SENTENZA N. 214
ANNO 2016
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta
dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Alessandro CRISCUOLO Giudice
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha
pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 5,
comma 13, del decreto-legge
6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni
urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai
cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore
bancario), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della
legge 7 agosto 2012, n. 135, promosso dal Consiglio di Stato nel
procedimento vertente tra M.P. ed altri e la Presidenza del Consiglio dei
ministri ed altri, con ordinanza del 16 aprile 2014, iscritta
al n. 154 del registro ordinanze 2014 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell’anno 2014.
Visti l’atto di costituzione di M.P. ed altri nonché gli
atti di intervento di A.P. ed altri, di Dirpubblica
(Federazione del pubblico impiego) e del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 5 luglio 2016 il Giudice
relatore Silvana Sciarra;
uditi gli avvocati Giovanni Pasquale Mosca per A.P. ed
altri, Carmine Medici per Dirpubblica (Federazione
del pubblico impiego), Flavio Maria Polito per M.P. ed altri e l’avvocato dello
Stato Giulio Bacosi per il Presidente del Consiglio
dei ministri.
Ritenuto in
fatto
1.– Con ordinanza del 16 aprile 2014
(Reg. ord. n. 154 del 2014), il Consiglio di Stato ha sollevato, in riferimento
agli artt. 3, 24, 97, 101, 102, primo comma, 103, primo comma, 111, primo e secondo
comma, 113 e 117, primo comma, della
Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU),
firmata a Roma il 4 novembre 1950 e all’art. 1 del Protocollo addizionale alla
stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952 – atti entrambi ratificati e resi
esecutivi con la legge 4 agosto 1955, n. 848 – questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 5, comma 13, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della
spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di
rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario),
convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012,
n. 135.
1.1.– In punto
di fatto, il giudice rimettente riferisce di essere investito del ricorso in
appello proposto contro la Presidenza del Consiglio dei ministri, il Ministro
per la pubblica amministrazione e l’innovazione, il Ministero dell’economia e
delle finanze, il Ministro per la pubblica amministrazione e le riforme e il
Capo pro tempore del Dipartimento per
gli affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio dei ministri,
da numerosi funzionari, dipendenti dell’amministrazione della giustizia, per la
riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio 9
novembre 2012, n. 9220, resa tra le stesse parti, concernente l’ottemperanza
alla sentenza dello stesso Tribunale 10 maggio 2007, n. 4266 in tema di
«silenzio serbato dall’amministrazione su procedure concorsuali».
Ciò precisato,
il Consiglio di Stato rammenta preliminarmente che l’art. 7, comma 3, della
legge 15 luglio 2002, n. 145 (Disposizioni per il riordino della dirigenza
statale e per favorire lo scambio di esperienze e l’interazione tra pubblico e
privato), aveva aggiunto al decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme
generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni
pubbliche), l’art. 17-bis, che, al
comma 1, primo periodo – come modificato dall’art. 14-octies, comma 1, del decreto-legge 30 giugno 2005, n. 115 (Disposizioni
urgenti per assicurare la funzionalità di settori della pubblica
amministrazione), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1,
della legge 17 agosto 2005, n. 168 –
stabiliva che «La contrattazione collettiva del comparto Ministeri disciplina
l’istituzione di un’apposita separata area della vicedirigenza
nella quale è ricompreso il personale laureato appartenente alle posizioni C2 e
C3, che abbia maturato complessivamente cinque anni di anzianità in dette
posizioni o nelle corrispondenti qualifiche VIII e IX del precedente
ordinamento»; e che l’art. 10, comma 3, della stessa legge n. 145 del 2002,
prevedeva che «La disciplina relativa alle disposizioni di cui al comma 3
dell’articolo 7, che si applicano a decorrere dal periodo contrattuale
successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore della presente
legge, resta affidata alla contrattazione collettiva, sulla base di atti di
indirizzo del Ministro per la funzione pubblica all’Agenzia per la
rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) anche per la
parte relativa all’importo massimo delle risorse finanziarie da destinarvi».
Tanto
premesso, il giudice rimettente ripercorre la vicenda processuale, esponendo,
al riguardo, che, in difetto dell’adozione dei detti atti di indirizzo, il 20
luglio 2006, trecentosettantadue funzionari, dipendenti dell’amministrazione
della giustizia, notificarono alla Presidenza del Consiglio dei ministri, al
Ministero dell’economia e delle finanze e al Dipartimento della funzione
pubblica un atto di diffida, con il quale «sollecitavano l’emanazione della
direttiva contrattuale prevista dall’art. 10, III comma, della legge 15 luglio
2002, n. 145, per l’istituzione dell’area della vicedirigenza».
A fronte dell’inerzia delle diffidate autorità, nel 2007, i detti funzionari
dell’amministrazione della giustizia proposero ricorso, contro le stesse, al
TAR Lazio, con il quale impugnarono, ai sensi dell’art. 21-bis della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione dei tribunali
amministrativi regionali), il silenzio serbato dall’amministrazione sulla
diffida. Il ricorso fu accolto con la sentenza del TAR Lazio 10 maggio 2007, n.
4266, che, conclusivamente, ordinò al Presidente del Consiglio dei ministri e
ai Ministri per la funzione pubblica e dell’economia e delle finanze, ciascuno
per la parte di rispettiva competenza, «di esercitare le proprie attribuzioni
per riscontrare in via definitiva l’istanza di parte ed il conseguente atto di
messa in mora entro il termine di sei mesi decorrente dalla data di notifica ad
esse della presente sentenza, che avverrà a cura della parte ricorrente». Tale
sentenza – depositata, come si è detto, il 10 maggio 2007 – passò in giudicato.
Poiché, tuttavia, non vi fu prestata osservanza, il 26 luglio 2011 gli
interessati depositarono un’istanza al TAR Lazio per la nomina, ai sensi
dell’art. 117, comma 3, del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104
(Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega
al governo per il riordino del processo amministrativo), di un commissario ad acta che provvedesse agli adempimenti
discendenti dalla sentenza n. 4266 del 2007 in luogo delle amministrazioni
rimaste inerti.
Dopo una fase
interlocutoria, persistendo l’inerzia delle amministrazioni, il TAR Lazio emise
la sentenza 16 maggio 2012, n. 4391, con la quale, dopo avere rilevato che, per
dare attuazione alla sentenza n. 4266 del 2007, doveva essere esercitato – «con
specifico riferimento al personale del Ministero della giustizia, questo
essendo il limite soggettivo del giudicato» – il potere di indirizzo nei
confronti dell’ARAN, e che tale potere apparteneva, come comitato di settore,
ai sensi dell’art. 41, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001, al Presidente del Consiglio
dei ministri tramite il Ministro per la pubblica amministrazione e
l’innovazione, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze,
nominò commissario ad acta, «per dare
pieno adempimento alle prescrizioni contenute nella sentenza 10 maggio 2007, n.
4266», il Capo pro tempore del
Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della Presidenza del
Consiglio dei ministri. La sentenza n. 4391 del 2012 fu notificata
all’amministrazione il 21 giugno 2012. A questo punto della vicenda processuale,
fu emanato il d.l. n. 95 del 2012, il cui censurato art. 5, comma 13, dispose
l’abrogazione dell’art. 17-bis del
d.lgs. n. 165 del 2001.
Successivamente
a tale sopravvenienza normativa, il nominato commissario ad acta trasmise al TAR Lazio, giudice dell’esecuzione, la nota
datata 12 settembre 2012, in cui faceva presente che fosse da ritenere «venuta
meno ogni attività da espletare in ottemperanza alla predetta sentenza». Il TAR
Lazio, con la citata sentenza n. 9220 del 2012, condividendo le conclusioni del
commissario ad acta, dichiarò cessato
l’incarico commissariale e improcedibile il giudizio di ottemperanza per
sopravvenuta carenza di interesse, nonché la manifesta infondatezza delle
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 13, del d.l. n. 95
del 2012, sollevate dai ricorrenti, con la motivazione che «la Corte ha
giudicato incostituzionali […] le norme che travolgano provvedimenti
giurisdizionali definitivi ed incidano sui regolamenti dei rapporti in essi
consacrati (cfr. Corte
costituzionale 7 novembre 2007, n. 364): ma […] la sentenza 4266/07 […]
aveva soltanto stabilito l’obbligo di avviare la procedura per l’introduzione
della vicedirigenza, che era però ben lungi
dall’essere stata concretamente introdotta, e tanto meno attribuita ai
ricorrenti quando è intervenuta la norma che ha abrogato tale qualifica; sicché
tra questa e quella non si può ravvisare un effettivo conflitto». Quest’ultima
sentenza del TAR Lazio fu appellata davanti al Consiglio di Stato, odierno
rimettente, lamentandosi, da parte degli appellanti funzionari
dell’amministrazione della giustizia, l’incostituzionalità dell’art. 5, comma
13, del d.l. n. 95 del 2012.
1.2.– Quanto
alla non manifesta infondatezza delle questioni, il Consiglio di Stato, dopo
avere asserito che la disposizione impugnata «si inserisce nell’ottica della
riduzione di spesa della pubblica amministrazione (c.d. spending review)», afferma anzitutto di non
condividere le menzionate argomentazioni del TAR circa la manifesta
infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma
13, del d.l. n. 95 del 2012, sollevate dai ricorrenti.
Al riguardo,
il Consiglio di Stato, dopo avere evidenziato che l’impugnata disposizione soppressiva della vicedirigenza è
stata emanata a distanza di dieci anni dall’introduzione di tale istituto e di
cinque anni dalla formazione del giudicato, nonché «solo dopo la notificazione
della sentenza del T.a.r. del Lazio», afferma che in
«Questo quadro temporale l’asserita urgente soppressione dell’istituto della vicedirigenza appare visibilmente connessa, con un legame
eziologico tipo causa-effetto, alla nomina del commissario ad acta». Ciò renderebbe «evidente» – sempre ad avviso del giudice
rimettente – «L’intento elusivo del giudicato» e «obiettivo» il dubbio che la
disposizione impugnata sia stata dettata «con eccesso di potere legislativo e
con violazione dell’art. 101 Cost., non per regolare astrattamente la materia,
ma per incidere sulle sorti del procedimento giurisdizionale in corso».
Tanto
precisato in ordine alle ragioni della mancata condivisione delle anzidette
argomentazioni del TAR Lazio, il Consiglio di Stato passa a illustrare le
ragioni che lo inducono a dubitare della legittimità costituzionale dell’art.
5, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012.
1.2.1.– Secondo
il Consiglio rimettente, tale disposizione violerebbe, anzitutto, gli artt. 3,
111 e 117 Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, comma 1, della CEDU e
all’art. 1 del Protocollo addizionale alla stessa.
Ad avviso del
giudice rimettente, l’art. 5, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012, avrebbe
vulnerato «il diritto di difesa» dei ricorrenti, «esercitato con la
proposizione dell’azione e soddisfatto con le pronunce di accoglimento delle
domande, nonché con l’inizio dell’esecuzione», e il principio di effettività
della tutela giurisdizionale, «alterando la regolamentazione degli interessi
stabilita da sentenze esecutive».
Sarebbe
altresì violato, «Sotto un ulteriore profilo», l’art. 3 Cost., in quanto «la
scelta operata dal legislatore appare irragionevole e arbitraria, dato che la
legge-provvedimento ha finito per incidere su un numero determinato e limitato
di persone».
Il rimettente
rammenta poi come la Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU) abbia
«ritenuto contrastanti con l’art. 6 della CEDU e con l’art. 1 del Protocollo
aggiuntivo l’introduzione da parte dello Stato Italiano di norme interpretative
retroattive incidenti in senso sfavorevole ai ricorrenti sui giudizi in corso»
(è citata, in particolare, la sentenza 7 giugno 2011, Agrati e altri contro Italia).
Secondo il
Consiglio di Stato, nel caso di specie sarebbe incontestabile il contrasto
dell’impugnato art. 5, comma 13, con l’art. 6 della CEDU e con l’art. 1 del
Protocollo addizionale alla stessa, atteso che detta disposizione, «nel
sopprimere retroattivamente ogni effetto prodotto dal giudicato ha influenzato
l’esito del giudizio, privando, nel corso dell’esecuzione, il commissario ad acta dei poteri assegnatigli dal
giudice amministrativo e finalizzati all’attuazione dei precetti contenuti nel
giudicato, venendo così a violare il diritto dei ricorrenti assicurato
dall’art. 6 della CEDU a un processo equo,
ispirato alla parità tra le parti e alla preminenza del diritto», considerato
anche che «l’esecuzione completa del giudicato costituisce un diritto
riconosciuto alla parte vittoriosa affinché non ottenga, dopo anni di battaglie
giudiziarie, una soddisfazione inesistente e menomata».
Neppure si
potrebbe dubitare – sempre ad avviso del giudice rimettente – che i funzionari
ricorrenti nel giudizio a quo
disponessero di un bene suscettibile di tutela ai sensi dell’art. 1 del
Protocollo addizionale alla CEDU, tenuto conto che, secondo la giurisprudenza
della Corte EDU (è citata la sentenza
della Grande Camera, 6 ottobre 2005, Maurice contro Francia), il concetto
di beni abbraccerebbe tanto i «beni attuali» quanto le «"legittime speranze”,
posto che il riconoscimento abbia una base sufficiente nel diritto interno».
La
disposizione impugnata avrebbe quindi «comportato un’ingerenza nell’esercizio
dei diritti che i ricorrenti potevano far valere in virtù di una sentenza
passata in giudicato e della quale era in corso l’esecuzione».
Secondo il
Consiglio di Stato, infine, la rilevata violazione degli invocati parametri
interposti offrirebbe «sicuro fondamento al sospetto di incostituzionalità […]
per conflitto con il comma primo e secondo dell’art. 111 della Costituzione».
1.2.2.– Secondo
il giudice rimettente, l’art. 5, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012, violerebbe
poi gli artt. 3, 24, 97, 101 e 113 Cost.
Il Consiglio
di Stato afferma che la disposizione impugnata costituisce un «tipico caso di
legge-provvedimento», avendo «introdotto una specifica previsione a contenuto
particolare e concreto, inequivocabilmente diretta ad interferire in termini
ostativi sull’esecuzione del giudicato formatosi sulla sentenza n. 4266/07».
Il giudice
rimettente argomenta in proposito che, se è vero che la Corte costituzionale ha
affermato l’insussistenza di un divieto di adozione di leggi con un contenuto
particolare e concreto, la stessa Corte avrebbe tuttavia precisato che tali
leggi «sono ammissibili entro limiti sia specifici, quale è quello del rispetto
della funzione giurisdizionale in ordine alle cause in corso, sia generali, e
cioè del principio della ragionevolezza e non arbitrarietà» (sono citate le sentenze n. 346 del
1991 e n.
143 del 1989, nonché l’ordinanza n. 495 del
1995). Lo stesso rimettente afferma ancora che la Corte costituzionale, «in
un caso simile a quello in questione», con la sentenza n. 374 del
2000, avrebbe censurato le disposizioni «il cui intento non sia quello di
stabilire una regola astratta, ma di incidere su di un giudicato».
Nel caso di
specie, la «palese incidenza sulla res
iudicata esclude che la disposizione operi soltanto sul piano normativo perché
[…] disvela in modo incontestabile la volontà di scavalcare il giudicato».
Il rimettente
afferma ancora che, secondo la Corte costituzionale, ai fini dello scrutinio di
costituzionalità, sarebbe decisiva la valutazione delle circostanze temporali in
cui si inserisce un intervento legislativo (è citata la sentenza n. 267 del
2007).
Secondo il Consiglio di Stato, da «quanto
esposto e considerato», deriverebbe il contrasto dell’art. 5, comma 13, del
d.l. n. 95 del 2012, anche con l’art. 24 Cost., che garantisce la tutela dei
diritti e degli interessi legittimi e che «fa divieto alla legge di incidere
e/o modificare questioni coperte dal giudicato».
Sempre ad
avviso del rimettente, la disposizione censurata, «mirando ad evitare che sia
data esecuzione ad una sentenza definitiva ed esecutiva», violerebbe inoltre i
principi di imparzialità e di buon andamento dell’amministrazione, nonché il
principio del legittimo affidamento del cittadino, di cui agli artt. 3 e 97
Cost.
1.2.3.– L’impugnato
art. 5, comma 13, violerebbe infine gli artt. 102, primo comma, e 103, primo
comma, Cost., i quali attribuiscono l’esercizio della funzione giurisdizionale
ai magistrati ordinari e amministrativi «per la tutela neutrale dei diritti e
degli interessi legittimi», atteso che esso, «vanificando gli effetti di una
pronuncia giurisdizionale divenuta intangibile, ha invaso l’area riservata alla
funzione giurisdizionale, vulnerando il principio della divisione dei poteri
giurisdizionali e normativi».
1.3.– Quanto
alla rilevanza delle sollevate questioni, il giudice rimettente afferma che,
mentre nel caso di dichiarazione di non fondatezza delle stesse «la
controversia dovrebbe essere decisa in maniera conforme a quanto stabilito dal
giudice di prime cure», qualora il censurato art. 5, comma 13, fosse, invece,
dichiarato incostituzionale «i ricorrenti risulterebbero soddisfatti dalla
pronuncia di questo Consiglio».
Lo stesso
rimettente asserisce inoltre non esservi dubbio in ordine alla titolarità, in
capo agli appellanti, di un «interesse all’esatta ottemperanza alle statuizioni
contenute nell’originario dictum giurisdizionale […], che comporterebbe evidenti
riflessi sul patrimonio degli stessi», nonché al fatto che tale interesse sia
«meritevole di tutela in sede giurisdizionale».
2.– Con atto depositato il 14 ottobre 2014, si sono costituiti nel giudizio
centoventuno dei funzionari dipendenti del Ministero della giustizia ricorrenti
nel giudizio a quo, chiedendo che
l’impugnato art. 5, comma 13, sia dichiarato incostituzionale per violazione
degli artt. 3, 24, primo comma, 97, primo comma, 101, primo comma, 102, primo
comma, 103, primo comma, 104, primo comma, 111, primo e secondo comma, 113,
primo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6
della CEDU e all’art. 1 del Protocollo addizionale alla stessa.
2.1.– I ricorrenti nel giudizio a quo
deducono, anzitutto, la rilevanza delle questioni.
Come già
ritenuto dal rimettente Consiglio di Stato, la decisione della Corte
costituzionale sulle stesse inciderebbe infatti sull’esito del giudizio
principale in quanto, poiché «la pronuncia di improcedibilità dell’esecuzione
traeva illegittimo fondamento dal viziato art. 5, comma 13, del D.L. 95/2012
[…], in ipotesi di dichiarazione dell’incostituzionalità [dello stesso] non
potrebbe frapporsi alcuna preclusione all’esecuzione del giudicato formatosi
sulle sentenze n. 4266/2007 e n. 4391/2012».
2.2.– Quanto al merito, le parti costituite espongono anzitutto le ragioni
della violazione degli artt. 111, primo e secondo comma, e 117, primo comma,
Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 della CEDU e all’art. 1 del
Protocollo addizionale alla stessa.
A tale
riguardo, esse affermano che la «successione temporale» – alla quale fa
riferimento, come si è visto, anche l’ordinanza di rimessione – dimostra che
«lo scopo della prescrizione soppressiva era […] lo svuotamento del contenuto
precettivo del giudicato formatosi sulla sentenza 4266/07 e, per di più, con
effetto sostanzialmente retroattivo», sicché la stessa prescrizione sarebbe
stata posta «non per regolare astrattamente la materia, ma per incidere sulle
sorti del procedimento giurisdizionale in corso».
Da ciò –
secondo le parti costituite – il contrasto con gli artt. 111, primo comma, e
117, primo comma, Cost., in relazione ai menzionati parametri interposti, come
interpretati dalla Corte EDU.
Ad avviso
degli intervenienti, alla luce della giurisprudenza di tale Corte e della Corte
costituzionale, sarebbe incontestabile il contrasto dell’impugnato art. 5,
comma 13, con l’art. 6 della CEDU e con l’art. 1 del Protocollo addizionale
alla stessa.
Quanto al
primo dei detti parametri interposti, le parti costituite affermano, in
particolare, che la disposizione censurata vìola, sia il diritto dei ricorrenti
«a un processo equo osservante della preminenza del diritto», atteso che, «nel
sopprimere con effetto sostanzialmente retroattivo, a mezzo dell’espediente
dell’abrogazione dell’art. 17 bis D.Lgs. 165/01, ogni effetto prodotto dal giudicato
formatosi sulla sentenza 4266/07 ha influenzato l’esito del giudizio con
l’arbitrariamente deprivare, nel corso dell’esecuzione, il commissario "ad acta” dei poteri assegnatigli dal
giudice per la concreta attuazione dei precetti contenuti nel giudicato», sia
«l’obbligo della parità delle armi».
Quanto al
parametro interposto dell’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, esso
sarebbe, in specie, violato in quanto «il sacrificio imposto ai ricorrenti
dalla perdita definitiva della vicedirigenza appare
sproporzionato […] atteso che il giudicato formatosi sulla sentenza n.
4391/2012 aveva chiaramente circoscritto gli effetti della pronunzia
esclusivamente nei confronti degli istanti, assommanti a 346 unità», sicché
difetterebbe, nella specie, tenuto conto dell’esiguità del numero dei detti
dipendenti, qualsiasi esigenza di «tutelare un prevalente interesse generale di
carattere finanziario dello stato (motivo imperativo di carattere generale)».
Nella stessa prospettiva, dovrebbe altresì considerarsi che la contrattazione
collettiva avrebbe potuto limitarsi, in prima battuta, all’istituzione della
separata area della vicedirigenza, graduandone, poi,
nel tempo, i benefici economici, in armonia con le cadenze della contrattazione
collettiva nazionale e tenendo conto delle esigenze finanziarie dello Stato. In
assenza di un conflitto tra l’esecuzione del giudicato ed eventuali preminenti
ragioni di interesse generale, non dimostrate né dimostrabili, ne conseguirebbe
che l’ingerenza nel diritto al rispetto dei propri beni realizzata
dall’impugnato art. 5, comma 13, non rispetta il giusto equilibrio – richiesto
dalla Corte EDU con riguardo alle ingerenze di tale tipo – tra le esigenze
dell’interesse generale della comunità e gli imperativi della salvaguardia dei
diritti dell’uomo.
Gli argomenti
addotti a sostegno del contrasto con i menzionati parametri convenzionali
interposti offrirebbero, poi, «sicuro fondamento» alla denunciata lesione
dell’art. 111, primo e secondo comma, Cost., tenuto conto che «la novella si è
sovrapposta alla giurisdizione ed ha radicalmente eliminato la condizione di
parità davanti a un giudice imparziale e terzo».
2.3.– Secondo le parti costituite, la disposizione impugnata contrasterebbe,
inoltre, con gli artt. 3, 24, primo comma, 97, primo comma, 101, primo comma,
102, primo comma, 103, primo comma, 104, primo comma, e 113, primo comma, Cost.
Al riguardo, i
ricorrenti nel giudizio a quo, dopo
avere ribadito che la «sequenza temporale» nella quale si colloca la
disposizione impugnata dimostrerebbe come essa «sia chiaramente finalizzata ad
impedire di dare esecuzione al giudicato formatosi sulla sentenza 4266/07 sez.
I T.A.R. Lazio e di sopprimere e/o paralizzare gli effetti della successiva
sentenza 4391/2012», affermano che tale «peculiare antigiuridica finalità […]
conforma la norma come legge provvedimento».
La difesa
delle parti costituite, nel richiamare la giurisprudenza della Corte
costituzionale in materia di leggi-provvedimento (sono citate le sentenze n. 267 del
2007, n. 374
del 2000, n.
492 del 1995, n.
346 del 1991 e n. 143 del 1989),
afferma ancora che, dato che l’impugnato art. 5, comma 13, ha alterato la regolamentazione
di interessi stabilita da una sentenza definitiva e dalla consequenziale
sentenza di ottemperanza, «l’intento del legislatore non può ritenersi diretto
alla creazione di una regola astratta bensì […] ad incidere sul giudicato al
fine di precluderne l’esecuzione», e che tale incidenza sul giudicato «esclude
che la disposizione operi soltanto sul piano normativo perché […] disvela in
modo incontestabile l’intento del legislatore di interferire su questioni
coperte da giudicato».
Dalle riportate
considerazioni, risulterebbe la violazione anche dell’art. 24, primo comma,
Cost., che, assicurando «il diritto di chiunque ad ottenere una pronunzia
giurisdizionale stabile e definitiva sul rapporto controverso», vieterebbe
«alla legge (rectius
legge-provvedimento) di incidere e/o modificare questioni coperte dal
giudicato».
Per le
medesime ragioni, l’impugnato art. 5, comma 13, contrasterebbe anche con l’art.
113, primo comma, Cost., atteso che la garanzia della tutela giurisdizionale
assicurata da tale disposizione costituzionale è stata «radicalmente elisa
dalla sopravvenuta novella abrogativa che ha inteso eliminare dalla realtà
giuridica il giudicato in controversia». Sempre ad avviso degli intervenienti,
«In tale prospettazione è leso anche l’affidamento dei ricorrenti fondato
sull’ottenuto definitivo riconoscimento giurisdizionale dei propri diritti ed
interessi».
La
disposizione impugnata violerebbe anche gli artt. 102, primo comma, e 103,
primo comma, Cost., in quanto, vanificando arbitrariamente gli effetti di una
pronuncia giurisdizionale definitiva, ha «invaso l’area riservata alla funzione
giurisdizionale in manifesta effrazione del principio della divisione dei
poteri giurisdizionali e normativi».
Sarebbe,
altresì, leso, l’art. 104, primo comma, Cost., in quanto la disposizione
impugnata «ha violato l’autonomia e l’indipendenza della magistratura per aver
sovrapposto alla pronunzia giurisdizionale definitiva una prescrizione diretta
ad eludere gli effetti del giudicato e l’esecuzione di esso».
Le parti
costituite richiamano poi, in conclusione, le ragioni di censura prospettate
dall’ordinanza di rimessione.
3.– Con atto depositato il 14 ottobre 2014, è intervenuto nel giudizio il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate
inammissibili o infondate.
3.1.– Secondo la difesa statale, sussisterebbero, anzitutto, plurime ragioni di
inammissibilità delle dette questioni.
3.1.1.– Queste sarebbero inammissibili, in primo luogo, per irrilevanza.
Il giudice
rimettente, «lungi dallo specificare puntualmente i profili in virtù dei quali
[la questione] inerirebbe al pertinente scandaglio, […] fumosamente individua tali
aspetti». Inoltre sarebbe da escludere che l’eventuale pronuncia di
incostituzionalità comporti l’attuazione sicura della vicedirigenza.
3.1.2.– Le questioni sollevate sarebbero inammissibili, in secondo luogo, «sotto
il profilo della valutazione della […] non manifesta infondatezza».
La difesa
dello Stato fonda tale eccezione sulla considerazione di come l’ordinanza di
rimessione «in modo generico e impreciso si dilunghi […] senza, alla fine, lasciar
affiorare dove realmente le norme denunciate sarebbero incostituzionali e quali
sarebbero i parametri costituzionali in ordine ai quali concretamente
affiorerebbe la frizione».
3.1.3.– Sempre ad avviso della difesa statale, l’inammissibilità delle questioni
deriverebbe, in terzo luogo, dal «difetto di motivazione dell’ordinanza di
rimessione».
A sostegno di
tale eccezione, l’Avvocatura generale dello Stato asserisce che il rimettente
«si è limitato ad evidenziare quelli che ritiene essere i vizi di costituzionalità
della norma da applicare, esprimendo sic
et simpliciter un positivo convincimento nel senso della fondatezza»,
senza, tuttavia, essersi «impegnato a dimostrare la ragionevolezza oggettiva di
quello che si palesa come un dubbio meramente soggettivo».
Tali carenze
dell’ordinanza di rimessione sarebbero esemplificate, in particolare, dalla
motivazione delle questioni sollevate in riferimento agli artt. 102, primo
comma, e 103, primo comma, Cost.
3.1.4.– Secondo la difesa statale, le questioni sarebbero inammissibili, infine,
anche perché il rimettente avrebbe omesso di esplorare la possibilità di dare
un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata,
tale da escludere la necessità di sollevarle.
3.2.– Ad avviso del Presidente del Consiglio dei ministri, le questioni
sollevate sarebbero, comunque, infondate.
3.2.1.– La difesa dello Stato nega, in primo luogo, che l’impugnato art. 5, comma
13, contrasti con gli artt. 3, 111, primo e secondo comma, e 117, primo comma,
Cost.
Essa deduce al
riguardo che la disposizione impugnata «è diretta, attraverso lo strumento
dell’interpretazione autentica, non già ad incidere su concreti procedimenti
giudiziari in corso al fine di determinarne gli esiti quanto a regolamentare,
in via generale ed astratta, una materia, con la conseguente soppressione di
una disposizione in materia di ordinamento del personale statale e sacrificio
per tutto il settore del pubblico impiego». La ratio della norma in questione sarebbe da rintracciare nell’esigenza
di contenere la spesa pubblica.
Dovrebbe
quindi escludersi – sempre ad avviso della difesa statale – la sussistenza
della denunciata lesione dell’art. 6 della CEDU (e, di conseguenza, dell’art.
117, primo comma, Cost.). Con specifico riguardo al detto parametro interposto,
la difesa dello Stato asserisce che la Corte costituzionale avrebbe in diverse
occasioni affermato che la CEDU non esclude radicalmente la possibilità che le
leggi, operando retroattivamente, incidano sull’andamento dei giudizi in corso,
quando ricorrano esigenze di ordine pubblico o motivi imperativi di interesse
generale (sono citate le sentenze n. 264
e n. 15 del 2012,
n. 303, n. 236 e n. 93 del 2011,
n. 317 e n. 311 del 2009,
n. 362 e n. 172 del 2008).
Ne seguirebbe che i «valori» della certezza del diritto e del legittimo
affidamento potrebbero essere «ragionevolmente e proporzionalmente
sacrificati», là dove gli interventi che tale sacrificio prevedono «risultino
finalizzati a soddisfare imperiose ed indifferibili esigenze di bilancio». Non
potrebbe allora revocarsi in dubbio che la «garanzia di tenuta dei conti
pubblici» costituisca, nella specie, un motivo imperativo di interesse
generale, ai sensi dell’art. 6 della CEDU, tale da giustificare la misura
dell’impugnato art. 5, comma 13.
La stessa
censurata disposizione corrisponderebbe, del resto – sempre secondo
l’Avvocatura generale dello Stato – alla definizione di «interesse finanziario»
dello Stato elaborata dalla Corte EDU (sono citate le sentenze 25 novembre 2010,
Lilly contro Francia, e 21 giugno 2007, Scanner de l’Ouest Lyonnais e altri contro Francia).
Del pari
insussistente sarebbe la denunciata lesione dell’art. 1 del Protocollo
addizionale alla CEDU, atteso che l’impugnato art. 5, comma 13, non avrebbe
determinato «alcuna effettiva incidenza su statuizioni giuridiche entrate nel
patrimonio dei ricorrenti sulla base delle norme abrogate». Secondo la difesa
statale, infatti, queste ultime «regolamentavano unicamente la sequenza
procedimentale (costituita da atti amministrativi generali e da disposizioni
collettive) finalizzata soltanto all’istituzione dell’area della vicedirigenza e alla fissazione dei relativi criteri di
accesso ma senza attribuire, di per sé, alcun diritto soggettivo in capo agli
appartenenti alle qualifiche astrattamente idonee ad accedervi».
3.2.2.– Quanto al denunciato contrasto con gli artt. 3, 24, 97, 101 e 113 Cost.,
la difesa statale afferma che la disposizione impugnata non ha «alcuna valenza
di tipo provvedimentale, essendo […] finalizzata a
una riorganizzazione di tipo generale della struttura organizzativa del
personale pubblico (mediante soppressione dell’area della vicedirigenza)
e non incidendo la stessa su nessun atto amministrativo, attesa la mancata
attuazione delle disposizioni abrogate».
3.2.3.– L’Avvocatura generale dello Stato esclude infine che una disposizione che
– come quella impugnata – abroghi una norma applicabile in un giudizio in
corso, possa ledere la sfera di attribuzione giurisdizionale costituzionalmente
riservata alle magistrature ordinaria e amministrativa e violare, quindi, gli
artt. 102 e 103 Cost., tenuto anche conto che «l’attribuzione per legge ad una
norma di un determinato significato non lede la potestas iudicandi, ma definisce e delimita la
fattispecie normativa che è oggetto della potestas medesima» (così sentenza n. 15 del
2012 e ordinanza
n. 92 del 2014 della Corte costituzionale, già citate).
4.– Con atto depositato il 9 ottobre 2014, sono intervenuti nel giudizio duecentosettantatré «dipendenti dello Stato, inquadrati da
oltre cinque anni come funzionari» dei Ministeri della giustizia, dell’interno,
della difesa, dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, delle
politiche agricole alimentari e forestali, dello sviluppo economico,
dell’economia e delle finanze «ed altri» e «quindi pubblici dipendenti di Area
III (ex qualifica C2 e superiori)
destinatari della normativa a suo tempo prevista dall’art. 17/bis del D.lgs. 165/2001», i quali hanno
chiesto che, previa declaratoria di ammissibilità del proprio intervento, le
questioni sollevate siano dichiarate fondate.
5.– Con atto depositato il 14 ottobre 2014, è intervenuta nel giudizio la Dirpubblica (Federazione del pubblico impiego) chiedendo
che le questioni siano dichiarate fondate.
6.– In
prossimità della pubblica udienza, i costituiti centoventuno funzionari
dipendenti del Ministero della giustizia ricorrenti nel giudizio a quo hanno depositato una memoria.
6.1.– Dopo
avere affermato l’infondatezza delle eccezioni di inammissibilità prospettate
dall’Avvocatura generale dello Stato nel proprio atto di intervento, la difesa
delle dette parti passa a illustrare il merito delle questioni.
6.1.1.– Quanto
a quelle sollevate in riferimento agli artt. 111, primo comma, e 117, primo
comma, Cost., la detta difesa premette che le circostanze temporali in cui è
stato emanato l’impugnato art. 5, comma 13, dimostrerebbero che quest’ultimo
costituisce una legge-provvedimento «con portata retroattiva, avente l’unico
illegittimo scopo di eludere il giudicato ed evitare l’esecuzione di una
sentenza passata in giudicato che avrebbe dovuto comportare l’istituzione della
vicedirigenza» e non – come reputato dalla difesa
dello Stato – una legge «generale ed astratta di mera interpretazione»
autentica diretta a chiarire il significato di una precedente disposizione di
legge.
6.1.2.– La
difesa delle parti costituite compie poi un’ampia rassegna della giurisprudenza
della Corte EDU relativa al contrasto con l’art. 6 CEDU, in relazione ai
principi del giusto processo e della parità delle armi, delle leggi civili
retroattive (talora, di interpretazione autentica) con le quali lo Stato
interferisce su giudizi in corso dei quali è parte.
La stessa
difesa riconosce, peraltro, che, secondo la Corte EDU, l’ingerenza del
legislatore nelle controversie pendenti in cui lo Stato è parte è ammessa
quando sussistano imperativi motivi d’interesse generale. Anche in ordine a
tale aspetto, sono citate numerose pronunce della detta Corte dalle quali
risulterebbe, in sintesi, che «l’intervento del legislatore può essere
giustificato in presenza di motivi imperativi di interesse generale,
riconosciuti però esistenti solo laddove occorra garantire conformità
all’intenzione originaria del legislatore, correggere un errore tecnico di
formulazione della legge o in presenza di ragioni storiche epocali di portata
generale (dunque solo in caso di L. di interpretazione autentica). Per contro,
tali motivi non sussistono quando sono invocate mere esigenze di carattere
economico finanziario dello Stato».
La difesa
delle parti costituite menziona inoltre alcune pronunce nelle quali la Corte
costituzionale «utilizza congiuntamente i parametri di giudizio che derivano
dalla Costituzione nazionale e quelli di derivazione convenzionale nei […]
giudizi riguardanti le leggi retroattive»; in particolare, le sentenze n. 191 del
2014, n. 170
del 2013, n.
78 del 2012 e n.
209 del 2010.
Sulla base di
tali orientamenti giurisprudenziali, la detta difesa afferma conclusivamente
sul punto che l’impugnato art. 5, comma 13, «nel sopprimere con effetto
sostanzialmente retroattivo, a mezzo dell’espediente dell’abrogazione dell’art.
17 bis D.Lgs.
165/01, il giudicato formatosi sulla sentenza 4266/07 ha influenzato l’esito
del giudizio deprivando, nel corso dell’esecuzione, il commissario ad acta dei poteri assegnatigli dal
giudice ai fini dell’attuazione dei precetti contenuti nel giudicato, finendo
di violare in tal guisa il diritto dei ricorrenti assicurato dall’art. 6 CEDU a
un processo equo osservante del principio di preminenza del diritto. Peraltro,
la norma [impugnata] è intervenuta mentre era in corso l’esecuzione nei termini
stabiliti dalla sentenza 4391/01 [recte: 4391/2012], violando manifestamente l’obbligo della
parità delle armi sancito dall’art. 6 CEDU».
L’addotta
motivazione del censurato intervento legislativo sarebbe, del resto,
insufficiente a giustificarne la portata retroattiva, atteso che, alla luce
della citata giurisprudenza della Corte EDU, la necessità del contenimento
della spesa pubblica non costituisce un motivo di interesse generale
suscettibile di legittimare l’ingerenza del legislatore nell’esecuzione di una
sentenza passata in giudicato. Inoltre, nessuna valutazione sarebbe stata
operata, né informazione sarebbe stata fornita, in ordine al costo
dell’eventuale esecuzione del detto giudicato e a come la stessa potrebbe
incidere sulla possibilità di rispettare i vincoli di bilancio imposti
dall’Unione europea e il principio dell’equilibrio del bilancio previsto dal
primo comma dell’art. 81 Cost., come sostituito dall’art. 1, comma 1, della
legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1 (Introduzione del principio del
pareggio di bilancio nella Carta costituzionale).
6.1.3.– La
difesa delle parti costituite passa poi a illustrare il contrasto della
disposizione impugnata con l’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU,
insistendo, anzitutto, sul fatto che, secondo la Corte EDU, i beni ai quali
tale disposizione fa riferimento non devono essere intesi in senso solo
materiale, ma comprendono un’aspettativa legittima (espérance legitime), purché il titolare della
stessa dimostri che essa ha una base sufficientemente riconosciuta dal diritto
interno (sono citate, al riguardo, le sentenze 12 luglio 2001,
Principe Hans-Adam II del Liechtenstein contro Repubblica Ceca,
paragrafi 82 e 83; 10
luglio 2002, Gratzinger e Gratzingerova contro Repubblica Ceca,
paragrafo 69; 6 ottobre
2005, Maurice contro Francia, paragrafo 63), nonché un
legittimo affidamento (è citata la sentenza 29 novembre 1991,
Pine Valley Developments Ltd e altri contro Irlanda, paragrafo
51).
La stessa
difesa sottolinea che la giurisprudenza della Corte EDU ha anche stabilito che
non è necessario che il ricorrente sia in possesso di uno specifico atto
giuridico che giustifichi la sua pretesa, essendo sufficiente, a tale fine,
anche una giurisprudenza costante delle corti nazionali.
In particolare
la sentenza Agrati è citata anche a proposito del requisito, pure
richiesto dalla Corte EDU ai fini della legittimità dell’intervento legislativo
statale, della proporzionalità del pregiudizio da questo recato alla proprietà
(paragrafo 83).
La difesa delle
parti costituite afferma quindi che sono tutelati dall’art. 1 del Protocollo
aggiuntivo alla CEDU non solo i beni attuali ma anche le «legittime speranze»,
essendo sufficiente che queste abbiano una base nel diritto interno o siano
confermate da una giurisprudenza «espressa» degli organi giudicanti.
Nel caso di
specie, si sarebbe «ben al di là del concetto di "legittime speranze”», atteso
che «gli odierni ricorrenti sono titolari del diritto alla totale esecuzione
della sentenza passata da […] anni in giudicato».. La sentenza del TAR Lazio n.
4266 del 2007 avrebbe, in effetti, «irrevocabilmente riconosciuto agli istanti
la pretesa ad ottenere la qualifica di vicedirigente, la pretesa ad ottenere
l’emanazione dell’atto di indirizzo all’ARAN, nonché la pretesa di ottenere la
definizione contrattuale del trattamento […] economico corrispondente alla
qualifica acquisita di vicedirigente».
Risulterebbe,
in definitiva, evidente, da quanto precede, che, con la retroattiva
disposizione impugnata, «i ricorrenti sono stati illegittimamente espropriati
di una loro pretesa legittima, ovverosia di ottenere la qualifica di
vicedirigente e conseguentemente di vedersi contrattualmente riconosciuto il
corrispondente trattamento economico nel quadro delle disponibilità finanziarie
destinate a sostegno dei costi della negoziazione collettiva pubblica».
6.1.4.– La
difesa delle parti costituite osserva ancora che la Corte EDU asserisce che,
pur quando venga individuato un interesse generale che potrebbe legittimare
l’interferenza dello Stato nei giudizi in corso, «l’amministrazione deve
procedere, in seconda battuta, ad un ‘test di proporzionalità’, il quale impone
che venga individuato un congruo equilibrio tra "l’interesse generale della
comunità e le condizioni di protezione dei diritti fondamentali
dell’individuo”» (così la sentenza
29 marzo 2006, Scordino contro Italia,
paragrafo 93).
Nella specie,
anche a voler prescindere dall’assenza o insufficienza di un interesse pubblico
idoneo a giustificare il censurato intervento retroattivo «elusivo del
giudicato», la disposizione impugnata sarebbe comunque sproporzionata rispetto
al «presunto» fine del contenimento della spesa pubblica, come risulterebbe
evidente dal fatto che la sentenza del TAR Lazio n. 4391 del 2012 aveva
chiaramente circoscritto i propri effetti agli «istanti», cioè a soli
trecentoquarantasei funzionari, con la conseguente impossibilità, data
l’esiguità di tale numero, che fosse inficiato «l’equilibrio finanziario della
spesa complessiva che affronta lo Stato per i dipendenti ministeriali».
Da quanto
precede discenderebbe che l’impugnato art. 5, comma 13, deve considerarsi
«"sproporzionato” rispetto al fine di rispettare i vincoli di bilancio interni
e dunque incompatibile con l’art. 117, comma 1, Cost., in relazione agli artt.
6, CEDU e art. 1 protocollo 1, CEDU».
6.1.5.– La
difesa delle parti costituite procede di seguito a illustrare i profili di
censura che si appuntano sulla natura di legge-provvedimento dell’impugnato
art. 5, comma 13.
Dopo avere
richiamato la giurisprudenza della Corte costituzionale relativa ai criteri da
seguire ai fini della qualificazione di una disposizione come
legge-provvedimento (sono citate, al riguardo, le sentenze n. 20 del
2012, n. 48
e n. 270 del
2010, n. 94
e n. 137 del
2009, n. 288
del 2008, n.
2 e n. 267
del 2007, n.
429 del 2002, n.
185 del 1998, n.
248 del 1995, n.
346 del 1991, n.
143 del 1989, n.
60 del 1957), la detta difesa afferma che, essendo evidente, alla luce della
più volte sottolineata successione temporale, che l’abrogazione dell’art. 17-bis del d.lgs. n. 165 del 2001 era
«finalizzata ad impedire l’esecuzione al giudicato formatosi sulla sentenza
4266/07 […] e a sopprimere gli effetti della successiva sentenza 4391/2012», ne
discenderebbe che «L’illegittima e concreta finalità perseguita dal comma 13
conforma la norma come legge-provvedimento. Infatti, il comma 13 dell’art. 5
D.L. n. 95/2012 ha chiaramente introdotto una specifica prescrizione a
contenuto particolare e concreto, inequivocabilmente diretta ad interferire in
termini ostativi sull’esecuzione del giudicato».
Precisata la
natura di legge-provvedimento della disposizione impugnata, la difesa delle
parti afferma anzitutto che, ancorché le leggi retroattive, anche di
interpretazione autentica, non siano sempre leggi-provvedimento, alcuni dei
principi espressi dalla Corte EDU con riguardo alle prime «sembrano adattarsi
perfettamente anche alle leggi provvedimento, ed in particolare alle leggi
sostitutive di provvedimento giurisdizionale» (la Corte costituzionale, nella sentenza n. 374 del
2000, avrebbe chiarito che, in alcune circostanze, una legge interpretativa
può avere un contenuto provvedimentale). Nella
specie, poiché la disposizione impugnata «ha finito […] per influenzare l’esito
giudiziario di controversie pendenti», sarebbe possibile – sempre secondo la
difesa degli intervenienti – invocare la citata giurisprudenza della Corte EDU
«per ottenere una pronuncia di incostituzionalità per violazione dell’art. 117,
co. 1, Cost., in relazione all’art. 6, CEDU e all’art. 1, Protocollo 1, CEDU».
Oltre a
violare gli anzidetti parametri convenzionali, l’impugnata legge-provvedimento
contrasterebbe anche con «ulteriori parametri costituzionali interni».
Posta la
preclusione che «il contenuto di una legge si sostituisca e si sovrapponga ad
un atto giurisdizionale divenuto definitivo», sicché, «all’interno del genus "leggi
dettate in sostituzione del provvedimento giudiziario” paiono rientrare
certamente quegli atti normativi in grado di ledere la cosiddetta "riserva di
sentenza”», la difesa delle parti afferma che, tra le leggi che incidono su
tale riserva, «si possono far rientrare certamente quelle leggi che, pur
modificando la normativa sostanziale, incidono retroattivamente e in modo
diretto su una o più questioni passate in giudicato (come successo esattamente
nel caso di specie […])».
Tali leggi
sarebbero lesive della «riserva di funzione giudiziaria prevista dalla
Costituzione», come sarebbe confermato dalle sentenze della
Corte costituzionale n. 354 del 2010, n. 374 del 2000
e n. 123 del
1987, ciascuna declaratoria dell’illegittimità costituzionale di una «legge
sostitutiva di provvedimento giurisdizionale».
La difesa
delle parti afferma ancora che, dalle sentenze della
Corte costituzionale n. 123 del 1987 e n. 70 del 1983,
si trae, tra gli altri principi (poi tutti costantemente ribaditi dalla
giurisprudenza successiva; sono citate, al riguardo, le sentenze n. 277 del
2012, n. 303
del 2011, n.
354 e n. 209
del 2010, n.
94 del 2009, n.
170 del 2008, n.
364 del 2007, n.
352 del 2006, n.
26 del 2003, n.
525 del 2000, n.
211 e n. 185
del 1998, n.
492 e n. 15 del
1995, n. 263
e n. 6 del 1994,
n. 480 e n. 455 del 1992
e n. 91 del 1988),
quello – posto in evidenza dalla stessa difesa – secondo cui «Solo la
violazione di un giudicato operata da una legge che ponga nel nulla gli effetti
di una sentenza definitiva può incidere sulla "riserva di giurisdizione”». È,
infine, nuovamente citata la sentenza n. 267 del
2007, con la quale la Corte costituzionale «ha ritenuto, non essendo ancora
decorso il termine per la formazione del giudicato formale, di dover dichiarare
l’incostituzionalità della norma per violazione del canone di ragionevolezza».
Sulla scorta
di tali considerazioni, la difesa delle parti ribadisce l’illegittimità
costituzionale dell’art. 5, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012, «per aver
vanificato i diritti ad una effettiva tutela giurisdizionale dei ricorrenti e
per aver invaso una sfera di attribuzioni […] conferita dalla Costituzione alla
magistratura» e, in particolare, la violazione, da parte di detta impugnata
disposizione, degli artt. 24 e 113, primo comma, Cost., e degli artt. 102,
primo comma, 103, primo comma, e 104, primo comma, Cost.
6.2.– La
difesa delle parti costituite conclude chiedendo alla Corte costituzionale di
dichiarare ammissibili e fondate le questioni sollevate.
7.– In
prossimità della pubblica udienza, anche la Dirpubblica
ha depositato una memoria con la quale ha ribadito gli argomenti a favore
dell’ammissibilità del proprio intervento.
Considerato in diritto
1.– Il
Consiglio di Stato ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 97, 101, 102,
primo comma, 103, primo comma, 111, primo e secondo comma, 113 e 117, primo
comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 (CEDU) e all’art. 1 del
Protocollo addizionale alla stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952 – atti
entrambi ratificati e resi esecutivi con la legge 4 agosto 1955, n. 848
(Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del
Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo
1952) – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 13, del
decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della
spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di
rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 135.
1.1.– Il
citato art. 5, comma 13, ha disposto l’abrogazione dell’art. 17-bis del decreto legislativo 30 marzo
2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche) – aggiunto a tale decreto dall’art. 7, comma 3,
della legge 15 luglio 2002, n. 145 (Disposizioni per il riordino della
dirigenza statale e per favorire lo scambio di esperienze e l’interazione tra
pubblico e privato) e successivamente modificato dall’art. 14-octies, comma 1, del d.l. 30 giugno
2005, n. 115 (Disposizioni urgenti per assicurare la funzionalità di settori
della pubblica amministrazione), convertito, con modificazioni, dall’art. 1,
comma 1, della legge 17 agosto 2005, n. 168 – il quale prevedeva che la
contrattazione collettiva del comparto Ministeri disciplinasse l’istituzione di
un’apposita separata area della vicedirigenza nella
quale sarebbe stato ricompreso il personale laureato appartenente alle
posizioni C2 e C3 che avesse maturato complessivamente cinque anni di anzianità
in tali posizioni o nelle corrispondenti qualifiche VIII e IX del precedente
ordinamento (comma 1, primo periodo).
Secondo la
norma di attuazione dettata dall’art. 10, comma 3, della legge n. 145 del 2002,
la disciplina dell’istituzione dell’area della vicedirigenza
restava «affidata» alla contrattazione collettiva, da svolgersi «sulla base di
atti di indirizzo del Ministro per la funzione pubblica all’Agenzia per la
rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) anche per la
parte relativa all’importo massimo delle risorse finanziarie da destinarvi».
1.2.– Per
comprendere le ragioni delle doglianze del rimettente, è necessario
preliminarmente ripercorrere, sulla base di quanto risulta dall’ordinanza di
rimessione, i tratti salienti della vicenda processuale nel cui ambito le
questioni sono state sollevate.
In specie,
divenuta applicabile la disposizione dell’art. 17-bis, in difetto dell’adozione dei menzionati atti di indirizzo
all’ARAN, il 20 luglio 2006 trecentosettantadue funzionari, dipendenti
dell’amministrazione della giustizia, notificavano alla Presidenza del
Consiglio dei ministri, al Ministero dell’economia e delle finanze e al
Dipartimento della funzione pubblica un atto di diffida, con il quale
«sollecitavano l’emanazione della direttiva contrattuale prevista dall’art. 10,
III comma, della legge 15 luglio 2002, n. 145, per l’istituzione dell’area
della vicedirigenza».
Nel 2007, a
fronte dell’inerzia delle diffidate autorità, i detti funzionari
dell’amministrazione della giustizia proponevano ricorso, contro le stesse, al
Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, con il quale impugnavano, ai
sensi dell’art. 21-bis della legge 6
dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione dei tribunali amministrativi regionali), il
silenzio serbato dall’amministrazione sulla diffida.
Tale ricorso
fu accolto con la sentenza del TAR Lazio 10 maggio 2007, n. 4266, che,
conclusivamente, ordinò al Presidente del Consiglio dei ministri e ai Ministri
per la funzione pubblica e dell’economia e delle finanze, ciascuno per la parte
di rispettiva competenza, «di esercitare le proprie attribuzioni per
riscontrare in via definitiva l’istanza di parte ed il conseguente atto di
messa in mora entro il termine di sei mesi decorrente dalla data di notifica ad
esse della presente sentenza, che avverrà a cura della parte ricorrente». Tale
sentenza passò in giudicato.
Poiché non vi
fu prestata osservanza, il 26 luglio 2011 gli interessati depositarono
un’istanza al TAR Lazio per la nomina, ai sensi dell’art. 117, comma 3, del
decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della
legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del
processo amministrativo), di un commissario ad
acta che provvedesse agli adempimenti discendenti dalla sentenza n. 4266
del 2007 in luogo delle amministrazioni rimaste inerti.
Dopo una fase
interlocutoria, persistendo l’inerzia delle amministrazioni, il TAR Lazio
emetteva la sentenza 16 maggio 2012, n. 4391, con la quale, dopo avere rilevato
che, per dare attuazione alla sentenza n. 4266 del 2007, doveva essere
esercitato – «con specifico riferimento al personale del Ministero della
giustizia, questo essendo il limite soggettivo del giudicato» – il potere di
indirizzo nei confronti dell’ARAN, nominava commissario ad acta, «per dare pieno adempimento alle prescrizioni contenute
nella sentenza 10 maggio 2007, n. 4266», il Capo pro tempore del Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi
della Presidenza del Consiglio dei ministri. Tale sentenza n. 4391 del 2012
veniva notificata all’amministrazione il 21 giugno 2012.
A questo punto
della vicenda processuale, sopravveniva il censurato art. 5, comma 13, del d.l.
n. 95 del 2012, che – come si è detto – ha disposto l’abrogazione dell’art. 17-bis del d.lgs. n. 165 del 2001. Il
nominato commissario ad acta
trasmetteva dunque al TAR Lazio, giudice dell’esecuzione, la nota datata 12
settembre 2012 in cui faceva presente che riteneva «venuta meno ogni attività
da espletare in ottemperanza alla predetta sentenza».
Il TAR Lazio, con
la sentenza 9 novembre 2012, n. 9220, condividendo tale conclusione del
commissario ad acta, dichiarava
cessato l’incarico commissariale e
improcedibile il giudizio di ottemperanza per sopravvenuta carenza di
interesse.
Quest’ultima
sentenza del TAR Lazio era appellata davanti al rimettente Consiglio di Stato,
lamentandosi, da parte degli appellanti funzionari dell’amministrazione della
giustizia, l’incostituzionalità dell’art. 5, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012.
1.3.– Il
Consiglio rimettente muove dalla premessa che l’esposta successione cronologica
dei fatti e, in particolare, la circostanza che l’art. 5, comma 13, del d.l. n.
95 del 2012, sia stato emanato a distanza di circa dieci anni dall’entrata in
vigore dell’art. 17-bis del d.lgs. n.
165 del 2001 e di circa cinque anni dal passaggio in giudicato della sentenza
del TAR Lazio n. 4266 del 2007, solo dopo la notificazione della sentenza dello
stesso TAR n. 4391 del 2012 con la quale era stato nominato un commissario ad acta «per dare pieno adempimento alle
prescrizioni contenute nella sentenza 10 maggio 2007, n. 4266», renderebbe
palese che lo scopo realmente perseguito dalla disposizione impugnata era
quello di impedire l’attuazione del giudicato di tale sentenza, favorevole ai
ricorrenti funzionari del Ministero della giustizia.
Ciò premesso,
con un primo gruppo di censure, il rimettente deduce che l’impugnato art. 5,
comma 13, del d.l. n. 95 del 2012, lede i diritti a un giusto processo e al
rispetto dei propri beni. In particolare, sarebbe violato l’art. 6 della CEDU,
perché, «nel sopprimere retroattivamente ogni effetto prodotto dal giudicato ha
influenzato l’esito del giudizio, privando, nel corso dell’esecuzione, il
commissario ad acta dei poteri
assegnatigli dal giudice amministrativo e finalizzati all’attuazione dei
precetti contenuti nel giudicato». Sarebbero anche violati l’art. 1 del
Protocollo addizionale alla stessa Convenzione, perché «ha comportato
un’ingerenza nell’esercizio dei diritti che i ricorrenti potevano far valere in virtù di una sentenza
passata in giudicato e della quale era in corso l’esecuzione»; l’art. 111,
primo e secondo comma, Cost., in quanto sarebbe stata eliminata «la condizione
di parità davanti al giudice imparziale e terzo». Nella stessa prospettiva,
l’impugnato art. 5, comma 13, contrasterebbe anche con «il diritto di difesa
dei ricorrenti», perché ha alterato «la regolamentazione degli interessi
stabilita da sentenze esecutive», e con «il principio di effettività della
tutela giurisdizionale».
Con un secondo
gruppo di censure, il giudice a quo
lamenta che lo stesso art. 5, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012, costituisce
una legge-provvedimento diretta allo scopo – evidenziato dalle circostanze
temporali della sua emanazione – di impedire l’attuazione del giudicato della
sentenza del TAR Lazio n. 4266 del 2007. Da tale punto di vista, la
disposizione impugnata violerebbe gli artt. 3, 24, 97, 101 e 113 Cost. (in
particolare, l’art. 24 Cost. sarebbe leso là dove «garantisce la tutela dei
diritti e degli interessi», mentre gli artt. 3 e 97 Cost. sono invocati sotto i
profili del contrasto con i princìpi del buon andamento e dell’imparzialità
dell’amministrazione e dell’affidamento).
Sarebbero,
infine, violati, anche gli artt. 102, primo comma, e 103, primo comma, Cost.,
in quanto la disposizione impugnata, «vanificando gli effetti di una pronuncia
giurisdizionale divenuta intangibile, ha invaso l’area riservata alla funzione
giurisdizionale, vulnerando il principio della divisione dei poteri
giurisdizionali e normativi».
2.– In via
preliminare, deve essere confermata la dichiarazione di inammissibilità degli
interventi spiegati da duecentosettantatré
«dipendenti dello Stato» che affermano di essere «inquadrati da oltre cinque
anni come funzionari» di vari Ministeri e «quindi pubblici dipendenti di Area
III (ex qualifica C2 e superiori)
destinatari della normativa a suo tempo prevista dall’art. 17/bis del D.lgs. 165/2001» e dalla Dirpubblica (Federazione del pubblico impiego), per le
ragioni esposte nell’ordinanza letta nel corso dell’udienza pubblica e allegata
alla presente sentenza.
3.– Sempre in
via preliminare, devono essere, altresì, esaminati alcuni profili che attengono
all’ammissibilità delle questioni sollevate, in particolare le quattro
eccezioni di inammissibilità delle stesse prospettate dal Presidente del
Consiglio dei ministri.
3.1.–
L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito, innanzitutto, che le questioni
sollevate sarebbero irrilevanti perché «lungi dallo specificare puntualmente i
profili in virtù dei quali [la questione] inerirebbe al pertinente scandaglio,
il giudice di seconde cure
fumosamente individua tali aspetti». Inoltre, l’eventuale pronuncia di
incostituzionalità non comporterebbe l’attuazione sicura della vicedirigenza.
L’eccezione
non è fondata in ragione dei seguenti due rilievi.
In primo
luogo, alla luce di quanto riferito dall’ordinanza di rimessione, la sentenza
del TAR Lazio n. 9220 del 2012, oggetto di appello davanti al rimettente
Consiglio di Stato, ha dichiarato l’improcedibilità del giudizio per
l’ottemperanza della sentenza dello stesso TAR n. 4266 del 2007 motivando
esclusivamente sulla base della sopravvenuta abrogazione dell’art. 17-bis del d.lgs. n. 165 del 2001 a opera
dell’art. 5, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012. Gli appellanti hanno impugnato
tale sentenza lamentando l’incostituzionalità della disposizione censurata, non
lasciando sussistere alcun dubbio che il giudice a quo, al fine di decidere sul gravame, debba fare applicazione
della stessa.
In secondo
luogo, poiché la disposizione dell’impugnato art. 5, comma 13, è meramente
abrogativa di una previgente disposizione (l’art. 17-bis del d.lgs. n. 165 del 2001), l’accoglimento (di una) delle
sollevate questioni di legittimità costituzionale comporterebbe la
"reviviscenza” del detto art. 17-bis
(sentenze n. 218
del 2015 e n.
13 del 2012) e, quindi, la possibilità, per il giudice a quo, di accogliere, anziché rigettare, l’appello davanti a sé
pendente, con la conseguente prosecuzione del procedimento di ottemperanza
(secondo le parole dell’ordinanza di rimessione, in caso di accoglimento della
questione, «allora i ricorrenti risulterebbero soddisfatti dalla pronuncia di
questo Consiglio»).
Tanto è
sufficiente a comprovare l’infondatezza dell’eccezione.
3.2.– Con la
seconda eccezione, la difesa del Presidente del Consiglio dei ministri ha
dedotto l’inammissibilità delle questioni «sotto il profilo della valutazione
della […] non manifesta infondatezza», in base alla considerazione di come
l’ordinanza di rimessione «in modo generico e impreciso si dilunghi […] senza,
alla fine, lasciar affiorare dove realmente le norme denunciate sarebbero
incostituzionali e quali sarebbero i parametri costituzionali in ordine ai
quali concretamente affiorerebbe la frizione».
Secondo la
terza eccezione dell’Avvocatura generale dello Stato, l’inammissibilità delle
questioni deriverebbe invece dal «difetto di motivazione dell’ordinanza di
rimessione». A sostegno di tale eccezione, la difesa statale asserisce che il
rimettente «si è limitato ad evidenziare quelli che ritiene essere i vizi di
costituzionalità della norma da applicare, esprimendo sic et simpliciter un positivo convincimento nel senso della
fondatezza», senza, tuttavia, essersi «impegnato a dimostrare la ragionevolezza
oggettiva di quello che si palesa come un dubbio meramente soggettivo». Le
carenze dell’ordinanza di rimessione emergerebbero, in particolare, dalla
motivazione delle questioni sollevate in riferimento agli artt. 102, primo
comma, e 103, primo comma, Cost.
In tale modo
il Presidente del Consiglio dei ministri ha contestato la valutazione di non
manifesta infondatezza delle questioni compiuta dal giudice rimettente e la
sufficienza della motivazione fornita dall’ordinanza di rimessione al riguardo.
Le due eccezioni possono, perciò, essere esaminate congiuntamente.
Esse sono,
peraltro, infondate.
Nell’ordinanza
di rimessione, il rimettente Consiglio di Stato, oltre a indicare la
disposizione censurata e le disposizioni costituzionali e interposte violate,
ha altresì esposto in modo adeguato, nei termini riassunti al punto 1.3. e più
diffusamente riportati nel Ritenuto in
fatto, le ragioni del reputato contrasto della prima con le seconde,
fornendo un’argomentazione sufficiente con riguardo alla violazione di ciascuna
di queste.
La stessa
ordinanza di rimessione contiene inoltre una completa e precisa ricostruzione
della fattispecie oggetto del giudizio a
quo, «necessaria al fine di valutare tanto la rilevanza della questione di
legittimità costituzionale, quanto la sua non manifesta infondatezza (ex plurimis,
da ultimo, sentenza
n. 128 del 2014)» (sentenza n. 56 del
2015). Nella specie, si tratta di una necessità evidente, ove si consideri
il rilievo attribuito, nell’ambito dell’impianto argomentativo delle questioni,
alla successione temporale degli eventi.
Si deve quindi
concludere per il rigetto delle due eccezioni della difesa statale.
3.3.– Secondo
l’Avvocatura generale dello Stato, infine, le sollevate questioni sarebbero
inammissibili anche perché il rimettente avrebbe omesso di esplorare la
possibilità di fornire un’interpretazione costituzionalmente orientata della
disposizione censurata.
Anche tale
eccezione deve essere disattesa.
Sollevata in
modo del tutto generico, essa non indica quale avrebbe dovuto essere
l’interpretazione costituzionalmente orientata che il rimettente avrebbe omesso
di fornire (in tale senso, sentenze n. 250
e n. 200 del
2014), specialmente in considerazione del fatto che la disposizione
impugnata è una norma di mera abrogazione.
3.4.– Deve
invece essere rilevata, d’ufficio, l’inammissibilità delle deduzioni svolte dai
costituiti dipendenti del Ministero della giustizia ricorrenti nel giudizio a quo dirette ad estendere il thema decidendum –
quale definito nell’ordinanza di rimessione – anche alla violazione del
parametro di cui all’art. 104, primo comma, Cost. In base alla costante giurisprudenza
di questa Corte, «"l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale in via
incidentale è limitato alle disposizioni e ai parametri indicati nelle
ordinanze di rimessione. Pertanto, non possono essere presi in considerazione
ulteriori questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle parti, sia
eccepiti, ma non fatti propri dal giudice a
quo, sia volti ad ampliare o modificare successivamente il contenuto delle
stesse ordinanze” (ex plurimis,
sentenza n. 83
del 2015)» (sentenza
n. 231 del 2015; nello stesso senso, tra le più recenti, oltre alla citata sentenza n. 83 del
2015, sentenze
n. 96 del 2016, n. 56, n. 37 e n. 34 del 2015,
ordinanze n. 122
e n. 24 del 2015).
4.– Venendo al
merito, il primo gruppo di questioni da esaminare attiene alla violazione dei
diritti a un giusto processo e al rispetto dei propri beni.
4.1.– Con la
prima di tali questioni, il rimettente lamenta che l’impugnato art. 5, comma
13, vìola il diritto a un equo processo garantito dall’art. 6 della CEDU –
invocato a integrazione del parametro dell’art. 117, primo comma, Cost. –
perché avrebbe soppresso «retroattivamente ogni effetto prodotto dal giudicato»
e influenzato l’esito del giudizio di ottemperanza proposto per conseguirne
l’attuazione.
La questione
non è fondata.
4.1.1.– Al
fine di procedere all’accertamento della sussistenza della denunciata violazione,
occorre preliminarmente verificare se l’invocato art. 6 della CEDU sia
applicabile alla presente fattispecie, avuto riguardo, in particolare, alla
possibilità di ravvisare, nella stessa, una controversia su un «diritto civile»
ai sensi del paragrafo 1 del detto articolo.
L’esito di
tale preliminare verifica è positivo.
Da un lato,
infatti, con riguardo all’esistenza di un «diritto», la Corte europea dei
diritti dell’uomo (Corte EDU) ha già avuto occasione di chiarire che, dato il carattere
autonomo di tale concetto ai fini della Convenzione, è irrilevante che il
diritto italiano qualifichi una posizione soggettiva in termini di interesse
legittimo o di diritto soggettivo, essendo sufficiente che essa abbia formato
oggetto di una controversia (Grande
Camera, sentenza 5 ottobre 2000, Mennitto contro Italia,). Nessun rilievo
ostativo all’applicabilità dell’art. 6 della CEDU può quindi assumere il fatto
che la sentenza del TAR Lazio n. 4266 del 2007 abbia definito la posizione
soggettiva dei ricorrenti in termini di «interesse qualificato […] ad aspirare
all’accesso alla vicedirigenza».
D’altro lato,
quanto alla natura «civile» del diritto, la giurisprudenza della Corte EDU è
ormai costante nell’affermare che, nella discussa materia delle controversie
concernenti il lavoro pubblico, esiste una presunzione di applicazione
dell’art. 6 della CEDU, per vincere la quale lo Stato convenuto deve dimostrare
la sussistenza di due cumulative condizioni: in primo luogo, che il lavoratore
non ha diritto di accedere a un giudice in base al proprio ordinamento; in
secondo luogo, che l’esclusione di tale diritto è giustificata da ragioni
obiettive legate all’interesse dello Stato (Grande Camera, sentenza 19
aprile 2007, Vilho Eskelinen e altri contro Finlandia,; in senso
conforme, tra le tante, quarta
sezione, sentenza 17 dicembre 2013, Nikolova e
Vandova contro
Bulgaria, quarta
sezione, sentenza 16 aprile 2013, Fazliyski contro Bulgaria). Dato il carattere
cumulativo di tali condizioni, la stessa Corte EDU ha ritenuto che, in caso di
insussistenza della prima, non sia necessario verificare l’esistenza della
seconda (tra le tante, sezione
prima, sentenza 11 dicembre 2012, Gassner contro Austria).
Nel caso di
specie, poiché i funzionari pubblici che aspiravano alla vicedirigenza
hanno potuto avere accesso a un giudice – come è dimostrato dalla vicenda
processuale che è culminata nel giudizio a
quo – la prima condizione, evidentemente, non ricorre. Ne consegue, in base
alla menzionata giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che l’art. 6 della
CEDU deve ritenersi applicabile alla controversia in materia di lavoro pubblico
che viene qui in considerazione.
4.1.2.–
Passando, quindi, ad accertare se l’impugnato art. 5, comma 13, víoli tale parametro interposto, va rilevato che, secondo
la giurisprudenza della Corte EDU, il diritto a un processo equo garantito
dall’art. 6 della CEDU, interpretato in conformità al principio della
preminenza del diritto, include il diritto all’esecuzione delle decisioni
giurisdizionali definitive e vincolanti (sentenza 19 marzo 1997, Hornsby contro
Grecia). Tale affermazione, sempre secondo la Corte EDU, riveste una
particolare importanza proprio nel contesto del contenzioso amministrativo,
atteso che, con l’azione di annullamento, il ricorrente mira a ottenere non
solo l’eliminazione dell’atto o dell’omissione impugnati ma anche, e
soprattutto, la rimozione dei loro effetti (sentenza 19 marzo 1997, Hornsby contro
Grecia).
La stessa
Corte di Strasburgo ha peraltro dato atto che esistono circostanze che
possono giustificare la mancata
esecuzione «in natura» degli obblighi imposti da un giudicato, a condizione che
lo Stato convenuto abbia informato il ricorrente, a mezzo di un provvedimento
giudiziario o amministrativo, delle vicende di fatto o degli ostacoli giuridici
che l’hanno resa impossibile (tra le tante, sezione seconda, sentenza 9
giugno 2009, Nicola Silvestri contro Italia; sezione terza, sentenza 12
luglio 2007, SC Ruxandra Trading s.r.l. contro Romania; sezione terza, sentenza 26
maggio 2005, Costin contro Romania).
4.1.3.– Nel
caso di specie, questa Corte ritiene che la mancata esecuzione dell’obbligo
imposto dal giudicato della sentenza del TAR Lazio n. 4266 del 2007,
determinata dall’abrogazione, a opera dall’impugnato art. 5, comma 13, del d.l.
n. 95 del 2012, dell’art. 17-bis del
d.lgs. n. 165 del 2001, sia giustificata e non leda, perciò, il diritto a un
equo processo garantito dall’art. 6 della CEDU.
Tale avviso si
fonda sul raffronto tra la portata del giudicato amministrativo della sentenza
n. 4266 del 2007 e il contenuto precettivo dell’art. 5, comma 13, del d.l. n.
95 del 2012.
Come si è
visto al punto 1.2., la sentenza anzidetta, riconosciuta la fondatezza della
pretesa azionata dai ricorrenti con l’impugnazione del silenzio sull’atto di
diffida con il quale era stata «sollecita[ta]
l’emanazione della direttiva contrattuale prevista dall’art. 10, III comma,
della legge 15 luglio 2002, n. 145, per l’istituzione dell’area della vicedirigenza», ordinò al Presidente del Consiglio dei
ministri e ai Ministri per la funzione pubblica e dell’economia e delle finanze
«di esercitare le proprie attribuzioni per riscontrare in via definitiva
l’istanza di parte ed il conseguente atto di messa in mora».
Risulta quindi
evidente che la stessa sentenza, passata in giudicato formale, non aveva
riconosciuto ai ricorrenti la qualifica di vicedirigenti, ma aveva soltanto
affermato che essi avevano un interesse giuridicamente tutelato a che fosse
adottato l’atto di indirizzo all’ARAN di cui all’art. 10, comma 3, della legge
n. 145 del 2002, cioè il provvedimento amministrativo che doveva precedere la
fase della contrattazione collettiva alla quale l’art. 17-bis del d.lgs. n. 165 del 2001 demandava l’istituzione dell’area
della vicedirigenza.
Il
riconoscimento della titolarità del detto interesse (di natura "strumentale” e
non "finale”) all’adozione dell’atto di indirizzo dell’attività negoziale della
citata parte pubblica non escludeva dunque affatto, come reputano invece il
rimettente e i funzionari intervenienti, che la previsione dell’istituzione
dell’area della vicedirigenza – questione lasciata
del tutto impregiudicata dalla sentenza – restasse nella piena disponibilità
del legislatore. Quest’ultimo, perciò, in virtù del generale principio della
modificabilità della legge anteriore a opera di quella posteriore, ben poteva –
come ha fatto – modificare l’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche nel senso di non prevedere più l’istituzione della
detta area, abrogando la disposizione che l’aveva stabilita (ciò che, del
resto, per quanto detto, ben avrebbe potuto fare anche dopo che l’atto di
indirizzo all’ARAN fosse stato adottato).
In altre parole,
non sussiste alcuna sovrapposizione né, tanto meno, conflitto, tra
l’accertamento sostanziale, contenuto nel giudicato, della pretesa all’adozione
dell’atto di indirizzo all’ARAN (e del correlativo obbligo
dell’amministrazione) e l’abrogazione, a opera dell’impugnato art. 5, comma 13,
della disposizione istitutiva dell’area della vicedirigenza,
atteso che il vincolo originato dall’anzidetta "regola giudiziale” concerneva
specificamente ed esclusivamente l’indicato tratto iniziale della complessiva
procedura prevista ai fini dell’istituzione della detta area e lasciava,
perciò, del tutto libero lo spazio a un successivo intervento legislativo
abrogativo della disposizione istitutiva della medesima.
Tale assenza
di un’effettiva sovrapposizione al giudicato della sentenza n. 4266 del 2007
esclude altresì che, contrariamente a quanto ritenuto dal rimettente e dai
funzionari intervenienti, l’impugnato art. 5, comma 13, del d.l. n. 95 del
2012, abbia efficacia retroattiva, avendo, invece, il suo effetto abrogativo,
efficacia solo ex nunc.
Tenuto conto
di quanto precede, il fatto che l’impugnato art. 5, comma 13, abrogando l’art.
17-bis del d.lgs. n. 165 del 2001 che
prevedeva l’istituzione della vicedirigenza – e
ponendo, così, un ostacolo giuridico all’esecuzione degli obblighi imposti dal
giudicato della sentenza del TAR Lazio n. 4266 del 2007 – sia intervenuto in un
àmbito non coperto da tale giudicato (oggettivamente limitato all’accertamento
della pretesa all’adozione dell’indirizzo all’ARAN) costituisce una circostanza
idonea a giustificare la mancata esecuzione degli obblighi da esso imposti. Il
detto ostacolo, d’altro canto, oltre che noto ai ricorrenti, in quanto
derivante da una norma di legge, era stato a essi debitamente opposto dalla
sentenza del TAR Lazio n. 9220 del 2012.
4.1.4.– La
giustificazione della mancata esecuzione del giudicato della sentenza n. 4266
del 2007, determinata dall’impugnato art. 5, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012,
comporta che debba ritenersi, parimenti, giustificata la lamentata influenza di
tale disposizione sul giudizio di ottemperanza – che l’abrogazione della
previsione istitutiva della vicedirigenza ha reso,
come si è visto, improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse – attesa
la preordinazione di tale giudizio all’attuazione del detto giudicato.
4.1.5.– Con
riguardo a tale specifico profilo della censura, sia il rimettente (che cita,
in particolare, la sentenza
della seconda sezione 7 giugno 2011, Agrati e altri
contro Italia) che i funzionari costituti hanno invocato il costante
orientamento della Corte EDU secondo cui se, in linea di principio, non è
precluso al potere legislativo di regolamentare in materia civile, con nuove
disposizioni dalla portata retroattiva, diritti risultanti da leggi in vigore,
il principio della preminenza del diritto e il concetto di processo equo
sanciti dall’art. 6 della CEDU ostano, salvo che per imperative ragioni di
interesse generale, all’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione
della giustizia al fine di
influenzare l’esito giudiziario di una controversia; con il complemento che
l’esigenza della parità fra le parti implica l’obbligo di offrire a ciascuna
parte una ragionevole possibilità di presentare la propria causa senza trovarsi
in una situazione di netto svantaggio rispetto alla controparte.
Ad avviso del
rimettente (come si è detto al punto 1.3.) nonché dei predetti intervenienti,
tale fine di influenzare l’esito di una controversia giudiziaria – in
particolare, il giudizio di ottemperanza promosso da questi ultimi per
conseguire il soddisfacimento della propria pretesa all’adozione dell’atto di
indirizzo all’ARAN – sarebbe proprio anche dell’impugnato art. 5, comma 13,
come emergerebbe dal contesto temporale della sua emanazione.
A proposito di
tale argomentazione, va anzitutto ribadito che l’impugnato art. 5, comma 13,
non ha, per le ragioni che si sono esposte al punto 4.1.3., portata
retroattiva. Tale rilievo, rendendo inconferente l’invocata giurisprudenza
della Corte EDU – tutta relativa a casi in cui venivano in considerazione
disposizioni di legge retroattive (per lo più, come nel citato caso Agrati
contro Italia, di interpretazione autentica) – esclude in radice la
validità dell’argomentazione.
Inoltre, e in
ogni caso, la tesi della strumentalità della disposizione impugnata all’intento
di determinare l’esito della specifica controversia giudiziaria in corso non è
condivisibile, dovendosi, piuttosto, ritenere che lo scopo dell’art. 5, comma
13, del d.l. n. 95 del 2012, era quello di ridurre, nel contesto di necessità e
urgenza determinato dalla grave crisi finanziaria che aveva colpito l’Italia
tra la fine del 2011 e la prima metà del 2012, le spese delle amministrazioni
pubbliche.
Tale
conclusione si fonda, anzitutto, sulla coerenza dell’impugnato comma 13
rispetto al menzionato scopo – manifestato anche dalla rubrica dell’art. 5 nel
quale la disposizione è contenuta – della «Riduzione di spese delle pubbliche
amministrazioni», considerato che, come indicato nella Relazione al disegno di
legge di conversione del d.l. n. 95 del 2012, detto comma comportava una
«riduzione di spesa pari a 12 milioni a regime dal 2012». In tale modo, l’impugnato
comma 13 si inseriva anche nell’àmbito del più ampio intervento, attuato con lo
stesso d.l. n. 95 del 2012, diretto, tra l’altro, a «garantire il contenimento
e la stabilizzazione della finanza pubblica, anche attraverso misure volte a
garantire la razionalizzazione, l’efficienza e l’economicità
dell’organizzazione degli enti e degli apparati pubblici» (così il preambolo
del decreto).
In secondo
luogo, deve osservarsi che, con il censurato comma 13, il legislatore ha
eliminato l’istituto della vicedirigenza con
riguardo, sia a tutto il comparto Ministeri, sia a tutte le altre
amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001 (al cui
personale la disposizione del comma 1 dell’art. 17-bis sull’istituzione della vicedirigenza
si applicava, ai sensi del comma 2 dello stesso articolo, «ove compatibile»).
L’indicata generale portata dell’intervento abrogativo, tale da trascendere
enormemente l’àmbito soggettivo del giudizio in corso – instaurato da un
circoscritto numero di funzionari del solo Ministero della giustizia e diretto
a ottenere l’attuazione di un giudicato soggettivamente limitato al personale
di tale Ministero – costituisce
un’ulteriore decisiva conferma di come la disposizione denunciata mirasse non a
risolvere a favore dello Stato detto giudizio di ottemperanza ma a conseguire
una riduzione della spesa delle amministrazioni pubbliche.
4.1.6.– Deve, perciò, conclusivamente
ritenersi che l’impugnato art. 5, comma 13, nel porre un ostacolo giuridico
all’esecuzione del giudicato della sentenza del TAR Lazio n. 4266 del 2007, è
intervenuto in un àmbito non coperto da questo – e lasciato quindi aperto a un
successivo intervento del legislatore – e che tale circostanza giustifica la
mancata esecuzione degli obblighi imposti dallo stesso giudicato e la
(conseguente) improcedibilità del giudizio di ottemperanza promosso per
conseguirla, senza che l’anzidetta mancata esecuzione integri una violazione
dell’art. 6 della CEDU.
4.2.– Con la
seconda questione del primo gruppo di censure in esame, il giudice a quo lamenta che l’impugnato art. 5,
comma 13, víola la norma interposta dell’art. 1 del
Protocollo addizionale alla CEDU – che protegge la proprietà, riconoscendo a
ciascuno il diritto al rispetto dei propri beni – perché «ha comportato
un’ingerenza nell’esercizio dei diritti che i ricorrenti potevano far valere in virtù di una sentenza
passata in giudicato e della quale era in corso l’esecuzione».
La questione
non è fondata.
L’esame della
stessa impone, anche in questo caso, di accertare previamente se l’invocato
parametro interposto sia applicabile alla presente fattispecie; il che richiede
di verificare, in particolare, se la sentenza del TAR Lazio n. 4266 del 2007,
passata in giudicato e della quale era stata chiesta l’ottemperanza, avesse
effettivamente attribuito ai ricorrenti nel giudizio a quo la titolarità di un «bene», ai sensi del detto parametro.
L’esito di
tale preliminare verifica è, in questo caso, negativo.
A proposito
della nozione di «bene», ai sensi dell’art. 1 del Protocollo addizionale alla
CEDU, la giurisprudenza della Corte EDU – alla quale hanno fatto riferimento
anche il rimettente e gli intervenienti funzionari del Ministero della
giustizia – è costante nell’affermare che essa può comprendere sia «beni
attuali» sia valori patrimoniali in virtù dei quali il ricorrente può
pretendere di avere almeno una «aspettativa legittima» («ésperance légitime» in francese e «legitimate expectation»
in inglese) di ottenere il godimento effettivo di un diritto di proprietà (Grande Camera, sentenza 7
febbraio 2013, Fabris contro Francia,
e sentenza 28 settembre
2004, Kopecky contro Slovacchia; in senso conforme, tra le
tante, sezione seconda,
sentenza 23 settembre 2014, Valle Pierimpiè Società
agricola s.p.a. contro Italia, e sentenza 18 maggio 2010, Plalam s.p.a. contro Italia). Non può, all’opposto,
essere considerata un «bene» la mera «speranza» («espoir» in francese e «hope» in inglese)
di vedersi riconosciuto un diritto di proprietà che si è nell’impossibilità di
esercitare effettivamente (Grande
Camera, decisione 2 marzo 2005, Von Maltzan e altri contro Germania e sentenza 28 settembre 2004, Kopecky contro Slovacchia; in senso conforme, sezione seconda, sentenza 23
settembre 2014, Valle Pierimpiè Società agricola
s.p.a. contro Italia).
Alla luce di
tale orientamento della Corte di Strasburgo e considerata la portata del
giudicato della sentenza del TAR Lazio n. 4266 del 2007, questa Corte ritiene
di dover escludere che tale sentenza avesse effettivamente attribuito ai
ricorrenti la titolarità di un «bene» suscettibile di essere protetto dall’art.
1 del Protocollo addizionale alla CEDU.
Come si è visto
al punto 4.1.3., la stessa sentenza, lungi dal riconoscere ai ricorrenti la
qualifica di vicedirigenti e il presumibile maggiore trattamento economico,
aveva soltanto affermato che essi avevano una pretesa giuridicamente tutelata a
che fosse adottato l’indirizzo all’ARAN di cui all’art. 10, comma 3, della
legge n. 145 del 2002, cioè il provvedimento amministrativo che doveva
precedere la fase della contrattazione collettiva cui l’art. 17-bis del d.lgs. n. 165 del 2001 demandava
l’istituzione dell’area della vicedirigenza.
Tale
estensione del giudicato esclude che la pretesa all’adozione dell’indirizzo
all’ARAN possa costituire un «bene attuale», atteso che essa non assicurava, di
per sé, alcuna utilità patrimoniale ai ricorrenti nel giudizio a quo.
Deve anche
ritenersi, per le ragioni esposte, che la sentenza n. 4266 del 2007 non abbia
attribuito agli stessi ricorrenti un’aspettativa legittima, economicamente
rilevante, a ottenere il godimento effettivo di un diritto di proprietà alla
stregua della menzionata giurisprudenza della Corte di Strasburgo, in
particolare un’aspettativa legittima a ottenere la qualifica di vicedirigente e
il conseguente maggiore trattamento economico.
Escluso dunque
che tale sentenza abbia attribuito la titolarità di un «bene» protetto ai sensi
dell’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, ne deriva l’infondatezza
della questione sollevata in relazione alla norma interposta.
4.3.– Le
considerazioni che si sono svolte al punto 4.1.3. – con riguardo al fatto che
l’art. 5, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012, è intervenuto in un àmbito
lasciato "libero” dal giudicato della sentenza del TAR Lazio n. 4266 del 2007,
sicché nessuna sovrapposizione sussiste tra quest’ultimo e l’abrogazione, a
opera dello stesso art. 5, comma 13, della previsione che demandava alla
contrattazione collettiva l’istituzione dell’area della vicedirigenza
– portano a escludere che tale impugnata disposizione abbia «eliminato la
condizione di parità delle parti», in violazione dell’art. 111, primo e secondo
comma, Cost., o leso «il diritto di difesa dei ricorrenti», alterando «la
regolazione di interessi stabilita da sentenze esecutive», o il «principio di
effettività della tutela giurisdizionale».
5.– Con il
secondo gruppo di questioni, il rimettente lamenta che l’art. 5, comma 13, del
d.l. n. 95 del 2012, vìola gli artt. 3, 24, 97, 101 e 113 Cost. in quanto
legge-provvedimento diretta allo scopo di impedire l’attuazione del giudicato
della sentenza del TAR Lazio n. 4266 del 2007.
Le questioni
non sono fondate.
5.1.– Lo
scrutinio delle stesse presuppone di verificare se la disposizione censurata
sia effettivamente ascrivibile alla categoria delle leggi-provvedimento.
Nella
giurisprudenza di questa Corte, sono state reputate tali le leggi che mostrano
«un contenuto particolare e concreto (ex plurimis, sentenze n. 20 del
2012 e n.
270 del 2010) […], perciò […] producendo direttamente effetti nei confronti
di destinatari determinati o di numero limitato (ex multis, sentenze n. 275
e n. 154 del
2013 e n. 94
del 2009)» (così, da ultimo, l’ordinanza n. 72 del
2015). Più diffusamente, la sentenza n. 275 del
2013 ha affermato che, nella giurisprudenza costituzionale, «sono state […]
definite [leggi-provvedimento] quelle che "contengono disposizioni dirette a
destinatari determinati” (sentenze n. 154 del
2013, n. 137
del 2009 e n.
2 del 1997), ovvero "incidono su un numero determinato e limitato di
destinatari” (sentenza
n. 94 del 2009), che hanno "contenuto particolare e concreto” (sentenze n. 20 del
2012, n. 270
del 2010, n.
137 del 2009, n.
241 del 2008, n.
267 del 2007 e n. 2 del 1997),
"anche in quanto ispirate da particolari esigenze” (sentenze n. 270 del
2010 e n. 429 del 2009), e che comportano l’attrazione alla sfera
legislativa "della disciplina di oggetti o materie normalmente affidati
all’autorità amministrativa” (sentenze n. 94 del
2009 e n.
241 del 2008)».
Facendo
applicazione di tali criteri, elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte,
l’assunto del giudice a quo circa la
natura provvedimentale dell’impugnato art. 5, comma
13, deve ritenersi infondato.
Da un lato,
infatti, sul piano soggettivo, i destinatari di tale disposizione non sono
affatto «determinati o di numero limitato». Invero, abrogando l’art. 17-bis del d.lgs. n. 165 del 2001, che
aveva previsto l’istituzione dell’area della vicedirigenza,
essa mostra di avere una platea di destinatari coincidente con quella indicata
dal medesimo articolo. Tali destinatari comprendono, perciò, il personale di
tutto il comparto Ministeri, nonché delle altre amministrazioni di cui all’art.
1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001 – ai cui dipendenti il comma 1 del
citato art. 17-bis si applicava «ove
compatibile» (comma 2 dello stesso art. 17-bis)
– in possesso dei requisiti previsti per l’accesso all’area della vicedirigenza e non soltanto il personale del Ministero
della giustizia né, tanto, meno, i soli ricorrenti nel giudizio a quo. L’esistenza di una lite in corso
che coinvolgeva specificamente questi ultimi e il rilievo della disposizione
impugnata nella definizione di tale lite costituiscono, perciò, evenienze di
mero fatto, non influenti per circoscrivere la produzione di effetti
esclusivamente nei confronti dei ricorrenti nel giudizio a quo.
D’altro canto,
sul piano oggettivo, risulta palese, sulla base di quanto ora detto, che
l’impugnato art. 5, comma 13, non ha affatto un «contenuto particolare e
concreto» ma, al contrario, detta la regola, di carattere astratto, secondo cui
la vicedirigenza non è (più) prevista
nell’organizzazione del lavoro pubblico.
Il descritto
inquadramento della disposizione impugnata, escludendo la natura di
legge-provvedimento della stessa, rende ultroneo il vaglio di costituzionalità
imposto dalla giurisprudenza di questa Corte sugli atti aventi tale natura –
relativo alla verifica dell’osservanza di «limiti non solo specifici, qual è
quello del rispetto della funzione giurisdizionale in ordine alla decisione
delle cause in corso, ma anche generali, e cioè quello del rispetto del
principio di ragionevolezza e non arbitrarietà» (così, ex plurimis, la sentenza n. 137 del
2009) – e comporta l’infondatezza di tutte le censure in esame, essendo
esse basate sull’opposto erroneo assunto della natura provvedimentale
dell’art. 5, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012.
5.2.– Non sono
infine rilevanti, a sostegno delle tesi del rimettente, le sentenze di
accoglimento di questa Corte n. 267 del 2007 e n. 374 del 2000,
invocate dallo stesso giudice a quo
nonché dai funzionari del Ministero della giustizia nel proprio atto di
intervento.
È, infatti,
agevole riscontrare che dette pronunce avevano a oggetto disposizioni di
portata ben diversa da quella dell’impugnato art. 5, comma 13.
Quanto alla sentenza n. 267 del
2007, è sufficiente rammentare che essa concerneva una disposizione (l’art.
11-quinquies, comma 7, del d.l. 30
settembre 2005, n. 203, recante «Misure di contrasto all’evasione fiscale e disposizioni
urgenti in materia tributaria e finanziaria», convertito, con modificazioni,
dall’art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248) che individuava
specificamente alcuni immobili siti in Roma, già inseriti in procedure di
vendita, per escluderli da queste.
Questa Corte, limitandosi a riportare il contenuto testuale della disposizione,
ha individuato in essa una legge-provvedimento, risultando evidente che «incide
su un numero determinato e molto limitato di destinatari ed ha contenuto
particolare e concreto».
Quanto alla sentenza n. 374 del
2000, essa aveva a oggetto una disposizione (l’art. 41, comma 5, terzo
periodo, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, recante «Misure per la
stabilizzazione della finanza pubblica») secondo cui «Per il personale cui non
si applicano le disposizioni di cui al comma 4, al quale, a seguito di sentenza
passata in giudicato, sia stato attribuito il trattamento economico di cui al
citato articolo 4-bis del d.l.
n. 356 del 1987, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 436 del 1987, non si fa
luogo alla corresponsione del relativo trattamento». Considerato tale tenore
della disposizione impugnata, questa Corte aveva evidenziato che con essa il
legislatore aveva preso «espressamente in considerazione [….] le sentenze
passate in giudicato che attribuiscono un determinato trattamento economico al
personale», con la conseguenza che «Proprio questa incidenza, diretta ed
esplicita, sul giudicato esclude che la disposizione […] operi soltanto sul
piano normativo, poiché rivela in modo incontestabile il preciso intento
legislativo di interferire […] su questioni coperte da giudicato». Orbene, con
riguardo all’impugnato art. 5, comma 13, alla luce del suo tenore e di quanto
sin qui detto, si deve chiaramente escludere che il legislatore abbia preso
«espressamente in considerazione [….] le sentenze passate in giudicato» e
determinato una «incidenza, diretta ed esplicita, sul giudicato» della sentenza
del TAR Lazio n. 4266 del 2007.
6.– Sono,
infine, infondate anche le questioni sollevate in riferimento agli artt. 102,
primo comma, e 103, primo comma, Cost., secondo le quali la disposizione
censurata, «vanificando gli effetti di una pronuncia giurisdizionale divenuta
intangibile, ha invaso l’area riservata alla funzione giurisdizionale,
vulnerando il principio della divisione dei poteri giurisdizionali e
normativi».
Da quanto sin
qui detto emerge chiaramente che l’impugnato art. 5, comma 13, del d.l. n. 95 del
2012, dettando la regola – che non incide direttamente sul giudicato della
sentenza del TAR Lazio n. 4266 del 2007 – secondo cui la vicedirigenza
non è (più) prevista nell’organizzazione del lavoro pubblico, ha operato sul
solo piano delle fonti generali e astratte, costruendo il modello normativo cui la decisione del
giudice deve riferirsi (sentenza n. 303 del
2011 e ordinanza
n. 158 del 2014), senza quindi vulnerare le attribuzioni riservate alla
funzione giurisdizionale dagli invocati artt. 102, primo comma, e 103, primo
comma, Cost.
per
questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 5, comma 13, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95
(Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei
servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese
del settore bancario), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1,
della legge 7 agosto 2012, n. 135, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24,
97, 101, 102, primo comma, 103, primo comma, 111, primo e secondo comma, 113 e
117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6
della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e all’art. 1 del Protocollo
addizionale alla stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952 – atti entrambi
ratificati e resi esecutivi con la legge 4 agosto 1955, n. 848 – dal Consiglio di Stato, con l’ordinanza
indicata in epigrafe.
Così deciso in
Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6
luglio 2016.
F.to:
Paolo GROSSI,
Presidente
Silvana
SCIARRA, Redattore
Roberto
MILANA, Cancelliere
Depositata
in Cancelleria il 3 ottobre 2016.
Allegato:
Ordinanza letta
all’udienza del 5 luglio 2016