sua volta fatto esclusivo oggetto del conflitto tale affermazione di principio, in quanto lesiva "in astratto" della prerogativa parlamentare, questa Corte avrebbe potuto a sua volta limitarsi a prendere atto di tale circoscritto oggetto del conflitto e risolverlo affermando la piena estensione della insindacabilità anche ai giudizi civili. Ma in realtà il Tribunale di Foggia é andato oltre: senza nemmeno porsi il quesito relativo ai rapporti fra giudizio e deliberazione della Camera (e singolarmente ignorando altresì le prescrizioni procedurali già dettate dall'art. 2, comma 4, del decreto legge 12 marzo 1996, n. 116, e reiterate dall'art. 2, comma 4, del decreto legge 10 maggio 1996, n. 253, disposizioni dalle quali, a seguito della decadenza dei medesimi decreti legge, non convertiti, e in assenza di qualsiasi sanatoria a posteriori dei loro effetti, non é possibile trarre alcun elemento di qualificazione giuridica dei fatti in contestazione, ma che pur erano vigenti all'epoca in cui il Tribunale deliberò, e, rispettivamente, depositò la sentenza), esso ha negato in concreto che nella specie le dichiarazioni dell'on. Cafarelli, per cui é giudizio, potessero ricomprendersi nella sfera della insindacabilità sancita dall'art. 68, primo comma, della Costituzione. A sua volta la Camera non ha impostato il conflitto sull'affermazione di principio, ma ha contestato in concreto la pronuncia del Tribunale, sostenendo che essa avrebbe indebitamente disatteso la precedente valutazione di insindacabilità dello stesso fatto, compiuta dalla Camera stessa, e che comunque non avrebbe potuto essere resa senza previa deliberazione sul punto dell'organo parlamentare.
Si rivela perciò essenziale, al fine di valutare se esista la materia attuale del conflitto, esaminare se il giudizio del Tribunale abbia avuto luogo in presenza di, e in difformità da, una efficace deliberazione di insindacabilità adottata dalla Camera (e quindi abbia violato il divieto, che discende dall'art. 68, primo comma, della Costituzione, di disattendere la valutazione dell'organo parlamentare, salvo sollevare conflitto di attribuzione); ovvero se, mancando una delibera della Camera in tal senso, non vi sia ancora materia di conflitto, così come può essere legittimamente proposto davanti a questa Corte.
8.- A tale scopo deve essere presa in esame la invocata deliberazione adottata dalla Camera il 16 marzo 1993, con la quale, approvando la proposta della Giunta per le autorizzazioni a procedere, fu disposta la restituzione all'autorità giudiziaria degli atti relativi alla richiesta di autorizzazione a procedere contro l'on. Cafarelli per diffamazione nei confronti del querelante dott. Antonio Baldi, ritenendosi che l'ipotesi rientrasse nella fattispecie di cui all'art. 68, primo comma, della Costituzione.
Ora, é ben vero che, in punto di fatto, le dichiarazioni asseritamente diffamatorie lamentate dal dott. Baldi, e che diedero origine al procedimento penale instaurato dal pubblico ministero di Roma, si ricollegavano al medesimo esposto inoltrato dall'on. Cafarelli al Consiglio superiore della magistratura, e che diede luogo, per le dichiarazioni ivi contenute relative al dott. Picardi, al giudizio civile davanti al Tribunale di Foggia. Tuttavia non può dirsi che il fatto, oggetto di quest'ultimo giudizio, sia lo stesso fatto che fu oggetto, a seguito della querela del dott. Baldi, del procedimento penale in riferimento al quale fu adottata la delibera della Camera. Pur espresse nel medesimo contesto, le dichiarazioni dell'on. Cafarelli relative al dott. Baldi, e quelle relative al dott. Picardi, mantengono la loro autonomia, e sono riferite per lo più a circostanze diverse. In ogni caso i due giudizi di responsabilità, rispettivamente penale e civile, hanno oggetti distinti ed autonomi, attinenti a dichiarazioni asseritamente lesive dell'onore di diversi soggetti. Lo stesso Presidente della Camera, nel comunicare all'assemblea, nella seduta del 4 febbraio 1997, di avere sottoposto all'Ufficio di presidenza la proposta di sollevare il presente conflitto di attribuzione, avvertiva che la condanna dell'on. Cafarelli da parte del Tribunale di Foggia era intervenuta "per una fattispecie analoga - sia pure riferita ad un diverso soggetto - a quella per la quale l'Assemblea, nella seduta del 25 marzo 1993, aveva deliberato l'insindacabilità delle opinioni espresse dal medesimo deputato" (Atti Camera, resoconto sommario della seduta del 4 febbraio 1997, pag. 17): non quindi, per la medesima fattispecie oggetto del giudizio civile.
Perchè la deliberazione della Camera, che dichiara l'insindacabilità di un'opinione espressa dal proprio membro, possa avere l'effetto di inibire il giudizio di responsabilità, occorre che essa si riferisca specificamente alle "opinioni" che formano oggetto del giudizio medesimo, poste in relazione alle funzioni del parlamentare, non bastando una generica valutazione del contesto documentale nel quale le dichiarazioni sono contenute a "coprire" manifestazioni di opinione diverse da quelle sulle quali la Camera sia stata chiamata a pronunciarsi. Queste ultime a loro volta delimitano l'oggetto e quindi gli effetti della deliberazione parlamentare: tanto é vero che il divario tra i fatti sottoposti all'esame della Camera e i fatti in relazione ai quali questa afferma la insindacabilità configura un vizio in procedendo, suscettibile di essere fatto valere in sede di conflitto di attribuzione sollevato nei confronti della delibera parlamentare (cfr. sentenza n. 1150 del 1988).
Un'interpretazione stretta dei presupposti e degli effetti della dichiarazione parlamentare di insindacabilità é imposta, d'altra parte, dalla circostanza che tale dichiarazione produce, come si é detto, un effetto inibitorio sul giudizio, il quale rappresenta una deroga eccezionale, fondata sull'art. 68 della Costituzione, alla normale esplicazione della funzione giurisdizionale e dunque all'attuazione del diritto fondamentale alla tutela in giudizio: onde non può farsi derivare un simile effetto se non nei rigorosi confini del contenuto e dell'oggetto proprio della dichiarazione medesima, senza estensioni che finirebbero per rendere incerto il confine fra potere-dovere del giudice civile di pronunciarsi sull'oggetto del giudizio a lui sottoposto, e potestà della Camera di affermare la insindacabilità delle opinioni espresse dal parlamentare nell'esercizio delle sue funzioni.
9.- Nemmeno si potrebbe ritenere che nella specie la deliberazione della Camera, affermante la insindacabilità delle dichiarazioni dell'on. Cafarelli, oggetto del giudizio civile, sia da identificarsi nella deliberazione dell'Ufficio di presidenza della Camera dei deputati, n. 36/97 in data 30 gennaio 1997, con cui é stato deciso di sollevare conflitto di attribuzione nei confronti del Tribunale di Foggia, sull'assunto che ai sensi dell'art. 68 della Costituzione "sia preclusa all'autorità giudiziaria la possibilità di giudicare in merito a fatti già ritenuti insindacabili o comunque senza richiedere una specifica deliberazione della Camera di appartenenza, cui unicamente spetta valutare l'applicabilità delle prerogative di cui al primo comma del citato articolo 68 della Costituzione riguardo alle opinioni espresse da ognuno dei suoi membri": deliberazione fatta propria dall'assemblea, in assenza di obiezioni, nella seduta del 4 febbraio 1997.
Non é possibile attribuire a tale deliberazione natura ed effetto di dichiarazione di insindacabilità. La deliberazione dell'Ufficio di presidenza aveva il ben diverso oggetto di decidere la proposizione del conflitto, sul presupposto che la Camera avesse già ritenuto insindacabili i fatti oggetto del giudizio, e che comunque fosse preclusa alla autorità giudiziaria la possibilità di giudicare "senza richiedere una specifica deliberazione della Camera di appartenenza", cui "unicamente" spetterebbe valutare l'applicabilità dell'art. 68, primo comma, della Costituzione. Quest'ultima precisazione rende anzi palese come l'organo parlamentare abbia considerato anche l'ipotesi che la specifica dichiarazione di insindacabilità non fosse intervenuta, e abbia ritenuto di proporre conflitto sull'assunto (che si é qui chiarito essere infondato) che comunque il giudice non possa giudicare senza previamente richiedere la deliberazione della Camera.
10.- Se dunque, per quanto si é detto, nella specie non può dirsi che la Camera abbia dichiarato l'insindacabilità delle opinioni del parlamentare, che sono oggetto del giudizio civile instaurato davanti al Tribunale di Foggia, ne discende che la "materia" del conflitto non si é concretizzata: sussistendo essa solo quando si sia in presenza di una pronuncia parlamentare di insindacabilità, alla quale il giudice non ritenga di adeguarsi in quanto la reputi illegittimamente adottata, o per vizi in procedendo o per carenza o arbitraria valutazione dei presupposti. Pertanto il presente ricorso va ritenuto, allo stato, inammissibile per assenza attuale della materia di un conflitto.
Resta fermo che la Camera conserva la potestà di dichiarare la insindacabilità delle opinioni espresse dal parlamentare, che sono oggetto del giudizio, con l'effetto di impedire l'accertamento giudiziale di responsabilità salvo che il giudice non ritenga di sollevare, nei confronti della deliberazione della Camera, conflitto di attribuzione.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile il conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato proposto dalla Camera dei deputati nei confronti del Tribunale di Foggia, con il ricorso indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 luglio 1997.
Presidente: Renato GRANATA
Redattore: Valerio ONIDA
Depositata in cancelleria il 23 luglio 1997.