CONSULTA
ONLINE
SENTENZA N.
281
ANNO 2020
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME DEL
POPOLO ITALIANO
LA CORTE
COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Giancarlo
CORAGGIO;
Giudici: Giuliano
AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto
Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca
ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di
legittimità costituzionale degli artt. 14, 45, comma 1, lettera b), 74, comma
3, e 88 della legge
della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 8 luglio 2019, n. 9 (Disposizioni
multisettoriali per esigenze urgenti del territorio regionale), promosso
dal Presidente del Consiglio dei ministri, con ricorso
notificato il 6-17 settembre 2019 e depositato il 13 settembre 2019, iscritto
al n. 98 del registro ricorsi 2019 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 43, prima serie speciale, dell’anno 2019.
Visto l’atto di
costituzione della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia;
udito nell’udienza pubblica del 1° dicembre 2020 il Giudice
relatore Giuliano Amato, in collegamento da remoto, ai sensi del punto 1) del
decreto del Presidente della Corte del 30 ottobre 2020;
uditi l’avvocato dello Stato Francesca Morici per il Presidente
del Consiglio dei ministri e, in collegamento da remoto, ai sensi del punto 1)
del decreto del Presidente della Corte del 30 ottobre 2020, l’avvocato
Francesco Saverio Marini per la Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia;
deliberato nella camera di consiglio del 1° dicembre 2020.
Ritenuto
in fatto
1.– Con ricorso
notificato il 6-17 settembre 2019 e depositato il 13 settembre 2019 (reg. ric.
n. 98 del 2019), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso – in riferimento
complessivamente agli artt.
3, 117, commi
secondo, lettere a), b), m), e s), e terzo, della Costituzione, nonché
all’art. 5, numero 16), della legge
costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale della Regione
Friuli-Venezia Giulia) – tra le altre, questioni di legittimità
costituzionale degli artt. 14, 45, comma 1, lettera b), 74, comma 3, e 88 –
nella parte in cui introduce l’art. 77, comma 3-quinquies, della legge della
Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 9 agosto 2005, n. 18 (Norme regionali
per l’occupazione, la tutela e la qualità del lavoro) – della legge della
Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 8 luglio 2019, n. 9 (Disposizioni
multisettoriali per esigenze urgenti del territorio regionale).
2.− Una prima questione ha ad oggetto l’art. 14 della legge
reg. Friuli-Venezia Giulia n. 9 del 2019, che modifica l’art. 5 della legge
della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 29 aprile 2005, n. 9 (Norme
regionali per la tutela dei prati stabili naturali), aggiungendovi i commi
7-bis e 7-ter, ove si prevede: «7-bis. Entro trenta giorni decorrenti dal
termine dell’attività autorizzata ai sensi dei commi 1.1-bis e 1.1-quater dell’articolo
12 della legge regionale 15 ottobre 2009 n. 17 (Disciplina delle concessioni e
conferimento di funzioni in materia di demanio idrico regionale), qualora il
materiale del fondo stradale si depositi accidentalmente sul prato stabile nel
corso della suddetta attività, il soggetto organizzatore è tenuto alla
riduzione in pristino dello stato dei luoghi qualora prescritto dal soggetto
che ha rilasciato il titolo autorizzatorio. 7-ter. Fino alla scadenza del
termine indicato al comma 7-bis non trova applicazione il divieto di cui
all’articolo 4, comma 1».
2.1.− Secondo la difesa statale le norme regionali indicate
lederebbero l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. – in relazione al
decreto del Presidente della Repubblica 8 settembre 1997, n. 357 (Regolamento
recante attuazione della direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli
habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche) e
alle direttive comunitarie con esso recepite – in quanto, nel ridurre i livelli
di tutela, determinerebbero impatti negativi sui prati stabili.
2.1.1.− I prati
stabili rientrerebbero tra gli habitat individuati ai sensi della direttiva 21
maggio 1992, n. 92/43/CEE, del Consiglio, «relativa alla conservazione degli
habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche» e della
direttiva 30 novembre 2009, n. 2009/147/CE, del Parlamento europeo e del
Consiglio, «concernente la conservazione degli uccelli selvatici», recepite,
rispettivamente, con la legge 11 febbraio 1992, n. 157 (Norme per la protezione
della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio) e con il citato
d.P.R. n. 357 del 1997.
Secondo la difesa
statale le norme impugnate consentirebbero lo svolgimento su tali habitat delle
attività autorizzate ai sensi dell’art. 12 della legge della Regione
Friuli-Venezia Giulia 15 ottobre 2009, n. 17 (Disciplina delle concessioni e
conferimento di funzioni in materia di demanio idrico regionale), concernente
le manifestazioni motoristiche, ciclistiche e nautiche, con o senza mezzi a
motore, anche a carattere amatoriale, per l’utilizzo temporaneo di beni del
demanio idrico regionale funzionali all’organizzazione e allo svolgimento delle
predette manifestazioni.
In particolare,
fissando un termine di trenta giorni successivo allo svolgimento di tali
attività per il ripristino dello stato dei luoghi, periodo per cui non si
applica l’art 4, comma 1, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 9 del 2005,
che vieta gli interventi di riduzione di superficie sui prati stabili,
s’introdurrebbe una deroga idonea a determinare un abbassamento dei livelli di
tutela ambientale sui prati stabili.
Da qui la violazione
dei limiti posti dallo Stato in materia di «tutela dell’ambiente e
dell’ecosistema» (ex multis, sono richiamate le sentenze di questa
Corte n. 244 e n. 33 del 2011,
n. 331 e n. 278 del 2010
e n. 10 del 2009),
che s’imporrebbero anche alle Regioni a statuto speciale (si richiama la sentenza n. 300 del
2013).
3.– Con una seconda questione
lo Stato impugna l’art. 45, comma 1, lettera b), della legge reg.
Friuli-Venezia Giulia n. 9 del 2019, che abroga l’art. 17 della legge della
Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 9 dicembre 2015, n. 31 (Norme per
l’integrazione sociale delle persone straniere immigrate), attuativo dell’art.
40 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle
disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla
condizione dello straniero), in materia di accesso, accoglienza e inserimento
abitativo delle persone straniere.
3.1.− Secondo l’Avvocatura generale dello Stato la disposizione
impugnata violerebbe l’art 117, secondo comma, lettere a) e b), Cost., in
relazione agli artt. 3, comma 5, e 40 del d.lgs. n. 286 del 1998.
3.1.1.− L’abrogazione disposta con la norma impugnata, infatti,
lascerebbe un vuoto normativo nella legislazione regionale quanto alla
disciplina relativa all’accesso di cittadini stranieri alla idonea soluzione
abitativa, non essendo previsto nell’ordinamento regionale uno strumento
alternativo rispetto al «[p]rogramma annuale»,
individuato dall’abrogato art. 17 per promuovere le forme d’intervento a favore
delle persone straniere.
Ciò contrasterebbe con
l’art. 3, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998, ai sensi del quale le Regioni
«adottano i provvedimenti concorrenti al perseguimento dell’obiettivo di
rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono il pieno riconoscimento dei
diritti e degli interessi riconosciuti agli stranieri nel territorio dello
Stato, con particolare riguardo a quelle inerenti all’alloggio, alla lingua,
all’integrazione sociale, nel rispetto dei diritti fondamentali della persona».
Tale disposizione, così
come l’art. 40 del d.lgs. n. 286 del 1998, su cui peraltro la difesa statale
non si sofferma, sarebbero espressione di competenze esclusive dello Stato,
quali la «condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti
all’Unione europea» e l’«immigrazione», recando principi fondamentali
dell’ordinamento ex art. 1, comma 4, dello stesso d.lgs. n. 286 del 1998, che
per le Regioni a statuto speciale avrebbero valore di norme fondamentali di
riforma economico-sociale della Repubblica.
4.− Oggetto
d’impugnazione è poi l’art. 74, comma 3, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia
n. 9 del 2019, che modifica l’art. 34, comma 3, della legge della Regione
autonoma Friuli-Venezia Giulia 16 ottobre 2014, n. 17 (Riordino dell’assetto
istituzionale e organizzativo del Servizio sanitario regionale e norme in
materia di programmazione sanitaria e sociosanitaria), ove si stabilisce che
presso i presidi ospedalieri riconvertiti per lo svolgimento di attività
distrettuali sanitarie e sociosanitarie, i punti di primo intervento siano
dotati di «spazi di osservazione a disposizione della funzione di emergenza-urgenza».
4.1.− Secondo la
parte ricorrente il legislatore regionale avrebbe violato l’art. 117, commi
secondo, lettera m), e terzo, Cost., nonché l’art. 5, numero 16), dello statuto
reg. Friuli-Venezia Giulia, in relazione al decreto del Ministro della salute,
adottato di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, 2 aprile
2015, n. 70 (Regolamento recante definizione degli standard qualitativi,
strutturali, tecnologici e quantitativi relativi all’assistenza ospedaliera),
adottato a norma dell’art. 1, comma 169, della legge 30 dicembre 2004, n 21,
recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale
dello Stato (legge finanziaria 2005)».
4.1.1.− Il d.m. n. 70 del 2015 (Allegato
1, punto 9.1.5), nella specie, prevede che «a seguito della riconversione
dell’attività di un ospedale per acuti in un ospedale per la post-acuzie oppure
in una struttura territoriale, potrebbe rendersi necessario prevedere, per un
periodo di tempo limitato, il mantenimento nella località interessata di un
Punto di Primo Intervento, operativo nelle 12 ore diurne e presidiato dal
sistema 118 nelle ore notturne». In tali punti di primo intervento non è
prevista l’osservazione breve del paziente e la loro funzione per le urgenze si
limita unicamente «ad ambienti e dotazioni tecnologiche atte al trattamento
delle urgenze minori e ad una prima stabilizzazione del paziente ad alta
complessità, al fine di consentirne il trasporto nel pronto soccorso più
appropriato».
4.1.2.− Secondo la difesa statale la modifica introdotta dalla
norma regionale impugnata contrasterebbe con la normativa costituzionale sotto
un duplice profilo.
Da un lato, perché
introdurrebbe nella Regione un sistema di assistenza difforme dagli standard
qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi relativi all’assistenza
ospedaliera indicati nel d.m. n. 70 del 2015 (è
richiamata la sentenza
di questa Corte n. 231 del 2017), che costituirebbero livelli essenziali
delle prestazioni. La determinazione di tali standard, in particolare, deve essere
garantita, con carattere di generalità, a tutti gli aventi diritto e la
relativa competenza, avendo carattere trasversale, è idonea ad investire tutte
le materie rispetto alle quali il legislatore statale deve poter porre le norme
necessarie per assicurare a tutti, sull’intero territorio nazionale, il
godimento di determinate prestazioni, senza che la legislazione regionale possa
limitarle o condizionarle (sono richiamate le sentenze di questa
Corte n. 192 del 2017, n. 125 del 2015,
n. 207, n. 203 e n. 164 del 2012).
Dall’altro lato, l’art.
34, comma 3, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 17 del 2014, come
novellato, inciderebbe anche sull’organizzazione sanitaria e, pertanto, sulla
materia «tutela della salute» (si richiama la sentenza di questa
Corte n. 54 del 2015), interferendo con l’ambito funzionale e operativo
definito dallo Stato proprio allo scopo di garantire la qualità e l’adeguatezza
delle specifiche prestazioni (viene richiamata la sentenza n. 207 del
2010).
La norma impugnata,
pertanto, eccederebbe dalla competenza legislativa attribuita alla Regione
autonoma Friuli-Venezia Giulia in materia di «assistenza sanitaria ed
ospedaliera» dall’art. 5, numero 16, dello statuto regionale, violando principi
che secondo la giurisprudenza costituzionale s’imporrebbero anche alle Regioni
a statuto speciale (tra tutte, viene richiamata la sentenza n. 126 del
2017), in quanto la potestà concorrente assegnata alle Regioni ordinarie
dal testo costituzionale è assai più ampia di quella attribuita dagli statuti
speciali in materia di assistenza sanitaria e ospedaliera (ex plurimis, sono
richiamate le sentenze
n. 162 del 2007, n. 134 del 2006
e n. 270 del
2005).
5.− Da ultimo, è
impugnato l’art. 88 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 9 del 2019, nella
parte in cui aggiunge all’art. 77 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 18
del 2005 il comma 3-quinquies, che dispone: «[a]l fine di favorire il
riassorbimento delle eccedenze occupazionali determinatesi sul territorio
regionale in conseguenza di situazioni di crisi aziendale, gli incentivi di cui
al comma 3-bis possono essere concessi esclusivamente a fronte di assunzioni,
inserimenti o stabilizzazioni occupazionali riguardanti soggetti che, alla data
della presentazione della domanda di incentivo, risultino residenti
continuativamente sul territorio regionale da almeno cinque anni».
5.1.− Secondo la difesa statale la disposizione impugnata,
subordinando il riconoscimento di un incentivo occupazionale alla residenza del
lavoratore in Regione da almeno cinque anni, violerebbe gli artt. 3 e 117,
secondo comma, lettera m), Cost. e il principio di
ragionevolezza, in relazione all’art. 11, comma l, lettera c), del decreto
legislativo 14 settembre 2015, n. 150 (Disposizioni per il riordino della
normativa in materia di servizi per il lavoro e di politiche attive, ai sensi
dell’articolo 1, comma 3, della legge 10 dicembre 2014, n. 183).
5.1.1.− Sotto un primo profilo, la norma limiterebbe
irragionevolmente il diritto all’incentivo, con una violazione indiretta del
diritto al lavoro di cui all’art. 4 Cost., riconosciuto a tutti
indistintamente, di fatto riservandolo solo alla categoria dei residenti
quinquennali, così ponendosi in conflitto con le molteplici attività statali
volte alla promozione delle condizioni per facilitare l’ingresso nel mondo
lavorativo da riconoscersi tout court a tutti i lavoratori.
Il d.lgs. n. 150 del
2015, infatti, all’art. 11, comma 1, lettera c), prevede la disponibilità di
servizi e di misure di politica attiva del lavoro a tutti i residenti sul
territorio italiano, a prescindere dalla Regione o dalla Provincia autonoma di
residenza. Così, la cumulabilità degli incentivi regionali con altri interventi
contributivi disposti da leggi statali, prevista dall’art. 77, comma 2, della
legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 18 del 2005, violerebbe il principio di
uguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, secondo comma, Cost. e la normativa comunitaria in tema di libertà di
circolazione, diritto di stabilimento e libera concorrenza.
5.1.2.− Sotto un altro profilo, s’introdurrebbe un elemento di
irragionevolezza, non profilandosi alcuna connessione tra il riconoscimento di
un incentivo al datore di lavoro e il requisito della residenza protratta nel
tempo del lavoratore. Si potrebbe ipotizzare, a titolo esemplificativo, che un
soggetto non residente abbia svolto negli ultimi cinque anni un periodo di
attività lavorativa più consistente rispetto a un altro semplicemente
residente, contribuendo il primo più del secondo al «progresso materiale e
morale della comunità su base regionale».
5.1.3.− Infine,
l’Avvocatura generale dello Stato asserisce la violazione anche dell’art. 117,
secondo comma, lettera m), Cost., riguardante i livelli essenziali delle
prestazioni, in cui rientrerebbero le misure di politica attiva del lavoro, ivi
compresi gli incentivi occupazionali riconosciuti ai datori di lavoro per
l’assunzione di particolari categorie di lavoratori, i quali sarebbero, ai
sensi dell’art. 11, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 150 del 2015, «servizi che
devono essere riconosciuti a tutti i residenti sul territorio italiano, a
prescindere dalla regione o provincia autonoma di residenza».
6.– Con atto depositato l’11 ottobre 2019 si è costituita in
giudizio la Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, chiedendo che le questioni
siano dichiarate inammissibili e comunque infondate.
7.– Con riferimento alla prima questione, relativa all’art. 14
della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 9 del 2019, la difesa regionale,
oltre all’infondatezza nel merito, eccepisce plurimi motivi d’inammissibilità.
7.1.– In primo luogo, la questione sarebbe totalmente generica,
limitandosi il Governo ad affermare la violazione delle fonti nazionali ed
europee nel loro complesso, senza individuare le norme violate e, in
particolare, il livello di tutela ambientale che risulterebbe ridotto per
effetto della disposizione impugnata.
La ormai costante
giurisprudenza costituzionale, invece, richiede che i termini delle questioni
di legittimità costituzionale siano ben identificati, dovendo il ricorrente
individuare le disposizioni impugnate, i parametri evocati e le ragioni delle
violazioni prospettate (ex plurimis, sono richiamate le sentenze n. 154 del
2017, n. 141,
n. 65, n. 40 e n. 3 del 2016, n. 273, n. 176 e n. 131 del 2015),
chiarendo altresì che l’esigenza di un’adeguata motivazione a fondamento della
richiesta declaratoria di illegittimità costituzionale si pone in termini
perfino più pregnanti nei giudizi proposti in via principale rispetto a quelli
instaurati in via incidentale (vengono richiamate le sentenze n. 251,
n. 233, n. 218, n. 142 e n. 82 del 2015).
7.2.− Sotto un secondo profilo la questione sarebbe
inammissibile quanto alla pretesa violazione delle fonti europee, per mancata
individuazione del parametro costituzionale.
La parte ricorrente,
infatti, assumerebbe il mero contrasto con le direttive europee, senza invocare
la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.
7.3.− Ulteriore ragione d’inammissibilità deriverebbe dal fatto
che nel caso di specie non potrebbe invocarsi l’art. 117, secondo comma,
lettera s), Cost.
7.3.1.− La Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, infatti, ha
competenza primaria in materia di «agricoltura e foreste, bonifiche,
ordinamento delle minime unità culturali e ricomposizione fondiaria, irrigazione,
opere di miglioramento agrario e fondiario, zootecnia, ittica, economia
montana, corpo forestale» (art. 4, numero 2, dello statuto reg. Friuli-Venezia
Giulia). Pertanto, spetterebbe alla Regione dare concreta attuazione per il
proprio territorio alla direttiva 92/43/CEE – che impone misure di salvaguardia
sui siti di importanza comunitaria (SIC) e misure di conservazione sulle zone
speciali di conservazione (ZSC) e sulle zone di protezione speciale (ZPS), a
seguito della «definizione» di queste ultime d’intesa con lo Stato – e alla
direttiva 2009/147/CE (si richiamano le sentenze di questa
Corte n. 104 del 2008 e n. 425 del 1999).
La competenza
statutaria non risulterebbe neppure menzionata nel ricorso, in senso contrario
alla giurisprudenza costituzionale, secondo cui, nel caso d’impugnazione di una
legge di una Regione ad autonomia speciale, il ricorrente è tenuto a
individuare le competenze previste dallo statuto di autonomia, necessarie a
inquadrare l’oggetto del giudizio e a motivare perché la disciplina contestata
esorbiterebbe dalle stesse (ex plurimis, vengono richiamate le sentenze n. 58 del
2016, n. 151
e n. 142 del
2015, n. 87
e n. 54 del 2014,
n. 308, n. 288, n. 277 e n. 187 del 2013).
7.4.− La questione sarebbe poi inammissibile e infondata anche
per erroneità del presupposto interpretativo.
7.4.1. – Secondo il
Governo, infatti, la legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 9 del 2005 farebbe
riferimento esclusivamente alle aree rientranti nell’ambito applicativo delle
citate direttive europee.
L’art. 1 di tale legge
regionale, invece, dispone che l’amministrazione regionale, al fine di
garantire la conservazione dell’identità biologica del territorio e la
biodiversità degli habitat e delle specie floristiche e faunistiche, promuove
la tutela dei prati stabili naturali delle aree regionali di pianura, secondo
le modalità individuate dalla medesima legge; il comma l-bis dello stesso
articolo precisa che la Regione armonizza la disciplina inerente i prati
stabili e i siti della rete «Natura 2000», individuati ai sensi delle
richiamate direttive europee, affinché siano perseguite le rispettive finalità
in forme tra loro coordinate e complementari. L’art. 2, nel dettare la
definizione di prati stabili, chiarisce che essi sono le formazioni appartenenti
alle alleanze di vegetazione Phragmition communis, Magnocaricion elatae e Arrhenatherion elatioris, suddivise in tipologie in funzione della
composizione floristica del cotico erbaceo, come
indicato nell’Allegato A della legge, nonché le formazioni erbacee di cui
all’Allegato I della direttiva 92/43/CEE.
Sarebbe chiaro, quindi,
che nella definizione di prato stabile naturale non rientrerebbero solo i siti
individuati dalla direttiva 92/43/CEE, riguardo a cui la disposizione
contestata non avrebbe alcuna incidenza, in quanto le manifestazioni di cui
all’art. 12 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 17 del 2009 non
potrebbero essere ivi autorizzate. Infatti, quest’ultima disposizione riguarda
il rilascio dell’autorizzazione idraulica all’interno di aree del demanio
idrico regionale, autorizzazione subordinata, tra l’altro, al parere della
struttura regionale competente, qualora il transito interessi SIC e ZPS o
ricada in aree protette, biotopi e prati stabili.
Di ciò vi sarebbe
conferma anche in base al combinato disposto degli artt. 4 e 5 della legge reg.
Friuli-Venezia Giulia n. 9 del 2005. L’art. 4 individua le attività non ammesse
sui prati stabili, tra cui la riduzione di superficie, mentre l’art. 5
stabilisce alcune deroghe ai divieti di cui all’art. 4, precisando, al comma 1,
che la deroga alla riduzione della superficie possa avvenire solo
«compatibilmente con la disciplina comunitaria e nazionale in materia di
conservazione della biodiversità».
7.5.− La questione sarebbe in ogni caso infondata, perché
l’impugnato art. 14 non recherebbe comunque una deroga all’obbligo di riduzione
in pristino dello stato dei luoghi, né introdurrebbe una tutela inferiore
rispetto a quella prevista in precedenza.
7.5.1.− La disposizione regionale, al contrario, da un lato non
riguarderebbe i siti individuati dalla normativa comunitaria, dall’altro
appresterebbe una tutela più estesa, individuando ex lege nell’organizzatore
dell’evento il soggetto tenuto al ripristino dello stato dei luoghi in
conseguenza di un evento accidentale. Il fatto che nel corso del periodo di
rimessione in pristino possa essere ridotta la superficie del prato stabile
sarebbe una prestazione connaturata e intrinsecamente conseguente all’attività
di ripristino stessa.
D’altronde, l’art. 2
del d.P.R. n. 357 del 1997 stabilisce che le misure di conservazione necessarie
per mantenere o ripristinare gli habitat naturali e le popolazioni di specie di
fauna e flora selvatiche in uno stato soddisfacente devono rispondere a una
logica di stabilità nel lungo periodo e non contingente. Disposizione che in
nessun modo potrebbe ritenersi lesa dalle norme impugnate, volte proprio ad
assicurare la conservazione a lungo termine dell’area naturale costituente
prato stabile, attraverso l’immediata rimessione in pristino a carico
dell’organizzatore dell’evento.
8.– Anche riguardo alla seconda questione, relativa all’art.
45 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 9 del 2019, la difesa della
Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia ne asserisce l’inammissibilità e l’infondatezza.
8.1.− La questione sarebbe inammissibile, in primis, per
genericità, difetto di motivazione e mancata individuazione puntuale del
parametro interposto, poiché la parte ricorrente si limiterebbe a invocare gli
artt. 3, comma 5, e 40 del d.lgs. n. 286 del 1998, senza spiegare perché la
disposizione abrogativa regionale sarebbe in contrasto con gli stessi.
8.2.− Sotto un ulteriore profilo, il motivo di ricorso sarebbe
inammissibile in quanto la disciplina censurata andrebbe ascritta alla
competenza regionale di attuazione e integrazione nella materia «assistenza
sociale» (art. 6, numero 2, dello statuto reg. Friuli-Venezia Giulia).
Il Governo non
perimetrerebbe l’oggetto del giudizio, tenendo conto anche della competenza
statutaria, né specificherebbe perché la disciplina censurata esorbiterebbe
rispetto ai poteri attuativi e integrativi da essa attribuiti.
8.3.− Nel merito la questione sarebbe comunque infondata.
8.3.1.− La norma abrogata, infatti, avrebbe avuto per oggetto la
promozione di forme d’intervento regionali ulteriori e diverse rispetto a
quelle previste dall’art. 40 del d.lgs. n. 286 del 1998, concernenti i centri
di accoglienza e l’inserimento abitativo degli stranieri regolarmente
soggiornanti.
Tali interventi,
invece, sarebbero disciplinati aliunde, in primis da
ulteriori disposizioni della stessa legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 31 del
2015, che all’art. 3 incarica la Regione di curare l’attuazione degli
interventi attribuiti da leggi statali. Detti interventi sarebbero dunque
abilitati a individuare idonee misure, anche in termini d’impegno finanziario,
per programmi di inserimento, di lotta alla discriminazione, di accesso a
prestazioni sociali e a servizi territoriali, ivi compresi l’assistenza e la
prima accoglienza per coloro che versano in situazioni di bisogno. E, ancora,
l’art. 25, comma 2, della medesima legge assicurerebbe la continuità dei
finanziamenti e dei programmi in corso.
Ulteriori previsioni si
avrebbero poi all’art. 3 legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 31
marzo 2006, n. 6 (Sistema integrato di interventi e servizi per la promozione e
la tutela dei diritti di cittadinanza sociale), a cui rinvia l’art. 15 della
legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 31 del 2015, ove si garantisce
l’integrazione delle politiche socioassistenziali di protezione sociale,
sanitarie, abitative, dei trasporti, dell’educazione, formative, del lavoro,
culturali, ambientali e urbanistiche, dello sport e del tempo libero, nonché di
tutti gli altri interventi finalizzati al benessere della persona e alla
prevenzione delle condizioni di disagio sociale, al coordinamento regionale
delle politiche di cittadinanza sociale. La legge della Regione autonoma
Friuli-Venezia Giulia 19 febbraio 2016, n. 1 (Riforma organica delle politiche
abitative e riordino delle Ater), infine, stabilisce
l’integrazione tra tali strumenti finalizzati a garantire il diritto di
cittadinanza sociale con quelli di politica abitativa (art. 1) e,
nell’individuare i beneficiari delle provvidenze e dei contributi in materia di
politiche abitative, indicherebbe espressamente proprio i soggetti di cui
all’art. 41 del d.lgs. n. 286 del 1998.
L’abrogazione della
disposizione impugnata, pertanto, si spiegherebbe unicamente nell’ottica di
garantire una maggiore flessibilità nella programmazione regionale, ma non
abolirebbe il programma annuale degli interventi, né lascerebbe scoperta la
disciplina inerente all’accesso di cittadini stranieri all’idonea soluzione
abitativa comunque prevista dalla legislazione regionale.
9.– Venendo alla questione relativa all’art. 74, comma 3,
della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 9 del 2019, la difesa regionale ne
asserisce l’inammissibilità e l’infondatezza.
9.1.− In primo luogo, infatti, il d.m.
n. 70 del 2015, invocato dalla parte ricorrente quale fonte interposta,
stabilisce espressamente, all’art. 3, che «[l]e regioni a statuto speciale e le
province autonome di Trento e di Bolzano applicano il presente decreto
compatibilmente con i propri statuti di autonomia e con le relative norme di attuazione».
Inoltre, per le Regioni e le Province autonome che provvedono autonomamente al
finanziamento del Servizio sanitario regionale esclusivamente con fondi del
proprio bilancio (come la Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia), il decreto
si applica «compatibilmente con le peculiarità demografiche e territoriali di
riferimento nell’ambito della loro autonomia organizzativa».
Il Governo non solo non
terrebbe conto dello statuto di autonomia, ma anche di quest’ultimo elemento
fondamentale, che conferirebbe alla Regione resistente la potestà di adattare
gli standard previsti dal citato decreto alle proprie esigenze territoriali,
compatibilmente con la propria competenza in materia di «igiene e sanità,
assistenza sanitaria ed ospedaliera, nonché il recupero dei minorati fisici e
mentali» (art. 5, numero 16, dello statuto reg. Friuli-Venezia Giulia) e con la
propria competenza primaria in materia di «ordinamento degli Uffici e degli
Enti dipendenti dalla Regione e stato giuridico ed economico del personale ad
essi addetto» (art. 4, numero 1, dello statuto reg. Friuli-Venezia Giulia).
9.2.− La questione sarebbe inammissibile anche per erroneità del
presupposto interpretativo e comunque infondato nel merito.
9.2.1.− La parte ricorrente, infatti, confonderebbe l’osservazione
breve del paziente, che non è prevista nei punti di primo intervento, con
l’osservazione «a disposizione della funzione di emergenza-urgenza», di cui
all’impugnata disposizione regionale.
L’art. 34 della legge
reg. Friuli-Venezia Giulia n. 17 del 2014, infatti, dispone la riconversione
dei presidi ospedalieri di Cividale del Friuli, Gemona del Friuli, Maniago e
Sacile, nonché di parte del presidio ospedaliero "Maggiore” di Trieste, per lo
svolgimento di attività distrettuali sanitarie e sociosanitarie, specificando
che tali presidi si rapportano, per l’erogazione dell’attività, con l’ospedale
di riferimento e supportano, se necessario, le attività del medesimo,
assicurando la presenza di un punto di primo intervento sulle
dodici/ventiquattro ore dotato di spazi di osservazione a disposizione della
funzione di emergenza-urgenza e la postazione di un mezzo di soccorso sulle
ventiquattro ore.
Ciò sarebbe conforme al
d.m. n. 70 del 2015, venendo assicurata la presenza
di un punto di primo intervento a disposizione della funzione di
emergenza-urgenza, con finalità di raccordo tra presidi ospedalieri e
territoriali per la gestione delle emergenze, come indicato anche dal punto
9.1.2 dell’Allegato 1 al citato decreto ministeriale.
9.3.− Nella
memoria presentata in prossimità dell’udienza la difesa regionale ha altresì
precisato che la disposizione impugnata è stata abrogata dall’art. 71 dalla
legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 12 dicembre 2019, n. 22
(Riorganizzazione dei livelli di assistenza, norme in materia di pianificazione
e programmazione sanitaria e sociosanitaria e modifiche alla legge regionale
26/2015 e alla legge regionale 6/2006), a decorrere dal 1° gennaio 2020,
chiedendo pertanto che sia dichiarata la cessazione della materia del contendere.
10.– Infine, anche in riferimento alle questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 88 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 9 del
2019, la difesa regionale ne argomenta l’inammissibilità e l’infondatezza.
10.1.– In primo luogo, le questioni sarebbero inammissibili per
genericità, poiché i molteplici parametri asseritamente violati verrebbero
meramente richiamati, peraltro senza individuare sempre specificamente la fonte
(come per la non meglio precisata «normativa comunitaria in tema di libertà di
circolazione, diritto di stabilimento e libera concorrenza»).
Per di più, il Governo
neppure si sforzerebbe di chiarire, anche solo in maniera sintetica, quali
sarebbero le ragioni di contrasto della disposizione contestata con riferimento
agli invocati parametri.
10.2.− Manifestamente inammissibile sarebbe la censura inerente
la pretesa «violazione indiretta del diritto al lavoro», dal momento che né nel
ricorso, né nella delibera di impugnazione del Consiglio dei ministri,
risulterebbe evocato l’art. 4 Cost. quale parametro di
legittimità costituzionale della disposizione impugnata.
10.3.− L’inammissibilità dovrebbe essere rilevata anche per la
contraddittorietà tra motivazione e petitum.
Secondo la resistente,
infatti, l’Avvocatura generale dello Stato sembrerebbe dolersi del fatto che la
disposizione impugnata richieda il presupposto della residenza protratta per
cinque anni ai fini dell’accesso ai benefici in esame da parte delle imprese,
pur chiedendo la caducazione dell’intera disposizione.
Se, invece, la censura
dovesse ritenersi estesa al requisito della residenza tout court, la questione
sarebbe a maggior ragione inammissibile, essendo chiaramente connaturata alla
natura regionale della misura e alla competenza della Regione resistente
l’individuazione di misure incentivanti che tengano a riferimento il
presupposto della residenza.
10.4.− Sotto un ulteriore versante, i motivi in esame sarebbero
inammissibili per mancata individuazione delle norme dello statuto di autonomia
sulla cui base è stata adottata la disposizione impugnata, in particolare la
competenza primaria in materia di «industria e commercio» (art. 4, numero 6,
dello statuto reg. Friuli-Venezia Giulia), nonché la competenza integrativa in
materia di «lavoro, previdenza e assistenza sociale» (art. 6, numero 2, dello
statuto reg. Friuli-Venezia Giulia).
10.5.− Nel merito le questioni sarebbero comunque infondate.
10.5.1.− Con riferimento alla pretesa violazione dell’art. 3 Cost.,
sarebbero pienamente legittime le misure volte a sostenere l’ingresso nel
mercato del lavoro di determinate categorie di soggetti, purché caratterizzate
dalla ragionevolezza della scelta posta a base dell’individuazione delle categorie
beneficiarie.
10.5.1.1.−
Affermare che un incentivo (statale o regionale) di politica del lavoro debba
avere ambito applicativo necessariamente generale, pena la violazione dell’art.
3 Cost., sarebbe manifestamente illogico; a seguirlo acriticamente, infatti,
bisognerebbe considerare irragionevoli e indirettamente lesive anche del
diritto al lavoro le misure incentivanti che il legislatore statale ha attivato
nel corso degli anni per favorire l’ingresso o il reingresso nel mercato del
lavoro di determinate categorie soggettive (come per i disabili, i lavoratori
in mobilità o i cassaintegrati di lunga durata).
Tale assioma sarebbe
infondato anche a livello dogmatico, essendo acquisizione consolidata quella
per cui gli incentivi alle assunzioni non perseguono il fine specifico di
aumentare i livelli occupazionali, ma quello di favorire l’ingresso nel mercato
del lavoro di categorie di lavoratori che in ciò incontrano particolari
difficoltà.
10.5.1.2.− Né la misura regionale sarebbe irragionevole o elusiva del
principio di uguaglianza sostanziale, che secondo i rilievi del Governo
conseguirebbe all’assenza di connessione tra il riconoscimento dell’incentivo
al datore di lavoro e il requisito della residenza protratta nel tempo del
lavoratore.
Anche qui la genericità
del motivo tradirebbe una superficialità delle censure governative. La
disposizione, infatti, perseguirebbe ragionevolmente la ratio prefissata dal
legislatore regionale, consistente nel favorire il riassorbimento delle
eccedenze occupazionali determinatesi sul territorio regionale in conseguenza
di situazioni di crisi aziendale.
Come accennato,
inoltre, il grave difetto di motivazione del ricorso avversario non
consentirebbe nemmeno di comprendere se a essere contestata sia
l’individuazione del requisito della residenza tout court ai fini dell’accesso
ai benefici, o piuttosto il fatto che la disposizione impugnata richieda una
residenza protratta nel tempo.
In ogni caso, simile
requisito non potrebbe essere considerato irragionevole.
La giurisprudenza
costituzionale, infatti, avrebbe più volte precisato che le politiche sociali
delle Regioni ben possono prendere in considerazione un radicamento
territoriale ulteriore rispetto alla sola residenza, purché contenuto entro
limiti non palesemente arbitrari o irragionevoli. La Regione, pertanto,
potrebbe favorire i residenti da un dato tempo, anche in virtù del contributo
portato al progresso della comunità (si richiamano le sentenze n. 141 del
2014 e n.
222 del 2013 e l’ordinanza n. 32 del
2008).
Le uniche eccezioni
concernerebbero i casi di provvidenze intrinsecamente legate ai bisogni della
persona e a situazioni contingenti di disagio sociale. In queste ultime
ipotesi, comunque, ad avviso della difesa regionale questa Corte non riterrebbe
illegittimo subordinare tali benefici al presupposto della residenza, bensì,
piuttosto, il requisito della residenza prolungata (sul punto è richiamata la sentenza n. 172 del
2013). Nel caso di provvidenze che esulino da tali bisogni primari, invece,
il requisito del radicamento territoriale prolungato nel tempo sarebbe ritenuto
legittimo, se rientrante nei parametri di ragionevolezza.
Applicando tali
coordinate ermeneutiche la disposizione contestata non violerebbe il principio
di ragionevolezza nemmeno sotto il profilo in esame.
La misura, infatti, non
ricadrebbe nell’alveo delle disposizioni che prevedono provvidenze legate allo
stato urgente di bisogno e disagio della persona. La Regione, invece, avrebbe
inteso incentivare il riassorbimento di lavoratori che abbiano perduto il
lavoro con un radicamento nel territorio da un numero minimo e ragionevole di
anni, tale per cui possa presumersi che abbiano trasferito in Regione il
proprio nucleo familiare, premiando così in via indiretta il contributo offerto
dalla famiglia e dai lavoratori al progresso materiale e morale della comunità
costituita su base regionale.
10.5.1.3.− Quanto
alla violazione del principio di uguaglianza sostanziale, nonché della
«normativa comunitaria in tema di libertà di circolazione, diritto di stabilimento
e libera concorrenza», che secondo la parte ricorrente deriverebbe dalla
«possibile cumulabilità di incentivi regionali con altri interventi
contributivi previsti da leggi statali», ferma la manifesta inammissibilità
della censura per genericità, sarebbe sufficiente precisare che l’art. 77 della
legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 18 del 2005 prevede, al comma 2, che gli
incentivi accordati dalla medesima legge regionale sono cumulabili «nel
rispetto della normativa comunitaria» e salvo che «altre leggi statali e
regionali [...] espressamente escludano la cumulabilità con altre provvidenze».
10.5.2.− Infine, infondato sarebbe altresì il vizio inerente la
pretesa violazione dei livelli essenziali delle prestazioni, che secondo la
parte ricorrente risulterebbero fissati dall’art. 11, comma 1, lettera c), del
d.lgs. n. 150 del 2015.
Tale disposizione,
effettivamente individuata quale livello essenziale delle prestazioni dal
successivo art. 28, si limiterebbe a prevedere il contenuto minimo delle
convenzioni che il Ministero del lavoro stipula con ciascuna Regione al fine di
regolare i relativi rapporti e obblighi, in relazione alla gestione dei servizi
per il lavoro e delle politiche attive del lavoro nel territorio della Regione
o Provincia autonoma. Sarebbero tali convenzioni, quindi, a dover prevedere la
«disponibilità di servizi e misure di politica attiva del lavoro a tutti i
residenti sul territorio italiano, a prescindere dalla regione o provincia
autonoma di residenza».
Inoltre, il citato art.
11 del d.lgs. n. 150 del 2015, al comma 2, riconosce alle Regioni le
«competenze in materia di programmazione di politiche attive del lavoro», con
particolare riferimento alla «identificazione della strategia regionale per
l’occupazione». E il pure richiamato art. 28 attribuisce natura di fonte individuativa dei livelli essenziali delle prestazioni
anche all’art. 18, che non comprende gli incentivi alle assunzioni, collocati
invece nel Capo III del decreto legislativo in esame, ove il legislatore
delegato non individuerebbe alcun livello essenziale delle prestazioni, ma si
limiterebbe a enunciare principi generali di fruizione degli incentivi, non
contraddetti dalla disposizione regionale impugnata.
Considerato
in diritto
1.– Con ricorso
iscritto al n. 98 del registro ricorsi 2019, il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha
promosso – in riferimento complessivamente agli artt. 3, 117, commi secondo,
lettere a), b), m), e s), e terzo, della Costituzione, nonché all’art. 5,
numero 16, della legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale
della regione Friuli-Venezia Giulia) – tra le altre, questioni di legittimità
costituzionale degli artt. 14, 45, comma 1, lettera b), 74, comma 3, e 88 – nella
parte in cui introduce l’art. 77, comma 3-quinquies, della legge della Regione
autonoma Friuli-Venezia Giulia 9 agosto 2005, n. 18 (Norme regionali per
l’occupazione, la tutela e la qualità del lavoro) – della legge della Regione
autonoma Friuli-Venezia Giulia 8 luglio 2019, n. 9 (Disposizioni
multisettoriali per esigenze urgenti del territorio regionale).
2.– La prima questione qui esaminata concerne l’art. 14 della
legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 9 del 2019, che modifica l’art. 5 della
legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 29 aprile 2005, n. 9 (Norme
regionali per la tutela dei prati stabili naturali), aggiungendovi i commi
7-bis e 7-ter.
La disposizione
impugnata, nella specie, introduce un termine di trenta giorni per la riduzione
in pristino dello stato dei luoghi da parte dell’organizzatore, dopo le
attività autorizzate ai sensi dell’art. 12 della legge della Regione autonoma
Friuli-Venezia Giulia 15 ottobre 2009, n. 17 (Disciplina delle concessioni e
conferimento di funzioni in materia di demanio idrico regionale), concernente
le manifestazioni motoristiche, ciclistiche e nautiche, con o senza mezzi a
motore, anche a carattere amatoriale, per l’utilizzo temporaneo di beni del
demanio idrico regionale funzionali all’organizzazione e allo svolgimento delle
predette manifestazioni. Inoltre, si dispone che per tale lasso di tempo non si
applichi l’art 4, comma 1, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 9 del
2005, che vieta gli interventi di riduzione di superficie sui prati stabili.
2.1.– Secondo la difesa statale verrebbe in tal modo violato
l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. – in relazione al decreto del
Presidente della Repubblica 8 settembre 1997, n. 357 (Regolamento recante
attuazione della direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat
naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche) e alla
legge 11 febbraio 1992, n. 157 (Norme per la protezione della fauna selvatica
omeoterma e per il prelievo venatorio) – in quanto si determinerebbero impatti
negativi sui prati stabili e si ridurrebbero i livelli di tutela ambientale
previsti dalla normativa statale.
2.2.– In via preliminare devono essere esaminate le eccezioni
d’inammissibilità sollevate dalla difesa regionale, per la genericità delle
censure e la mancata indicazione delle competenze statutarie.
2.2.1.− In primo luogo, pur nell’evidente essenzialità
dell’argomentazione, nonché nella non sempre puntuale individuazione delle
disposizioni interposte di cui la parte ricorrente asserisce la violazione,
appare comunque possibile determinare i termini della questione.
Lo Stato, infatti,
assume la violazione degli standard di tutela ambientale degli habitat naturali
fissati dal d.P.R. n. 357 del 1997 – che ha recepito la direttiva 21 maggio
1992, n. 92/43/CEE, del Consiglio, «relativa alla conservazione degli habitat
naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche» – e dalla legge
n. 157 del 1992, come modificata in particolare dalla legge 4 giugno 2010, n.
96 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza
dell’Italia alle Comunità europee - Legge comunitaria 2009), con cui si è
recepita la direttiva 30 novembre 2009, n. 2009/147/CE, del Parlamento europeo
e del Consiglio, «concernente la conservazione degli uccelli selvatici».
In tal senso, non
fondata risulta anche l’eccezione relativa alla mancata invocazione quale
parametro del giudizio dell’art. 117, primo comma, Cost.,
in quanto le direttive europee sono richiamate per come attuate dal legislatore
statale, senza assurgere al rango di normativa interposta.
2.2.2− In secondo
luogo, talune lacune del ricorso si riscontrano in riferimento
all’individuazione delle competenze statutarie, a conferma di una prassi nella
formulazione delle censure non sempre rispettosa dell’onere d’individuare le
competenze previste dallo statuto di autonomia (ex plurimis, sentenze n. 58 del
2016, n. 151
e n. 142 del
2015, n. 87
e n. 54 del 2014,
n. 308, n. 288, n. 277 e n. 187 del 2013)
e di motivare perché debba essere applicato il Titolo V e non lo statuto
speciale (tra le tante, sentenze n. 43 del
2020, n. 147,
n. 119 e n. 81 del 2019,
n. 178, n. 168 e n. 122 del 2018,
n. 52 del 2017
e n. 151 del
2015).
Nondimeno, nel caso di
specie viene asserita dalla parte ricorrente la violazione di standard nella
materia della «tutela dell’ambiente», idonei a limitare anche la potestà
legislativa primaria delle autonomie speciali. Casi in cui questa Corte ha
ritenuto comunque ammissibili le censure statali (si vedano le sentenze n. 16 del
2020, n. 166
del 2019 e n.
153 del 2019, n.
201 del 2018 e n. 103 del 2017).
2.2.3.− Appare invece attenere al merito l’eccezione relativa
all’erroneità del presupposto interpretativo, formulata, non a caso, anche come
motivo d’infondatezza.
2.3.− Nel merito la questione non è fondata, risultando
possibile un’interpretazione delle disposizioni impugnate in senso conforme
alla Costituzione.
2.3.1.− Il d.P.R. n. 357 del 1997, nel recepire la direttiva
92/43/CEE, detta la disciplina tesa alla salvaguardia degli habitat naturali e
delle relative specie floristiche e faunistiche. Sono così individuate le zone
speciali di conservazione (ZSC), ossia i siti d’importanza comunitaria in cui
sono applicate le misure di conservazione necessarie al mantenimento o al
ripristino, in uno stato di conservazione soddisfacente, degli habitat naturali
o delle popolazioni delle specie per cui il sito è designato. È definito di
importanza comunitaria (SIC) un sito ricompreso in una lista redatta dalla
Commissione europea e inserito nella rete ecologica «Natura 2000», formata dai
siti in cui si trovano i tipi di habitat naturali elencati nell’Allegato I
della citata direttiva.
Ai sensi dell’art. 4
del d.P.R. n. 357 del 1997, le Regioni e le Province autonome assicurano, per i
siti di importanza comunitaria, opportune misure per evitare il degrado degli
habitat naturali, adottando per le ZSC le misure di conservazione necessarie.
Della rete Natura 2000
fanno parte anche le zone di protezione speciale (ZPS), di cui all’art. 1 della
legge n. 157 del 1992. Anche in tal caso le Regioni e le Province autonome
adottano le misure di conservazione ai sensi del d.P.R. n. 357 del 1997.
La normativa statale,
pertanto, fissa taluni standard per la conservazione degli habitat naturali,
come individuati dalla disciplina comunitaria, ed è quindi ascrivibile alla
materia della «tutela dell’ambiente», potendo limitare anche le competenze
statutarie delle autonomie speciali (sul punto si vedano le sentenze n. 151 del
2018, n. 300
del 2013 e, con specifico riferimento al d.P.R. n. 357 del 1997, n. 425 del 1999).
2.3.2.− La legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 9 del 2005 è
intervenuta entro tale cornice normativa a dettare la disciplina dei prati
stabili, individuati dall’art. 2 in determinate formazioni di vegetazione,
suddivise in tipologie indicate nell’Allegato A della medesima legge, nonché
nelle formazioni erbacee di cui all’Allegato I della direttiva n. 92/43/CEE.
Pertanto, nella definizione normativa di prato stabile naturale non rientrano
solo i siti individuati dalla normativa europea. L’art. 4 delimita poi le
attività non ammesse sui prati stabili, tra cui la riduzione di superficie,
riguardo alla quale, tuttavia, l’art. 5, comma 1, stabilisce sì alcune deroghe,
ma «compatibilmente con la disciplina comunitaria e nazionale in materia di
conservazione della biodiversità».
Proprio sulle deroghe è
intervenuto l’art. 14 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 9 del 2019,
oggetto d’impugnazione, aggiungendo i commi 7-bis e 7-ter all’art. 5 della
legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 9 del 2005. Tali disposizioni regolano una
specifica procedura per la restituzione in pristino dei luoghi ove si svolgano
le manifestazioni autorizzate ai sensi dell’art. 12 della legge reg.
Friuli-Venezia Giulia n. 17 del 2009, qualora il materiale del fondo stradale
si depositi accidentalmente sul prato stabile nel corso delle relative
attività, individuando nel soggetto organizzatore il responsabile della
restituzione in pristino, da effettuarsi entro trenta giorni dal termine
dell’attività autorizzata, anche in deroga al divieto di riduzione di
superficie.
2.3.3.− Alla luce di tale disamina delle norme regionali è
possibile affermare che le autorizzazioni per le citate manifestazioni sono
sottoposte al parere della struttura regionale competente in materia di tutela
degli ambienti naturali, qualora il transito interessi SIC e ZPS o ricada in
aree protette, biotopi e prati stabili. Tale parere, tra l’altro, è adottato al
solo fine di accertare che il tracciato non ricada in dette aree, ove dunque
deve ritenersi escluso che le attività in questione possano essere autorizzate.
Infatti, pur venendo
introdotto uno specifico caso di deroga al divieto di riduzione di superficie,
resta fermo quanto previsto dall’art. 5, comma 1, della legge reg.
Friuli-Venezia Giulia n. 9 del 2005, secondo cui tali deroghe devono comunque
avvenire compatibilmente con la disciplina comunitaria e nazionale in materia
di conservazione della biodiversità.
Di conseguenza,
l’attività consentita ai sensi delle norme oggetto di censura non potrebbe
comunque svolgersi in pregiudizio della disciplina sugli habitat naturali, né
essere effettuata nei siti individuati dal d.P.R. n. 357 del 1997.
Così ricostruito e
interpretato il contesto normativo, pertanto, è possibile ritenere le
disposizioni impugnate compatibili con gli standard di tutela ambientale
fissati dallo Stato riguardo alla conservazione degli habitat naturali.
3.– Con una seconda questione è oggetto d’impugnazione l’art
45, comma 1, lettera b), della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 9 del 2019,
che abroga l’art. 17 della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 9
dicembre 2015, n. 31 (Norme per l’integrazione sociale delle persone straniere
immigrate), in materia di accesso, accoglienza e inserimento abitativo delle
persone straniere.
3.1.– A detta dell’Avvocatura generale dello Stato tale
abrogazione violerebbe l’art 117, secondo comma, lettere a) e b), Cost., in
relazione agli artt. 3, comma 5, e 40 del decreto legislativo 25 luglio 1998,
n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina
dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero). In tal modo,
infatti, si creerebbe un vuoto normativo nella legislazione regionale quanto
alla disciplina relativa all’accesso di cittadini stranieri all’idonea
soluzione abitativa, non essendo previsto nell’ordinamento regionale uno
strumento alternativo rispetto al «programma annuale», individuato
dall’abrogato art. 17 per promuovere le specifiche forme d’intervento a favore
delle persone straniere.
3.2.– Anche per tale questione devono essere rigettate le
eccezioni d’inammissibilità sollevate dalla difesa della Regione autonoma
Friuli-Venezia-Giulia.
3.2.1.− In primo luogo, pur dovendosi sottolineare la genericità
del ricorso, è comunque possibile ritenere sufficientemente individuata la
questione, in quanto la difesa statale censura l’abrogazione delle norme
regionali che disciplinavano l’accesso all’abitazione per le persone straniere,
in violazione delle disposizioni statali che attribuiscono alle Regioni il
compito di adottare le misure tese a favorire l’accesso alle soluzioni
abitative per gli stranieri.
3.2.2.– In secondo luogo, possono estendersi anche a tale
questione le sopra riportate conclusioni relative alla mancata delimitazione
delle competenze statutarie, con conseguente infondatezza delle relative
eccezioni di inammissibilità formulate dalla Regione resistente.
Il ricorso, infatti,
qualifica le norme interposte come norme di riforma economico-sociale (come
indicato, d’altronde, dallo stesso d.lgs. n. 286 del 1998), che s’imporrebbero
quindi anche alla potestà legislativa primaria delle autonomie speciali.
3.3.− Nel merito la questione non è fondata.
3.3.1.− L’art. 3, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998 prevede che,
nell’ambito delle rispettive attribuzioni e dotazioni di bilancio, le Regioni,
le Province, i Comuni e gli altri enti locali adottino i provvedimenti tesi a
rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono il pieno riconoscimento dei
diritti e degli interessi riconosciuti agli stranieri nel territorio dello
Stato, con particolare riguardo all’alloggio, alla lingua e all’integrazione
sociale.
Il successivo art. 40
stabilisce che le Regioni predispongano centri di accoglienza destinati a
ospitare stranieri regolarmente soggiornanti per motivi diversi dal turismo,
che siano temporaneamente impossibilitati a provvedere autonomamente alle
proprie esigenze alloggiative e di sussistenza, determinando i requisiti
gestionali e strutturali dei centri. Gli stranieri regolarmente soggiornanti,
inoltre, possono accedere ad alloggi sociali, collettivi o privati, predisposti
secondo i criteri previsti dalle leggi regionali. Infine, per gli stranieri
titolari di carta di soggiorno o di permesso di soggiorno almeno biennale e che
esercitano una regolare attività di lavoro subordinato o di lavoro autonomo, è
possibile accedere, in condizioni di parità con i cittadini italiani, agli
alloggi di edilizia residenziale pubblica e ai servizi di intermediazione delle
agenzie sociali eventualmente predisposte da ogni Regione o dagli enti locali
per agevolare l’accesso alle locazioni abitative e al credito agevolato in
materia di edilizia, recupero, acquisto e locazione della prima casa di abitazione.
Si tratta di
disposizioni che, per espressa indicazione dell’art. 1 del d.lgs. n. 286 del
1998, s’impongono anche alle autonomie speciali quali norme fondamentali di
riforma economico-sociale della Repubblica.
3.3.2.− Va precisato
che le competenze esclusive statali di cui all’art. 117, secondo comma, lettere
a) e b), Cost., in materia di «condizione giuridica dello straniero» e
«immigrazione» lasciano impregiudicata la possibilità di interventi legislativi
delle Regioni e delle Province autonome con riguardo al fenomeno
dell’immigrazione, concernenti ambiti diversi dalla regolamentazione dei flussi
migratori o dei titoli di soggiorno (sentenze n. 2 del
2013, n. 61
del 2011, n.
299 e n. 134
del 2010, n.
300 del 2005). In particolare, gli interventi relativi agli alloggi per gli
stranieri ricadono nell’ambito di competenze residuali delle Regioni in materia
di assistenza sociale, entro cui deve essere garantito il diritto fondamentale
all’abitazione, come sancito, appunto, anche dall’art. 3, comma 5, del d.lgs.
n. 286 del 1998 (sentenze
n. 61 del 2011 e n. 299 del 2010).
Le disposizioni
regionali impugnate, in tal senso, possono essere ascritte alla potestà
legislativa regionale in materia di politiche abitative, senza pregiudicare
l’attuazione di quanto previsto dal d.lgs. n. 286 del 1998.
3.3.3.− Anche in seguito all’abrogazione dell’art. 17 della legge
reg. Friuli-Venezia Giulia n. 31 del 2015 possono rinvenirsi ulteriori
disposizioni della medesima legge idonee a regolare la materia della prima
accoglienza e dell’inserimento abitativo delle persone straniere immigrate.
In particolare l’art. 3
prevede un apposito programma annuale, unico strumento di pianificazione degli
interventi attribuiti alla Regione resistente da leggi statali o da norme
comunitarie, in virtù della novella di cui all’art. 31, comma 1, lettera a),
della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 29 giugno 2020, n. 13,
recante «Disposizioni in materia di finanze, patrimonio e demanio, funzione pubblica,
autonomie locali, sicurezza, politiche dell’immigrazione, corregionali
all’estero e lingue minoritarie, cultura e sport, infrastrutture, territorio e
viabilità, turismo, risorse agroalimentari, forestali, montagna, attività
venatoria, lavoro, formazione, istruzione e famiglia, ambiente e energia,
cooperazione allo sviluppo e partenariato internazionale, sanità e sociale,
Terzo settore (Legge regionale multisettoriale)», che ha eliminato il piano
triennale.
L’art. 7 della legge
reg. Friuli-Venezia Giulia n. 31 del 2015 stabilisce che con il programma
annuale sono definite le azioni di settore, con le relative modalità di
attuazione, e sono individuate le priorità da perseguirsi; tra queste, ai sensi
dell’art. 16, rientrano gli interventi di assistenza e di prima accoglienza per
coloro che versano in situazioni di bisogno. L’art. 15, inoltre, garantisce a
tutti, cittadini italiani e stranieri, l’accesso agli interventi di politica
sociale, secondo quanto previsto dalla legge della Regione autonoma Friuli-Venezia
Giulia 31 marzo 2006, n. 6 (Sistema integrato di interventi e servizi per la
promozione e la tutela dei diritti di cittadinanza sociale), che regola il
sistema integrato di interventi e servizi per la promozione e la tutela dei
diritti di cittadinanza sociale.
Vero è che l’abrogato
art. 17 recava specifici interventi in materia di accoglienza e inserimento
abitativo, prevedendo, in attuazione dell’art. 40 del d.lgs. n. 286 del 1998 e
sulla base della normativa regionale di settore, che il programma annuale
potesse altresì promuovere il sostegno alla gestione di strutture dedicate
all’ospitalità temporanea, il sostegno delle Agenzie sociali per l’abitare al
fine di realizzare azioni volte a favorire e orientare l’accesso a un’idonea
soluzione abitativa, nonché il sostegno alla gestione di alloggi sociali in
forma collettiva.
Tuttavia, siffatta
abrogazione produce essenzialmente l’effetto di non vincolare il programma
annuale a specifici contenuti, ma non fa venir meno l’obbligo di prevedere
comunque gli interventi necessari all’attuazione degli obblighi previsti dalla
legislazione statale, in particolare quelli indicati dall’art. 40 del d.lgs. n.
286 del 1998.
Interventi che, come
sottolineato, continuano a trovare la loro sede nel programma annuale, non
abrogato dall’intervento dal legislatore regionale.
4.– L’Avvocatura
generale dello Stato impugna altresì l’art. 74, comma 3, della legge reg.
Friuli-Venezia Giulia n. 9 del 2019, che modifica l’art. 34, comma 3, della
legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 16 ottobre 2014, n. 17
(Riordino dell’assetto istituzionale e organizzativo del Servizio sanitario
regionale e norme in materia di programmazione sanitaria e sociosanitaria),
prevedendo che i punti di primo intervento esistenti presso i presidi
ospedalieri della Regione, riconvertiti per lo svolgimento di attività
distrettuali sanitarie e sociosanitarie, siano dotati di spazi di osservazione
a disposizione della funzione di emergenza-urgenza.
4.1.– Secondo la difesa statale verrebbero in tal modo lesi
l’art. 117, secondo comma, lettera m), e terzo comma, Cost., nonché l’art. 5,
numero 16), statuto reg. Friuli Venezia Giulia, in relazione al decreto del
Ministro della salute, adottato di concerto con il Ministro dell’economia e
delle finanze, 2 aprile 2015, n. 70 (Regolamento recante definizione degli
standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi relativi
all'assistenza ospedaliera).
La norma impugnata,
infatti, introdurrebbe un livello di assistenza difforme dalla normativa statale,
che non prevede l’osservazione breve del paziente nei punti di primo
intervento, violando altresì i principi fondamentali in materia «tutela della
salute», che s’imporrebbero anche alle Regioni a statuto speciale.
4.2.– In via
preliminare, va precisato che non risulta possibile dichiarare cessata la
materia del contendere alla luce dell’abrogazione della disposizione impugnata
da parte dell’art. 71, comma 2, della legge della Regione autonoma
Friuli-Venezia Giulia 12 dicembre 2019, n. 22 (Riorganizzazione dei livelli di
assistenza, norme in materia di pianificazione e programmazione sanitaria e
sociosanitaria e modifiche alla legge regionale 26/2015 e alla legge regionale
6/2006), come prospettato dalla difesa regionale.
Com’è noto, la
cessazione della materia del contendere può essere dichiarata qualora
l’abrogazione o la modifica delle norme impugnate abbia carattere satisfattivo
e ove non vi sia stata applicazione medio tempore delle stesse (ex multis, sentenze n. 56 del
2019, n. 44
del 2018 e n.
50 del 2017).
Nel caso di specie,
sebbene possa riconoscersi il carattere satisfattivo dell’abrogazione, la
disposizione impugnata è rimasta in vigore per circa cinque mesi, nel corso dei
quali non è possibile escludere che essa abbia avuto una qualche applicazione,
attraverso le misure organizzative adottate dai singoli presidi ospedalieri.
Né, in tal senso, la difesa regionale fornisce alcun elemento utile.
4.3.− Sempre in via preliminare deve essere rigettata
l’eccezione d’inammissibilità relativa alla mancata considerazione dello
statuto di autonomia.
La difesa statale fa
valere la violazione dei livelli essenziali delle prestazioni, dunque di una
potestà esclusiva dello Stato, riguardo alla quale non rilevano le competenze
della Regione in materia sanitaria, siano esse qulle
individuate dallo statuto regionale o quelle, più ampie, previste dall’art.
117, terzo comma, Cost., in materia di «tutela della
salute».
Va poi rilevato che, ai
sensi dell’art. 3 del d.m. n. 70 del 2015 «[l]e
regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e di Bolzano
applicano il presente decreto compatibilmente con i propri statuti di autonomia
e con le relative norme di attuazione».
4.4.− Per quanto concerne l’eccezione d’inammissibilità relativa
all’erroneità del presupposto interpretativo, infine, la stessa appare in
realtà formulata quale censura di merito e pertanto in tale sede deve essere
esaminata.
4.5.− Nel merito le questioni non sono fondate.
4.5.1.− Il d.m. n. 70 del 2015, indicato
quale disposizione interposta dalla parte ricorrente, detta gli standard
qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi relativi all’assistenza
ospedaliera.
Come già sottolineato
da questa Corte, la determinazione di tali standard deve essere garantita, con
carattere di generalità, a tutti gli aventi diritto (sentenze n. 231
e n. 192 del
2017, n. 134
del 2006). Pertanto, la normativa statale, pur intersecando la sfera di
competenza legislativa regionale nell’ambito dell’organizzazione sanitaria,
rinviene il suo prevalente titolo di legittimazione nella competenza
legislativa esclusiva dello Stato prevista dall’art. 117, secondo comma,
lettera m), Cost., che s’impone anche alle autonomie
speciali (sentenze
n. 126 del 2017 e n. 162 del 2007).
Nella specie, il punto
9.1.2. dell’Allegato 1 del d.m. n. 70 del 2015
prevede forme di raccordo tra i presidi territoriali e il servizio di pronto
soccorso ospedaliero. Il successivo punto 9.1.5 stabilisce che le strutture
ospedaliere riconvertite in presidi territoriali possano prevedere, per un
periodo di tempo limitato, il mantenimento nella località interessata di un
punto di primo intervento, operativo nelle dodici ore diurne e presidiato dal
sistema 118 nelle ore notturne. In tali punti, tuttavia, non è prevista
l’osservazione breve del paziente e la loro funzione si limita unicamente al
trattamento delle urgenze minori e a una prima stabilizzazione del paziente ad
alta complessità, al fine di consentirne il trasporto nel pronto soccorso più
appropriato.
4.5.2.− Ciò precisato, l’art. 34 della legge reg. Friuli-Venezia
Giulia n. 17 del 2014 ha disposto la riconversione dei presidi ospedalieri di
Cividale del Friuli, Gemona del Friuli, Maniago e Sacile, nonché di parte del
presidio ospedaliero "Maggiore” di Trieste, per lo svolgimento di attività
distrettuali sanitarie e sociosanitarie. Tali presidi si collegano con
l’ospedale di riferimento e forniscono supporto, se necessario, alle attività
del medesimo, assicurando la presenza di un punto di primo intervento sulle
dodici/ventiquattro ore.
La disposizione
regionale impugnata è intervenuta sullo stesso art. 34, aggiungendo la
previsione che il punto di primo intervento sia dotato di spazi di osservazione
a disposizione della funzione di emergenza-urgenza e la postazione di un mezzo
di soccorso sulle ventiquattro ore.
Come già sottolineato,
il d.m. n. 70 del 2015 richiede forme di raccordo tra
presidi territoriali e pronto soccorso, consentendo altresì nei punti di primo
intervento il trattamento delle urgenze minori e una prima stabilizzazione del
paziente.
Il legislatore
regionale, in tal senso, nel prevedere un’osservazione «a disposizione della
funzione di emergenza-urgenza», si è limitato a consentire lo svolgimento
proprio di quelle attività di raccordo con il servizio di pronto soccorso consentite
dalle norme statali, senza che possa quindi configurarsi alcuna lesione della
normativa statale interposta.
5.– Da ultimo, lo Stato impugna l’art. 88 della legge reg.
Friuli-Venezia Giulia n. 9 del 2019, nella parte in cui aggiunge all’art. 77
della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 18 del 2005 il comma 3-quinquies, che
limita la concessione degli incentivi occupazionali previsti dal precedente
comma 3-bis alle assunzioni, inserimenti o stabilizzazioni riguardanti soggetti
residenti continuativamente sul territorio regionale da almeno cinque anni.
5.1.– La parte ricorrente argomenta la violazione dell’art. 3
Cost. e del principio di ragionevolezza, perché la
norma impugnata riserverebbe irragionevolmente solo alla categoria dei
residenti quinquennali l’accesso agli incentivi – con una violazione indiretta
del diritto al lavoro e della normativa comunitaria in tema di libertà di
circolazione, diritto di stabilimento e libera concorrenza – senza che vi sia
alcuna connessione tra il riconoscimento di un incentivo al datore di lavoro e
il requisito della residenza protratta nel tempo del lavoratore.
Inoltre, verrebbe leso
anche l’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., in relazione all’art. 11, comma
l, lettera c), del decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 150 (Disposizioni
per il riordino della normativa in materia di servizi per il lavoro e di
politiche attive, ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della legge 10 dicembre
2014, n. 183), in quanto le misure di politica attiva del lavoro, ivi compresi
gli incentivi occupazionali, costituirebbero un livello essenziale delle
prestazioni, rientrando tra i servizi che devono essere riconosciuti a tutti i
residenti sul territorio italiano.
5.2.– Anche in riferimento a tali questioni la difesa regionale
ha eccepito plurimi motivi d’inammissibilità, che devono essere respinti.
5.2.1.− In primo luogo, non risulta fondata l’eccezione
d’inammissibilità per genericità delle censure, risultando sufficientemente
chiaro dal tenore delle argomentazioni che le stesse sono tese a lamentare
l’irragionevolezza della limitazione ai residenti quinquennali degli incentivi
occupazionali.
Inoltre, con
riferimento alla violazione del diritto al lavoro e delle libertà comunitarie,
le doglianze appaiono meramente ancillari all’asserita lesione dell’art. 3
Cost. Non configurandosi, pertanto, come autonome censure, non rileva l’assenza
nella deliberazione a impugnare del Consiglio dei ministri dell’indicazione dei
relativi parametri, come lamentato dalla difesa regionale.
5.2.2.− Riguardo alla mancata indicazione delle competenze
statutarie, possono nuovamente richiamarsi le argomentazioni svolte in
relazione alla prima questione, venendo asserita la violazione, oltre che di
parametri non attinenti al riparto di competenze, dell’art. 117, secondo comma,
lettera m), Cost., in virtù della lesione del livello essenziale individuato
dall’art. 11, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 150 del 2015.
5.2.3.− Venendo all’eccezione relativa alla contraddittorietà del petitum, pur riconoscendosi un’argomentazione non sempre
precisa delle questioni, risulta possibile ritenere, anche alla luce del fatto
che la parte ricorrente chiede una pronuncia ablativa, che il petitum sia teso all’eliminazione della residenza del
lavoratore, non solo della sua durata quinquennale, quale requisito per la
concessione degli incentivi.
5.3.− Nel merito la questione promossa in riferimento all’art. 3
Cost. è fondata.
5.3.1.− La giurisprudenza costituzionale è intervenuta in più
occasioni con riferimento al requisito della residenza, solo in materia di
accesso ai servizi sociali e ammettendolo soltanto a determinate condizioni,
quando sussista un ragionevole collegamento con la funzione del servizio (sentenze n. 44 del
2020, n. 168
e n. 141 del
2014, n. 222
e n. 133 del
2013).
Così, ad esempio, se la
residenza costituisce un requisito ragionevole al fine d’identificare l’ente
pubblico competente a erogare una certa prestazione, non è possibile che
l’accesso alle prestazioni pubbliche sia escluso solo per il fatto di aver
esercitato il proprio diritto di circolazione o di aver dovuto mutare regione
di residenza (sentenze
n. 44 del 2020 e n. 107 del 2018).
Con particolare
riferimento al requisito della residenza di durata ultra-quinquennale, oltre a
precisare che lo stesso non costituisce di per sé un indice di elevata
probabilità di permanenza in un determinato ambito territoriale, questa Corte
ha sottolineato come il radicamento territoriale non possa assumere un’importanza
tale da escludere qualsiasi rilievo dello stato di bisogno ed essendo più
appropriato utilizzarlo ai fini della formazione di graduatorie e criteri
preferenziali (sentenza
n. 44 del 2020).
Tra l’altro,
l’introduzione di requisiti basati sulla residenza, specie se prolungata,
finisce per costituire una limitazione, seppure meramente fattuale, alla
circolazione tra le regioni, violando così il divieto di cui all’art. 120,
primo comma, Cost., in particolare nel suo
collegamento con l’art. 3, secondo comma, Cost. (sentenza
n. 107 del 2018).
5.3.2.− Venendo alla disposizione impugnata, sebbene sia
condivisibile che gli incentivi occupazionali possono ben essere rivolti solo
alle assunzioni di particolari categorie di lavoratori, risulta irragionevole
il collegamento tra il riconoscimento di un incentivo al datore di lavoro e il
requisito della residenza del lavoratore, non solo ove protratta nel tempo.
Sotto un primo profilo,
infatti, non può sostenersi che il criterio della residenza sia necessario a
identificare l’ente pubblico competente a erogare una certa prestazione, tenuto
conto che, nel caso di specie, i beneficiari diretti dell’erogazione sono le
imprese, che devono ovviamente avere una sede nel territorio regionale.
Sotto un secondo
profilo, la limitazione introdotta dalla disposizione impugnata risulta in
contrasto con la ratio dalla stessa indicata, ossia il riassorbimento delle
eccedenze occupazionali determinatesi sul territorio regionale in conseguenza
di situazioni di crisi aziendale. Verrebbero infatti esclusi, ad esempio,
coloro che, sebbene non residenti, abbiano svolto un periodo di attività
lavorativa più consistente rispetto ai soggetti semplicemente residenti, dando
così un maggiore contributo a quel progresso della comunità regionale asserito
anche dalla difesa della Regione quale motivo ispiratore dell’incentivo. Il che
finirebbe per penalizzare la stessa mobilità inter-regionale dei lavoratori.
5.4.− La questione relativa all’art. 117, secondo comma, lettera
m), Cost. è assorbita.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 77, comma
3-quinquies, della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 9 agosto
2005, n. 18 (Norme regionali per l’occupazione, la tutela e la qualità del lavoro),
introdotto dall’art. 88 della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia
Giulia 8 luglio 2019, n. 9 (Disposizioni multisettoriali per esigenze urgenti
del territorio regionale);
2) dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione
di legittimità costituzionale dell’art. 14 della legge reg. Friuli-Venezia
Giulia n. 9 del 2019, promossa dal Presidente del Consiglio dei ministri, in
riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, con il
ricorso indicato in epigrafe;
3) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 45, comma 1, lettera b), della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 9
del 2019, promossa dal Presidente del Consiglio dei ministri, in riferimento
all’art. 117, secondo comma, lettere a) e b), Cost.,
con il ricorso indicato in epigrafe;
4) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 74, comma 3, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 9 del 2019,
promossa dal Presidente del Consiglio dei ministri, in riferimento all’art.
117, commi secondo, lettera m), e terzo, Cost., nonché
all’art. 5, numero 16), della legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1
(Statuto speciale della regione Friuli Venezia Giulia), con il ricorso indicato
in epigrafe.
Così deciso in Roma,
nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 1° dicembre
2020.
F.to:
Giancarlo CORAGGIO,
Presidente
Giuliano AMATO,
Redattore
Roberto MILANA,
Direttore della Cancelleria
Depositata in
Cancelleria il 23 dicembre 2020.