Sentenza n. 281 del 2020

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SENTENZA N. 281

ANNO 2020

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Presidente: Giancarlo CORAGGIO;

Giudici: Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 14, 45, comma 1, lettera b), 74, comma 3, e 88 della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 8 luglio 2019, n. 9 (Disposizioni multisettoriali per esigenze urgenti del territorio regionale), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri, con ricorso notificato il 6-17 settembre 2019 e depositato il 13 settembre 2019, iscritto al n. 98 del registro ricorsi 2019 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 43, prima serie speciale, dell’anno 2019.

Visto l’atto di costituzione della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia;

udito nell’udienza pubblica del 1° dicembre 2020 il Giudice relatore Giuliano Amato, in collegamento da remoto, ai sensi del punto 1) del decreto del Presidente della Corte del 30 ottobre 2020;

uditi l’avvocato dello Stato Francesca Morici per il Presidente del Consiglio dei ministri e, in collegamento da remoto, ai sensi del punto 1) del decreto del Presidente della Corte del 30 ottobre 2020, l’avvocato Francesco Saverio Marini per la Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia;

deliberato nella camera di consiglio del 1° dicembre 2020.

Ritenuto in fatto

1.– Con ricorso notificato il 6-17 settembre 2019 e depositato il 13 settembre 2019 (reg. ric. n. 98 del 2019), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso – in riferimento complessivamente agli artt. 3, 117, commi secondo, lettere a), b), m), e s), e terzo, della Costituzione, nonché all’art. 5, numero 16), della legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia) – tra le altre, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 14, 45, comma 1, lettera b), 74, comma 3, e 88 – nella parte in cui introduce l’art. 77, comma 3-quinquies, della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 9 agosto 2005, n. 18 (Norme regionali per l’occupazione, la tutela e la qualità del lavoro) – della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 8 luglio 2019, n. 9 (Disposizioni multisettoriali per esigenze urgenti del territorio regionale).

2.− Una prima questione ha ad oggetto l’art. 14 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 9 del 2019, che modifica l’art. 5 della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 29 aprile 2005, n. 9 (Norme regionali per la tutela dei prati stabili naturali), aggiungendovi i commi 7-bis e 7-ter, ove si prevede: «7-bis. Entro trenta giorni decorrenti dal termine dell’attività autorizzata ai sensi dei commi 1.1-bis e 1.1-quater dell’articolo 12 della legge regionale 15 ottobre 2009 n. 17 (Disciplina delle concessioni e conferimento di funzioni in materia di demanio idrico regionale), qualora il materiale del fondo stradale si depositi accidentalmente sul prato stabile nel corso della suddetta attività, il soggetto organizzatore è tenuto alla riduzione in pristino dello stato dei luoghi qualora prescritto dal soggetto che ha rilasciato il titolo autorizzatorio. 7-ter. Fino alla scadenza del termine indicato al comma 7-bis non trova applicazione il divieto di cui all’articolo 4, comma 1».

2.1.− Secondo la difesa statale le norme regionali indicate lederebbero l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. – in relazione al decreto del Presidente della Repubblica 8 settembre 1997, n. 357 (Regolamento recante attuazione della direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche) e alle direttive comunitarie con esso recepite – in quanto, nel ridurre i livelli di tutela, determinerebbero impatti negativi sui prati stabili.

2.1.1.− I prati stabili rientrerebbero tra gli habitat individuati ai sensi della direttiva 21 maggio 1992, n. 92/43/CEE, del Consiglio, «relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche» e della direttiva 30 novembre 2009, n. 2009/147/CE, del Parlamento europeo e del Consiglio, «concernente la conservazione degli uccelli selvatici», recepite, rispettivamente, con la legge 11 febbraio 1992, n. 157 (Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio) e con il citato d.P.R. n. 357 del 1997.

Secondo la difesa statale le norme impugnate consentirebbero lo svolgimento su tali habitat delle attività autorizzate ai sensi dell’art. 12 della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 15 ottobre 2009, n. 17 (Disciplina delle concessioni e conferimento di funzioni in materia di demanio idrico regionale), concernente le manifestazioni motoristiche, ciclistiche e nautiche, con o senza mezzi a motore, anche a carattere amatoriale, per l’utilizzo temporaneo di beni del demanio idrico regionale funzionali all’organizzazione e allo svolgimento delle predette manifestazioni.

In particolare, fissando un termine di trenta giorni successivo allo svolgimento di tali attività per il ripristino dello stato dei luoghi, periodo per cui non si applica l’art 4, comma 1, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 9 del 2005, che vieta gli interventi di riduzione di superficie sui prati stabili, s’introdurrebbe una deroga idonea a determinare un abbassamento dei livelli di tutela ambientale sui prati stabili.

Da qui la violazione dei limiti posti dallo Stato in materia di «tutela dell’ambiente e dell’ecosistema» (ex multis, sono richiamate le sentenze di questa Corte n. 244 e n. 33 del 2011, n. 331 e n. 278 del 2010 e n. 10 del 2009), che s’imporrebbero anche alle Regioni a statuto speciale (si richiama la sentenza n. 300 del 2013).

3.– Con una seconda questione lo Stato impugna l’art. 45, comma 1, lettera b), della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 9 del 2019, che abroga l’art. 17 della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 9 dicembre 2015, n. 31 (Norme per l’integrazione sociale delle persone straniere immigrate), attuativo dell’art. 40 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), in materia di accesso, accoglienza e inserimento abitativo delle persone straniere.

3.1.− Secondo l’Avvocatura generale dello Stato la disposizione impugnata violerebbe l’art 117, secondo comma, lettere a) e b), Cost., in relazione agli artt. 3, comma 5, e 40 del d.lgs. n. 286 del 1998.

3.1.1.− L’abrogazione disposta con la norma impugnata, infatti, lascerebbe un vuoto normativo nella legislazione regionale quanto alla disciplina relativa all’accesso di cittadini stranieri alla idonea soluzione abitativa, non essendo previsto nell’ordinamento regionale uno strumento alternativo rispetto al «[p]rogramma annuale», individuato dall’abrogato art. 17 per promuovere le forme d’intervento a favore delle persone straniere.

Ciò contrasterebbe con l’art. 3, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998, ai sensi del quale le Regioni «adottano i provvedimenti concorrenti al perseguimento dell’obiettivo di rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono il pieno riconoscimento dei diritti e degli interessi riconosciuti agli stranieri nel territorio dello Stato, con particolare riguardo a quelle inerenti all’alloggio, alla lingua, all’integrazione sociale, nel rispetto dei diritti fondamentali della persona».

Tale disposizione, così come l’art. 40 del d.lgs. n. 286 del 1998, su cui peraltro la difesa statale non si sofferma, sarebbero espressione di competenze esclusive dello Stato, quali la «condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea» e l’«immigrazione», recando principi fondamentali dell’ordinamento ex art. 1, comma 4, dello stesso d.lgs. n. 286 del 1998, che per le Regioni a statuto speciale avrebbero valore di norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica.

4.− Oggetto d’impugnazione è poi l’art. 74, comma 3, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 9 del 2019, che modifica l’art. 34, comma 3, della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 16 ottobre 2014, n. 17 (Riordino dell’assetto istituzionale e organizzativo del Servizio sanitario regionale e norme in materia di programmazione sanitaria e sociosanitaria), ove si stabilisce che presso i presidi ospedalieri riconvertiti per lo svolgimento di attività distrettuali sanitarie e sociosanitarie, i punti di primo intervento siano dotati di «spazi di osservazione a disposizione della funzione di emergenza-urgenza».

4.1.− Secondo la parte ricorrente il legislatore regionale avrebbe violato l’art. 117, commi secondo, lettera m), e terzo, Cost., nonché l’art. 5, numero 16), dello statuto reg. Friuli-Venezia Giulia, in relazione al decreto del Ministro della salute, adottato di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, 2 aprile 2015, n. 70 (Regolamento recante definizione degli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi relativi all’assistenza ospedaliera), adottato a norma dell’art. 1, comma 169, della legge 30 dicembre 2004, n 21, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2005)».

4.1.1.− Il d.m. n. 70 del 2015 (Allegato 1, punto 9.1.5), nella specie, prevede che «a seguito della riconversione dell’attività di un ospedale per acuti in un ospedale per la post-acuzie oppure in una struttura territoriale, potrebbe rendersi necessario prevedere, per un periodo di tempo limitato, il mantenimento nella località interessata di un Punto di Primo Intervento, operativo nelle 12 ore diurne e presidiato dal sistema 118 nelle ore notturne». In tali punti di primo intervento non è prevista l’osservazione breve del paziente e la loro funzione per le urgenze si limita unicamente «ad ambienti e dotazioni tecnologiche atte al trattamento delle urgenze minori e ad una prima stabilizzazione del paziente ad alta complessità, al fine di consentirne il trasporto nel pronto soccorso più appropriato».

4.1.2.− Secondo la difesa statale la modifica introdotta dalla norma regionale impugnata contrasterebbe con la normativa costituzionale sotto un duplice profilo.

Da un lato, perché introdurrebbe nella Regione un sistema di assistenza difforme dagli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi relativi all’assistenza ospedaliera indicati nel d.m. n. 70 del 2015 (è richiamata la sentenza di questa Corte n. 231 del 2017), che costituirebbero livelli essenziali delle prestazioni. La determinazione di tali standard, in particolare, deve essere garantita, con carattere di generalità, a tutti gli aventi diritto e la relativa competenza, avendo carattere trasversale, è idonea ad investire tutte le materie rispetto alle quali il legislatore statale deve poter porre le norme necessarie per assicurare a tutti, sull’intero territorio nazionale, il godimento di determinate prestazioni, senza che la legislazione regionale possa limitarle o condizionarle (sono richiamate le sentenze di questa Corte n. 192 del 2017, n. 125 del 2015, n. 207, n. 203 e n. 164 del 2012).

Dall’altro lato, l’art. 34, comma 3, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 17 del 2014, come novellato, inciderebbe anche sull’organizzazione sanitaria e, pertanto, sulla materia «tutela della salute» (si richiama la sentenza di questa Corte n. 54 del 2015), interferendo con l’ambito funzionale e operativo definito dallo Stato proprio allo scopo di garantire la qualità e l’adeguatezza delle specifiche prestazioni (viene richiamata la sentenza n. 207 del 2010).

La norma impugnata, pertanto, eccederebbe dalla competenza legislativa attribuita alla Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia in materia di «assistenza sanitaria ed ospedaliera» dall’art. 5, numero 16, dello statuto regionale, violando principi che secondo la giurisprudenza costituzionale s’imporrebbero anche alle Regioni a statuto speciale (tra tutte, viene richiamata la sentenza n. 126 del 2017), in quanto la potestà concorrente assegnata alle Regioni ordinarie dal testo costituzionale è assai più ampia di quella attribuita dagli statuti speciali in materia di assistenza sanitaria e ospedaliera (ex plurimis, sono richiamate le sentenze n. 162 del 2007, n. 134 del 2006 e n. 270 del 2005).

5.− Da ultimo, è impugnato l’art. 88 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 9 del 2019, nella parte in cui aggiunge all’art. 77 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 18 del 2005 il comma 3-quinquies, che dispone: «[a]l fine di favorire il riassorbimento delle eccedenze occupazionali determinatesi sul territorio regionale in conseguenza di situazioni di crisi aziendale, gli incentivi di cui al comma 3-bis possono essere concessi esclusivamente a fronte di assunzioni, inserimenti o stabilizzazioni occupazionali riguardanti soggetti che, alla data della presentazione della domanda di incentivo, risultino residenti continuativamente sul territorio regionale da almeno cinque anni».

5.1.− Secondo la difesa statale la disposizione impugnata, subordinando il riconoscimento di un incentivo occupazionale alla residenza del lavoratore in Regione da almeno cinque anni, violerebbe gli artt. 3 e 117, secondo comma, lettera m), Cost. e il principio di ragionevolezza, in relazione all’art. 11, comma l, lettera c), del decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 150 (Disposizioni per il riordino della normativa in materia di servizi per il lavoro e di politiche attive, ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della legge 10 dicembre 2014, n. 183).

5.1.1.− Sotto un primo profilo, la norma limiterebbe irragionevolmente il diritto all’incentivo, con una violazione indiretta del diritto al lavoro di cui all’art. 4 Cost., riconosciuto a tutti indistintamente, di fatto riservandolo solo alla categoria dei residenti quinquennali, così ponendosi in conflitto con le molteplici attività statali volte alla promozione delle condizioni per facilitare l’ingresso nel mondo lavorativo da riconoscersi tout court a tutti i lavoratori.

Il d.lgs. n. 150 del 2015, infatti, all’art. 11, comma 1, lettera c), prevede la disponibilità di servizi e di misure di politica attiva del lavoro a tutti i residenti sul territorio italiano, a prescindere dalla Regione o dalla Provincia autonoma di residenza. Così, la cumulabilità degli incentivi regionali con altri interventi contributivi disposti da leggi statali, prevista dall’art. 77, comma 2, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 18 del 2005, violerebbe il principio di uguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, secondo comma, Cost. e la normativa comunitaria in tema di libertà di circolazione, diritto di stabilimento e libera concorrenza.

5.1.2.− Sotto un altro profilo, s’introdurrebbe un elemento di irragionevolezza, non profilandosi alcuna connessione tra il riconoscimento di un incentivo al datore di lavoro e il requisito della residenza protratta nel tempo del lavoratore. Si potrebbe ipotizzare, a titolo esemplificativo, che un soggetto non residente abbia svolto negli ultimi cinque anni un periodo di attività lavorativa più consistente rispetto a un altro semplicemente residente, contribuendo il primo più del secondo al «progresso materiale e morale della comunità su base regionale».

5.1.3.− Infine, l’Avvocatura generale dello Stato asserisce la violazione anche dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., riguardante i livelli essenziali delle prestazioni, in cui rientrerebbero le misure di politica attiva del lavoro, ivi compresi gli incentivi occupazionali riconosciuti ai datori di lavoro per l’assunzione di particolari categorie di lavoratori, i quali sarebbero, ai sensi dell’art. 11, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 150 del 2015, «servizi che devono essere riconosciuti a tutti i residenti sul territorio italiano, a prescindere dalla regione o provincia autonoma di residenza».

6.– Con atto depositato l’11 ottobre 2019 si è costituita in giudizio la Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili e comunque infondate.

7.– Con riferimento alla prima questione, relativa all’art. 14 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 9 del 2019, la difesa regionale, oltre all’infondatezza nel merito, eccepisce plurimi motivi d’inammissibilità.

7.1.– In primo luogo, la questione sarebbe totalmente generica, limitandosi il Governo ad affermare la violazione delle fonti nazionali ed europee nel loro complesso, senza individuare le norme violate e, in particolare, il livello di tutela ambientale che risulterebbe ridotto per effetto della disposizione impugnata.

La ormai costante giurisprudenza costituzionale, invece, richiede che i termini delle questioni di legittimità costituzionale siano ben identificati, dovendo il ricorrente individuare le disposizioni impugnate, i parametri evocati e le ragioni delle violazioni prospettate (ex plurimis, sono richiamate le sentenze n. 154 del 2017, n. 141, n. 65, n. 40 e n. 3 del 2016, n. 273, n. 176 e n. 131 del 2015), chiarendo altresì che l’esigenza di un’adeguata motivazione a fondamento della richiesta declaratoria di illegittimità costituzionale si pone in termini perfino più pregnanti nei giudizi proposti in via principale rispetto a quelli instaurati in via incidentale (vengono richiamate le sentenze n. 251, n. 233, n. 218, n. 142 e n. 82 del 2015).

7.2.− Sotto un secondo profilo la questione sarebbe inammissibile quanto alla pretesa violazione delle fonti europee, per mancata individuazione del parametro costituzionale.

La parte ricorrente, infatti, assumerebbe il mero contrasto con le direttive europee, senza invocare la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.

7.3.− Ulteriore ragione d’inammissibilità deriverebbe dal fatto che nel caso di specie non potrebbe invocarsi l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.

7.3.1.− La Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, infatti, ha competenza primaria in materia di «agricoltura e foreste, bonifiche, ordinamento delle minime unità culturali e ricomposizione fondiaria, irrigazione, opere di miglioramento agrario e fondiario, zootecnia, ittica, economia montana, corpo forestale» (art. 4, numero 2, dello statuto reg. Friuli-Venezia Giulia). Pertanto, spetterebbe alla Regione dare concreta attuazione per il proprio territorio alla direttiva 92/43/CEE – che impone misure di salvaguardia sui siti di importanza comunitaria (SIC) e misure di conservazione sulle zone speciali di conservazione (ZSC) e sulle zone di protezione speciale (ZPS), a seguito della «definizione» di queste ultime d’intesa con lo Stato – e alla direttiva 2009/147/CE (si richiamano le sentenze di questa Corte n. 104 del 2008 e n. 425 del 1999).

La competenza statutaria non risulterebbe neppure menzionata nel ricorso, in senso contrario alla giurisprudenza costituzionale, secondo cui, nel caso d’impugnazione di una legge di una Regione ad autonomia speciale, il ricorrente è tenuto a individuare le competenze previste dallo statuto di autonomia, necessarie a inquadrare l’oggetto del giudizio e a motivare perché la disciplina contestata esorbiterebbe dalle stesse (ex plurimis, vengono richiamate le sentenze n. 58 del 2016, n. 151 e n. 142 del 2015, n. 87 e n. 54 del 2014, n. 308, n. 288, n. 277 e n. 187 del 2013).

7.4.− La questione sarebbe poi inammissibile e infondata anche per erroneità del presupposto interpretativo.

7.4.1. – Secondo il Governo, infatti, la legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 9 del 2005 farebbe riferimento esclusivamente alle aree rientranti nell’ambito applicativo delle citate direttive europee.

L’art. 1 di tale legge regionale, invece, dispone che l’amministrazione regionale, al fine di garantire la conservazione dell’identità biologica del territorio e la biodiversità degli habitat e delle specie floristiche e faunistiche, promuove la tutela dei prati stabili naturali delle aree regionali di pianura, secondo le modalità individuate dalla medesima legge; il comma l-bis dello stesso articolo precisa che la Regione armonizza la disciplina inerente i prati stabili e i siti della rete «Natura 2000», individuati ai sensi delle richiamate direttive europee, affinché siano perseguite le rispettive finalità in forme tra loro coordinate e complementari. L’art. 2, nel dettare la definizione di prati stabili, chiarisce che essi sono le formazioni appartenenti alle alleanze di vegetazione Phragmition communis, Magnocaricion elatae e Arrhenatherion elatioris, suddivise in tipologie in funzione della composizione floristica del cotico erbaceo, come indicato nell’Allegato A della legge, nonché le formazioni erbacee di cui all’Allegato I della direttiva 92/43/CEE.

Sarebbe chiaro, quindi, che nella definizione di prato stabile naturale non rientrerebbero solo i siti individuati dalla direttiva 92/43/CEE, riguardo a cui la disposizione contestata non avrebbe alcuna incidenza, in quanto le manifestazioni di cui all’art. 12 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 17 del 2009 non potrebbero essere ivi autorizzate. Infatti, quest’ultima disposizione riguarda il rilascio dell’autorizzazione idraulica all’interno di aree del demanio idrico regionale, autorizzazione subordinata, tra l’altro, al parere della struttura regionale competente, qualora il transito interessi SIC e ZPS o ricada in aree protette, biotopi e prati stabili.

Di ciò vi sarebbe conferma anche in base al combinato disposto degli artt. 4 e 5 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 9 del 2005. L’art. 4 individua le attività non ammesse sui prati stabili, tra cui la riduzione di superficie, mentre l’art. 5 stabilisce alcune deroghe ai divieti di cui all’art. 4, precisando, al comma 1, che la deroga alla riduzione della superficie possa avvenire solo «compatibilmente con la disciplina comunitaria e nazionale in materia di conservazione della biodiversità».

7.5.− La questione sarebbe in ogni caso infondata, perché l’impugnato art. 14 non recherebbe comunque una deroga all’obbligo di riduzione in pristino dello stato dei luoghi, né introdurrebbe una tutela inferiore rispetto a quella prevista in precedenza.

7.5.1.− La disposizione regionale, al contrario, da un lato non riguarderebbe i siti individuati dalla normativa comunitaria, dall’altro appresterebbe una tutela più estesa, individuando ex lege nell’organizzatore dell’evento il soggetto tenuto al ripristino dello stato dei luoghi in conseguenza di un evento accidentale. Il fatto che nel corso del periodo di rimessione in pristino possa essere ridotta la superficie del prato stabile sarebbe una prestazione connaturata e intrinsecamente conseguente all’attività di ripristino stessa.

D’altronde, l’art. 2 del d.P.R. n. 357 del 1997 stabilisce che le misure di conservazione necessarie per mantenere o ripristinare gli habitat naturali e le popolazioni di specie di fauna e flora selvatiche in uno stato soddisfacente devono rispondere a una logica di stabilità nel lungo periodo e non contingente. Disposizione che in nessun modo potrebbe ritenersi lesa dalle norme impugnate, volte proprio ad assicurare la conservazione a lungo termine dell’area naturale costituente prato stabile, attraverso l’immediata rimessione in pristino a carico dell’organizzatore dell’evento.

 

8.– Anche riguardo alla seconda questione, relativa all’art. 45 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 9 del 2019, la difesa della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia ne asserisce l’inammissibilità e l’infondatezza.

8.1.− La questione sarebbe inammissibile, in primis, per genericità, difetto di motivazione e mancata individuazione puntuale del parametro interposto, poiché la parte ricorrente si limiterebbe a invocare gli artt. 3, comma 5, e 40 del d.lgs. n. 286 del 1998, senza spiegare perché la disposizione abrogativa regionale sarebbe in contrasto con gli stessi.

8.2.− Sotto un ulteriore profilo, il motivo di ricorso sarebbe inammissibile in quanto la disciplina censurata andrebbe ascritta alla competenza regionale di attuazione e integrazione nella materia «assistenza sociale» (art. 6, numero 2, dello statuto reg. Friuli-Venezia Giulia).

Il Governo non perimetrerebbe l’oggetto del giudizio, tenendo conto anche della competenza statutaria, né specificherebbe perché la disciplina censurata esorbiterebbe rispetto ai poteri attuativi e integrativi da essa attribuiti.

8.3.− Nel merito la questione sarebbe comunque infondata.

8.3.1.− La norma abrogata, infatti, avrebbe avuto per oggetto la promozione di forme d’intervento regionali ulteriori e diverse rispetto a quelle previste dall’art. 40 del d.lgs. n. 286 del 1998, concernenti i centri di accoglienza e l’inserimento abitativo degli stranieri regolarmente soggiornanti.

Tali interventi, invece, sarebbero disciplinati aliunde, in primis da ulteriori disposizioni della stessa legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 31 del 2015, che all’art. 3 incarica la Regione di curare l’attuazione degli interventi attribuiti da leggi statali. Detti interventi sarebbero dunque abilitati a individuare idonee misure, anche in termini d’impegno finanziario, per programmi di inserimento, di lotta alla discriminazione, di accesso a prestazioni sociali e a servizi territoriali, ivi compresi l’assistenza e la prima accoglienza per coloro che versano in situazioni di bisogno. E, ancora, l’art. 25, comma 2, della medesima legge assicurerebbe la continuità dei finanziamenti e dei programmi in corso.

Ulteriori previsioni si avrebbero poi all’art. 3 legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 31 marzo 2006, n. 6 (Sistema integrato di interventi e servizi per la promozione e la tutela dei diritti di cittadinanza sociale), a cui rinvia l’art. 15 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 31 del 2015, ove si garantisce l’integrazione delle politiche socioassistenziali di protezione sociale, sanitarie, abitative, dei trasporti, dell’educazione, formative, del lavoro, culturali, ambientali e urbanistiche, dello sport e del tempo libero, nonché di tutti gli altri interventi finalizzati al benessere della persona e alla prevenzione delle condizioni di disagio sociale, al coordinamento regionale delle politiche di cittadinanza sociale. La legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 19 febbraio 2016, n. 1 (Riforma organica delle politiche abitative e riordino delle Ater), infine, stabilisce l’integrazione tra tali strumenti finalizzati a garantire il diritto di cittadinanza sociale con quelli di politica abitativa (art. 1) e, nell’individuare i beneficiari delle provvidenze e dei contributi in materia di politiche abitative, indicherebbe espressamente proprio i soggetti di cui all’art. 41 del d.lgs. n. 286 del 1998.

L’abrogazione della disposizione impugnata, pertanto, si spiegherebbe unicamente nell’ottica di garantire una maggiore flessibilità nella programmazione regionale, ma non abolirebbe il programma annuale degli interventi, né lascerebbe scoperta la disciplina inerente all’accesso di cittadini stranieri all’idonea soluzione abitativa comunque prevista dalla legislazione regionale.

9.– Venendo alla questione relativa all’art. 74, comma 3, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 9 del 2019, la difesa regionale ne asserisce l’inammissibilità e l’infondatezza.

9.1.− In primo luogo, infatti, il d.m. n. 70 del 2015, invocato dalla parte ricorrente quale fonte interposta, stabilisce espressamente, all’art. 3, che «[l]e regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e di Bolzano applicano il presente decreto compatibilmente con i propri statuti di autonomia e con le relative norme di attuazione». Inoltre, per le Regioni e le Province autonome che provvedono autonomamente al finanziamento del Servizio sanitario regionale esclusivamente con fondi del proprio bilancio (come la Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia), il decreto si applica «compatibilmente con le peculiarità demografiche e territoriali di riferimento nell’ambito della loro autonomia organizzativa».

Il Governo non solo non terrebbe conto dello statuto di autonomia, ma anche di quest’ultimo elemento fondamentale, che conferirebbe alla Regione resistente la potestà di adattare gli standard previsti dal citato decreto alle proprie esigenze territoriali, compatibilmente con la propria competenza in materia di «igiene e sanità, assistenza sanitaria ed ospedaliera, nonché il recupero dei minorati fisici e mentali» (art. 5, numero 16, dello statuto reg. Friuli-Venezia Giulia) e con la propria competenza primaria in materia di «ordinamento degli Uffici e degli Enti dipendenti dalla Regione e stato giuridico ed economico del personale ad essi addetto» (art. 4, numero 1, dello statuto reg. Friuli-Venezia Giulia).

9.2.− La questione sarebbe inammissibile anche per erroneità del presupposto interpretativo e comunque infondato nel merito.

9.2.1.− La parte ricorrente, infatti, confonderebbe l’osservazione breve del paziente, che non è prevista nei punti di primo intervento, con l’osservazione «a disposizione della funzione di emergenza-urgenza», di cui all’impugnata disposizione regionale.

L’art. 34 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 17 del 2014, infatti, dispone la riconversione dei presidi ospedalieri di Cividale del Friuli, Gemona del Friuli, Maniago e Sacile, nonché di parte del presidio ospedaliero "Maggiore” di Trieste, per lo svolgimento di attività distrettuali sanitarie e sociosanitarie, specificando che tali presidi si rapportano, per l’erogazione dell’attività, con l’ospedale di riferimento e supportano, se necessario, le attività del medesimo, assicurando la presenza di un punto di primo intervento sulle dodici/ventiquattro ore dotato di spazi di osservazione a disposizione della funzione di emergenza-urgenza e la postazione di un mezzo di soccorso sulle ventiquattro ore.

Ciò sarebbe conforme al d.m. n. 70 del 2015, venendo assicurata la presenza di un punto di primo intervento a disposizione della funzione di emergenza-urgenza, con finalità di raccordo tra presidi ospedalieri e territoriali per la gestione delle emergenze, come indicato anche dal punto 9.1.2 dell’Allegato 1 al citato decreto ministeriale.

9.3.− Nella memoria presentata in prossimità dell’udienza la difesa regionale ha altresì precisato che la disposizione impugnata è stata abrogata dall’art. 71 dalla legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 12 dicembre 2019, n. 22 (Riorganizzazione dei livelli di assistenza, norme in materia di pianificazione e programmazione sanitaria e sociosanitaria e modifiche alla legge regionale 26/2015 e alla legge regionale 6/2006), a decorrere dal 1° gennaio 2020, chiedendo pertanto che sia dichiarata la cessazione della materia del contendere.

10.– Infine, anche in riferimento alle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 88 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 9 del 2019, la difesa regionale ne argomenta l’inammissibilità e l’infondatezza.

10.1.– In primo luogo, le questioni sarebbero inammissibili per genericità, poiché i molteplici parametri asseritamente violati verrebbero meramente richiamati, peraltro senza individuare sempre specificamente la fonte (come per la non meglio precisata «normativa comunitaria in tema di libertà di circolazione, diritto di stabilimento e libera concorrenza»).

Per di più, il Governo neppure si sforzerebbe di chiarire, anche solo in maniera sintetica, quali sarebbero le ragioni di contrasto della disposizione contestata con riferimento agli invocati parametri.

10.2.− Manifestamente inammissibile sarebbe la censura inerente la pretesa «violazione indiretta del diritto al lavoro», dal momento che né nel ricorso, né nella delibera di impugnazione del Consiglio dei ministri, risulterebbe evocato l’art. 4 Cost. quale parametro di legittimità costituzionale della disposizione impugnata.

10.3.− L’inammissibilità dovrebbe essere rilevata anche per la contraddittorietà tra motivazione e petitum.

Secondo la resistente, infatti, l’Avvocatura generale dello Stato sembrerebbe dolersi del fatto che la disposizione impugnata richieda il presupposto della residenza protratta per cinque anni ai fini dell’accesso ai benefici in esame da parte delle imprese, pur chiedendo la caducazione dell’intera disposizione.

Se, invece, la censura dovesse ritenersi estesa al requisito della residenza tout court, la questione sarebbe a maggior ragione inammissibile, essendo chiaramente connaturata alla natura regionale della misura e alla competenza della Regione resistente l’individuazione di misure incentivanti che tengano a riferimento il presupposto della residenza.

10.4.− Sotto un ulteriore versante, i motivi in esame sarebbero inammissibili per mancata individuazione delle norme dello statuto di autonomia sulla cui base è stata adottata la disposizione impugnata, in particolare la competenza primaria in materia di «industria e commercio» (art. 4, numero 6, dello statuto reg. Friuli-Venezia Giulia), nonché la competenza integrativa in materia di «lavoro, previdenza e assistenza sociale» (art. 6, numero 2, dello statuto reg. Friuli-Venezia Giulia).

10.5.− Nel merito le questioni sarebbero comunque infondate.

10.5.1.− Con riferimento alla pretesa violazione dell’art. 3 Cost., sarebbero pienamente legittime le misure volte a sostenere l’ingresso nel mercato del lavoro di determinate categorie di soggetti, purché caratterizzate dalla ragionevolezza della scelta posta a base dell’individuazione delle categorie beneficiarie.

10.5.1.1.− Affermare che un incentivo (statale o regionale) di politica del lavoro debba avere ambito applicativo necessariamente generale, pena la violazione dell’art. 3 Cost., sarebbe manifestamente illogico; a seguirlo acriticamente, infatti, bisognerebbe considerare irragionevoli e indirettamente lesive anche del diritto al lavoro le misure incentivanti che il legislatore statale ha attivato nel corso degli anni per favorire l’ingresso o il reingresso nel mercato del lavoro di determinate categorie soggettive (come per i disabili, i lavoratori in mobilità o i cassaintegrati di lunga durata).

Tale assioma sarebbe infondato anche a livello dogmatico, essendo acquisizione consolidata quella per cui gli incentivi alle assunzioni non perseguono il fine specifico di aumentare i livelli occupazionali, ma quello di favorire l’ingresso nel mercato del lavoro di categorie di lavoratori che in ciò incontrano particolari difficoltà.

10.5.1.2.− Né la misura regionale sarebbe irragionevole o elusiva del principio di uguaglianza sostanziale, che secondo i rilievi del Governo conseguirebbe all’assenza di connessione tra il riconoscimento dell’incentivo al datore di lavoro e il requisito della residenza protratta nel tempo del lavoratore.

Anche qui la genericità del motivo tradirebbe una superficialità delle censure governative. La disposizione, infatti, perseguirebbe ragionevolmente la ratio prefissata dal legislatore regionale, consistente nel favorire il riassorbimento delle eccedenze occupazionali determinatesi sul territorio regionale in conseguenza di situazioni di crisi aziendale.

Come accennato, inoltre, il grave difetto di motivazione del ricorso avversario non consentirebbe nemmeno di comprendere se a essere contestata sia l’individuazione del requisito della residenza tout court ai fini dell’accesso ai benefici, o piuttosto il fatto che la disposizione impugnata richieda una residenza protratta nel tempo.

In ogni caso, simile requisito non potrebbe essere considerato irragionevole.

La giurisprudenza costituzionale, infatti, avrebbe più volte precisato che le politiche sociali delle Regioni ben possono prendere in considerazione un radicamento territoriale ulteriore rispetto alla sola residenza, purché contenuto entro limiti non palesemente arbitrari o irragionevoli. La Regione, pertanto, potrebbe favorire i residenti da un dato tempo, anche in virtù del contributo portato al progresso della comunità (si richiamano le sentenze n. 141 del 2014 e n. 222 del 2013 e l’ordinanza n. 32 del 2008).

Le uniche eccezioni concernerebbero i casi di provvidenze intrinsecamente legate ai bisogni della persona e a situazioni contingenti di disagio sociale. In queste ultime ipotesi, comunque, ad avviso della difesa regionale questa Corte non riterrebbe illegittimo subordinare tali benefici al presupposto della residenza, bensì, piuttosto, il requisito della residenza prolungata (sul punto è richiamata la sentenza n. 172 del 2013). Nel caso di provvidenze che esulino da tali bisogni primari, invece, il requisito del radicamento territoriale prolungato nel tempo sarebbe ritenuto legittimo, se rientrante nei parametri di ragionevolezza.

Applicando tali coordinate ermeneutiche la disposizione contestata non violerebbe il principio di ragionevolezza nemmeno sotto il profilo in esame.

La misura, infatti, non ricadrebbe nell’alveo delle disposizioni che prevedono provvidenze legate allo stato urgente di bisogno e disagio della persona. La Regione, invece, avrebbe inteso incentivare il riassorbimento di lavoratori che abbiano perduto il lavoro con un radicamento nel territorio da un numero minimo e ragionevole di anni, tale per cui possa presumersi che abbiano trasferito in Regione il proprio nucleo familiare, premiando così in via indiretta il contributo offerto dalla famiglia e dai lavoratori al progresso materiale e morale della comunità costituita su base regionale.

10.5.1.3.− Quanto alla violazione del principio di uguaglianza sostanziale, nonché della «normativa comunitaria in tema di libertà di circolazione, diritto di stabilimento e libera concorrenza», che secondo la parte ricorrente deriverebbe dalla «possibile cumulabilità di incentivi regionali con altri interventi contributivi previsti da leggi statali», ferma la manifesta inammissibilità della censura per genericità, sarebbe sufficiente precisare che l’art. 77 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 18 del 2005 prevede, al comma 2, che gli incentivi accordati dalla medesima legge regionale sono cumulabili «nel rispetto della normativa comunitaria» e salvo che «altre leggi statali e regionali [...] espressamente escludano la cumulabilità con altre provvidenze».

10.5.2.− Infine, infondato sarebbe altresì il vizio inerente la pretesa violazione dei livelli essenziali delle prestazioni, che secondo la parte ricorrente risulterebbero fissati dall’art. 11, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 150 del 2015.

Tale disposizione, effettivamente individuata quale livello essenziale delle prestazioni dal successivo art. 28, si limiterebbe a prevedere il contenuto minimo delle convenzioni che il Ministero del lavoro stipula con ciascuna Regione al fine di regolare i relativi rapporti e obblighi, in relazione alla gestione dei servizi per il lavoro e delle politiche attive del lavoro nel territorio della Regione o Provincia autonoma. Sarebbero tali convenzioni, quindi, a dover prevedere la «disponibilità di servizi e misure di politica attiva del lavoro a tutti i residenti sul territorio italiano, a prescindere dalla regione o provincia autonoma di residenza».

Inoltre, il citato art. 11 del d.lgs. n. 150 del 2015, al comma 2, riconosce alle Regioni le «competenze in materia di programmazione di politiche attive del lavoro», con particolare riferimento alla «identificazione della strategia regionale per l’occupazione». E il pure richiamato art. 28 attribuisce natura di fonte individuativa dei livelli essenziali delle prestazioni anche all’art. 18, che non comprende gli incentivi alle assunzioni, collocati invece nel Capo III del decreto legislativo in esame, ove il legislatore delegato non individuerebbe alcun livello essenziale delle prestazioni, ma si limiterebbe a enunciare principi generali di fruizione degli incentivi, non contraddetti dalla disposizione regionale impugnata.

Considerato in diritto

1.– Con ricorso iscritto al n. 98 del registro ricorsi 2019, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso – in riferimento complessivamente agli artt. 3, 117, commi secondo, lettere a), b), m), e s), e terzo, della Costituzione, nonché all’art. 5, numero 16, della legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale della regione Friuli-Venezia Giulia) – tra le altre, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 14, 45, comma 1, lettera b), 74, comma 3, e 88 – nella parte in cui introduce l’art. 77, comma 3-quinquies, della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 9 agosto 2005, n. 18 (Norme regionali per l’occupazione, la tutela e la qualità del lavoro) – della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 8 luglio 2019, n. 9 (Disposizioni multisettoriali per esigenze urgenti del territorio regionale).

2.– La prima questione qui esaminata concerne l’art. 14 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 9 del 2019, che modifica l’art. 5 della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 29 aprile 2005, n. 9 (Norme regionali per la tutela dei prati stabili naturali), aggiungendovi i commi 7-bis e 7-ter.

La disposizione impugnata, nella specie, introduce un termine di trenta giorni per la riduzione in pristino dello stato dei luoghi da parte dell’organizzatore, dopo le attività autorizzate ai sensi dell’art. 12 della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 15 ottobre 2009, n. 17 (Disciplina delle concessioni e conferimento di funzioni in materia di demanio idrico regionale), concernente le manifestazioni motoristiche, ciclistiche e nautiche, con o senza mezzi a motore, anche a carattere amatoriale, per l’utilizzo temporaneo di beni del demanio idrico regionale funzionali all’organizzazione e allo svolgimento delle predette manifestazioni. Inoltre, si dispone che per tale lasso di tempo non si applichi l’art 4, comma 1, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 9 del 2005, che vieta gli interventi di riduzione di superficie sui prati stabili.

2.1.– Secondo la difesa statale verrebbe in tal modo violato l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. – in relazione al decreto del Presidente della Repubblica 8 settembre 1997, n. 357 (Regolamento recante attuazione della direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche) e alla legge 11 febbraio 1992, n. 157 (Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio) – in quanto si determinerebbero impatti negativi sui prati stabili e si ridurrebbero i livelli di tutela ambientale previsti dalla normativa statale.

2.2.– In via preliminare devono essere esaminate le eccezioni d’inammissibilità sollevate dalla difesa regionale, per la genericità delle censure e la mancata indicazione delle competenze statutarie.

2.2.1.− In primo luogo, pur nell’evidente essenzialità dell’argomentazione, nonché nella non sempre puntuale individuazione delle disposizioni interposte di cui la parte ricorrente asserisce la violazione, appare comunque possibile determinare i termini della questione.

Lo Stato, infatti, assume la violazione degli standard di tutela ambientale degli habitat naturali fissati dal d.P.R. n. 357 del 1997 – che ha recepito la direttiva 21 maggio 1992, n. 92/43/CEE, del Consiglio, «relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche» – e dalla legge n. 157 del 1992, come modificata in particolare dalla legge 4 giugno 2010, n. 96 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee - Legge comunitaria 2009), con cui si è recepita la direttiva 30 novembre 2009, n. 2009/147/CE, del Parlamento europeo e del Consiglio, «concernente la conservazione degli uccelli selvatici».

In tal senso, non fondata risulta anche l’eccezione relativa alla mancata invocazione quale parametro del giudizio dell’art. 117, primo comma, Cost., in quanto le direttive europee sono richiamate per come attuate dal legislatore statale, senza assurgere al rango di normativa interposta.

2.2.2− In secondo luogo, talune lacune del ricorso si riscontrano in riferimento all’individuazione delle competenze statutarie, a conferma di una prassi nella formulazione delle censure non sempre rispettosa dell’onere d’individuare le competenze previste dallo statuto di autonomia (ex plurimis, sentenze n. 58 del 2016, n. 151 e n. 142 del 2015, n. 87 e n. 54 del 2014, n. 308, n. 288, n. 277 e n. 187 del 2013) e di motivare perché debba essere applicato il Titolo V e non lo statuto speciale (tra le tante, sentenze n. 43 del 2020, n. 147, n. 119 e n. 81 del 2019, n. 178, n. 168 e n. 122 del 2018, n. 52 del 2017 e n. 151 del 2015).

Nondimeno, nel caso di specie viene asserita dalla parte ricorrente la violazione di standard nella materia della «tutela dell’ambiente», idonei a limitare anche la potestà legislativa primaria delle autonomie speciali. Casi in cui questa Corte ha ritenuto comunque ammissibili le censure statali (si vedano le sentenze n. 16 del 2020, n. 166 del 2019 e n. 153 del 2019, n. 201 del 2018 e n. 103 del 2017).

2.2.3.− Appare invece attenere al merito l’eccezione relativa all’erroneità del presupposto interpretativo, formulata, non a caso, anche come motivo d’infondatezza.

2.3.− Nel merito la questione non è fondata, risultando possibile un’interpretazione delle disposizioni impugnate in senso conforme alla Costituzione.

2.3.1.− Il d.P.R. n. 357 del 1997, nel recepire la direttiva 92/43/CEE, detta la disciplina tesa alla salvaguardia degli habitat naturali e delle relative specie floristiche e faunistiche. Sono così individuate le zone speciali di conservazione (ZSC), ossia i siti d’importanza comunitaria in cui sono applicate le misure di conservazione necessarie al mantenimento o al ripristino, in uno stato di conservazione soddisfacente, degli habitat naturali o delle popolazioni delle specie per cui il sito è designato. È definito di importanza comunitaria (SIC) un sito ricompreso in una lista redatta dalla Commissione europea e inserito nella rete ecologica «Natura 2000», formata dai siti in cui si trovano i tipi di habitat naturali elencati nell’Allegato I della citata direttiva.

Ai sensi dell’art. 4 del d.P.R. n. 357 del 1997, le Regioni e le Province autonome assicurano, per i siti di importanza comunitaria, opportune misure per evitare il degrado degli habitat naturali, adottando per le ZSC le misure di conservazione necessarie.

Della rete Natura 2000 fanno parte anche le zone di protezione speciale (ZPS), di cui all’art. 1 della legge n. 157 del 1992. Anche in tal caso le Regioni e le Province autonome adottano le misure di conservazione ai sensi del d.P.R. n. 357 del 1997.

La normativa statale, pertanto, fissa taluni standard per la conservazione degli habitat naturali, come individuati dalla disciplina comunitaria, ed è quindi ascrivibile alla materia della «tutela dell’ambiente», potendo limitare anche le competenze statutarie delle autonomie speciali (sul punto si vedano le sentenze n. 151 del 2018, n. 300 del 2013 e, con specifico riferimento al d.P.R. n. 357 del 1997, n. 425 del 1999).

2.3.2.− La legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 9 del 2005 è intervenuta entro tale cornice normativa a dettare la disciplina dei prati stabili, individuati dall’art. 2 in determinate formazioni di vegetazione, suddivise in tipologie indicate nell’Allegato A della medesima legge, nonché nelle formazioni erbacee di cui all’Allegato I della direttiva n. 92/43/CEE. Pertanto, nella definizione normativa di prato stabile naturale non rientrano solo i siti individuati dalla normativa europea. L’art. 4 delimita poi le attività non ammesse sui prati stabili, tra cui la riduzione di superficie, riguardo alla quale, tuttavia, l’art. 5, comma 1, stabilisce sì alcune deroghe, ma «compatibilmente con la disciplina comunitaria e nazionale in materia di conservazione della biodiversità».

Proprio sulle deroghe è intervenuto l’art. 14 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 9 del 2019, oggetto d’impugnazione, aggiungendo i commi 7-bis e 7-ter all’art. 5 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 9 del 2005. Tali disposizioni regolano una specifica procedura per la restituzione in pristino dei luoghi ove si svolgano le manifestazioni autorizzate ai sensi dell’art. 12 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 17 del 2009, qualora il materiale del fondo stradale si depositi accidentalmente sul prato stabile nel corso delle relative attività, individuando nel soggetto organizzatore il responsabile della restituzione in pristino, da effettuarsi entro trenta giorni dal termine dell’attività autorizzata, anche in deroga al divieto di riduzione di superficie.

2.3.3.− Alla luce di tale disamina delle norme regionali è possibile affermare che le autorizzazioni per le citate manifestazioni sono sottoposte al parere della struttura regionale competente in materia di tutela degli ambienti naturali, qualora il transito interessi SIC e ZPS o ricada in aree protette, biotopi e prati stabili. Tale parere, tra l’altro, è adottato al solo fine di accertare che il tracciato non ricada in dette aree, ove dunque deve ritenersi escluso che le attività in questione possano essere autorizzate.

Infatti, pur venendo introdotto uno specifico caso di deroga al divieto di riduzione di superficie, resta fermo quanto previsto dall’art. 5, comma 1, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 9 del 2005, secondo cui tali deroghe devono comunque avvenire compatibilmente con la disciplina comunitaria e nazionale in materia di conservazione della biodiversità.

Di conseguenza, l’attività consentita ai sensi delle norme oggetto di censura non potrebbe comunque svolgersi in pregiudizio della disciplina sugli habitat naturali, né essere effettuata nei siti individuati dal d.P.R. n. 357 del 1997.

Così ricostruito e interpretato il contesto normativo, pertanto, è possibile ritenere le disposizioni impugnate compatibili con gli standard di tutela ambientale fissati dallo Stato riguardo alla conservazione degli habitat naturali.

3.– Con una seconda questione è oggetto d’impugnazione l’art 45, comma 1, lettera b), della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 9 del 2019, che abroga l’art. 17 della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 9 dicembre 2015, n. 31 (Norme per l’integrazione sociale delle persone straniere immigrate), in materia di accesso, accoglienza e inserimento abitativo delle persone straniere.

3.1.– A detta dell’Avvocatura generale dello Stato tale abrogazione violerebbe l’art 117, secondo comma, lettere a) e b), Cost., in relazione agli artt. 3, comma 5, e 40 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero). In tal modo, infatti, si creerebbe un vuoto normativo nella legislazione regionale quanto alla disciplina relativa all’accesso di cittadini stranieri all’idonea soluzione abitativa, non essendo previsto nell’ordinamento regionale uno strumento alternativo rispetto al «programma annuale», individuato dall’abrogato art. 17 per promuovere le specifiche forme d’intervento a favore delle persone straniere.

3.2.– Anche per tale questione devono essere rigettate le eccezioni d’inammissibilità sollevate dalla difesa della Regione autonoma Friuli-Venezia-Giulia.

3.2.1.− In primo luogo, pur dovendosi sottolineare la genericità del ricorso, è comunque possibile ritenere sufficientemente individuata la questione, in quanto la difesa statale censura l’abrogazione delle norme regionali che disciplinavano l’accesso all’abitazione per le persone straniere, in violazione delle disposizioni statali che attribuiscono alle Regioni il compito di adottare le misure tese a favorire l’accesso alle soluzioni abitative per gli stranieri.

3.2.2.– In secondo luogo, possono estendersi anche a tale questione le sopra riportate conclusioni relative alla mancata delimitazione delle competenze statutarie, con conseguente infondatezza delle relative eccezioni di inammissibilità formulate dalla Regione resistente.

Il ricorso, infatti, qualifica le norme interposte come norme di riforma economico-sociale (come indicato, d’altronde, dallo stesso d.lgs. n. 286 del 1998), che s’imporrebbero quindi anche alla potestà legislativa primaria delle autonomie speciali.

3.3.− Nel merito la questione non è fondata.

3.3.1.− L’art. 3, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998 prevede che, nell’ambito delle rispettive attribuzioni e dotazioni di bilancio, le Regioni, le Province, i Comuni e gli altri enti locali adottino i provvedimenti tesi a rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono il pieno riconoscimento dei diritti e degli interessi riconosciuti agli stranieri nel territorio dello Stato, con particolare riguardo all’alloggio, alla lingua e all’integrazione sociale.

Il successivo art. 40 stabilisce che le Regioni predispongano centri di accoglienza destinati a ospitare stranieri regolarmente soggiornanti per motivi diversi dal turismo, che siano temporaneamente impossibilitati a provvedere autonomamente alle proprie esigenze alloggiative e di sussistenza, determinando i requisiti gestionali e strutturali dei centri. Gli stranieri regolarmente soggiornanti, inoltre, possono accedere ad alloggi sociali, collettivi o privati, predisposti secondo i criteri previsti dalle leggi regionali. Infine, per gli stranieri titolari di carta di soggiorno o di permesso di soggiorno almeno biennale e che esercitano una regolare attività di lavoro subordinato o di lavoro autonomo, è possibile accedere, in condizioni di parità con i cittadini italiani, agli alloggi di edilizia residenziale pubblica e ai servizi di intermediazione delle agenzie sociali eventualmente predisposte da ogni Regione o dagli enti locali per agevolare l’accesso alle locazioni abitative e al credito agevolato in materia di edilizia, recupero, acquisto e locazione della prima casa di abitazione.

Si tratta di disposizioni che, per espressa indicazione dell’art. 1 del d.lgs. n. 286 del 1998, s’impongono anche alle autonomie speciali quali norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica.

3.3.2.− Va precisato che le competenze esclusive statali di cui all’art. 117, secondo comma, lettere a) e b), Cost., in materia di «condizione giuridica dello straniero» e «immigrazione» lasciano impregiudicata la possibilità di interventi legislativi delle Regioni e delle Province autonome con riguardo al fenomeno dell’immigrazione, concernenti ambiti diversi dalla regolamentazione dei flussi migratori o dei titoli di soggiorno (sentenze n. 2 del 2013, n. 61 del 2011, n. 299 e n. 134 del 2010, n. 300 del 2005). In particolare, gli interventi relativi agli alloggi per gli stranieri ricadono nell’ambito di competenze residuali delle Regioni in materia di assistenza sociale, entro cui deve essere garantito il diritto fondamentale all’abitazione, come sancito, appunto, anche dall’art. 3, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998 (sentenze n. 61 del 2011 e n. 299 del 2010).

Le disposizioni regionali impugnate, in tal senso, possono essere ascritte alla potestà legislativa regionale in materia di politiche abitative, senza pregiudicare l’attuazione di quanto previsto dal d.lgs. n. 286 del 1998.

3.3.3.− Anche in seguito all’abrogazione dell’art. 17 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 31 del 2015 possono rinvenirsi ulteriori disposizioni della medesima legge idonee a regolare la materia della prima accoglienza e dell’inserimento abitativo delle persone straniere immigrate.

In particolare l’art. 3 prevede un apposito programma annuale, unico strumento di pianificazione degli interventi attribuiti alla Regione resistente da leggi statali o da norme comunitarie, in virtù della novella di cui all’art. 31, comma 1, lettera a), della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 29 giugno 2020, n. 13, recante «Disposizioni in materia di finanze, patrimonio e demanio, funzione pubblica, autonomie locali, sicurezza, politiche dell’immigrazione, corregionali all’estero e lingue minoritarie, cultura e sport, infrastrutture, territorio e viabilità, turismo, risorse agroalimentari, forestali, montagna, attività venatoria, lavoro, formazione, istruzione e famiglia, ambiente e energia, cooperazione allo sviluppo e partenariato internazionale, sanità e sociale, Terzo settore (Legge regionale multisettoriale)», che ha eliminato il piano triennale.

L’art. 7 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 31 del 2015 stabilisce che con il programma annuale sono definite le azioni di settore, con le relative modalità di attuazione, e sono individuate le priorità da perseguirsi; tra queste, ai sensi dell’art. 16, rientrano gli interventi di assistenza e di prima accoglienza per coloro che versano in situazioni di bisogno. L’art. 15, inoltre, garantisce a tutti, cittadini italiani e stranieri, l’accesso agli interventi di politica sociale, secondo quanto previsto dalla legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 31 marzo 2006, n. 6 (Sistema integrato di interventi e servizi per la promozione e la tutela dei diritti di cittadinanza sociale), che regola il sistema integrato di interventi e servizi per la promozione e la tutela dei diritti di cittadinanza sociale.

Vero è che l’abrogato art. 17 recava specifici interventi in materia di accoglienza e inserimento abitativo, prevedendo, in attuazione dell’art. 40 del d.lgs. n. 286 del 1998 e sulla base della normativa regionale di settore, che il programma annuale potesse altresì promuovere il sostegno alla gestione di strutture dedicate all’ospitalità temporanea, il sostegno delle Agenzie sociali per l’abitare al fine di realizzare azioni volte a favorire e orientare l’accesso a un’idonea soluzione abitativa, nonché il sostegno alla gestione di alloggi sociali in forma collettiva.

Tuttavia, siffatta abrogazione produce essenzialmente l’effetto di non vincolare il programma annuale a specifici contenuti, ma non fa venir meno l’obbligo di prevedere comunque gli interventi necessari all’attuazione degli obblighi previsti dalla legislazione statale, in particolare quelli indicati dall’art. 40 del d.lgs. n. 286 del 1998.

Interventi che, come sottolineato, continuano a trovare la loro sede nel programma annuale, non abrogato dall’intervento dal legislatore regionale.

4.– L’Avvocatura generale dello Stato impugna altresì l’art. 74, comma 3, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 9 del 2019, che modifica l’art. 34, comma 3, della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 16 ottobre 2014, n. 17 (Riordino dell’assetto istituzionale e organizzativo del Servizio sanitario regionale e norme in materia di programmazione sanitaria e sociosanitaria), prevedendo che i punti di primo intervento esistenti presso i presidi ospedalieri della Regione, riconvertiti per lo svolgimento di attività distrettuali sanitarie e sociosanitarie, siano dotati di spazi di osservazione a disposizione della funzione di emergenza-urgenza.

4.1.– Secondo la difesa statale verrebbero in tal modo lesi l’art. 117, secondo comma, lettera m), e terzo comma, Cost., nonché l’art. 5, numero 16), statuto reg. Friuli Venezia Giulia, in relazione al decreto del Ministro della salute, adottato di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, 2 aprile 2015, n. 70 (Regolamento recante definizione degli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi relativi all'assistenza ospedaliera).

La norma impugnata, infatti, introdurrebbe un livello di assistenza difforme dalla normativa statale, che non prevede l’osservazione breve del paziente nei punti di primo intervento, violando altresì i principi fondamentali in materia «tutela della salute», che s’imporrebbero anche alle Regioni a statuto speciale.

4.2.– In via preliminare, va precisato che non risulta possibile dichiarare cessata la materia del contendere alla luce dell’abrogazione della disposizione impugnata da parte dell’art. 71, comma 2, della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 12 dicembre 2019, n. 22 (Riorganizzazione dei livelli di assistenza, norme in materia di pianificazione e programmazione sanitaria e sociosanitaria e modifiche alla legge regionale 26/2015 e alla legge regionale 6/2006), come prospettato dalla difesa regionale.

Com’è noto, la cessazione della materia del contendere può essere dichiarata qualora l’abrogazione o la modifica delle norme impugnate abbia carattere satisfattivo e ove non vi sia stata applicazione medio tempore delle stesse (ex multis, sentenze n. 56 del 2019, n. 44 del 2018 e n. 50 del 2017).

Nel caso di specie, sebbene possa riconoscersi il carattere satisfattivo dell’abrogazione, la disposizione impugnata è rimasta in vigore per circa cinque mesi, nel corso dei quali non è possibile escludere che essa abbia avuto una qualche applicazione, attraverso le misure organizzative adottate dai singoli presidi ospedalieri. Né, in tal senso, la difesa regionale fornisce alcun elemento utile.

4.3.− Sempre in via preliminare deve essere rigettata l’eccezione d’inammissibilità relativa alla mancata considerazione dello statuto di autonomia.

La difesa statale fa valere la violazione dei livelli essenziali delle prestazioni, dunque di una potestà esclusiva dello Stato, riguardo alla quale non rilevano le competenze della Regione in materia sanitaria, siano esse qulle individuate dallo statuto regionale o quelle, più ampie, previste dall’art. 117, terzo comma, Cost., in materia di «tutela della salute».

Va poi rilevato che, ai sensi dell’art. 3 del d.m. n. 70 del 2015 «[l]e regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e di Bolzano applicano il presente decreto compatibilmente con i propri statuti di autonomia e con le relative norme di attuazione».

4.4.− Per quanto concerne l’eccezione d’inammissibilità relativa all’erroneità del presupposto interpretativo, infine, la stessa appare in realtà formulata quale censura di merito e pertanto in tale sede deve essere esaminata.

4.5.− Nel merito le questioni non sono fondate.

4.5.1.− Il d.m. n. 70 del 2015, indicato quale disposizione interposta dalla parte ricorrente, detta gli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi relativi all’assistenza ospedaliera.

Come già sottolineato da questa Corte, la determinazione di tali standard deve essere garantita, con carattere di generalità, a tutti gli aventi diritto (sentenze n. 231 e n. 192 del 2017, n. 134 del 2006). Pertanto, la normativa statale, pur intersecando la sfera di competenza legislativa regionale nell’ambito dell’organizzazione sanitaria, rinviene il suo prevalente titolo di legittimazione nella competenza legislativa esclusiva dello Stato prevista dall’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., che s’impone anche alle autonomie speciali (sentenze n. 126 del 2017 e n. 162 del 2007).

Nella specie, il punto 9.1.2. dell’Allegato 1 del d.m. n. 70 del 2015 prevede forme di raccordo tra i presidi territoriali e il servizio di pronto soccorso ospedaliero. Il successivo punto 9.1.5 stabilisce che le strutture ospedaliere riconvertite in presidi territoriali possano prevedere, per un periodo di tempo limitato, il mantenimento nella località interessata di un punto di primo intervento, operativo nelle dodici ore diurne e presidiato dal sistema 118 nelle ore notturne. In tali punti, tuttavia, non è prevista l’osservazione breve del paziente e la loro funzione si limita unicamente al trattamento delle urgenze minori e a una prima stabilizzazione del paziente ad alta complessità, al fine di consentirne il trasporto nel pronto soccorso più appropriato.

4.5.2.− Ciò precisato, l’art. 34 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 17 del 2014 ha disposto la riconversione dei presidi ospedalieri di Cividale del Friuli, Gemona del Friuli, Maniago e Sacile, nonché di parte del presidio ospedaliero "Maggiore” di Trieste, per lo svolgimento di attività distrettuali sanitarie e sociosanitarie. Tali presidi si collegano con l’ospedale di riferimento e forniscono supporto, se necessario, alle attività del medesimo, assicurando la presenza di un punto di primo intervento sulle dodici/ventiquattro ore.

La disposizione regionale impugnata è intervenuta sullo stesso art. 34, aggiungendo la previsione che il punto di primo intervento sia dotato di spazi di osservazione a disposizione della funzione di emergenza-urgenza e la postazione di un mezzo di soccorso sulle ventiquattro ore.

Come già sottolineato, il d.m. n. 70 del 2015 richiede forme di raccordo tra presidi territoriali e pronto soccorso, consentendo altresì nei punti di primo intervento il trattamento delle urgenze minori e una prima stabilizzazione del paziente.

Il legislatore regionale, in tal senso, nel prevedere un’osservazione «a disposizione della funzione di emergenza-urgenza», si è limitato a consentire lo svolgimento proprio di quelle attività di raccordo con il servizio di pronto soccorso consentite dalle norme statali, senza che possa quindi configurarsi alcuna lesione della normativa statale interposta.

5.– Da ultimo, lo Stato impugna l’art. 88 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 9 del 2019, nella parte in cui aggiunge all’art. 77 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 18 del 2005 il comma 3-quinquies, che limita la concessione degli incentivi occupazionali previsti dal precedente comma 3-bis alle assunzioni, inserimenti o stabilizzazioni riguardanti soggetti residenti continuativamente sul territorio regionale da almeno cinque anni.

5.1.– La parte ricorrente argomenta la violazione dell’art. 3 Cost. e del principio di ragionevolezza, perché la norma impugnata riserverebbe irragionevolmente solo alla categoria dei residenti quinquennali l’accesso agli incentivi – con una violazione indiretta del diritto al lavoro e della normativa comunitaria in tema di libertà di circolazione, diritto di stabilimento e libera concorrenza – senza che vi sia alcuna connessione tra il riconoscimento di un incentivo al datore di lavoro e il requisito della residenza protratta nel tempo del lavoratore.

Inoltre, verrebbe leso anche l’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., in relazione all’art. 11, comma l, lettera c), del decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 150 (Disposizioni per il riordino della normativa in materia di servizi per il lavoro e di politiche attive, ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della legge 10 dicembre 2014, n. 183), in quanto le misure di politica attiva del lavoro, ivi compresi gli incentivi occupazionali, costituirebbero un livello essenziale delle prestazioni, rientrando tra i servizi che devono essere riconosciuti a tutti i residenti sul territorio italiano.

5.2.– Anche in riferimento a tali questioni la difesa regionale ha eccepito plurimi motivi d’inammissibilità, che devono essere respinti.

5.2.1.− In primo luogo, non risulta fondata l’eccezione d’inammissibilità per genericità delle censure, risultando sufficientemente chiaro dal tenore delle argomentazioni che le stesse sono tese a lamentare l’irragionevolezza della limitazione ai residenti quinquennali degli incentivi occupazionali.

Inoltre, con riferimento alla violazione del diritto al lavoro e delle libertà comunitarie, le doglianze appaiono meramente ancillari all’asserita lesione dell’art. 3 Cost. Non configurandosi, pertanto, come autonome censure, non rileva l’assenza nella deliberazione a impugnare del Consiglio dei ministri dell’indicazione dei relativi parametri, come lamentato dalla difesa regionale.

5.2.2.− Riguardo alla mancata indicazione delle competenze statutarie, possono nuovamente richiamarsi le argomentazioni svolte in relazione alla prima questione, venendo asserita la violazione, oltre che di parametri non attinenti al riparto di competenze, dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., in virtù della lesione del livello essenziale individuato dall’art. 11, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 150 del 2015.

5.2.3.− Venendo all’eccezione relativa alla contraddittorietà del petitum, pur riconoscendosi un’argomentazione non sempre precisa delle questioni, risulta possibile ritenere, anche alla luce del fatto che la parte ricorrente chiede una pronuncia ablativa, che il petitum sia teso all’eliminazione della residenza del lavoratore, non solo della sua durata quinquennale, quale requisito per la concessione degli incentivi.

5.3.− Nel merito la questione promossa in riferimento all’art. 3 Cost. è fondata.

5.3.1.− La giurisprudenza costituzionale è intervenuta in più occasioni con riferimento al requisito della residenza, solo in materia di accesso ai servizi sociali e ammettendolo soltanto a determinate condizioni, quando sussista un ragionevole collegamento con la funzione del servizio (sentenze n. 44 del 2020, n. 168 e n. 141 del 2014, n. 222 e n. 133 del 2013).

Così, ad esempio, se la residenza costituisce un requisito ragionevole al fine d’identificare l’ente pubblico competente a erogare una certa prestazione, non è possibile che l’accesso alle prestazioni pubbliche sia escluso solo per il fatto di aver esercitato il proprio diritto di circolazione o di aver dovuto mutare regione di residenza (sentenze n. 44 del 2020 e n. 107 del 2018).

Con particolare riferimento al requisito della residenza di durata ultra-quinquennale, oltre a precisare che lo stesso non costituisce di per sé un indice di elevata probabilità di permanenza in un determinato ambito territoriale, questa Corte ha sottolineato come il radicamento territoriale non possa assumere un’importanza tale da escludere qualsiasi rilievo dello stato di bisogno ed essendo più appropriato utilizzarlo ai fini della formazione di graduatorie e criteri preferenziali (sentenza n. 44 del 2020).

Tra l’altro, l’introduzione di requisiti basati sulla residenza, specie se prolungata, finisce per costituire una limitazione, seppure meramente fattuale, alla circolazione tra le regioni, violando così il divieto di cui all’art. 120, primo comma, Cost., in particolare nel suo collegamento con l’art. 3, secondo comma, Cost. (sentenza n. 107 del 2018).

5.3.2.− Venendo alla disposizione impugnata, sebbene sia condivisibile che gli incentivi occupazionali possono ben essere rivolti solo alle assunzioni di particolari categorie di lavoratori, risulta irragionevole il collegamento tra il riconoscimento di un incentivo al datore di lavoro e il requisito della residenza del lavoratore, non solo ove protratta nel tempo.

Sotto un primo profilo, infatti, non può sostenersi che il criterio della residenza sia necessario a identificare l’ente pubblico competente a erogare una certa prestazione, tenuto conto che, nel caso di specie, i beneficiari diretti dell’erogazione sono le imprese, che devono ovviamente avere una sede nel territorio regionale.

Sotto un secondo profilo, la limitazione introdotta dalla disposizione impugnata risulta in contrasto con la ratio dalla stessa indicata, ossia il riassorbimento delle eccedenze occupazionali determinatesi sul territorio regionale in conseguenza di situazioni di crisi aziendale. Verrebbero infatti esclusi, ad esempio, coloro che, sebbene non residenti, abbiano svolto un periodo di attività lavorativa più consistente rispetto ai soggetti semplicemente residenti, dando così un maggiore contributo a quel progresso della comunità regionale asserito anche dalla difesa della Regione quale motivo ispiratore dell’incentivo. Il che finirebbe per penalizzare la stessa mobilità inter-regionale dei lavoratori.

5.4.− La questione relativa all’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost. è assorbita.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 77, comma 3-quinquies, della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 9 agosto 2005, n. 18 (Norme regionali per l’occupazione, la tutela e la qualità del lavoro), introdotto dall’art. 88 della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 8 luglio 2019, n. 9 (Disposizioni multisettoriali per esigenze urgenti del territorio regionale);

2) dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 14 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 9 del 2019, promossa dal Presidente del Consiglio dei ministri, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe;

3) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 45, comma 1, lettera b), della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 9 del 2019, promossa dal Presidente del Consiglio dei ministri, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettere a) e b), Cost., con il ricorso indicato in epigrafe;

4) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 74, comma 3, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 9 del 2019, promossa dal Presidente del Consiglio dei ministri, in riferimento all’art. 117, commi secondo, lettera m), e terzo, Cost., nonché all’art. 5, numero 16), della legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale della regione Friuli Venezia Giulia), con il ricorso indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 1° dicembre 2020.

F.to:

Giancarlo CORAGGIO, Presidente

Giuliano AMATO, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 23 dicembre 2020.