Sentenza n. 346

del 2002

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SENTENZA N. 346

ANNO 2002

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

- Cesare                                                               RUPERTO                    Presidente

- Riccardo                                                           CHIEPPA                     Giudice

- Gustavo                                                            ZAGREBELSKY         ”

- Valerio                                                              ONIDA                         ”

- Carlo                                                                 MEZZANOTTE           ”

- Fernanda                                                           CONTRI                      ”

- Guido                                                                NEPPI MODONA        ”

- Piero Alberto                                                    CAPOTOSTI                ”

- Annibale                                                           MARINI                        ”

- Franco                                                              BILE                             ”

- Giovanni Maria                                                FLICK                           ”

- Francesco                                                          AMIRANTE                 ”

- Ugo                                                                   DE SIERVO                 “

- Romano                                                            VACCARELLA           “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge della Regione Lombardia 9 maggio 1992, n. 20 (Norme per la realizzazione di edifici di culto e di attrezzature destinate a servizi religiosi), promosso con ordinanza emessa il 4 dicembre 2001 dal Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, iscritta al n. 88 del registro ordinanze 2002 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 11, prima serie speciale, dell’anno 2002.

Udito nella camera di consiglio del 5 giugno 2002 il Giudice relatore Valerio Onida.

Ritenuto in fatto

1.– Nel corso di un giudizio promosso dalla Congregazione cristiana dei Testimoni di Geova per l’annullamento del provvedimento del 17 agosto 1995 con il quale il Comune di Cremona aveva negato alla ricorrente l’assegnazione di contributi previsti dalla legge della Regione Lombardia 9 maggio 1992, n. 20 (Norme per la realizzazione di edifici di culto e di attrezzature destinate a servizi religiosi), il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, con ordinanza depositata il 4 dicembre 2001 e pervenuta il 4 febbraio 2002, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 8, primo comma, e 19 della Costituzione, dell’art. 1 della legge regionale indicata, nella parte in cui subordina la corresponsione dei contributi per la realizzazione di attrezzature destinate a servizi religiosi alla condizione che la confessione interessata abbia chiesto ed ottenuto la regolamentazione dei propri rapporti con lo Stato sulla base di una intesa ai sensi dell’art. 8, terzo comma, della Costituzione.

Premette il giudice a quo che la Congregazione dei Testimoni di Geova aveva avanzato l’istanza al Comune di Cremona richiamando il principio, affermato da questa Corte nella sentenza n. 195 del 1993 – che aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale di analoga norma contenuta nella legge della Regione Abruzzo 16 marzo 1988, n. 29 –, secondo il quale la corresponsione dei contributi in questione non può essere subordinata dalle leggi regionali alla condizione che le confessioni religiose che ne facciano richiesta abbiano regolato i loro rapporti con lo Stato mediante intese, ai sensi dell’art. 8, terzo comma, Cost. L’amministrazione comunale aveva però respinto la domanda, escludendo che il principio affermato in quella sentenza, resa in riferimento alla legge n. 29 del 1988 della Regione Abruzzo, in difetto di espressa statuizione della Corte potesse applicarsi alla legge della Regione Lombardia, rilevante nel caso in esame.

L’autorità remittente, dopo aver delineato i caratteri del sistema di controllo di costituzionalità delle leggi definito dagli artt. 134 e 138 (recte: 137) della Costituzione, 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, nonché dall’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, ha escluso di poter essa stessa disapplicare – come richiesto dalla ricorrente –, per motivi di giustizia sostanziale o di economia processuale, norme legislative vigenti, ancorché palesemente in contrasto con precetti costituzionali, contrasto emergente dalla già intervenuta dichiarazione di illegittimità costituzionale di disposizioni analoghe a quelle da applicare nel giudizio a quo, essendo riservata a questa Corte la declaratoria di illegittimità costituzionale in via consequenziale anche delle disposizioni analoghe, esecutive, confermative, applicative o ripetitive.

La questione è rilevante, ad avviso del giudice a quo, in quanto il giudizio in corso, avendo ad oggetto la sussistenza del diritto soggettivo della ricorrente alla corresponsione dei contributi in discorso, non può essere deciso indipendentemente dalla risoluzione del dubbio di costituzionalità che investe l’art. 1 della legge della Regione Lombardia n. 20 del 1992, direttamente applicabile alla fattispecie.

Né rileverebbe la circostanza che la ricorrente invochi a sostegno della propria pretesa il fatto che altri Comuni della Regione Lombardia abbiano riconosciuto i contributi alla Congregazione dei Testimoni di Geova, disapplicando la disposizione della legge regionale, dal momento che nella specie non potrebbe configurarsi una illegittimità del provvedimento impugnato per contrasto con precedenti provvedimenti, sia perché si tratta di atti emanati da amministrazioni diverse, sia in quanto l’errore compiuto in passato non potrebbe essere invocato per giustificare altri atti illegittimi o per invocare una pretesa disparità di trattamento.

Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, secondo il remittente essa si ricaverebbe ictu oculi da quanto affermato dalla citata sentenza di questa Corte n. 195 del 1993. Il principio costituzionale di eguaglianza e di libertà delle confessioni religiose, introdotto dall’art. 8, primo comma, della Costituzione, impedirebbe di emanare norme che escludano da contribuzioni le confessioni religiose che non abbiano regolato i propri rapporti con lo Stato mediante le intese di cui al successivo terzo comma. Si richiamano, della predetta sentenza costituzionale, le affermazioni secondo cui “tutte le confessioni religiose” di cui all’art. 8, primo comma “sono idonee a rappresentare gli interessi religiosi dei loro appartenenti”, e la circostanza dell’avvenuta stipulazione dell’intesa con lo Stato “non può quindi costituire l’elemento di discriminazione nell’applicazione di una disciplina, posta da una legge comune, volta ad agevolare l’esercizio di un diritto di libertà dei cittadini”; e, ancora, “gli interventi pubblici” in questione “vengono ad incidere positivamente proprio sull’esercizio in concreto del diritto fondamentale e inviolabile della libertà religiosa ed in particolare sul diritto di professare la propria fede religiosa” e di “esercitarne in privato o in pubblico il culto”, conseguendone che “qualsiasi discriminazione in danno dell’una o dell’altra fede religiosa è costituzionalmente inammissibile in quanto contrasta con il diritto di libertà e con il principio di uguaglianza”; “finalità ed effetto” della legge essendo quelli “di facilitare l’esercizio del culto, l’agevolazione non può essere subordinata alla condizione che il culto si riferisca ad una confessione religiosa la quale abbia chiesto e ottenuto la regolamentazione dei propri rapporti con lo Stato ai sensi dell’art. 8, terzo comma, della Costituzione”.

Il fatto che una confessione religiosa non abbia concluso con lo Stato una siffatta intesa, pertanto, non potrebbe costituire motivo di discriminazione, dal momento che la differenziazione violerebbe il principio della parità di trattamento e della eguale libertà di culto sancito dallo stesso art. 8 della Costituzione, recando pregiudizio all’esercizio del diritto fondamentale e inviolabile a professare la propria fede religiosa, stabilito dall’art. 19 della Costituzione.

2.– Non vi è stata costituzione di parti né intervento del Presidente della Giunta regionale.

Considerato in diritto

1.– La questione sollevata dal TAR per la Lombardia investe l’art. 1 della legge regionale della Lombardia 9 maggio 1992, n. 20 (Norme per la realizzazione di edifici di culto e di attrezzature destinate a servizi religiosi). La disposizione in esame indica come finalità della legge la promozione della “realizzazione di attrezzature di interesse comune destinati [rectius: destinate] a servizi religiosi, da effettuarsi da parte degli enti istituzionalmente competenti in materia di culto della Chiesa cattolica, e delle altre confessioni religiose, i cui rapporti con lo Stato siano disciplinati ai sensi dell’articolo 8, terzo comma, della Costituzione” – vale a dire da leggi sulla base di intese con le relative rappresentanze – “e che già abbiano una presenza organizzata nell’ambito dei comuni ove potranno essere realizzati gli interventi” previsti. I successivi articoli precisano quali attrezzature di interesse comune per servizi religiosi possono essere finanziate (immobili destinati al culto o all’abitazione dei ministri del culto e del personale di servizio, o ad attività di formazione religiosa; immobili adibiti, nell’esercizio del ministero pastorale, ad attività educative, culturali, sociali, ricreative e di ristoro, che non abbiano fini di lucro: art. 2); prevedono che gli strumenti urbanistici generali individuino le aree destinate ad attrezzature religiose, riservando ad esse una dotazione di aree pari almeno al 25 per cento di quella complessiva destinata ad attrezzature di interesse comune (art. 3); disciplinano l’erogazione di contributi, a valere su un apposito fondo alimentato da una quota, pari almeno all’8 per cento, delle somme riscosse per oneri di urbanizzazione secondaria, contributi che sono ripartiti fra le confessioni religiose che ne facciano richiesta “e che abbiano le caratteristiche di cui al precedente articolo 1” (art. 4).

La disposizione impugnata è censurata invocando le ragioni che condussero questa Corte a dichiarare, con la sentenza n. 195 del 1993, la illegittimità costituzionale parziale di un’analoga legge della Regione Abruzzo (sentenza che, correttamente, il TAR esclude possa estendere i suoi effetti alla legge lombarda): il condizionare l’erogazione dei contributi a favore delle confessioni religiose al requisito dell’avere queste stipulato un’intesa con lo Stato ai sensi dell’art. 8, terzo comma, della Costituzione è in contrasto, secondo il remittente, con i principi di eguale libertà delle confessioni (art. 8, primo comma, Cost.) e di libertà di esercizio del culto (art. 19 Cost.), libertà sulla quale gli interventi pubblici in questione incidono positivamente.

La censura investe dunque, più precisamente, quella parte dell’art. 1 della legge impugnata che pone come requisito, che debbono possedere le confessioni religiose per ottenere i contributi, l’essere i loro rapporti con lo Stato “disciplinati ai sensi dell’art. 8, terzo comma, della Costituzione”.

2.– La questione è fondata.

Già nella sentenza n. 195 del 1993 questa Corte, giudicando sulla legittimità costituzionale di una legge della Regione Abruzzo, dichiarò che “un intervento generale ed autonomo dei pubblici poteri che trova la sua ragione e giustificazione – propria della materia urbanistica – nell’esigenza di assicurare uno sviluppo equilibrato ed armonico dei centri abitativi e nella realizzazione dei servizi di interesse pubblico nella loro più ampia accezione, che comprende perciò anche i servizi religiosi”, ed ha l’effetto di facilitare “le attività di culto, che rappresentano un’estrinsecazione del diritto fondamentale ed inviolabile della libertà religiosa”, non può introdurre come elemento di discriminazione fra le confessioni religiose che aspirano ad usufruirne, avendone gli altri requisiti, l’esistenza di un’intesa per la regolazione dei rapporti della confessione con lo Stato.

Tale ragione di incostituzionalità trova applicazione anche nel presente giudizio. Le intese di cui all’art. 8, terzo comma, sono infatti lo strumento previsto dalla Costituzione per la regolazione dei rapporti delle confessioni religiose con lo Stato per gli aspetti che si collegano alle specificità delle singole confessioni o che richiedono deroghe al diritto comune: non sono e non possono essere, invece, una condizione imposta dai poteri pubblici alle confessioni per usufruire della libertà di organizzazione e di azione, loro garantita dal primo e dal secondo comma dello stesso art. 8, né per usufruire di norme di favore riguardanti le confessioni religiose.

Ciò è tanto più vero in una situazione normativa in cui la stipulazione delle intese è rimessa non solo alla iniziativa delle confessioni interessate (le quali potrebbero anche non voler ricorrere ad esse, avvalendosi solo del generale regime di libertà e delle regole comuni stabilite dalle leggi), ma anche, per altro verso, al consenso prima del Governo – che non è vincolato oggi a norme specifiche per quanto riguarda l’obbligo, su richiesta della confessione, di negoziare e di stipulare l’intesa – e poi del Parlamento, cui spetta deliberare le leggi che, sulla base delle intese, regolano i rapporti delle confessioni religiose con lo Stato.

Vale dunque in proposito il divieto di discriminazione, sancito in generale dall’art. 3 della Costituzione e ribadito, per quanto qui interessa, dall’art. 8, primo comma. Ne risulterebbe, in caso contrario, violata anche l’eguaglianza dei singoli nel godimento effettivo della libertà di culto, di cui l’eguale libertà delle confessioni di organizzarsi e di operare rappresenta la proiezione necessaria sul piano comunitario, e sulla quale esercita una evidente, ancorché indiretta influenza la possibilità delle diverse confessioni di accedere a benefici economici come quelli previsti dalla legge in esame.

3.– Nemmeno si potrebbe ritenere che – data l’assenza, nell’ordinamento, di criteri legali precisi che definiscano le “confessioni religiose” – il riferimento all’esistenza dell’intesa possa valere come elemento oggettivo di qualificazione delle organizzazioni richiedenti, atto a distinguere le confessioni religiose da diversi fenomeni di organizzazione sociale che pretendessero tuttavia di accedere ai benefici.

E’ bensì vero che siffatto problema di qualificazione si pone sia in sede di applicazione dell’art. 8, terzo comma, della Costituzione, ai fini di identificare i soggetti che possono chiedere di stipulare le intese, sia in sede di applicazione, amministrativa o giurisprudenziale, di ogni altra norma che abbia come destinatarie le confessioni religiose. Ma ciò non significa che si possa confondere tale problema qualificatorio – che può essere, in concreto, di più o meno difficile soluzione – con un requisito, quello della stipulazione di intese, che presuppone bensì la qualità di confessione religiosa, ma non si identifica con essa.

Nella specie, da un lato, possono valere i diversi criteri, non vincolati alla semplice autoqualificazione (cfr. sentenza n. 467 del 1992), che nell’esperienza giuridica vengono utilizzati per distinguere le confessioni religiose da altre organizzazioni sociali (ed è ben noto come vi siano confessioni, pur prive di intesa, che hanno però ottenuto diverse forme di riconoscimento: cfr. sentenza n. 195 del 1993 e ordinanza n. 379 del 2001); dall’altro lato, dal punto di vista pratico, vale la considerazione che il beneficio previsto riguarda comunque (e continuerà a riguardare anche dopo la dichiarazione di parziale incostituzionalità derivante dalla presente pronunzia) solo le confessioni che “abbiano una presenza organizzata nell’ambito dei comuni ove potranno essere realizzati gli interventi previsti” dalla legge stessa, e potrà essere concesso solo in relazione alla realizzazione delle “attrezzature di interesse comune per servizi religiosi”, definite nell’art. 2 della legge.

4.– La norma impugnata, nella parte che introduce il requisito della disciplina sulla base di intesa, ai sensi dell’art. 8, terzo comma, della Costituzione, dei rapporti con lo Stato delle singole confessioni religiose, ai fini di poter usufruire dei benefici previsti, deve essere dunque dichiarata costituzionalmente illegittima. Non è necessario invece estendere tale dichiarazione di illegittimità al disposto dell’art. 4, comma 2, della legge, che, facendo rinvio alle “caratteristiche di cui al precedente art. 1” per identificare le confessioni richiedenti aventi titolo ai contributi, si conforma automaticamente alla nuova portata dell’art. 1 medesimo risultante dalla presente pronunzia.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 1 della legge regionale della Lombardia 9 maggio 1992, n. 20 (Norme per la realizzazione di edifici di culto e di attrezzature destinate a servizi religiosi), limitatamente alle parole “i cui rapporti con lo Stato siano disciplinati ai sensi dell’art. 8, terzo comma, della Costituzione, e”.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8  luglio 2002.

Cesare RUPERTO, Presidente

Valerio ONIDA, Redattore

Depositata in Cancelleria il 16 luglio 2002.