SENTENZA N. 56
ANNO 2015
Commento alla decisione di
Antonio Ruggeri
in questa Rivista, Studi, 2015/I, 281 ss.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
-
Alessandro CRISCUOLO Presidente
- Paolo
Maria NAPOLITANO Giudice
-
Giuseppe FRIGO ”
- Paolo GROSSI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario
Rosario MORELLI ”
-
Giancarlo CORAGGIO ”
-
Giuliano AMATO ”
-
Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità
costituzionale dell’art. 1, comma 79, nonché dei precedenti commi 77 e 78, in
quanto richiamati dal comma 79, della legge
13 dicembre 2010, n. 220 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e
pluriennale dello Stato – legge di stabilità 2011) promosso dal Consiglio
di Stato nel procedimento vertente tra B Plus Giocolegale ltd e
l’Amministrazione autonoma monopoli di Stato ed altro, con ordinanza
del 23 settembre 2013, iscritta al n. 280 del registro ordinanze 2013 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 2, prima serie
speciale, dell’anno 2014.
Visti l’atto di costituzione di B Plus Giocolegale ltd,
nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 10 marzo 2015 il Giudice
relatore Daria de Pretis;
uditi gli avvocati Andrea Scuderi e Carmelo Barreca per B
Plus Giocolegale ltd e l’avvocato dello Stato Amedeo Elefante per il Presidente
del Consiglio dei ministri.
1.– Con ordinanza del 23 settembre 2013,
il Consiglio di Stato ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art.
1, comma 79, della legge 13 dicembre 2010, n. 220 (Disposizioni per la
formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge di stabilità
2011), nonché dei commi 77 e 78 del medesimo art. 1, in quanto richiamati dal
comma 79, in riferimento agli artt. 3, 41, primo comma, e 42, terzo comma, della
Costituzione.
1.1.– La questione è sorta nel corso del
giudizio d’appello avverso la sentenza pronunciata il 22 dicembre 2011 dal
Tribunale amministrativo regionale del Lazio, adito dalla società B Plus
Giocolegale ltd per ottenere, con un primo ricorso, l’annullamento del decreto
interdirigenziale 28 giugno 2011 del direttore dell’Amministrazione autonoma
dei monopoli di Stato (d’ora in avanti, «AAMS»), recante la determinazione dei
requisiti delle società concessionarie del gioco pubblico non a distanza e dei
loro amministratori, e per ottenere, con un secondo ricorso per motivi
aggiunti, l’annullamento del bando di gara indetto dalla AAMS per l’affidamento
in concessione della realizzazione e conduzione della rete per la gestione
telematica del gioco lecito, mediante apparecchi da divertimento e
intrattenimento, compresi il capitolato d’oneri, il capitolato tecnico, lo
schema di convenzione e l’atto di approvazione di quest’ultimo.
1.2.– La società B Plus Giocolegale ltd,
concessionaria per l’attivazione e la conduzione operativa della rete per la
gestione telematica del gioco lecito mediante apparecchi da divertimento e
intrattenimento, ha aderito alla fase di «concreta sperimentazione e […] avvio
a regime di sistemi di gioco costituiti dal controllo remoto attraverso
videoterminali in ambienti dedicati», prevista dall’art. 12, comma 1, lettera
l), del decreto-legge 28 aprile 2009, n. 39 (Interventi urgenti in favore delle
popolazioni colpite dagli eventi sismici nella regione Abruzzo nel mese di
aprile 2009 e ulteriori interventi urgenti di protezione civile), convertito,
con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 giugno 2009, n. 77, a
norma del quale la AAMS doveva definire con propri decreti «le procedure di
autorizzazione dei concessionari all’installazione, previo versamento di euro
15.000 ciascuno, di videoterminali fino ad un massimo del quattordici per cento
del numero di nulla osta dagli stessi già posseduti».
La società ha sostenuto in giudizio di
avere diritto di proseguire la concessione "senza alcuna soluzione di
continuità”, perché è stata autorizzata all’installazione dei videoterminali,
dietro versamento delle somme come sopra stabilite, e ha fatto tempestiva
richiesta di affidamento, ai sensi dell’art. 21, comma 7, del decreto-legge 1°
luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini),
convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 3 agosto 2009,
n. 102. Secondo la sua prospettazione, questa norma ha previsto due distinte
"modalità” di affidamento in concessione della rete per la gestione telematica
del gioco lecito, al fine di garantire l’esito positivo della fase di
sperimentazione e avvio a regime di cui al citato art. 12, comma 1, lettera l),
del d.l. n. 39 del 2009: a) «affidamento [...] agli attuali concessionari che
ne facciano richiesta entro il 20 novembre 2009 e che siano stati autorizzati
all’installazione dei videoterminali, con conseguente prosecuzione della stessa
senza alcuna soluzione di continuità» (comma 7, lettera a); b) «affidamento
della concessione ad ulteriori operatori di gioco, nazionali e comunitari»,
selezionati sulla base di requisiti definiti dall’amministrazione «in coerenza
con quelli già richiesti e posseduti dagli attuali concessionari» (comma 7,
lettera b).
La successiva legge n. 220 del 2010
(legge di stabilità per il 2011), ai commi 77, 78 e 79 dell’art. 1, ha
introdotto, a garanzia di plurimi interessi pubblici, disposizioni relative ai
rapporti concessori sia in essere che da costituire, prevedendo l’aggiornamento
alle nuove prescrizioni dello schema tipo di convenzione accessiva alla
concessione nonché la sottoscrizione di un atto di integrazione della
convenzione entro 180 giorni della entrata in vigore della legge.
Assumendo che queste nuove prescrizioni
sono lesive di sue consolidate posizioni, perché impongono intollerabili pesi e
oneri sia gestionali che economici, in assenza di indennizzi di sorta, la
società ne ha eccepito l’illegittimità costituzionale, per violazione degli
artt. 3, 41 e 42, Cost., oltre che per il contrasto con i principi di tutela
dell’affidamento e dei diritti patrimoniali sanciti dal diritto europeo e dalla
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa
esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.
1.3.– Il giudice a quo riferisce che con
sentenza non definitiva n. 4371 del 2 settembre 2013, in accoglimento
dell’appello "nei sensi e limiti di cui in motivazione”, ha statuito che
nell’ipotesi in cui versa la società appellante non è necessario l’affidamento
di una nuova concessione mediante gara, avendo essa diritto alla prosecuzione
del rapporto senza soluzione di continuità, e ha pertanto riformato la sentenza
impugnata, che aveva accolto solo parzialmente alcuni motivi del ricorso
principale, respingendo nel resto le domande.
Riferisce altresì che, dovendo
scrutinare – in riferimento al secondo, terzo e quarto motivo di appello – la
legittimità degli atti che impongono alla società la sottoscrizione di uno
«schema di atto integrativo» della convenzione di concessione, ha ritenuto di
sollevare, ai fini della definizione del giudizio, la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 1, comma 79, della legge n. 220 del 2010, e dei precedenti
commi 77 e 78, in quanto da esso richiamati e per la parte in cui risultano
applicabili ai concessionari che si siano avvalsi della facoltà di cui all’art.
21, comma 7, del d.l. n. 78 del 2009.
1.4.– Sulla rilevanza il Consiglio di
Stato espone che l’art. 1, comma 79, della legge n. 220 del 2010 prevede
l’introduzione di nuovi «requisiti» e «obblighi» a carico, oltre che dei nuovi
concessionari, verosimilmente anche dei concessionari per i quali è stata
accertata la «prosecuzione» della concessione, ai sensi dell’art. 21, comma 7,
del d.l. n. 78 del 2009, cosicché la soluzione della controversia non può
prescindere dall’applicazione delle norme denunciate.
1.5.– La non manifesta infondatezza
della questione viene circoscritta ai parametri di cui agli artt. 3, 41, primo
comma, e 42, terzo comma, Cost., sotto un duplice profilo.
In primo luogo, con riguardo alla
possibilità per il legislatore di introdurre ex novo una disciplina recante
nuovi requisiti ed obblighi, tali da poter pregiudicare una posizione
"consolidata” del concessionario, il cui conseguimento ha implicato l’esborso
non irrilevante di somme di denaro.
In secondo luogo, con riguardo al fatto
che "le norme introdotte con la l. n. 220/2010 comportano una incidenza diretta
sul libero esercizio della libertà di impresa restringendo pesantemente ed
inammissibilmente la possibilità di accedere alla posizione di concessionario
del gioco lecito e comunque gravando i concessionari di intollerabili oneri
aggiunti e prescrizioni eccedenti la natura e il contenuto del rapporto”.
Pur non ignorando che il principio di
irretroattività, sancito dall’art. 11 delle disposizioni preliminari al codice
civile, ha ricevuto "copertura” dalla Costituzione solo con riferimento alle
leggi penali, il rimettente osserva che secondo la giurisprudenza della Corte
la retroattività (ovvero l’applicazione ex novo di una legge sopravvenuta a
situazioni preesistenti e diversamente regolate) incontra un limite nei
principi di eguaglianza e di ragionevolezza, cosicché devono essere censurate
norme incidenti in modo irragionevole, come quelle in esame, «sul legittimo
affidamento nella sicurezza giuridica, che costituisce un elemento fondamentale
dello Stato di diritto (sentenza n. 236 del
2009)» (sentenza
n. 209 del 2010).
A ciò si aggiunga che l’intervento
legislativo pregiudica, nel caso concreto, una posizione conseguita dal
concessionario "in prosecuzione” esercitando una facoltà "a titolo oneroso”,
senza che la nuova disciplina preveda un indennizzo per il sacrificio imposto,
onde la non manifesta infondatezza della questione di legittimità
costituzionale anche con riferimento all’art. 42, terzo comma, Cost.
A questo riguardo, il rimettente osserva
che la concessione è in generale revocabile per sopravvenute ragioni di
pubblico interesse, ma che in tali casi l’art. 21-quinquies, comma 1-bis, della
legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di processo amministrativo
e di diritto di accesso ai documenti amministrativi) prevede il diritto del
concessionario a un indennizzo, determinandone la misura.
2.– Il 27 gennaio 2014 si è costituita
la società B Plus Giocolegale ltd, appellante nel processo principale, per
sostenere le ragioni esposte nell’ordinanza di rimessione ed insistere per
l’accoglimento della questione.
Descritto lo svolgimento del giudizio a
quo e ricostruita l’evoluzione del quadro normativo della materia, ha a sua volta
sostenuto che le norme denunciate contrastano con l’art. 3 Cost., perché
vìolano il legittimo affidamento da essa riposto nella stabile prosecuzione del
rapporto di concessione non solo senza soluzione di continuità, ma anche senza
modifiche contrattuali peggiorative della sua posizione giuridica, acquisita
con notevoli investimenti compiuti per ottenere le autorizzazioni
all’installazione dei videoterminali e pregiudicata dalla forzata introduzione
nel contratto di nuove clausole penali, di nuove cause di decadenza e di
numerose disposizioni vessatorie, non previste nella generalità dei contratti
pubblici, così da mettere in forse la conservazione del titolo concessorio.
Ha inoltre ribadito l’esistenza del
contrasto con gli artt. 41 e 42 Cost., poiché il vulnus al principio
dell’affidamento si sottrarrebbe al giudizio di irragionevolezza solo se fosse
accompagnato da un giusto indennizzo, analogo a quello previsto, nel caso di
revoca della concessione per sopravvenute ragioni di pubblico interesse, dall’art.
21-quinquies, comma 1-bis, della legge n. 241 del 1990.
Infine, ha passato in rassegna i singoli
obblighi ai quali, ai sensi delle norme denunciate, dovrebbe essere adeguata la
convenzione, rilevandone nel dettaglio il conflitto con i parametri evocati.
3.– Il 22 gennaio 2014 è intervenuto nel
giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, che ha eccepito
l’inammissibilità della questione per difetto di rilevanza e, nel merito, la
sua infondatezza.
Sotto il primo aspetto, la difesa dello
Stato, richiamati i motivi dell’impugnazione proposta nel frattempo davanti
alle sezioni unite della Corte di cassazione dalle amministrazioni resistenti
nel giudizio a quo, ha censurato la scelta del Consiglio di Stato di
pronunciare una sentenza di accertamento del diritto del concessionario a
proseguire il rapporto e di sollevare al contempo la questione di legittimità
costituzionale. Secondo l’intervenuto, il giudice a quo, nel caso in cui avesse
nutrito un dubbio di costituzionalità delle norme che introducono i nuovi
obblighi del concessionario, avrebbe dovuto sospendere l’intero giudizio ai
sensi dell’art. 295 del codice di procedura civile, senza cimentarsi nel
"ritaglio” di un rapporto unitario derivante dalla concessione di un servizio
pubblico; operando diversamente, il Consiglio di Stato ha sostanzialmente
disapplicato tali norme, anticipando la sentenza della Corte costituzionale.
Inoltre, il rimettente non avrebbe
considerato il disposto dell’art. 24, comma 35, del decreto-legge 6 luglio
2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria),
convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio
2011, n. 111, che, nel disciplinare l’affidamento in concessione della rete
telematica del gioco lecito, con riferimento ai sistemi di gioco costituiti dal
controllo remoto del gioco attraverso videoterminali, prevede alla lettera a),
che «nel caso in cui risultino aggiudicatari soggetti già concessionari gli
stessi mantengono le autorizzazioni alla installazione dei videoterminali già
acquisite, senza soluzione di continuità […]». Da questa norma si desume,
secondo l’intervenuto, che ai soggetti già concessionari del servizio sono
comunque affidate nuove concessioni, a cui si applicano le norme denunciate,
pertanto gli atti dovrebbero essere restituiti al giudice a quo per una nuova
valutazione della rilevanza della questione, alla luce delle disciplina testé
menzionata.
Nel merito, ricostruito il complesso
quadro normativo, ha osservato che l’attuale disciplina delle concessioni per
la raccolta e gestione del gioco lecito è improntata alla tutela di rilevanti
interessi pubblici, indicati nel comma 77 dell’art. 1 della legge n. 220 del
2010 (la garanzia di trasparenza, la pubblica fede, l’ordine pubblico e la
sicurezza, la salute dei giocatori, la protezione dei minori e delle fasce di
giocatori adulti più deboli, la protezione degli interessi erariali circa i
proventi del gioco ed il contrasto alle infiltrazioni della criminalità
organizzata), che giustificano un più severo ed attento regime di controlli dei
soggetti i quali eseguono tali attività per conto dello Stato, anche con
riguardo ai requisiti soggettivi e patrimoniali che devono possedere.
Le norme denunciate, pertanto, non
violano gli artt. 3 e 41 Cost. e rispettano anche i principi comunitari in tema
di parità di trattamento e di libertà d’impresa, perché i nuovi requisiti, che
restringono l’accesso alle attività in concessione, sono richiesti in eguale
misura a tutti i soggetti selezionati o da selezionare; rispetto al quale non
si ispira, invece, la tesi accolta dal giudice a quo, secondo cui la ricorrente
ha diritto a proseguire la concessione per altri nove anni, senza procedura
selettiva aperta.
L’intervenuto esclude altresì il
contrasto con l’art. 42 Cost., per la mancata previsione normativa di un
indennizzo per i sacrifici imposti al concessionario dai nuovi obblighi
contrattuali, rilevando che gli investimenti compiuti nel corso della
concessione scaduta nel 2009 devono considerarsi già ammortizzati e che quelli
diretti ad acquisire le autorizzazioni ad installare i videoterminali "sono
divenuti liberamente commerciabili dall’avente diritto anche prima ed
indipendentemente dal rilascio di una nuova concessione o proroga”.
Infine, le norme denunciate non determinano
l’applicazione retroattiva alle concessioni in corso di clausole contrattuali
più severe, come ha sostenuto il giudice a quo, bensì prescrivono l’adeguamento
alla disciplina sopravvenuta delle concessioni nuove, prorogate o rinnovate,
sulla base di atti integrativi volontari.
In ogni caso, anche qualora si trattasse
di applicazione retroattiva, la questione sarebbe infondata, perché secondo la
giurisprudenza costituzionale l’assetto di preesistenti rapporti giuridici può
essere legittimamente alterato da una norma sopravvenuta in presenza di
interessi generali, sempre che il loro contemperamento con il contrapposto
principio di affidamento sia improntato a criteri di ragionevolezza. Sotto tale
aspetto, le norme denunciate sembrano sorrette da adeguata ragione
giustificatrice, avendo prescritto anche per i soggetti già concessionari il
possesso di determinati requisiti per l’esercizio dell’attività imprenditoriale
nel settore dei giochi, al fine di conseguire specifici e ragionevoli
obiettivi, funzionali alla realizzazione degli interessi generali indicati
nelle norme denunciate.
4.– Con memoria depositata in prossimità
dell’udienza, B Plus Giocolegale ltd ha ulteriormente illustrato, richiamando
la giurisprudenza costituzionale, la violazione dei parametri evocati, con
particolare riguardo al principio di affidamento di cui all’art. 3 Cost., la
lesione del quale si connoterebbe di particolare rilievo nel caso di specie,
attesa l’incidenza sostanzialmente retroattiva delle norme denunciate su un rapporto
di durata, fonte di situazioni consolidate del concessionario, che in base ad
esse aveva calibrato gli oneri economici e le corrispondenti aspettative.
Riesaminate nel dettaglio le singole
disposizioni alle quali la convezione dovrebbe adeguarsi, la parte ne ha
illustrato il contrasto anche con l’art. 117 Cost., in relazione sia all’art.
41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che all’art. 1
(protezione della proprietà) del Protocollo addizionale alla Convenzione
europea dei diritti dell’uomo (CEDU), rilevando, sotto il primo profilo, che il
principio dell’affidamento rientra, secondo la consolidata giurisprudenza della
Corte di giustizia dell’Unione europea, tra i principi fondamentali dell’Unione
europea, cosicché la Corte costituzionale ben potrebbe richiedere una pronuncia
pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione
europea (ex art. 234 del Trattato che istituisce la Comunità europea), ovvero
disporre la restituzione degli atti al giudice a quo, perché decida la
controversia non applicando le norme interne confliggenti con il diritto
dell’Unione europea; sotto il secondo profilo, che le aspettative economiche
derivanti dalla concessione di gioco lecito, di cui essa è titolare, rientrano
nella sfera di tutela apprestata dall’art. 1 del Protocollo addizionale alla
CEDU, estesa dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo
agli interessi patrimoniali e ai diritti immateriali, cosicché nella specie
dovrebbe ritenersi violato, per le stesse ragioni addotte a sostegno del
denunciato contrasto con l’art. 3 Cost., il principio di proporzionalità del
sacrificio imposto al diritto fondamentale del singolo, rispetto al fine di
pubblica utilità perseguito dal legislatore.
5.– Con memoria depositata in prossimità
dell’udienza, il Presidente del Consiglio dei ministri ha meglio illustrato le
ragioni dell’eccezione di inammissibilità per difetto di rilevanza, già
proposta nell’atto di intervento, osservando che il Consiglio di Stato ha
sollevato la questione nonostante avesse già pronunciato sentenza di
annullamento degli atti impugnati, definendo il giudizio e facendo così venir
meno la necessaria pregiudizialità dell’incidente di costituzionalità rispetto
alla causa principale, nella quale, una volta accertata la prosecuzione del
rapporto di concessione sulla base degli obblighi preesistenti, le norme
denunciate sono state sostanzialmente disapplicate.
Altro profilo di inammissibilità della
questione deriva, secondo l’intervenuto, dal difetto di motivazione
dell’ordinanza di rimessione, essendosi il giudice a quo limitato a ricostruire
i fatti di causa e a indicare le norme sospettate di incostituzionalità, senza
formulare chiaramente il petitum e omettendo di assolvere al doveroso tentativo
di un’interpretazione adeguatrice delle norme denunciate, che consideri le
peculiarità del settore economico in esame, l’accesso al quale è
necessariamente ristretto dall’esigenza di assicurare, mediante la previsione
ex lege di specifici requisiti soggettivi ed oggettivi, idonei livelli di
onorabilità e di solidità economico-finanziaria di coloro ai quali la pubblica
amministrazione affida l’attività di raccolta e gestione dei giochi e delle
scommesse, in funzione dei preminenti interessi pubblici coinvolti, che
giustificano eventuali limitazioni della libertà di iniziativa economica
privata ed escludono la violazione del principio di uguaglianza.
Nel merito, ha ribadito che non esiste
violazione dei parametri evocati, sottolineando la ragionevolezza delle modifiche
contrattuali introdotte dalle norme denunciate, anche a volerne ammettere la
maggiore onerosità per il concessionario (in analogia con quanto si è
verificato, previo superamento del vaglio comunitario, nel simmetrico settore
delle concessioni autostradali), al fine di perseguire primari interessi di
tutela dell’ordine pubblico e del consumatore, nonché di prevenzione delle
frodi e delle infiltrazioni criminali, cui si è ispirata anche la legislazione
successiva, che ha inasprito i requisiti di onorabilità a carico dei
rappresentanti legali delle società concessionarie e di tutti i soggetti che
partecipano direttamente o indirettamente al loro capitale, con quote superiori
al 2 per cento (art. 24, commi 24, 25 e 26, del d.l. n. 98 del 2011).
1.– Il Consiglio di Stato dubita della
legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 79, nonché dei precedenti commi
77 e 78, in quanto richiamati dal comma 79, della legge 13 dicembre 2010, n.
220 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello
Stato – legge di stabilità 2011), in riferimento agli artt. 3, 41, primo comma,
e 42, terzo comma, Cost.
Le norme denunciate prevedono
l’aggiornamento dello schema-tipo di convenzione accessiva alle concessioni per
l’esercizio e la raccolta non a distanza, ovvero comunque attraverso rete
fisica, dei giochi pubblici, in modo che i concessionari siano dotati dei nuovi
«requisiti» e accettino i nuovi «obblighi» prescritti, rispettivamente, nelle
lettere a) e b) del comma 78, e che i contenuti delle convenzioni in essere
siano adeguati agli «obblighi» di cui sopra.
In particolare, il comma 79 prevede che
«[e]ntro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente
legge, i soggetti concessionari ai quali sono già consentiti l’esercizio e la
raccolta non a distanza dei giochi pubblici sottoscrivono l’atto di
integrazione della convenzione accessiva alla concessione occorrente per
adeguarne i contenuti ai principi di cui al comma 78, lettera b), numeri 4),
5), 7), 8), 9), 13), 14), 17), 19), 20), 21), 22), 23, 24), 25) e 26)».
1.1.– La questione è sorta nel corso di
un giudizio promosso contro l’Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato
(d’ora in avanti, «AAMS») dalla società B Plus Giocolegale ltd, concessionaria
della rete per la gestione telematica del gioco lecito mediante apparecchi da
divertimento e intrattenimento, nonché delle attività connesse.
La società ha aderito alla fase di
«concreta sperimentazione e […] avvio a regime di sistemi di gioco costituiti
dal controllo remoto attraverso videoterminali in ambienti dedicati», prevista
dall’art. 12, comma 1, lettera l), del decreto-legge 28 aprile 2009, n. 39
(Interventi urgenti in favore delle popolazioni colpite dagli eventi sismici
nella regione Abruzzo nel mese di aprile 2009 e ulteriori interventi urgenti di
protezione civile), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della
legge 24 giugno 2009, n. 77, a norma del quale la AAMS doveva definire con
propri decreti «le procedure di autorizzazione dei concessionari
all’installazione, previo versamento di euro 15.000 ciascuno, di videoterminali
fino ad un massimo del quattordici per cento del numero di nulla osta dagli
stessi già posseduti».
Essendo stata autorizzata
all’installazione dei videoterminali dietro pagamento delle somme sopra
indicate, B Plus Giocolegale ltd sostiene di avere diritto di proseguire la
concessione senza obbligo di partecipare ad una gara, ai sensi dell’art. 21,
comma 7, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi,
nonché proroga di termini), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma
1, della legge 3 agosto 2009, n. 102, secondo il quale le concessioni della
rete per la gestione telematica del gioco lecito sono affidate agli attuali
concessionari che ne abbiano fatto richiesta entro il 20 novembre 2009 e che
siano stati autorizzati all’installazione dei videoterminali, «con conseguente
prosecuzione della stessa senza alcuna soluzione di continuità» (lettera a),
ovvero «ad ulteriori operatori di gioco, nazionali e comunitari», selezionati
sulla base di requisiti definiti dall’amministrazione «in coerenza con quelli
già richiesti e posseduti dagli attuali concessionari» (lettera b).
Per tali ragioni ha adito il Tribunale
amministrativo regionale del Lazio impugnando, con un primo ricorso, il decreto
interdirigenziale 28 giugno 2011 del direttore della AAMS, recante la
determinazione dei requisiti delle società concessionarie del gioco pubblico
non a distanza e dei loro amministratori, e, con un secondo ricorso per motivi
aggiunti, il bando di gara indetto dalla AAMS per l’affidamento in concessione
della realizzazione e conduzione della rete per la gestione telematica del
gioco lecito, compresi il capitolato d’oneri, il capitolato tecnico e lo schema
di convenzione, nonché l’atto di approvazione dello schema di atto di
convenzione.
Assumendo che le nuove prescrizioni
introdotte dall’art. 1, commi 77, 78 e 79, della legge n. 220 del 2010, nella
parte in cui sono applicabili ai rapporti di concessione in atto, ledono le sue
consolidate posizioni, la società ne ha eccepito l’illegittimità costituzionale
per violazione degli artt. 3, 41 e 42 Cost., oltre che il contrasto con i
principi di tutela dell'affidamento e dei diritti patrimoniali sanciti dal
diritto europeo e dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e
delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950,
ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, perché impongono
intollerabili pesi e oneri sia gestionali che economici, in assenza di
indennizzi di sorta.
Accolti dal TAR del Lazio solo in parte
i motivi del ricorso principale e rigettata nel resto la domanda, B Plus
Giocolegale ltd ha proposto appello al Consiglio di Stato, che, pronunciata sentenza
con la quale ha riconosciuto il diritto della società di proseguire il rapporto
di concessione senza essere assoggettata a gara, ha sollevato con separata
ordinanza la questione di legittimità in esame.
2.– Il giudice a quo sospetta che il
comma 79 dell’art. 1 della legge n. 220 del 2010 (legge di stabilità 2011), e i
commi 77 e 78 dello stesso art. 1, in quanto richiamati dal comma 79 e resi
applicabili anche ai soggetti già concessionari che, avvalendosi della facoltà
prevista dal citato art. 21, comma 7, del d.l. n. 78 del 2009, abbiano
richiesto l’affidamento delle concessioni entro il 20 novembre 2009 e ottenuto
l’autorizzazione all’installazione dei videoterminali, con conseguente
prosecuzione della concessione stessa «senza alcuna soluzione di continuità»,
vìolino i seguenti parametri:
a) l’art. 3 Cost., perché impongono al
concessionario al quale sono già stati consentiti l’esercizio e la raccolta non
a distanza dei giochi pubblici di integrare la convenzione che accede alla
concessione con nuovi requisiti e obblighi, incidendo in modo irragionevole sul
suo legittimo affidamento nella sicurezza dei rapporti giuridici;
b) l’art. 41, primo comma, Cost., perché
restringono la possibilità di diventare concessionario della gestione del gioco
lecito e gravano il concessionario di requisiti e obblighi aggiuntivi,
incidendo sull’esercizio della libertà di iniziativa economica privata;
c) l’art. 42, terzo comma, Cost., perché
non prevedono alcun indennizzo per il sacrificio imposto al concessionario che
ha ottenuto di proseguire il rapporto dietro un esborso non irrilevante di
somme di denaro.
2.1.– Le norme denunciate fanno parte
della disciplina delle concessioni per l’esercizio e la raccolta dei giochi
pubblici.
La materia dei giochi pubblici è riservata
al monopolio dello Stato, che ne può affidare a privati l’organizzazione e
l’esercizio in regime di concessione di servizio, sulla base di una disciplina
che trova origine negli artt. 1 e 2 del decreto legislativo 14 aprile 1948, n.
496 (Disciplina dell’attività di giuoco).
Il gioco pubblico è lecitamente
praticato mediante apparecchi e congegni da intrattenimento, differenziati in
base alla possibilità di conseguire vincite in denaro, alla componente
aleatoria del gioco e alla sua maggiore o minore rischiosità, ai sensi
dell’art. 110, commi 6 e 7, del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 (Testo
unico delle leggi di pubblica sicurezza).
L’art. 14-bis, comma 4, del d.P.R. 26
ottobre 1972, n. 640 (Imposta sugli spettacoli), nel testo sostituito dal comma
4 dell’art. 22 della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (Disposizioni per la
formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria
2003), ha previsto l’istituzione di una o più reti per la gestione telematica
degli apparecchi per il gioco lecito di cui all’art. 110, comma 6, del testo
unico delle leggi di pubblica sicurezza; ha altresì previsto che per la
gestione di queste reti la AAMS possa avvalersi di uno o più concessionari
individuati con procedura ad evidenza pubblica.
Lo Stato ha quindi affidato un numero
predeterminato di concessioni onerose per la gestione e l’organizzazione degli
apparecchi denominati con l’acronimo AWP (Amusement With Prizes), collegati a
reti telematiche, ma con un sistema di gioco residente all’interno degli
apparecchi stessi. I concessionari iniziali AWP furono dieci, tra i quali la
società B Plus Giocolegale ldt, appellante nel processo principale. La durata
della convenzione fu stabilita in cinque anni, decorrenti dal luglio 2004 e con
scadenza al 31 ottobre 2009, prorogabile per un anno.
L’art. 1, comma 525, della legge 23
dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e
pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2006), novellando il comma 6
dell’art. 110 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, ha introdotto
apparecchiature denominate con l’acronimo VLT (Video Lottery Terminal). La
maggiore rischiosità di questi nuovi apparecchi avrebbe dovuto essere
compensata dal fatto che il loro utilizzo è consentito solo in locali ad
accesso limitato e che i corrispondenti sistemi di gioco sono collocati in
ambienti telematici remoti distanti dalle sale da gioco, con i quali il
giocatore si collega attraverso videoterminali.
Dopo una prima fase di stallo (il
regolamento ministeriale contemplato dal novellato art. 110, comma 6, del Testo
unico delle leggi di pubblica sicurezza non è mai stato emanato), un’improvvisa
accelerazione all’avvio delle VLT si è avuta nel 2009, in concomitanza con il
terremoto dell’Aquila e per la necessità di reperire in via d’urgenza risorse
finanziarie aggiuntive, con l’art. 12, comma 1, lettera l), del d.l. n. 39 del
2009. Secondo tale disposizione, a decorrere dal 2009 la AAMS avrebbe potuto
attuare «la concreta sperimentazione e l’avvio a regime di sistemi di gioco
costituiti dal controllo remoto del gioco attraverso videoterminali in ambienti
dedicati», definendo con propri decreti «le procedure di autorizzazione dei
concessionari all’installazione, previo versamento di euro 15.000 ciascuno, di
videoterminali fino ad un massimo del quattordici per cento del numero di nulla
osta dagli stessi già posseduti».
L’art. 21 del successivo d.l. n. 78 del
2009 ha disposto l’avvio delle «procedure occorrenti per un nuovo affidamento
in concessione della rete per la gestione telematica del gioco lecito», al fine
di «garantire l’esito positivo della concreta sperimentazione e dell’avvio a
regime di sistemi di gioco costituiti dal controllo remoto del gioco attraverso
videoterminali di cui all’articolo 12, comma 1, lettera l), del decreto-legge
28 aprile 2009, n. 39, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 giugno
2009, n. 77» (comma 7, alinea).
Per pervenire al «nuovo affidamento», la
norma ha previsto due distinte "modalità”, in ambedue le ipotesi a fronte del
versamento di euro 15.000 per videoterminale e nei limiti del 14 per cento del
numero di nulla osta già posseduti: a) «affidamento delle concessioni agli
attuali concessionari che ne facciano richiesta entro il 20 novembre 2009 e che
siano stati autorizzati all’installazione dei videoterminali, con conseguente
prosecuzione della stessa senza alcuna soluzione di continuità» (comma 7,
lettera a); b) «affidamento della concessione ad ulteriori operatori di gioco,
nazionali e comunitari», selezionati sulla base di requisiti definiti
dall’amministrazione «in coerenza con quelli già richiesti e posseduti dagli
attuali concessionari» (comma 7, lettera b).
La successiva legge n. 220 del 2010
(legge di stabilità per il 2011), ai commi 77, 78 e 79 dell’art. 1, ha
introdotto le norme oggetto di censura, a garanzia di plurimi interessi
pubblici, quali la trasparenza, la pubblica fede, l’ordine pubblico e la
sicurezza, la salute dei giocatori, la protezione dei minori e delle fasce di
giocatori adulti più deboli, la protezione degli interessi erariali
relativamente ai proventi pubblici derivanti dalla raccolta del gioco. Con
esse, sia i nuovi concessionari, sia i titolari delle concessioni in corso,
sono assoggettati a nuovi «obblighi», in prevalenza di natura gestionale,
diretti al mantenimento di indici di solidità patrimoniale per tutta la durata
del rapporto. A questi si affiancano «obblighi» che concorrono alla protezione
dei consumatori e alla riduzione dei rischi connessi al gioco o che introducono
clausole penali e meccanismi diretti a rendere effettive le cause di decadenza
dalla concessione. Sono infine previsti «obblighi» di prosecuzione interinale
dell’attività e di cessione non onerosa o di devoluzione all’amministrazione
concedente, su sua richiesta, della rete infrastrutturale di gestione e
raccolta del gioco, dopo la scadenza del rapporto.
3.– Così ricostruito il quadro normativo
della fattispecie, va esaminata in limine, al fine di delimitare l’oggetto del
giudizio di costituzionalità, l’ammissibilità di alcune deduzioni svolte da B
Plus Giocolegale ltd, appellante nel processo principale, non contenute
nell’ordinanza di rimessione, che tendono ad ampliare il thema decidendum.
Verranno esaminati subito dopo alcuni
preliminari dubbi di ammissibilità, sollevati dalla difesa dello Stato,
attinenti sia al requisito della rilevanza che alla sufficienza della
motivazione sulla non manifesta infondatezza.
3.1.– Nella memoria depositata in
prossimità dell’udienza, B Plus Giocolegale ltd ha dedotto, tra l’altro, che le
norme denunciate si pongono in contrasto con l’art. 117 Cost., in relazione sia
all’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che
tutela il principio dell’affidamento, sia all’art. 1 del Protocollo addizionale
alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in tema di protezione della
proprietà, estesa dalla giurisprudenza della Corte europea per i diritti
dell’uomo agli interessi patrimoniali e ai diritti immateriali.
Sotto il primo profilo, ha rilevato che
la Corte costituzionale potrebbe anche richiedere una pronuncia pregiudiziale
alla Corte di giustizia dell’Unione europea ai sensi dell’art. 267 del Trattato
sul funzionamento dell’Unione europea (ex art. 234 del trattato che istituisce
la Comunità europea), ovvero disporre la restituzione degli atti al giudice a
quo, perché decida la controversia non applicando le norme interne confliggenti
con il diritto dell’Unione europea.
Come si desume dall’espresso riferimento
alla violazione dell’art. 117 Cost. (da intendere limitato al primo comma,
ratione materiae), tali deduzioni si traducono in ulteriori censure di
costituzionalità, per contrasto con le indicate norme dell’Unione europea e
della CEDU, assunte quali parametri interposti.
Si tratta di questioni inammissibili,
perché non sollevate dal giudice rimettente.
In relazione al thema decidendum,
invero, si deve precisare che l’oggetto del giudizio di costituzionalità in via
incidentale è limitato alle norme e ai parametri indicati nelle ordinanze di
rimessione. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, non possono
essere presi in considerazione, oltre i limiti in queste fissati, ulteriori
questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle parti, sia che siano stati
eccepiti ma non fatti propri dal giudice a quo, sia che siano diretti ad
ampliare o modificare successivamente il contenuto delle stesse ordinanze (ex
plurimis, sentenze
n. 275 del 2013, n. 271 del 2011,
n. 236 del 2009).
Quanto alle subordinate istanze di
rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea o di
restituzione degli atti al giudice a quo, la loro inammissibilità deriva, in
via consequenziale e assorbente, dalla mancata pendenza davanti a questa Corte,
per le ragioni appena esposte, di una questione di legittimità delle norme
nazionali, in riferimento agli artt. 11 e 117 Cost., per incompatibilità con il
diritto dell’Unione europea, tale per cui una questione pregiudiziale
interpretativa possa assumere rilevanza al fine della definizione del giudizio
di costituzionalità.
3.2.– Il Presidente del Consiglio dei
ministri ha eccepito in primo luogo l’inammissibilità della questione per
difetto di rilevanza, perché il Consiglio di Stato avrebbe già pronunciato
l’annullamento degli atti impugnati, definendo il giudizio e facendo così venir
meno, con l’esaurimento del suo potere decisorio, la necessaria pregiudizialità
dell’incidente di costituzionalità rispetto alla causa principale.
L’eccezione è infondata.
Nell’ordinanza di rimessione si legge
che con la sentenza n. 4371 del 2 settembre 2013 il Consiglio di Stato ha
accolto l’appello "nei sensi e limiti di cui in motivazione” e, per l’effetto,
"in riforma della sentenza impugnata”, ha accolto "il ricorso instaurativo del
giudizio di I grado ed il ricorso per motivi aggiunti”, rigettando invece la
domanda di risarcimento dei danni.
L’accoglimento dell’appello nei termini
precisati nella motivazione della sentenza – riportata pressoché integralmente
nell’ordinanza di rinvio – consente di ritenere limitato, il conseguente
accoglimento del ricorso instaurativo del giudizio di primo grado e del ricorso
per motivi aggiunti, alle statuizioni dei provvedimenti impugnati in primo
grado che assoggettano all’obbligo di gara i titolari di concessioni in atto.
Essendo stato così escluso che questi ultimi, i quali siano stati autorizzati
ad installare i videoterminali e abbiano fatto tempestiva richiesta di
affidamento, in forza del cosiddetto "sistema binario” introdotto dall’art. 21,
comma 7, del d.l. n. 78 del 2009, «sia[no] tenut[i] a partecipare a una nuova
gara per il (ri)affidamento della concessione in essere», resta da definire la
questione della legittimità dell’imposizione anche ad essi, con apposito atto
integrativo della convenzione, dei nuovi «obblighi» introdotti dalle norme
denunciate. Di modo che, rispetto a questa seconda questione, si deve ritenere
non esaurito il potere decisorio del giudice a quo, il quale si è riservato il
giudizio definitivo su di essa all’esito della pronuncia sulla legittimità
costituzionale delle disposizioni censurate.
Ne consegue la sicura rilevanza della
questione, perché il contestato adeguamento della convenzione, nel caso
sottoposto alla cognizione del giudice a quo, deriva esclusivamente
dall’applicazione del comma 79 dell’art. 1 della legge n. 220 del 2010.
3.3.– Il Presidente del Consiglio dei
ministri ha eccepito l’inammissibilità della questione sotto l’ulteriore
profilo dell’insufficiente motivazione sulla non manifesta infondatezza, perché
il rimettente si sarebbe limitato a ricostruire i fatti di causa e a indicare
le norme sospettate di incostituzionalità, senza formulare chiaramente il
petitum e omettendo di assolvere al doveroso tentativo di un’interpretazione
adeguatrice delle norme denunciate.
L’eccezione è infondata.
Secondo la giurisprudenza
costituzionale, la motivazione dell’ordinanza di rimessione deve contenere
indicazioni sufficienti a una corretta ricostruzione della fattispecie oggetto
del giudizio a quo, necessaria al fine di valutare tanto la rilevanza della
questione di legittimità costituzionale, quanto la sua non manifesta
infondatezza (ex plurimis, da ultimo, sentenza n. 128 del
2014).
Nel caso concreto all’esame della Corte,
tale onere è stato assolto anche con riguardo al requisito della non manifesta
infondatezza, perché, nonostante l’indubbia sintesi dell’impianto argomentativo
della questione, l’ordinanza pone con chiarezza il tema della violazione del
principio dell’affidamento nella sicurezza giuridica, che sarebbe stato inciso
dall’intervento legislativo su un rapporto di durata in atto, con
l’introduzione di modifiche contrattuali irragionevolmente peggiorative di
consolidate posizioni del concessionario, specie se valutate in relazione agli
investimenti e agli oneri economici da esso già assunti, e stabiliti ex lege,
per ottenere la prosecuzione del rapporto. Né sono individuabili spazi per una
diversa interpretazione delle norme denunciate, alla cui stregua l’adeguamento
della convenzione è imposto, senza equivoci, a tutti i soggetti concessionari
ai quali sono già consentiti l’esercizio e la raccolta a distanza dei giochi
pubblici.
Analoghe considerazioni valgono per la
motivazione della non manifesta infondatezza delle altre censure, riferite agli
artt. 41, primo comma, e 42, terzo comma, Cost., le quali, partendo dalle
stesse premesse di fatto, giungono alla conclusione che dalla sopravvenuta
modifica normativa consegue, sia un inammissibile limite all’iniziativa
economica dei concessionari, ai quali sono imposti oneri aggiuntivi e
prescrizioni eccedenti la natura e il contenuto del rapporto, sia un forzato
sacrificio di posizioni ottenute esercitando una facoltà "a titolo oneroso”,
senza alcun indennizzo, previsto invece nella disciplina della revoca dei
provvedimenti a efficacia durevole per sopravvenuti motivi di pubblico
interesse.
4.– Nel merito la questione non è
fondata innanzitutto in relazione alla violazione dell’art. 3 Cost.
4.1.– Il giudice a quo risolve la
sostanza della censura nella considerazione che il legislatore ha inciso sul
preesistente assetto di interessi in senso peggiorativo per il concessionario,
determinando ciò una irragionevole violazione del suo affidamento nella
certezza della sua posizione giuridica.
Secondo la giurisprudenza di questa
Corte, tuttavia, il valore del legittimo affidamento riposto nella sicurezza
giuridica trova sì copertura costituzionale nell’art. 3 Cost., ma non già in
termini assoluti e inderogabili. Per un verso, infatti, la posizione giuridica che
dà luogo a un ragionevole affidamento nella permanenza nel tempo di un
determinato assetto regolatorio deve risultare adeguatamente consolidata, sia
per essersi protratta per un periodo sufficientemente lungo, sia per essere
sorta in un contesto giuridico sostanziale atto a far sorgere nel destinatario
una ragionevole fiducia nel suo mantenimento. Per altro verso, interessi
pubblici sopravvenuti possono esigere interventi normativi diretti a incidere
peggiorativamente anche su posizioni consolidate, con l’unico limite della
proporzionalità dell’incisione rispetto agli obiettivi di interesse pubblico
perseguiti. Con la conseguenza che «non è affatto interdetto al legislatore di
emanare disposizioni le quali vengano a modificare in senso sfavorevole per i beneficiari
la disciplina dei rapporti di durata, anche se l’oggetto di questi sia
costituito da diritti soggettivi perfetti», unica condizione essendo «che tali
disposizioni non trasmodino in un regolamento irrazionale, frustrando, con
riguardo a situazioni sostanziali fondate sulle leggi precedenti, l’affidamento
dei cittadini nella sicurezza giuridica, da intendersi quale elemento
fondamentale dello Stato di diritto (sentenze n. 302 del
2010, n. 236
e n. 206 del
2009)» (ex plurimis, ordinanza n. 31 del
2011).
A maggior ragione ciò vale per rapporti
di concessione di servizio pubblico, come quelli investiti dalle norme
censurate, nei quali, alle menzionate condizioni, la possibilità di un
intervento pubblico modificativo delle condizioni originarie è da considerare
in qualche modo connaturata al rapporto fin dal suo instaurarsi. E ancor più,
si può aggiungere, ciò deve essere vero, allorché si verta in un ambito così
delicato come quello dei giochi pubblici, nel quale i valori e gli interessi
coinvolti appaiono meritevoli di speciale e continua attenzione da parte del
legislatore.
Proprio in ragione dell’esigenza di
garantire un livello di tutela dei consumatori particolarmente elevato e di
padroneggiare i rischi connessi a questo settore, la giurisprudenza europea ha
ritenuto legittime restrizioni all’attività (anche contrattuale) di
organizzazione e gestione dei giochi pubblici affidati in concessione, purché
ispirate da motivi imperativi di interesse generale, quali sono certamente quelli
evocati dall’art. 1, comma 77, della legge n. 220 del 2010 (contrasto della
diffusione del gioco irregolare o illegale in Italia; tutela della sicurezza,
dell’ordine pubblico e dei consumatori, specie minori d’età; lotta contro le
infiltrazioni della criminalità organizzata nel settore), e a condizione che
esse siano proporzionate (sentenza
della Corte di giustizia dell’Unione europea, 30 giugno 2011, in causa C-212/08).
Le norme denunciate introducono
«requisiti» in tema di forma giuridica dell’impresa, sede legale, residenza
delle infrastrutture, capacità tecnico-infrastrutturale, solidità patrimoniale
e finanziaria, nonché garanzie e misure atte a prevenire conflitti di interessi
o a garantire l’onorabilità e professionalità degli amministratori, e impongono
«obblighi» di periodica comunicazione alla AAMS di informazioni e dati
contabili, di immediata e integrale ricostituzione del capitale sociale in determinati
casi, di mantenimento di un certo rapporto di indebitamento, di distribuzione
di dividendi solo subordinatamente al mantenimento dei livelli di servizio
richiesti al concessionario, di sottoposizione delle operazioni che implicano
mutamenti soggettivi del concessionario ad autorizzazione preventiva della
AAMS, di adozione di strumenti per escludere i minori dall’accesso al gioco, di
promozione di comportamenti responsabili di gioco, di cessione non onerosa
della rete infrastrutturale alla scadenza della concessione.
Poiché nell’ordinanza di rimessione la
questione è sollevata con generico e indistinto riferimento a tutte le
disposizioni che prescrivono i requisiti e gli obblighi descritti, senza che
sia precisato sotto quale specifico profilo sia stato leso l’affidamento del
concessionario in relazione ad essi (in termini, ad esempio, di minore
redditività, di irrecuperabilità di costi e investimenti, di mancato possesso
di alcuni dei requisiti introdotti), né se le misure imposte siano, nel loro complesso,
sproporzionate (e in particolare idonee in concreto ad alterare
irrimediabilmente l’equilibrio contrattuale o a espellere indirettamente
l’operatore dal mercato), l’effettivo impatto delle norme denunciate sulle
posizioni del concessionario non può essere valutato comparativamente con le
effettive esigenze di tutela degli interessi pubblici alla cui cura esse sono
preordinate.
Peraltro, anche volendo entrare nel
merito della valutazione dei singoli obblighi imposti al concessionario, si può
osservare che in vari casi la loro effettiva consistenza non è definita
direttamente dalla legge, ma affidata da essa alla determinazione
dell’amministrazione e in particolare a un decreto interdirigenziale del
Ministero dell’economia e delle finanze o a un decreto direttoriale della AAMS.
Così è per i requisiti di patrimonializzazione e indebitamento, per la
trasmissione delle informazioni, dei dati e delle contabilità relativi
all’attività di gioco, nonché per la trasmissione annuale del quadro
informativo minimo dei dati economici, finanziari, tecnici e gestionali (numeri
4, 9, 19 e 20 del comma 78, lettera b, richiamati dal comma 79). Sicché,
escluso che l’imposizione di oneri aggiuntivi in corso di rapporto sia di per
sé in assoluto intollerabile, la sua concreta tollerabilità, nel caso delle
specifiche disposizioni di legge della cui costituzionalità il rimettente
dubita, andrebbe valutata anche in ragione della misura di tali oneri e, di
conseguenza, la verifica della loro ragionevolezza e proporzionalità andrebbe
operata sull’atto amministrativo che tale misura determina.
Quanto alla specifica posizione dei
concessionari «preesistenti» – aventi diritto alla prosecuzione del rapporto ai
sensi dell’art. 21, comma 7, del d.l. n. 78 del 2009, e assoggettati anch’essi
ai nuovi obblighi in base alle norme censurate – e al suo supposto carattere
consolidato, non si può non rilevare innanzitutto l’originaria instabilità del
nuovo rapporto concessorio (o della prosecuzione del rapporto concessorio
scaduto, secondo la prospettazione del rimettente), derivante, per un verso,
dall’essere esso sorto nel contesto di quella che la legge definisce una
«concreta sperimentazione» dei nuovi sistemi di gioco (art. 12, comma 1,
lettera l), del d.l. n. 39 del 2009), e, per altro verso, dall’essere stati
individuati, gli stessi concessionari, con una modalità di affidamento
(l’assegnazione diretta per legge, sulla base di una loro semplice opzione,
ancorché a fronte del pagamento di una somma di denaro), costituente una
vistosa eccezione alla regola generale della concorrenzialità. Quest’ultima
circostanza in particolare – anche al di là di ogni considerazione sulle
ragioni eccezionali che possono aver determinato la scelta del legislatore –
contribuisce ad accentuare il carattere pubblicistico del rapporto di
concessione in questione e, con esso, la sua ancora maggiore attitudine a
essere oggetto di interventi regolativi pubblici funzionali alla cura degli
interessi per i quali le attività di raccolta e gestione dei giochi pubblici sono
legittimamente riservate al monopolio statale.
Si consideri, inoltre, che la mancata
estensione ai concessionari «preesistenti», che già avevano ottenuto in
affidamento diretto la gestione dei nuovi apparecchi, dei requisiti e obblighi
introdotti ex lege, avrebbe creato un irragionevole vantaggio competitivo di
questi rispetto ai nuovi concessionari che a tali requisiti e obblighi sono
ovviamente soggetti, con la conseguenza di un’ulteriore ingiustificata lesione
del principio di concorrenza (sentenza n. 34 del
2015, in materia di incrementi tariffari concernenti l’attività di cava).
In definitiva, i pesi imposti dalle
norme denunciate non solo sono connaturali al regime di concessione del gioco
pubblico, che deve tutelare plurimi interessi generali, ma costituiscono anche,
nel caso di specie, una misura minima di ripristino della par condicio dei
gestori, del tutto giustificata dalla situazione di vantaggio del
concessionario «preesistente» che, avendo aderito alla fase di sperimentazione
e avvio a regime di sistemi di gioco costituiti dal controllo remoto del gioco
attraverso videoterminali, non ha dovuto sottoporsi alla gara per il nuovo
affidamento.
4.2. – Ne consegue che la questione è
infondata in riferimento all’art. 3 Cost.
5.– La questione non è fondata nemmeno
con riferimento alla lamentata violazione dell’art. 41, primo comma, Cost.
5.1.– Secondo il giudice a quo, il
dubbio di legittimità sorge, "[…] come prospettato dalla stessa società
appellante, con riferimento al fatto che ‘le norme introdotte con la l. n.
220/2010 comportano una incidenza diretta sul libero esercizio della libertà di
impresa restringendo pesantemente ed inammissibilmente la possibilità di
accedere alla posizione di concessionario del gioco lecito e comunque gravando
i concessionari di intollerabili oneri aggiunti e prescrizioni eccedenti la
natura e il contenuto del rapporto’”.
Questa Corte ha costantemente negato che
sia «configurabile una lesione della libertà d'iniziativa economica allorché
l'apposizione di limiti di ordine generale al suo esercizio corrisponda
all’utilità sociale», oltre, ovviamente, alla protezione di valori primari
attinenti alla persona umana, ai sensi dell’art. 41, secondo comma, Cost.,
purché, per un verso, l'individuazione dell’utilità sociale «non appaia
arbitraria» e, «per altro verso, gli interventi del legislatore non la
perseguano mediante misure palesemente incongrue» (ex plurimis, sentenze n. 247
e n. 152 del
2010; n. 167
del 2009).
Questi principi, secondo la giurisprudenza
costituzionale, devono essere osservati anche nella disciplina legislativa di
un’attività economica considerata quale pubblico servizio, che è pur sempre
espressione del diritto di iniziativa economica garantito dall’art. 41 Cost.,
con la particolarità che al regime di ogni servizio pubblico è connaturale
l’imposizione di controlli e programmi per l'indirizzo dell'attività economica
a fini sociali, sicché in tali ipotesi «[…] la individuazione da parte del
legislatore dell’utilità sociale può sostanziarsi di valutazioni attinenti alla
situazione del mercato» e «può dar luogo ad interventi legislativi tali da
condizionare in qualche modo le scelte organizzative delle imprese», sempre che
l'individuazione dell'utilità sociale non appaia arbitraria e che gli
interventi del legislatore non perseguano l'individuata utilità sociale
mediante misure palesemente incongrue, ed in ogni caso che l'intervento
legislativo non sia tale da condizionare le scelte imprenditoriali in grado
così elevato da indurre la funzionalizzazione dell'attività economica di cui si
tratta sacrificandone le opzioni di fondo» (sentenza n. 548 del
1990).
Il contrasto con l’art. 41 Cost. di
limiti, vincoli e controlli imposti dal legislatore all’attività del
concessionario, anche in costanza del rapporto, non discende dunque dal solo
fatto che l’intervento normativo censurato incide, anche in modo rilevante,
sull’organizzazione imprenditoriale del concessionario, condizionandone le
scelte e i programmi di investimento, ma, in applicazione dei principi espressi
dalla giurisprudenza della Corte, perché sussista, richiede che a questi
effetti limitativi della libertà d’impresa si accompagni l’arbitraria
individuazione dell’utilità sociale perseguita dal legislatore o la palese
incongruità delle misure adottate per perseguirla.
Nella specie, si versa in un caso di
attività economica svolta dal privato in regime di concessione di un servizio
pubblico riservato al monopolio statale e connotato dai preminenti interessi
generali menzionati nel comma 77 dell’art. 1 della legge n. 220 del 2010. Al
regime concessorio, in questa materia, è dunque connaturale l’imposizione di
penetranti limitazioni della libertà di iniziativa economica, che rispondono
alla protezione di tali interessi. E tanto più lo è in un settore che, per le
ragioni già indicate, presenta profili di delicatezza del tutto particolari,
connessi alla rischiosità e ai pericoli propri della peculiare attività
economica soggetta al regime di concessione.
Le norme denunciate sono dichiaratamente
rivolte a contemperare gli interessi privati dei concessionari con i prevalenti
interessi pubblici coinvolti nel settore dei giochi e delle scommesse e a
migliorarne la tutela, senza che sia dato di rinvenire elementi di arbitrarietà
nella loro individuazione. Al raggiungimento di questi obiettivi sono
funzionali infatti anche elevati requisiti di onorabilità, di affidabilità e di
solidità economico-finanziaria dei concessionari, in considerazione del
rilevante valore economico delle attività connesse con il gioco e della
conseguente necessità di prevenirne l’esercizio in maniera fraudolenta o per
fini criminali.
Le nuove prescrizioni introdotte dalle
norme denunciate, che richiedono il mantenimento di un più elevato indice di
solidità economico-finanziaria dell’impresa del concessionario e il suo
rispetto per l’intera durata della concessione, o che introducono clausole
penali e meccanismi volti a rendere effettive le cause di decadenza dalla
concessione, non sono pertanto né palesemente incongrue rispetto alle finalità
individuate dal legislatore, né «eccedenti il contenuto e la natura del
rapporto» o apportatrici di «intollerabili oneri aggiunti»», come assume il
giudice a quo.
6.– Nemmeno è fondata, infine, la
questione relativa alla violazione dell’art. 42, terzo comma, Cost.
6.1.– La censura si fonda sulla tesi,
sostenuta dall’appellante nel processo principale e fatta propria dal
rimettente, secondo cui i nuovi «obblighi» da inserire nella convenzione,
nell’imporre il mantenimento di un più rigoroso indice di solidità patrimoniale
anche al concessionario avente diritto alla prosecuzione del rapporto «senza
soluzione di continuità», ai sensi dell’art. 21, comma 7, del d.l. n. 78 del
2009, vanificherebbero i rilevanti investimenti realizzati per ottenere tale
prosecuzione, che era subordinata al conseguimento dell’autorizzazione
all’installazione dei videoterminali per il controllo remoto del gioco, dietro
versamento di euro 15.000 per ciascuno di essi. Ne deriverebbe, secondo il
rimettente, l’illegittimità di una norma che, come quella denunciata, determina
un sacrificio patrimoniale del concessionario, incidendo su posizioni
conseguite a titolo oneroso, senza prevedere un adeguato indennizzo, come
stabilito invece, in caso di revoca della concessione per sopravvenute ragioni
di pubblico interesse, dall’art. 21-quinquies, comma 1-bis, della legge 7
agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di processo amministrativo e di
diritto di accesso ai documenti amministrativi).
Il riferimento della censura alla
violazione dell’art. 42, terzo comma, Cost., circoscrive il tema della
violazione del principio del giusto indennizzo al caso di atti a contenuto
espropriativo.
Secondo la giurisprudenza costituzionale
sussiste il principio, tratto dall’art. 42, terzo comma, Cost. secondo il quale
rientra «nell’ambito della tutela della proprietà, accanto alla fattispecie
dell’espropriazione formale, il complesso delle situazioni, le quali, pur non concretando
un trasferimento totale o parziale di tale diritto, ne svuotino il contenuto»
(ex plurimis, sentenze
n. 92 del 1982, n. 89 del 1976,
n. 55 del 1968).
Questo principio, tuttavia, opera esclusivamente nei confronti delle ablazioni
reali, cioè di quelle espropriazioni che concernono i beni, con l’imposizione
di limiti e vincoli che li svuotino del loro contenuto. Mentre esso non è
applicabile alle prestazioni (o ablazioni) obbligatorie (sentenza n. 290 del
1987).
Nel caso ora sottoposto all’esame della
Corte, un fenomeno di ablazione reale non viene ipotizzato dal giudice a quo, e
nemmeno è ipotizzabile con riferimento alle somme pagate dal concessionario per
conseguire le autorizzazioni all’installazione dei videoterminali, giacché la
supposta perdita totale o parziale del capitale investito (di cui l’ordinanza
di rimessione non fornisce tuttavia alcun riscontro, a fronte del presumibile
ammortamento dei relativi costi, come ha rilevato la difesa dello Stato)
costituirebbe al più un’incidenza solo riflessa dei vincoli di gestione imposti
dalle norme denunciate, e si collocherebbe, come tale, fuori dall’ambito di
protezione della norma costituzionale.
Non è pertinente, infine, il richiamo
alla disciplina generale della revoca del provvedimento amministrativo a
efficacia durevole per sopravvenuti motivi di pubblico interesse (art.
21-quinquies, commi 1 e 1-bis, della legge n. 241 del 1990), che prevede
l’obbligo dell’amministrazione di indennizzare il pregiudizio subìto dai soggetti
direttamente interessati. Non solo, infatti, l’indennizzo ivi contemplato non
si collega a un atto ablativo, ma nemmeno, nella fattispecie in esame, viene in
discussione una ipotesi di sopravvenuta inefficacia della concessione. Né è
ipotizzabile che il richiamo all’indennizzo in caso di revoca si colleghi per
implicito a una censura di disparità di trattamento normativo ai sensi
dell’art. 3 Cost., non avendo il rimettente motivato sull’idoneità a fungere da
tertium comparationis della situazione disciplinata dall’art. 21-quinquies,
commi 1 e 1-bis, della legge n. 241 del 1990.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 1, comma 79, della legge 13 dicembre 2010, n. 220
(Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato
– legge di stabilità 2011) nonché dei precedenti commi 77 e 78, in quanto
richiamati dal comma 79, sollevata dal Consiglio di Stato, in riferimento agli
artt. 3, 41, primo comma, e 42, terzo comma, della Costituzione, con
l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della
Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 marzo 2015.
F.to:
Alessandro CRISCUOLO, Presidente
Daria de PRETIS, Redattore
Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 31 marzo
2015.