SENTENZA N. 232
ANNO 2005Commento alla decisione di
Alberto Roccella
Governo del territorio: rapporti con la tutela dei beni culturali e l’ordinamento civile
(per gentile concessione del Forum di Quaderni costituzionali)
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Piero Alberto CAPOTOSTI Presidente
- Guido NEPPI MODONA Giudice
- Annibale MARINI "
- Franco BILE "
- Giovanni Maria FLICK "
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Romano VACCARELLA "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 40 e 50, comma 8, lettera c) della legge della Regione Veneto 23 aprile 2004, n. 11 (Norme per il governo del territorio), promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 24 giugno 2004, depositato in cancelleria il 2 luglio 2004 ed iscritto al n. 63 del registro ricorsi 2004.
Visto l’atto di costituzione della Regione Veneto, nonché l’atto di intervento di A. C.;
udito nell’udienza pubblica del 19 aprile 2005 il Giudice relatore Francesco Amirante;
uditi l’avvocato dello Stato Giorgio D’Amato per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Bruno Barel per la Regione Veneto.
Ritenuto in fatto
1.— Con ricorso notificato il 24 giugno 2004 e depositato il 2 luglio 2004, il Presidente del Consiglio dei ministri ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 40 – in relazione all’art. 117, secondo comma, lettera s), e all’art. 118, terzo comma, della Costituzione – e 50, comma 8, lettera c) – in relazione all’art. 117, commi secondo, lettera l), terzo e sesto, nonché all’art. 3 della Costituzione – della legge della Regione Veneto 23 aprile 2004, n. 11 (Norme per il governo del territorio). Tale legge, rileva il ricorrente, detta norme per il governo del territorio, definendo, in particolare, le competenze degli enti territoriali, le regole per l’uso dei suoli, i diversi livelli e strumenti di pianificazione, le forme di coordinamento e integrazione delle informazioni, i procedimenti.
In particolare l’art. 40 prevede che il Piano di assetto del territorio (PAT), previa analisi dei manufatti e degli spazi liberi esistenti nei centri storici, determini – anche relativamente alle ville venete di cui alla pubblicazione dell’apposito Istituto regionale “Ville Venete-Catalogo e Atlante del Veneto”, nonché agli edifici e complessi di valore monumentale e testimoniale – le categorie in cui gli stessi debbono essere raggruppati per le loro caratteristiche tipologiche, attribuendo in tal modo specifici valori di tutela e, quindi, individuando per ciascuna categoria gli interventi e le destinazioni d’uso ammissibili. La norma prevede, inoltre, che il Piano degli interventi (PI) attribuisca a ciascun manufatto le caratteristiche tipologiche di riferimento tra quelle determinate dal PAT, nonché la corrispondente categoria di intervento edilizio.
Tale disposizione, ad avviso del ricorrente, è lesiva dell’art. 117, secondo comma, lettera s), e sesto comma, Cost., che rispettivamente riservano alla potestà legislativa esclusiva dello Stato e alla sua potestà regolamentare la tutela dei beni culturali.
Essa, infatti, prefigura misure di limitazione e conformazione della proprietà privata, in funzione esclusiva di un interesse storico e culturale, la cui individuazione rappresenta una delle attività fondamentali in cui si esplica la tutela dei beni culturali. Tutti gli interventi diretti alla conservazione e al recupero di tali beni e, prima ancora, allo stesso riconoscimento della loro valenza culturale, sono, come affermato da questa Corte nella sentenza n. 9 del 2004, da ricomprendere in tale materia e non in quella della valorizzazione (di competenza concorrente delle Regioni). Ne consegue che alle Regioni non è consentito stabilire il regime dominicale in relazione a categorie di beni di valenza culturale e la disciplina di ogni attività di tutela nonché di definizione delle relative modalità.
Quanto all’art. 50, comma 8, della legge regionale di cui si tratta, il ricorrente rileva che l’art. 23 della legge regionale 27 giugno 1985, n. 61 (Norme per l’assetto e l’uso del territorio), dopo aver stabilito al sesto comma che «le distanze minime tra fabbricati sono quelle di cui all’art. 9 del d.m. 2 aprile 1968 n. 1444 del Ministro dei lavori pubblici», prevedeva, all’ultimo comma, in corrispondenza con lo stesso ultimo comma dell’art. 9 del d.m. citato, che minori distanze tra fabbricati potessero essere ammesse nei casi di gruppi di edifici oggetto di piani urbanistici attuativi planivolumetrici o per interventi puntuali disciplinati dal Piano regolatore generale. Tale ultimo comma è stato sostituito dall’art. 50, comma 8, dell’impugnata legge regionale che, alla lettera c), prevede anche la possibilità che i Piani regolatori generali definiscano distanze minori di quelle stabilite nell’art. 9 del menzionato d.m. n. 1444 del 1968, «nelle zone territoriali omogenee B e C1, qualora, fermo restando per le nuove costruzioni il rispetto delle distanze dal confine previste dal piano regolatore generale che comunque non possono essere inferiori a cinque metri, gli edifici esistenti antistanti a quelli da costruire siano stati realizzati legittimamente ad una distanza dal confine inferiore». Secondo quanto si desume dall’art. 24, primo e secondo comma, della legge regionale n. 61 del 1985, in relazione all’art. 7 del d.m. n. 1444 del 1968, la zona B concerne le parti del territorio totalmente o parzialmente edificate diverse dagli agglomerati urbani che rivestono carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale (e si considerano parzialmente edificate le zone in cui la superficie coperta degli edifici esistenti non sia inferiore al 12,5% della superficie fondiaria della zona e nelle quali la densità territoriale sia superiore ad 1,5 mc/mq), mentre la zona C1 riguarda le parti del territorio destinate a nuovi complessi insediativi e nelle quali il limite della superficie coperta dagli edifici esistenti non deve essere inferiore al 7,5% della superficie fondiaria della zona e la densità territoriale non deve essere inferiore a 0,50 mc/mq. Il d.m. prevede per tali zone la distanza minima assoluta di dieci metri, nonché, per la zona C, tra pareti finestrate di edifici antistanti, la distanza minima pari all'altezza del fabbricato più alto.
Com’è noto, in coerenza con l’art. 42 Cost., per garantire la coesistenza dei diritti dei singoli proprietari fondiari, alle facoltà di ciascuno sono imposti dalla legge limiti atti a conciliare il godimento del diritto sul proprio bene con quello degli altri sui loro beni. Un limite legale specifico a protezione del diritto del vicino è posto dalle norme che impongono, ad ogni proprietario, di rispettare determinate distanze minime nell’eseguire costruzioni, la cui violazione è suscettibile anche della drastica forma di risarcimento in forma specifica, attraverso la riduzione in pristino (v. art. 872, secondo comma, cod. civ.).
Le norme degli strumenti urbanistici che prescrivono le distanze tra le costruzioni – o come spazio tra le medesime o come distacco dal confine – in forza del rinvio contenuto nell’art. 873 del codice civile, hanno carattere integrativo delle norme dello stesso codice, in quanto concorrono alla stessa configurazione del diritto di proprietà, disciplinando i rapporti di vicinato, assicurando un’equità nell’utilizzazione edilizia dei suoli privati ed attribuendo il diritto reciproco al loro rispetto.
Ne discende che le anzidette particolari norme degli strumenti urbanistici incidono nella materia dell’ordinamento civile, attribuita alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, cui spetta altresì la relativa potestà regolamentare (art. 117, secondo comma, lettera l), e sesto comma, Cost.), e devono pertanto essere rispettose della normativa statale anche di livello regolamentare che pone, al riguardo, limiti precisi e inderogabili nella formazione o revisione di detti strumenti.
Osserva il ricorrente che, anche a voler considerare la disposizione censurata sotto il profilo dell’assetto urbanistico, sarebbe comunque palese il suo contrasto con i canoni di coerenza e ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. Essa, infatti, consente che la valutazione pubblicistica in sede locale dell’efficienza ambientale, che porta a stabilire nel PRG una determinata distanza tra costruzioni nel rispetto di quelle minime indicate nel d.m. n. 1444 del 1968, possa essere contraddetta da una diversa valutazione normativa nello stesso PRG, in senso riduttivo di tale distanza complessiva e violativo delle prescrizioni del d.m., in funzione esclusivamente di un interesse di natura privata di uno dei frontisti (il proprietario prevenuto, altrimenti obbligato ad arretramenti).
Ciò anche in contrasto, sul piano pubblicistico dei rapporti tra costruttore e pubblica amministrazione, con il principio fondamentale ricavabile in materia di governo del territorio dall’art. 41-quinquies della legge 17 agosto 1942, n. 1150, circa l’inderogabilità dei limiti di distanza tra i fabbricati stabiliti nell’interesse pubblico, con conseguente configurabilità, con riguardo a tale interferente materia, della violazione dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione. Né può trascurarsi che dovrebbe tenersi conto, a tal fine, dell’intero complesso normativo statale consolidatosi ben prima delle modifiche costituzionali attinenti ai rapporti Stato-Regioni, in base al quale costituisce ius receptum il principio affermato dalla giurisprudenza circa l’inserzione delle disposizioni dell’art. 9 del d.m. nello strumento urbanistico che rechi previsioni difformi.
2.— Si è costituita la Regione Veneto chiedendo, anche in una memoria depositata in prossimità dell’udienza, la declaratoria di infondatezza delle questioni.
Quanto alla questione relativa all’art. 40 della legge regionale n. 11 del 2004, la Regione sostiene la palese erroneità del presupposto da cui muove, rappresentato dalla pretesa invasività da parte della disposizione censurata dell’ambito normativo della tutela dei beni culturali, riservato allo Stato, mentre essa – al pari di altre analoghe disposizioni contenute nella previgente disciplina urbanistica regionale veneta, di cui alla legge n. 61 del 1985 – è espressione della potestà legislativa regionale concorrente in materia di governo del territorio, nel cui ambito rientrano pure le misure volte alla salvaguardia e tutela, sotto il profilo urbanistico, degli immobili che rivestono anche un valore storico e culturale, secondo i principi fondamentali dettati dalla legge 17 agosto 1942, n. 1150. L’art. 40 di cui si tratta, infatti, si limita a prevedere l’adozione di misure tipiche di questo quadro normativo che sono perfettamente compatibili con gli strumenti eventualmente adottati dallo Stato nell’ambito della tutela dei beni culturali, essendo pacifico che, in caso di conflitto, la tutela statale prevale sulle previsioni urbanistiche locali.
Quanto alla questione relativa all’art. 50, comma 8, lettera c), della legge regionale n. 11 del 2004, la Regione osserva, per quel che si riferisce al primo profilo di censura riguardante la pretesa violazione della competenza statale esclusiva in materia di ordinamento civile, che la disciplina delle distanze fra le costruzioni è sempre stata ascritta al diritto urbanistico e, quindi, alla materia del governo del territorio, come è dimostrato anche dalla circostanza che di essa si è costantemente occupata la legislazione urbanistica regionale, senza per questo violare la competenza statale in materia di ordinamento civile.
Per quel che si riferisce al profilo di censura secondo cui, anche volendo ascrivere la disposizione impugnata alla materia del governo del territorio, essa sarebbe comunque in contrasto con il principio fondamentale ricavabile in materia dall’art. 41-quinquies della legge n. 1150 del 1942 circa l’inderogabilità dei limiti di distanza stabiliti nell’interesse pubblico, la Regione osserva che, dalla lettura complessiva del ricorso, si desume che il vero principio che si considera violato è quello della inderogabilità dei limiti di distanza fissati dall’art. 9 del d.m. 2 aprile 1968, n. 1444. Ora, a parte che la disposizione impugnata ha avuto effetto solo transitorio – in quanto l’art. 23 della legge n. 61 del 1985, da essa modificato, è stato abrogato a decorrere dal 23 ottobre 2004 dall’art. 49 della medesima legge regionale n. 11 del 2004 – la Regione rileva che il principio, di cui al citato art. 41-quinquies della legge n. 1150 del 1942, è stato rispettato, mentre i limiti di distanza fissati dall’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 non sono vincolanti per le Regioni in quanto contenuti in un atto regolamentare e non in una legge statale. Peraltro, la Regione Veneto anche nella legge n. 11 del 2004 ha scelto di conformare sostanzialmente la propria legislazione urbanistica all’intero corpus normativo statale previgente, ivi comprese le disposizioni di cui al citato d.m., prevedendo solo limitati e specifici casi in cui possono ammettersi distanze inferiori a quelle indicate dal suddetto decreto. Tra questi casi rientra anche quello contemplato nella disposizione censurata che presuppone una variante urbanistica e la sussistenza di precise condizioni restrittive.
3.— E’ intervenuto, con atto depositato il 5 agosto 2004, il signor A. C., specificando di intervenire nel «ricorso per conflitto di attribuzioni» con riferimento all’impugnativa dell’art. 50, comma 8, della legge della Regione Veneto n. 11 del 2004, e concludendo per la declaratoria d’illegittimità della norma in argomento «siccome inconferente con le disposizione approvate e comunque esulante dalla competenza legislativa regionale».
Considerato in diritto
1.–– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha sollevato questione di legittimità costituzionale di alcune disposizioni della legge della Regione Veneto 23 aprile 2004, n. 11 (Norme per il governo del territorio), in particolare ha impugnato l’art. 40, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), ed all’art. 118, terzo comma, Cost., nonché l’art. 50, comma 8, lettera c), in riferimento agli articoli 3, 117, commi secondo, lettera l), terzo e sesto della Costituzione.
Dell’articolo 40 il ricorrente censura specificamente i commi 3, 4 e 5 i quali attribuiscono al piano di assetto territoriale (PAT), con riguardo ai centri storici, la determinazione sia delle categorie in cui devono essere raggruppati i manufatti e gli spazi liberi esistenti, sia dei valori di tutela in funzione degli specifici contesti da salvaguardare nonché, per ogni categoria, l’individuazione degli interventi, delle destinazioni d’uso ammissibili e dei margini di flessibilità consentiti dal piano degli interventi (PI).
Le attribuzioni al PAT concernono anche le ville venete, gli edifici e i complessi di valore monumentale e testimoniale e le loro pertinenze.
Secondo il ricorrente siffatte disposizioni sono lesive delle attribuzioni statali in materia di tutela dei beni culturali, le quali, essendo esclusive, comprendono anche la potestà regolamentare. Il ricorrente rileva che nella tutela dei beni culturali rientra anzitutto il potere di riconoscere i beni culturali come tali.
Per quanto concerne la disposizione dell’art. 50, comma 8, lettera c), il Presidente del Consiglio dei ministri, premesso che essa regola le distanze tra le costruzioni, sostiene che tale materia rientra nell’ordinamento civile, anch’essa di competenza legislativa esclusiva dello Stato. Denuncia, inoltre, la violazione dell’art. 3 Cost. sotto il profilo della irragionevolezza, in quanto la norma distorce a favore dell’interesse privato dei proprietari soggetti alla regola della prevenzione la disciplina statale dettata a tutela dell’interesse pubblico.
2.–– Le due questioni devono essere distintamente esaminate in quanto attengono a differenti materie e comportano uno scrutinio alla luce di parametri in parte diversi.
La questione concernente l’art. 40 citato non è fondata nei termini di seguito indicati.
La tutela dei beni culturali, inclusa nel secondo comma dell’art. 117 Cost. sotto la lettera s) tra quelle di competenze legislativa esclusiva dello Stato, è materia che condivide con altre alcune peculiarità. Essa ha un proprio ambito materiale, ma nel contempo contiene l’indicazione di una finalità da perseguire in ogni campo in cui possano venire in rilievo beni culturali. Essa costituisce anche una materia-attività, come questa Corte l’ha già definita (v.sentenza n. 26 del 2004 ), condividendo alcune caratteristiche con la tutela dell’ambiente, non a caso ricompresa sotto la stessa lettera s) del secondo comma dell’art. 117 della Costituzione. In entrambe assume rilievo il profilo teleologico della disciplina.
In tale ordine di idee questa Corte ha affermato che «“la tutela dell’ambiente”, più che una “materia” in senso stretto, rappresenta un compito nell’esercizio del quale lo Stato conserva il potere di dettare standard di protezione uniformi validi in tutte le Regioni e non derogabili da queste; e che ciò non esclude affatto la possibilità che leggi regionali, emanate nell’esercizio della potestà concorrente di cui all’art. 117, terzo comma, della Costituzione o di quella “residuale” di cui all’art. 117, quarto comma, possano assumere tra i propri scopi anche finalità di tutela ambientale» (v. sentenza n. 307 del 2003, paragrafo 5 del Considerato in diritto, nonché sentenze n. 407 del 2002, n. 222 del 2003 e n. 62 del 2005). D’altra parte, mentre non è discutibile che i beni immobili di valore culturale caratterizzano e qualificano l’ambiente – specie dei centri storici cui la norma impugnata si riferisce – ha rilievo l’attribuzione della valorizzazione dei beni culturali alla competenza concorrente di Stato e Regioni.
Ai fini del discrimine delle competenze, ma anche del loro intreccio nella disciplina dei beni culturali, elementi di valutazione si traggono dalle norme del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e paesaggistici). Tale testo legislativo ribadisce l’esigenza dell’esercizio unitario delle funzioni di tutela dei beni culturali (art. 4, comma 1) e, nel contempo, stabilisce, però, che siano non soltanto lo Stato, ma anche le Regioni, le città metropolitane, le province e i comuni ad assicurare e sostenere la conservazione del patrimonio culturale e a favorirne la pubblica fruizione e la valorizzazione (art. 1, comma 3). Inoltre, a rendere evidente la connessione della tutela e valorizzazione dei beni culturali con la tutela dell’ambiente, sono le lettere f) e g) del comma 4 dell’art. 10 del suindicato codice, le quali elencano, tra i beni culturali, le ville, i parchi, i giardini, le vie, le piazze e in genere gli spazi aperti urbani di interesse artistico o storico.
Con riguardo a tale ultimo rilievo è anche sotto altro, più specifico, aspetto che viene in evidenza la competenza regionale.
La materia del governo del territorio, comprensiva dell’urbanistica e dell’edilizia (v. sentenze n. 362 del 2003 e n. 196 del 2004), rientra tra quelle di competenza legislativa concorrente. Spetta perciò alle Regioni, nell’ambito dei principi fondamentali determinati dallo Stato, stabilire la disciplina degli strumenti urbanistici. Ora, non v’è dubbio che tra i valori che gli strumenti urbanistici devono tutelare abbiano rilevanza non secondaria quelli artistici, storici, documentari e comunque attinenti alla cultura nella polivalenza di sensi del termine.
Non si può dubitare, ad esempio, che disposizioni le quali, a qualsiasi livello, limitino l’inquinamento atmosferico o riducano, disciplinando la circolazione stradale, le vibrazioni, tutelino l’ambiente e insieme, se esistenti, gli immobili o i complessi immobiliari di valore culturale.
Nelle materie in cui ha primario rilievo il profilo finalistico della disciplina, la coesistenza di competenze normative rappresenta la generalità dei casi. Ed è significativo che, proprio con riguardo a ciò cui si è fatto cenno, la Costituzione abbia stabilito che nella materia dei beni culturali la legge statale preveda forme di intesa e coordinamento tra Stato e Regioni (art. 118, terzo comma).
Alla luce delle considerazioni svolte, la norma regionale impugnata non è invasiva della sfera di competenza statale.
Stabilire che, previa analisi dei manufatti e degli spazi liberi e individuazione delle loro pertinenze, sia il PAT a determinare i livelli di tutela e le modalità di utilizzazione dei beni culturali esistenti nei centri storici, non comporta contraddizione della normativa statale in tema di tutela dei beni culturali, in quanto la disciplina regionale è in funzione di una tutela non sostitutiva di quella statale, bensì diversa ed aggiuntiva, da assicurare nella predisposizione della normativa di governo del territorio, nella quale necessariamente sono coinvolti i detti beni.
La legge regionale non stabilisce nuovi criteri di identificazione dei beni culturali ai fini del regime proprio di questi nell’ambito dell’ordinamento statale, bensì prevede che nella disciplina del governo del territorio – e quindi per quanto concerne le peculiarità di questa – si tenga conto non soltanto dei beni culturali identificati secondo la normativa statale, ma eventualmente anche di altri, purché però essi si trovino a far parte di un territorio avente una propria conformazione e una propria storia (v. sentenza n. 94 del 2003).
E, per concludere, si osserva, da un lato, che il ricorrente non si duole che la Regione abbia travalicato i limiti della propria competenza in materia di governo del territorio invadendo quella statale avente ad oggetto la determinazione dei principi fondamentali, dall’altro che allo Stato non mancherebbero altri rimedi qualora singoli provvedimenti della Regione o di altri enti locali dovessero ledere le sue attribuzioni.
3.–– Riguardo all’altra questione, concernente l’art. 50, comma 8, lettera c), della stessa legge della Regione Veneto n. 11 del 2004, va rilevata preliminarmente l’inammissibilità dell’intervento spiegato, limitatamente ad essa e peraltro tardivamente, dal signor A. C. E’, infatti, principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte che, nei giudizi di legittimità costituzionale delle leggi promossi in via di azione ai sensi dell’art. 127 Cost. e degli artt. 31 e seguenti della legge 11 marzo 1953, n. 87, non è ammesso l’intervento di soggetti privi delle attribuzioni legislative in contestazione (v., da ultimo, sentenze n. 338 del 2003, n. 166 del 2004, n. 378 del 2004 nonché ordinanza n. 20 del 2005 e ordinanza allegata alla sentenza n. 150 del 2005).
4.–– Nel merito, la questione è fondata.
La disciplina delle distanze fra costruzioni ha la sua collocazione anzitutto nella sezione VI del Capo II del Titolo II del Libro III del codice civile, intitolata appunto “Delle distanze nelle costruzioni, piantagioni e scavi, e dei muri, fossi e siepi interposti tra fondi”. Tale disciplina, ed in particolare quella degli articoli 873 e 875 che viene qui in più specifico rilievo, attiene in via primaria e diretta ai rapporti tra proprietari di fondi finitimi. In caso di sua violazione, la tutela dei diritti su di essa fondati, assicurata davanti al giudice ordinario, può essere suscettibile di esecuzione in forma specifica. Non si può pertanto dubitare che la disciplina delle distanze, per quanto concerne i rapporti suindicati, rientri nella materia dell’ordinamento civile, di competenza legislativa esclusiva dello Stato.
Tuttavia, poiché i fabbricati insistono su di un territorio che può avere rispetto ad altri – per ragioni naturali e storiche – specifiche caratteristiche, la disciplina che li riguarda – ed in particolare quella dei loro rapporti nel territorio stesso – esorbita dai limiti propri dei rapporti interprivati e tocca anche interessi pubblici. Ed è per l’influenza che le peculiarità dei diversi insediamenti possono avere che lo stesso codice civile, ancor prima della Costituzione, ha attribuito rilievo ai regolamenti locali, in un’epoca in cui unica fonte di normativa primaria era lo Stato.
Una volta assegnate alle Regioni competenze normative primarie, il rilievo della connessione e delle interferenze tra interessi privati e interessi pubblici e della importanza delle caratteristiche locali in tema di distanze tra costruzioni ha trovato attuazione nel riparto di competenze legislative e nell’attribuzione alle Regioni, in sede di competenza concorrente, della materia del governo del territorio, comprensiva, come si è detto, dell’urbanistica e dell’edilizia.
Ma in quanto titolari di competenza concorrente e non residuale riguardo ad una materia che, relativamente alla disciplina delle distanze, interferisce con altra di spettanza esclusiva dello Stato, le Regioni devono esercitare le loro funzioni nel rispetto dei principi della legislazione statale.
Ora, in materia di distanze tra fabbricati, primo principio, fissato in epoca risalente ma ancora di recente ribadito, è che la distanza minima sia determinata con legge statale, mentre in sede locale, sempre ovviamente nei limiti della ragionevolezza, possono essere fissati limiti maggiori.
In secondo luogo, l’ordinamento statale consente deroghe alle distanze minime con normative locali, purché però siffatte deroghe siano previste in strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio. Tali principi si ricavano dall’art. 873 cod. civ. e dall’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. 2 aprile 1968, n. 1444, emesso ai sensi dell’art. 41-quinquies della legge 17 agosto 1942, n. 1150 (introdotto dall’art. 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765), avente efficacia precettiva e inderogabile, secondo un principio giurisprudenziale consolidato.
I suindicati limiti alla possibilità di fissare distanze inferiori a quelle previste dalla normativa statale trovano la loro ragione nel rilievo che le deroghe, per essere legittime, devono attenere agli assetti urbanistici e quindi al governo del territorio e non ai rapporti tra vicini isolatamente considerati in funzione degli interessi privati dei proprietari dei fondi finitimi.
La norma regionale censurata non risponde ai menzionati requisiti di legittimità.
Essa, con riguardo ad una situazione particolare costituita da una costruzione già esistente posta a distanza dal confine inferiore a quella prescritta dalla normativa attualmente vigente, ma legittima secondo la disciplina dell’epoca della costruzione, autorizza il proprietario del fondo confinante a costruire o a mantenere il proprio fabbricato ad una distanza dall’altro manufatto preesistente inferiore a quella ordinariamente stabilita, con il solo rispetto della prescritta distanza dal confine.
Tale norma non attiene quindi all’assetto urbanistico complessivo delle zone territoriali in cui la suddetta deroga è consentita.
Né, d’altra parte, come già affermato da questa Corte (v. sentenza n. 62 del 2005) la transitorietà della disposizione può valere a giustificarla sul piano costituzionale, poiché, anzi, l’attribuzione di tale natura alla norma, anche per le modalità con le quali è stata realizzata, porta ulteriormente ad escluderne la finalizzazione alla disciplina dell’assetto urbanistico del territorio e rappresenta, quindi, un ulteriore sintomo della violazione dei limiti imposti dalla Costituzione alla competenza della Regione.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 50, comma 8, lettera c), della legge della Regione Veneto 23 aprile 2004, n. 11 (Norme per il governo del territorio);
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 40 della legge della Regione Veneto n. 11 del 2004, sollevata, in riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettera s), e 118, terzo comma, della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 giugno 2005.
Piero Alberto CAPOTOSTI, Presidente
Francesco AMIRANTE, Redattore
Depositata in Cancelleria il 16 giugno 2005.