SENTENZA N. 222
ANNO 2013
Commento alla decisione di
Davide Monego
La “dimensione regionale” nell’accesso alle provvidenze sociali
per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco GALLO Presidente
- Luigi MAZZELLA Giudice
- Gaetano SILVESTRI ”
- Sabino CASSESE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 2, 3, 5, 6, comma 1, 7, 8, comma 2, e 9 della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 30 novembre 2011, n. 16 (Disposizioni di modifica della normativa regionale in materia di accesso alle prestazioni sociali e di personale), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso, notificato il 7-10 febbraio 2012, depositato in cancelleria il 14 febbraio 2012 ed iscritto al n. 25 del registro ricorsi 2012.
Visto l’atto di costituzione della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia;
udito nell’udienza pubblica del 6 novembre 2012 il Giudice relatore Giuseppe Frigo, sostituito per la redazione della sentenza dal Giudice Giorgio Lattanzi;
uditi l’avvocato dello Stato Attilio Barbieri per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Giandomenico Falcon per la Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia.
Ritenuto in fatto
1.– Con il ricorso spedito a mezzo posta per la notificazione il 7 febbraio 2012 e depositato il successivo 14 febbraio, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso, in riferimento agli articoli 3 e 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli articoli 2, 3, 5, 6, comma l, 7, 8, comma 2, e 9 della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 30 novembre 2011, n. 16 (Disposizioni di modifica della normativa regionale in materia di accesso alle prestazioni sociali e di personale), pubblicata nel Bollettino ufficiale della Regione n. 49 del 7 dicembre 2011.
1.1.– Il ricorrente, in premessa, richiama il contenuto delle disposizioni impugnate.
In particolare, l’art. 2, che sostituisce il comma 6 dell’art. 9 della legge regionale 14 agosto 2008, n. 9 (Assestamento del bilancio 2008 e del bilancio p1uriennale per gli anni 2008-2010 ai sensi dell’articolo 34 della legge regionale 8 agosto 2007, n. 21), prevede contributi economici straordinari in relazione a temporanee situazioni di emergenza individuali o familiari, a condizione che i beneficiari risiedano in territorio regionale da almeno ventiquattro mesi, in favore di: a) cittadini italiani; b) cittadini di Stati appartenenti all’Unione europea regolarmente soggiornanti in Italia e loro familiari, ai sensi del decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 30 (Attuazione della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri); c) titolari di permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, ai sensi del decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 3 (Attuazione della direttiva 2003/109/CE relativa allo status di cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo); d) titolari dello status di rifugiato e dello status di protezione sussidiaria, ai sensi del decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251 (Attuazione della direttiva 2004/83/CE recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica del rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta).
L’art. 3, che sostituisce il comma l dell’art. 8-bis della legge regionale 7 luglio 2006, n. 11 (Interventi regionali a sostegno della famiglia e della genitorialità), dispone l’attribuzione di assegni una tantum, a sostegno della natalità e delle adozioni di minori, a favore dei nuclei familiari in cui almeno uno dei genitori risieda nel territorio regionale da almeno ventiquattro mesi e che appartenga ad una delle categorie di soggetti elencati nell’art. 12-bis della medesima legge regionale n. 11 del 2006.
Ai sensi del citato art. 12-bis della legge regionale n. 11 del 2006, sostituito dall’impugnato art. 5, gli interventi finanziari a favore delle famiglie e della genitorialità di cui agli artt. 8-bis, 8-ter, 9, 10 e 11 della medesima legge regionale n. 11 del 2006 – recanti, rispettivamente, interventi a sostegno delle nascite, soluzioni abitative per nuove famiglie, sostegno alla funzione educativa, istituzione della Carta Famiglia – sono attuati a favore dei nuclei familiari in cui almeno uno dei genitori risiede nel territorio regionale da almeno ventiquattro mesi e appartiene ad una delle medesime categorie di soggetti indicate nell’art. 2.
L’art. 6, comma l, che sostituisce il comma l.l. dell’art. 12 della legge regionale 7 marzo 2003, n. 6 (Riordino degli interventi regionali in materia di edilizia residenziale pubblica), stabilisce che possono essere destinatari degli interventi di edilizia convenzionata, agevolata e di sostegno alle locazioni, purché residenti da almeno ventiquattro mesi in territorio regionale, i cittadini italiani, i cittadini di Stati appartenenti all’Unione europea regolarmente soggiornanti in Italia e i loro familiari, ai sensi del decreto legislativo n. 30 del 2007, e i titolari di permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo ai sensi del medesimo decreto legislativo n. 30 del 2007.
Sempre in materia di edilizia residenziale pubblica, l’art. 7, che sostituisce l’art. 18 della predetta legge regionale n. 6 del 2003, prevede che i medesimi soggetti indicati nel precedente art. 6 possano essere assegnatari di alloggi di edilizia sovvenzionata, a condizione di essere residenti da almeno ventiquattro mesi in territorio regionale.
L’art. 8, comma 2, che aggiunge il comma l-bis all’art. 2 della legge regionale 2 aprile 1991, n. 14 (Norme integrative in materia di diritto allo studio), prevede che possano accedere agli interventi regionali in materia di diritto allo studio gli alunni nel cui nucleo familiare almeno uno dei genitori risieda nel territorio regionale da almeno ventiquattro mesi e che appartenga a una delle medesime categorie di soggetti indicati al precedente art. 2.
L’art. 9, infine, dispone che gli interventi previsti dalle norme regionali che sono state modificate dagli artt. 2, 3, 4, 5, 6, 7 e 8 della legge in esame siano attuati anche in favore dei soggetti di cui all’art. 41 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), vale a dire nei confronti degli stranieri titolari della carta di soggiorno o di permesso non inferiore ad un anno, nonché dei minori iscritti nella loro carta di soggiorno o nel loro permesso di soggiorno, a condizione che tali soggetti siano residenti da non meno di cinque anni nel territorio nazionale e da almeno ventiquattro mesi nel territorio regionale.
1.2.– Secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, le disposizioni in esame discriminerebbero i possibili fruitori delle provvidenze sociali fornite dalla Regione, sia in ragione della residenza regionale protratta da almeno ventiquattro mesi, sia, per gli stranieri extracomunitari di cui all’art. 9, in ragione dell’ulteriore requisito della residenza nazionale per non meno di cinque anni richiesto da quest’ultima norma.
Le disposizioni impugnate eccederebbero, quindi, i limiti della competenza legislativa regionale: sia con riferimento alla materia di «assistenza sociale», attribuita alla potestà legislativa integrativa della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia dall’art. 6, numero 2), dello statuto di autonomia (legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1), sia con riferimento alla più ampia competenza residuale in materia di servizi sociali riconosciuta alle Regioni ordinarie dall’art. 117, quarto comma, Cost., da estendersi alla Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia in base alla clausola di equiparazione di cui all’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione).
La Regione, infatti, dovrebbe comunque rispettare i limiti stabiliti dall’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., che riserva allo Stato la competenza legislativa esclusiva in materia di «determinazione di livelli essenziali di prestazioni», con la conseguenza che ogni disposizione che «crei differenziazioni di trattamento si verrebbe a porre, a livello locale, in contrasto con le garanzie di uniformità riservate alla legislazione statale».
Inoltre, le disposizioni impugnate sarebbero lesive dell’art. 3 Cost., perché introdurrebbero nel tessuto normativo un elemento di differenziazione arbitrario, non essendovi corrispondenza tra la condizione di ammissibilità al beneficio e gli altri requisiti, quali la situazione di bisogno e di disagio, che costituiscono il presupposto di fruibilità di un beneficio assistenziale: verrebbero in tal modo esclusi proprio coloro che sono maggiormente esposti alle condizioni di bisogno e di disagio, che un siffatto sistema di prestazioni e servizi si proporrebbe di superare.
Infine, per quanto concerne l’art. 9 impugnato, con particolare riferimento all’attribuzione delle prestazioni assistenziali alle persone straniere regolarmente soggiornanti sul territorio nazionale, la stessa giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 61 del 2011) avrebbe già evidenziato la contrarietà di analoghe disposizioni all’art. 3 Cost.
L’art. 9, peraltro, sarebbe in contrasto con l’art. 41 del d.lgs. n. 286 del 1998 e con l’art. 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2001), che, ai fini della fruizione delle provvidenze e delle prestazioni, anche economiche, di assistenza sociale, equiparano ai cittadini italiani gli stranieri titolari della carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno.
2.– Si è costituita la Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, la quale ha eccepito, in via preliminare, l’inammissibilità del ricorso per tardività della notifica, effettuata il 7 febbraio 2012, oltre il sessantesimo giorno dalla pubblicazione nel B.U.R. del 7 dicembre 2011.
3.– Con successiva memoria la Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia ha, preliminarmente, ribadito l’eccezione di inammissibilità del ricorso, perché notificato oltre il termine perentorio previsto dall’art. 127, primo comma, Cost.
4.– La difesa regionale ha poi svolto ulteriori considerazioni difensive, rilevando anzitutto che l’art. 117, quarto comma, Cost. le attribuisce, nella materia dell’assistenza sociale, una competenza più ampia dell’art. 6, numero 2), dello statuto di autonomia.
5.– Inoltre, la censura relativa alla violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost. sarebbe inammissibile, in quanto priva della necessaria indicazione delle norme statali che determinerebbero i livelli essenziali delle prestazioni e che sarebbero state violate.
6.– Inammissibile sarebbe poi l’impugnazione degli artt. 2, 5, 6, comma 1, e 7 della legge regionale n. 16 del 2011.
Secondo la Regione, tali disposizioni avrebbero abrogato espressamente la pregressa normativa regionale concernente la prestazione sociale in oggetto, la quale richiedeva condizioni più rigorose di accesso, sicché, per effetto di un’eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale, quest’ultima dovrebbe rivivere, reintroducendo requisiti di godimento «ancora più irragionevoli e discriminatori di quelli recati dalla legge impugnata».
7.– Con riferimento all’asserita lesione dell’art. 3 Cost., la Regione sostiene la legittimità costituzionale del requisito della residenza continuativa nella Regione e della residenza quinquennale nel territorio dello Stato per gli stranieri in possesso del permesso di soggiorno.
La resistente precisa che, come risulta dal testo della legge impugnata (art. 1, comma 1), il primo requisito è stato introdotto allo scopo di valorizzare un collegamento non occasionale tra i destinatari delle politiche sociali e la comunità regionale. E poiché la Regione è ente esponenziale di detta comunità, la residenza sul territorio regionale è il «più naturale indice sintomatico del radicamento e della integrazione della persona all’interno della comunità locale».
Trattandosi di prestazioni che non fanno parte dei livelli essenziali, la Regione potrebbe condizionarne l’erogazione alle condizioni indicate dalla norma, a tutela dell’integrità del proprio bilancio e per scoraggiare l’utilizzazione di «residenze occasionali e meramente opportunistiche».
8.– In ordine all’ulteriore requisito della residenza quinquennale nel territorio dello Stato per gli stranieri in possesso del permesso di soggiorno, la Regione resistente evidenzia che la previsione contenuta nell’art. 9 impugnato estende le prestazioni sociali di cui alla legge oggetto di giudizio anche agli stranieri privi di carta di soggiorno (condizione, invece, richiesta dalla normativa statale di riferimento: art. 80, comma 19, della legge n. 388 del 2000) purché soggiornanti da almeno cinque anni nel territorio.
La disposizione impugnata sarebbe, dunque, per un verso «oggettivamente progressiva» e per altro verso ragionevole, in quanto, ai fini dell’equiparazione con gli stranieri in possesso del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, considera il medesimo requisito della residenza quinquennale, che è anche il presupposto per la concessione di tale speciale titolo di soggiorno.
9.– Con riferimento alle specifiche censure, la resistente fa presente che l’art. 2 della legge n. 16 del 2011, novellando l’art. 9, comma 6, della legge regionale n. 9 del 2008, amplia la classe dei beneficiari degli interventi di contrasto dei fenomeni di povertà e disagio sociale, previsti dal precedente comma 5 dello stesso art. 9, e finanziati dalla Regione con un apposito fondo, riducendo a 24 mesi la durata della residenza e riconoscendo quali beneficiari anche gli stranieri titolari di permesso di soggiorno CE per i soggiornanti di lungo periodo e gli stranieri titolari dello status di rifugiato e dello status di protezione sussidiaria, residenti in Regione da almeno ventiquattro mesi. Tali interventi sono aggiuntivi rispetto agli ordinari interventi di assistenza sociale, i quali restano regolati dalla legge regionale del 31 marzo 2006, n. 6 (Sistema integrato di interventi e servizi per la promozione e la tutela dei diritti di cittadinanza sociale), e sono assicurati a cittadini e stranieri indipendentemente da requisiti di residenza qualificata.
Ne conseguirebbe che, nel momento in cui la Regione finanzia con un fondo speciale interventi aggiuntivi rispetto a quelli previsti in via ordinaria, finalizzati, secondo quanto espressamente indicato nella legge regionale, al «contrasto dei fenomeni di povertà e disagio sociale nel territorio regionale», sarebbe ragionevole concentrare le risorse sui fenomeni più radicati, anche sotto l’aspetto temporale, entro i confini della Regione.
10.– La censura relativa all’art. 3 della legge regionale n. 16 del 2011 – che sostituisce l’art. 8-bis, comma 1, della legge regionale n. 11 del 2006 – sarebbe inammissibile e infondata, perché priva di oggetto, dal momento che l’individuazione dei soggetti beneficiari delle provvidenze, verso cui si indirizzano le censure del ricorrente, sarebbe operata non dalla norma impugnata, bensì mediante il rinvio all’art. 12-bis, comma 1, della predetta legge n. 11 del 2006 (anch’esso novellato dalla legge impugnata ed oggetto di giudizio).
Il menzionato art. 12-bis risulta infatti modificato dall’art. 5 della legge regionale impugnata ed attualmente individua i destinatari di alcune provvidenze a favore delle famiglie e a sostegno della genitorialità nei nuclei familiari in cui almeno uno dei genitori risieda nel territorio regionale da almeno ventiquattro mesi e sia cittadino italiano, cittadino di Stati appartenenti all’Unione europea, oppure straniero titolare di permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo o dello status di rifugiato o di protezione sussidiaria. È stata conseguentemente abrogata la norma secondo cui tali prestazioni erano disposte prioritariamente a favore dei nuclei familiari in cui quantomeno uno dei genitori risiedesse da almeno otto anni, anche non continuativi, in Italia, di cui uno nella Regione.
Dette provvidenze, specificamente previste agli artt. 8-bis, 9, 10 e 11 della legge regionale n. 11 del 2006, costituiscono benefici aggiuntivi rispetto a quelli statali e alcuni di essi sono condizionati al mancato superamento di limiti di reddito piuttosto elevati e tali, dunque, da attenuare la socialità dell’intervento.
11.– Per gli interventi relativi alla materia dell’edilizia residenziale pubblica e dei servizi abitativi (art. 8-ter della legge n. 11 del 2006 e artt. 6, comma 1, e 7 della legge n. 16 del 2011), attuati in favore dei residenti da almeno 24 mesi nel territorio regionale, cittadini italiani o di Stati appartenenti all’Unione europea, oppure stranieri titolari di permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo o dello status di rifugiato o di protezione sussidiaria, vi sarebbe il precedente già richiamato, costituito dall’ordinanza di questa Corte n. 32 del 2008. D’altro canto, la residenza protratta è richiesta anche dalla legislazione statale in tema di diritto sociale all’abitazione (artt. 11, comma 2, e 23 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, recante «Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria», convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133).
Non sarebbe pertanto irragionevole la previsione del requisito di residenza di soli 24 mesi, applicato indistintamente a cittadini e stranieri per un beneficio la cui concreta fruizione richiede comunque tempi lunghi di attesa.
12.– Infine, per quanto concerne l’attribuzione degli assegni di studio a favore delle famiglie degli alunni di scuole dell’obbligo e secondarie non statali, parificate o paritarie o riconosciute con titolo di studio avente valore legale, istituite senza fine di lucro, regolato dall’art. 8, comma 2, della legge impugnata, la Regione evidenzia, da un canto, la portata ampliativa del riconoscimento di tale provvidenza; dall’altro, la compatibilità con il diritto dell’Unione. Essendo, inoltre, detto beneficio previsto per gli alunni frequentanti scuole non statali, il diritto fondamentale dell’istruzione, tutelato dall’art. 33 Cost., sarebbe comunque assicurato mediante la possibilità dell’accesso alla scuola pubblica. Rileva, infine, che anche per questa prestazione i limiti economici sono elevati.
La Regione ha, quindi, concluso per l’inammissibilità o per la non fondatezza del ricorso.
Considerato in diritto
1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale degli articoli 2, 3, 5, 6, comma 1, 7, 8, comma 2, e 9 della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 30 novembre 2011, n. 16 (Disposizioni di modifica della normativa regionale in materia di accesso alle prestazioni sociali e di personale), in riferimento agli articoli 3 e 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione.
2.– La Regione ha eccepito in via preliminare l’inammissibilità del ricorso, che sarebbe stato notificato un giorno dopo la scadenza del termine previsto dall’art. 127, primo comma, Cost.
L’eccezione non è fondata.
Il termine di sessanta giorni previsto per la notificazione del ricorso dall’art. 127 Cost. e dall’art. 31, comma 2, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), scadeva il 5 febbraio 2012 e, trattandosi di una domenica, era prorogato al 6 febbraio 2012, mentre la notificazione è stata effettuata il 7 febbraio 2012; ma ciò è avvenuto in presenza di una «proroga dei termini per mancato funzionamento degli Uffici giudiziari di Roma Capitale e dei Comuni della provincia di Roma compresa la Corte di Cassazione», disposta dal Ministro della giustizia con decreto dell’8 febbraio 2012, in applicazione degli artt. 1 e 2 del decreto legislativo 9 aprile 1948, n. 437 (Proroga dei termini di decadenza in conseguenza del mancato funzionamento degli uffici giudiziari).
Questi articoli stabiliscono che qualora gli uffici giudiziari non siano in grado di funzionare regolarmente per eventi di carattere eccezionale, riconosciuti con decreto del Ministro della giustizia, «i termini di decadenza per il compimento di atti presso gli uffici giudiziari, o a mezzo del personale addetto ai predetti uffici, scadenti durante il periodo di mancato o irregolare funzionamento, o nei cinque giorni successivi, sono prorogati di quindici giorni, a decorrere dal giorno in cui è pubblicato» il decreto.
Nel caso di specie una precipitazione nevosa aveva paralizzato la città di Roma e i Comuni della provincia, e il Prefetto, con provvedimento del 4 febbraio 2012, aveva disposto la «chiusura di tutti gli Uffici Pubblici di Roma Capitale e dei Comuni della provincia, compresi gli Uffici Giudiziari e la Corte di Cassazione per il giorno 6 febbraio 2012». In tale periodo il ricorrente non era perciò in condizione di valersi degli ufficiali giudiziari ai fini della notificazione.
Al provvedimento del Prefetto aveva fatto seguito il decreto del Ministro della giustizia di cui si è detto, perciò è da escludere che nel caso in esame si sia verificata l’eccepita inammissibilità, dato che con il decreto ministeriale era stata disposta, a decorrere dalla pubblicazione, la proroga di quindici giorni dei termini scadenti nei giorni 3, 4 o 6, «o nei cinque giorni successivi».
In contrario non vale osservare che la notificazione, anziché a mezzo dell’ufficiale giudiziario, avrebbe potuto essere effettuata a mezzo del servizio postale, perché ciò che rileva, a norma del d.lgs. n. 437 del 1948, è che era stata disposta la proroga: in materia di termini esiste infatti un’esigenza di certezza che deve ricollegarsi al provvedimento del Ministro, indipendentemente dalla possibilità di ovviare di fatto all’impedimento che ha determinato la proroga.
È da aggiungere che in base al provvedimento del Prefetto, che riguardava tutti gli uffici pubblici di Roma, erano chiusi anche gli uffici dell’Avvocatura dello Stato e che sotto questo aspetto si sarebbe potuto ravvisare nel caso di specie un grave impedimento di fatto, che, a norma dell’art. 37 dell’allegato I al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al Governo per il riordino del processo amministrativo) – applicabile in forza del «rinvio dinamico» contenuto nell’art. 22 della legge n. 87 del 1953 (sentenza n. 161 del 2012) – consente, anche d’ufficio, la rimessione in termini, in applicazione del generale principio giuridico secondo cui ad impossibilia nemo tenetur (Consiglio di Stato, sezione quarta, 17 ottobre 2012, n. 5342).
3.– La legge impugnata reca modifiche alla disciplina primaria concernente l’erogazione di prestazioni sociali, contenuta in altri testi normativi della Regione, secondo un duplice criterio: a tutti gli aspiranti viene richiesto di risiedere da almeno 24 mesi nel territorio regionale (artt. 2, 3, 5, 6, 7, 8), mentre ai soli stranieri si impone non solo tale requisito, ma anche di risiedere in Italia da non meno di 5 anni (art. 9), ove essi non siano cittadini dell’Unione, ovvero, per talune provvidenze, ove non siano titolari dello status di rifugiato e dello status di protezione sussidiaria ai sensi del decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251 (Attuazione della direttiva 2004/83/CE recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica del rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta), ovvero titolari di «permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo» (in tali casi, le norme impugnate equiparano queste persone al cittadino italiano).
Il ricorrente reputa entrambi questi criteri contrari all’art. 3 Cost., in quanto manifestamente irragionevoli, e all’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., in quanto lesivi dello standard di soddisfacimento dei livelli essenziali delle prestazioni sociali assicurato dalla normativa dello Stato.
Sotto quest’ultimo profilo, in particolare, le norme impugnate avrebbero ecceduto dalla competenza statutaria in materia di «lavoro, previdenza e assistenza sociale» prevista dall’art. 6, numero 2), della legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia), e comunque da quella residuale in materia di assistenza sociale contenuta nell’art. 117, quarto comma, Cost.
4.– La Regione ha eccepito l’inammissibilità del ricorso per carenza di interesse, con riferimento all’impugnativa degli artt. 2, 5, 6, comma 1, e 7 della legge regionale n. 16 del 2011.
Secondo la resistente tali disposizioni avrebbero abrogato espressamente la pregressa normativa regionale concernente la prestazione sociale in oggetto, la quale richiedeva condizioni più rigorose di accesso, sicché per effetto di un’eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale, quest’ultima dovrebbe rivivere, reintroducendo requisiti di godimento «ancora più irragionevoli e discriminatori di quelli recati dalla legge impugnata».
L’eccezione è palesemente infondata perché, ove questa Corte dovesse reputare costituzionalmente illegittima l’apposizione di taluni requisiti di accesso ad una prestazione sociale, per effetto di tale pronuncia la prestazione diverrebbe accessibile in assenza di essi, mentre ciò non comporterebbe alcuna reviviscenza di una normativa oramai abrogata (sentenza n. 13 del 2012).
5.– Le questioni di legittimità costituzionale di tutte le norme impugnate, in riferimento alla violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost. sono inammissibili, come ha esattamente eccepito la difesa regionale.
Il ricorrente non contesta, come si è appena precisato, che in termini astratti le disposizioni censurate ineriscano alla competenza legislativa regionale in tema di assistenza sociale, ma ritiene che, nel caso di specie, essa debba venire compressa in ragione dell’azione trasversale della competenza esclusiva dello Stato a determinare i livelli essenziali delle prestazioni sociali.
Questa Corte premette che la competenza residuale di cui al quarto comma dell’art. 117 Cost. è senza dubbio più favorevole per la Regione rispetto alla competenza, di carattere integrativo-attuativo, rinvenibile nello statuto di autonomia. Pertanto è la prima a trovare applicazione in virtù dell’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, recante «Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione» (sentenze n. 10 del 2010; n. 168 del 2009; n. 50 del 2008).
Ciò detto, va rilevato che la censura del ricorrente non è accompagnata dalla necessaria individuazione dello specifico livello essenziale della prestazione, garantita dalla normativa dello Stato, con il quale le norme impugnate colliderebbero. È giurisprudenza di questa Corte che da tale individuazione il ricorrente non possa prescindere, posto che essa vale a determinare il limite oltre il quale, cessata l’azione trasversale della normativa dello Stato, si riespande la generale competenza della Regione sulla materia, residuale, oggetto di disciplina (sentenze n. 8 del 2011 e n. 383 del 2005).
Ne segue che le norme impugnate debbono venire valutate, una volta divenuta inammissibile la questione sul riparto di competenza legislativa, solo con riguardo al carattere manifestamente irragionevole che il ricorrente loro attribuisce, deducendone la violazione dell’art. 3 Cost.
6.– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 9 della legge impugnata, nella parte in cui per il solo straniero subordina l’accesso ai benefici al requisito della residenza in Italia da non meno di cinque anni, è fondata, in riferimento all’art. 3 Cost.
Come si è visto, l’art. 9 esige un requisito generale in capo allo straniero per accedere alle prestazioni sociali, ovvero che egli risieda nel territorio nazionale da non meno di cinque anni. Tale condizione si cumula, per mezzo di un rinvio disposto dalla stessa norma impugnata, a quella stabilita dall’art. 41 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), vale a dire alla titolarità, quanto meno, del permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno.
Non vi è dubbio che, entro i limiti consentiti dall’art. 11 della direttiva 25 novembre 2003, n. 2003/109/CE (Direttiva del Consiglio relativa allo status di cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo), cui ha conferito attuazione il decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 3 (Attuazione della direttiva 2003/109/CE relativa allo status di cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo), e comunque nel rispetto dei diritti fondamentali dell’individuo assicurati dalla Costituzione e dalla normativa internazionale, il legislatore possa riservare talune prestazioni assistenziali ai soli cittadini e alle persone ad essi equiparate soggiornanti in Italia, il cui status vale di per sé a generare un adeguato nesso tra la partecipazione alla organizzazione politica, economica e sociale della Repubblica, e l’erogazione della provvidenza. Tuttavia, non è detto che un nesso a propria volta meritevole di protezione non possa emergere con riguardo alla posizione di chi, pur privo dello status, abbia tuttavia legittimamente radicato un forte legame con la comunità presso la quale risiede e di cui sia divenuto parte, per avervi insediato una prospettiva stabile di vita lavorativa, familiare ed affettiva, la cui tutela non è certamente anomala alla luce dell’ordinamento giuridico vigente (art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848; art. 13, comma 2-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998).
In tali casi, a fronte del pregiudizio che può derivare dall’esclusione indiscriminata dello straniero dalla prestazione sociale, occorre particolare cura nella identificazione del legame che congiunge la provvidenza allo status di cittadino, anziché al contributo offerto dall’individuo alla società in cui si è inserito.
Il legislatore, quindi, per sottrarre eventuali restrizioni nell’accesso alle prestazioni sociali ad un giudizio di ineguaglianza e di manifesta irragionevolezza, è tenuto a rivolgere lo sguardo non soltanto, per il passato, alla durata della residenza sul territorio nazionale o locale oltre una soglia temporale minima, ma anche, in prospettiva, alla presenza o all’assenza di indici idonei a testimoniare il legame tendenzialmente stabile tra la persona e la comunità.
La norma impugnata, attraverso una previsione generale che accomuna prestazioni di natura assai diversa, si limita viceversa ad esigere una residenza almeno quinquennale in Italia, nonostante il rinvio all’art. 41 del d.lgs. n. 286 del 1998, il quale già prevede una soglia minima di legale permanenza sul territorio nazionale della durata di un anno soltanto.
Combinando la natura indiscriminata della restrizione, che non viene apprezzata nelle sue ragioni giustificatrici, provvidenza per provvidenza, con lo sproporzionato rilievo attribuito al requisito della residenza, per un periodo di tempo significativo e comunque largamente superiore a quello indicato dall’art. 41 del d.lgs. n. 286 del 1998, il legislatore regionale è incorso nel dedotto vizio di violazione dell’art. 3 Cost.
In tema di accesso degli stranieri alle prestazioni di assistenza sociale, questa Corte ha infatti già affermato (sentenze n. 133, n. 4 e n. 2 del 2013) che, mentre la residenza costituisce, rispetto a una provvidenza regionale, «un criterio non irragionevole per l’attribuzione del beneficio» (sentenza n. 432 del 2005), non altrettanto può dirsi quanto alla residenza protratta per un predeterminato e significativo periodo minimo di tempo (nella specie, quinquennale). La previsione di un simile requisito, infatti, ove di carattere generale e dirimente, non risulta rispettosa dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza, in quanto «introduce nel tessuto normativo elementi di distinzione arbitrari», non essendovi alcuna ragionevole correlazione tra la durata prolungata della residenza e le situazioni di bisogno o di disagio, riferibili direttamente alla persona in quanto tale, che in linea astratta ben possono connotare la domanda di accesso al sistema di protezione sociale (sentenza n. 40 del 2011).
Non rileva, in senso contrario, la circostanza su cui pone l’accento la difesa della Regione che il requisito in questione risponda ad esigenze di risparmio, correlate al decremento delle disponibilità finanziarie conseguente alle misure statali di contenimento della spesa pubblica. Essa non esclude, infatti, «che le scelte connesse alla individuazione dei beneficiari – necessariamente da circoscrivere in ragione della limitatezza delle risorse disponibili – debbano essere operate sempre e comunque in ossequio al principio di ragionevolezza» (sentenze n. 4 del 2013; n. 40 del 2011; n. 432 del 2005).
L’art. 9 impugnato va, perciò, dichiarato costituzionalmente illegittimo, limitatamente alle parole «nel territorio nazionale da non meno di cinque anni e».
L’art. 9 esige, altresì, da parte dello straniero una residenza di almeno 24 mesi nel territorio regionale. Per tale parte (così come per la parte in cui rinvia all’art. 41 del d.lgs. n. 286 del 1998), esso non è oggetto di autonoma censura volta a denunciare la disparità di trattamento tra cittadino e straniero, ma viene investito dal ricorso, unitamente agli artt. 2, 3, 5, 6, comma 1, 7 e 8, comma 2, in ragione della manifesta irragionevolezza di una condizione imposta dalla legge impugnata a tutti gli aspiranti alla provvidenza sociale, siano essi cittadini, ovvero stranieri.
Ne segue che tale censura va valutata unitamente a quelle simili mosse contro le disposizioni appena elencate.
7.– Questa Corte, relativamente alla analoga violazione del canone di ragionevolezza determinata dalla esclusione da un beneficio per tutti coloro (italiani e stranieri) che non siano residenti da un periodo protratto e continuativo nel territorio regionale, ha osservato che la legittimità di una simile scelta non esclude che i canoni selettivi adottati debbano comunque rispondere al principio di ragionevolezza, in quanto l’introduzione di regimi differenziati è consentita solo in presenza di una causa normativa non palesemente irrazionale o arbitraria, che sia cioè giustificata da una ragionevole correlazione tra la condizione cui è subordinata l’attribuzione del beneficio e gli altri peculiari requisiti che ne condizionano il riconoscimento e ne definiscono la ratio (sentenza n. 172 del 2013).
Bisogna ora aggiungere che, diversamente che nell’ipotesi di discriminazioni introdotte tra cittadino e straniero, un elemento che qui caratterizza il giudizio di ragionevolezza è costituito dalla rilevanza che assume la dimensione regionale nella concessione o nel diniego di una prestazione sociale.
La Regione, in quanto ente esponenziale della comunità operante sul territorio, ben può, infatti, favorire, entro i limiti della non manifesta irragionevolezza, i propri residenti, anche in rapporto al contributo che essi hanno apportato al progresso della comunità operandovi per un non indifferente lasso di tempo, purché tale profilo non sia destinato a soccombere, a fronte di provvidenze intrinsecamente legate ai bisogni della persona, piuttosto che al sostegno dei membri della comunità.
Tale premessa conduce alla illegittimità costituzionale degli artt. 2 e 8, comma 2, della legge impugnata, e dell’art. 9 della medesima legge, nella parte in cui tali disposizioni subordinano l’accesso alle prestazioni sociali da esse regolate al requisito della residenza nel territorio regionale da almeno 24 mesi, e non al solo requisito della residenza nella Regione.
In particolare, è fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 2 e 9 della legge regionale n. 16 del 2011, in riferimento all’art. 3 Cost.
L’art. 2 indica le persone che possono usufruire di un fondo regionale istituito dall’art. 9, comma 5, della legge regionale 14 agosto 2008, n. 9 (Assestamento del bilancio 2008 e del bilancio pluriennale per gli anni 2008-2010 ai sensi dell’articolo 34 della legge regionale 8 agosto 2007, n. 21), per il «contrasto dei fenomeni di povertà e disagio sociale».
Si tratta, perciò, di una provvidenza che, alla luce della scarsità delle risorse destinabili alle politiche sociali nell’attuale contesto storico, non potrà che venire riservata a casi di indigenza. È perciò manifestamente irragionevole, ed incongruo, negare l’erogazione della prestazione a chiunque abbia la (sola) residenza nella Regione, posto che non vi è alcuna correlazione tra il soddisfacimento dei bisogni primari dell’essere umano, insediatosi nel territorio regionale, e la protrazione nel tempo di tale insediamento (sentenza n. 40 del 2011; sentenza n. 187 del 2010).
È altresì fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 8, comma 2, e 9 della legge impugnata, in riferimento all’art. 3 Cost.
L’art. 8, comma 2, definisce i titolari del diritto a percepire assegni di studio ai sensi della legge regionale 24 aprile 1991, n. 14 (Norme integrative in materia di diritto allo studio), tenendo conto delle condizioni economiche dei rispettivi nuclei familiari (art. 3, comma 2).
Questa Corte, a proposito di una norma regionale che parimenti valorizzava il prolungamento della residenza nel territorio dello studente oltre una certa soglia temporale, ha infatti già rilevato che le misure di sostegno si ispirano ad una ragione giustificatrice, connessa al diritto allo studio, che non ha alcun rapporto con «la durata della residenza» (sentenza n. 2 del 2013).
8.– La questione di legittimità costituzionale degli artt. 3 e 9 della legge impugnata non è fondata, in riferimento all’art. 3 Cost.
L’art. 3 ha ad oggetto gli assegni di sostegno alla natalità, in caso di nascita ed adozione. L’individuazione degli aventi diritto avviene mediante rinvio materiale all’art. 12-bis, comma 1, della legge regionale 7 luglio 2006, n. 11 (Interventi regionali a sostegno della famiglia e della genitorialità).
Contrariamente a quanto eccepito dalla difesa regionale, perciò, la disposizione censurata provvede in tal modo essa stessa, e con precetto che sarebbe autonomamente lesivo, a selezionare i beneficiari della provvidenza, e si rende per tale parte senza dubbio impugnabile.
Gli assegni in questione sono misure indirizzate a favorire lo sviluppo del nucleo famigliare, affinché esso costituisca una cellula vitale della comunità. In tale caso, non è manifestamente irragionevole che il legislatore si rivolga proprio a quelle formazioni sociali che non solo sono presenti sul territorio, ma hanno già manifestato, con il passare degli anni, l’attitudine ad agirvi stabilmente, così da poter venire valorizzate nell’ambito della dimensione regionale.
Il legislatore friulano, in altri termini, non viene qui incontro ad un bisogno primario dell’individuo che non tollera un distinguo correlato al radicamento territoriale, ma appronta misure che eccedono il nucleo intangibile dei diritti fondamentali della persona umana, e che premiano, non arbitrariamente, il contributo offerto dalla famiglia al progresso morale e materiale della comunità costituita su base regionale.
9.– La questione di legittimità costituzionale degli artt. 5 e 9 della legge regionale impugnata non è fondata, in riferimento all’art. 3 Cost.
L’art. 5, al pari dell’art. 3 appena esaminato, circoscrive i destinatari di prestazioni economiche destinate alle famiglie. Si tratta, in particolare, dell’accesso ad abitazioni in locazione (art. 8-ter della legge regionale n. 11 del 2006), del sostegno in caso di contrazione del reddito familiare (art. 9 della legge regionale n. 11 del 2006), della fruizione di beni e servizi, e dell’eventuale riduzione di imposte e tasse, per mezzo della “Carta Famiglia” (art. 10 della legge regionale n. 11 del 2006), e per mezzo di vouchers volti a favorire il reinserimento lavorativo dei genitori (art. 11 della legge regionale n. 11 del 2006). Anche in tali ipotesi, il legislatore ha lo scopo di valorizzare, con misure eccedenti i livelli essenziali delle prestazioni, il contributo offerto alla comunità dal nucleo famigliare, con adeguata costanza, sicché non è manifestamente irragionevole indirizzare i propri sforzi a favore dei nuclei già attivi da tempo apprezzabile, e perciò stesso parti vitali della comunità.
10.– Le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 6, comma 1, 7 e 9 della legge impugnata, in riferimento all’art. 3 Cost., non sono fondate.
L’art. 6, comma 1, concerne interventi di edilizia convenzionata ed agevolata, e di sostegno alle locazioni, mentre l’art. 7 indica i beneficiari dell’assegnazione di alloggi di edilizia convenzionata, in riferimento, rispettivamente, agli artt. 12 e 18 della legge regionale 7 marzo 2003, n. 6 (Riordino degli interventi regionali in materia di edilizia residenziale pubblica).
Questa Corte ha già ritenuto che «il requisito della residenza continuativa, ai fini dell’assegnazione, risulta non irragionevole (sentenza n. 432 del 2005) quando si pone in coerenza con le finalità che il legislatore intende perseguire» (ordinanza n. 32 del 2008), e ha escluso l’illegittimità costituzionale di una norma della Regione Lombardia che prescrive, ai fini dell’accesso agli alloggi di edilizia residenziale pubblica, il requisito della residenza o dello svolgimento di attività lavorativa in Regione da almeno cinque anni.
In effetti, le politiche sociali delle Regioni legate al soddisfacimento dei bisogni abitativi ben possono prendere in considerazione un radicamento territoriale ulteriore rispetto alla sola residenza, purché contenuto entro limiti non palesemente arbitrari ed irragionevoli. L’accesso a un bene di primaria importanza e a godimento tendenzialmente duraturo, come l’abitazione, per un verso si colloca a conclusione del percorso di integrazione della persona presso la comunità locale e, per altro verso, può richiedere garanzie di stabilità, che, nell’ambito dell’assegnazione di alloggi pubblici in locazione, scongiurino avvicendamenti troppo ravvicinati tra conduttori, aggravando l’azione amministrativa e riducendone l’efficacia.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale degli articoli 2 e 8, comma 2, della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 30 novembre 2011, n. 16 (Disposizioni di modifica della normativa regionale in materia di accesso alle prestazioni sociali e di personale), nella parte in cui subordinano l’accesso alle prestazioni ivi indicate al requisito della residenza nel territorio regionale da almeno ventiquattro mesi, anziché al solo requisito della residenza;
2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 9 della legge regionale n. 16 del 2011, nella parte in cui, per gli stranieri di cui all’art. 41 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), subordina l’accesso alle prestazioni indicate dai precedenti artt. 2 e 8, comma 2, al requisito della residenza nel territorio regionale da almeno ventiquattro mesi;
3) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 9 della legge regionale n. 16 del 2011, limitatamente alle parole «nel territorio nazionale da non meno di cinque anni e»;
4) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 2, 3, 5, 6, comma 1, 7, 8, comma 2, e 9 della legge regionale n. 16 del 2011, promosse, in riferimento all’articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe;
5) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 3, 5, 6, comma 1, e 7 della legge regionale n. 16 del 2011, promosse, in riferimento all’articolo 3 della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe;
6) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 9 della legge regionale n. 16 del 2011, nella parte in cui subordina al requisito della residenza da almeno ventiquattro mesi nel territorio regionale l’accesso alle prestazioni indicate dai precedenti artt. 3, 5, 6, comma 1, e 7, promossa, in riferimento all’articolo 3 della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 luglio 2013.
F.to:
Franco GALLO, Presidente
Giorgio LATTANZI, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 19 luglio 2013.