SENTENZA N.
154
ANNO 2013
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME DEL
POPOLO ITALIANO
LA CORTE
COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco GALLO Presidente
- Luigi MAZZELLA Giudice
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo
Maria NAPOLITANO "
- Alessandro CRISCUOLO "
- Paolo GROSSI "
- Giorgio LATTANZI "
- Aldo CAROSI "
- Marta CARTABIA "
- Sergio MATTARELLA "
- Mario
Rosario MORELLI "
- Giancarlo CORAGGIO "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità
costituzionale dell’articolo 78, comma 6, primo periodo, del decreto-legge 25
giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la
semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e
la perequazione tributaria), convertito in legge, con modificazioni, dall’art.
1, comma 1, della legge 6 agosto 2008, n. 133, e dell’articolo 4, comma 8-bis,
ultimo periodo, del decreto-legge 25 gennaio 2010, n. 2 (Interventi urgenti
concernenti enti locali e regioni), convertito in legge, con modificazioni,
dall’art. 1, comma 1, della legge 26 marzo 2010, n. 42, promossi dal Consiglio
di Stato con ordinanza del 6 ottobre 2011 e dal Tribunale amministrativo
regionale per il Lazio con ordinanza del 26 luglio 2012, iscritte,
rispettivamente, al n. 265 del registro ordinanze 2011 ed al n. 252 del registro
ordinanze 2012 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 53,
prima serie speciale, dell’anno 2011 e n. 45, prima serie speciale, dell’anno
2012.
Visti
gli atti di costituzione della
Società Consorcasa Regione Lazio coop a r.l. ed altri, di Roma Capitale (già Comune di Roma), della
Società Bindi Pratopronto s.a.s. di Michele Bindi
& C., nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
udito nell’udienza pubblica del 4 giugno 2013 il Giudice
relatore Gaetano Silvestri;
uditi
gli avvocati Andrea Scafa per la
Società Bindi Pratopronto s.a.s. di Michele Bindi
& C., Andrea Magnanelli e Domenico Rossi per Roma Capitale (già Comune di
Roma) e l’avvocato dello Stato Antonio Tallarida per il Presidente del Consiglio
dei Ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 6 ottobre 2011, il
Consiglio di Stato ha sollevato questioni di legittimità costituzionale
dell’articolo 78, comma 6, primo periodo, del decreto-legge 25 giugno 2008, n.
112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la
competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione
tributaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 6
agosto 2008, n. 133, nella parte in cui prevede l’applicazione dell’art. 248
del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali) alle obbligazioni rientranti nella gestione
commissariale del Comune di Roma, e dell’art. 4, comma 8-bis, ultimo periodo, del
decreto-legge 25 gennaio 2010, n. 2 (Interventi urgenti concernenti enti locali
e regioni), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 26
marzo 2010, n. 42, nella parte in cui prevede, «ai fini di una corretta
imputazione del piano di rientro», che il primo periodo del comma 3
dell’articolo 78 del d.l. n. 112 del 2008 «si
interpreta nel senso che la gestione commissariale del comune assume, con
bilancio separato rispetto a quello della gestione ordinaria, tutte le
obbligazioni derivanti da fatti o atti posti in essere fino alla data del 28
aprile 2008, anche qualora le stesse siano accertate e i relativi crediti
liquidati con sentenze pubblicate successivamente alla medesima data».
Le questioni sono sollevate in
riferimento agli artt. 2, 3, 24, 41, primo comma, 42, terzo comma, 97, primo
comma, 101, 102, 103, 104, 108, secondo comma, 113, 114, 117, primo comma (in
relazione all’art. 6, comma 1, e all’art. 13 della Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma
il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva in Italia dalla legge 4 agosto
1955, n. 848, nonché in relazione all’art. 1 del primo Protocollo addizionale
alla medesima Convenzione, firmato a Parigi il 20 marzo 1952), 118 e 119 della
Costituzione.
1.1.– Riferisce il rimettente che il
procedimento principale è stato introdotto con ricorso proposto dalla società Consorcasa Regione Lazio coop. a r.l.
ed altri avverso la sentenza del TAR Lazio 5 novembre 2010, n. 33208, e nei confronti
di Roma Capitale.
La pronuncia appellata ha accolto, «nei
limiti e nei termini di cui in motivazione», il ricorso in ottemperanza avente
ad oggetto l’esecuzione del giudicato formatosi sulla sentenza della Corte
d’appello di Roma 10 novembre 2008, n. 4565, che ha determinato l’indennità
spettante ai ricorrenti per un’espropriazione avvenuta molti anni addietro.
In particolare, il giudice di primo
grado ha ordinato al Comune di Roma di dare esecuzione alle statuizioni
contenute nella sentenza di condanna, pagando la somma corrispondente al
credito ivi accertato, comprensivo delle spese legali, previa verifica della
disponibilità, nel bilancio dell’Ente, delle risorse necessarie, ovvero, in
caso di esito negativo della verifica indicata, procedendo all’inserimento
dell’importo dovuto a titolo di capitale, accessori e spese nella massa passiva
della gestione commissariale.
1.2.– Gli appellanti hanno chiesto al
Consiglio di Stato di disporre concretamente l’ottemperanza della sentenza
della Corte d’appello di Roma, imponendo all’Ente debitore di pagare le somme
ivi liquidate entro un termine prefissato, e provvedendo, da subito, alla
nomina di un commissario ad acta.
In subordine, per l’ipotesi di ritenuta
applicabilità dell’art. 78 del d.l. n. 112 del 2008,
«come modificato ed integrato» dall’art. 4, comma 8-bis, del d.l. n. 2 del 2010, gli stessi appellanti hanno eccepito
l’illegittimità costituzionale delle indicate disposizioni, per contrasto con
gli artt. 2, 3, 24, 41, 100, 101, 102, 103, 104, 108 e 113 Cost.
Nel giudizio principale, si è costituita
Roma Capitale (già Comune di Roma) ed ha chiesto che l’appello sia dichiarato
inammissibile, atteso «il venir meno della titolarità di una posizione
debitoria di Roma Capitale con riferimento al credito per cui si procede», e
nel merito ha concluso per il rigetto dell’appello.
1.3.– Il giudice a quo dà atto di avere
parzialmente deliberato, in accoglimento dell’appello (sentenza 10 agosto 2011,
n. 4772), facendo applicazione dei principi enunciati dalla sentenza n. 8363
del 2010 del Consiglio di Stato, secondo cui, in sede di ottemperanza, ed a
fronte di una disciplina che richiama quella degli enti locali in dissesto, il
giudice deve innanzitutto accertare il momento in cui è sorta l’obbligazione,
al fine di attribuire la qualifica di debitore all’ente o alla gestione
commissariale. In questa seconda ipotesi, lo stesso giudice «non può emettere
pronuncia che obblighi la gestione commissariale, o tanto meno l’ente locale,
ad eseguire la sentenza né può, di conseguenza, procedere alla nomina di un
commissario ad acta».
Nel caso di specie, osserva il
rimettente, a fronte di un giudicato che ha determinato l’indennità di
espropriazione spettante agli appellanti, il giudice di primo grado non avrebbe
dovuto procedere, come invece ha fatto, all’accoglimento del ricorso, imponendo
all’Amministrazione condannata un obbligo di fare non satisfattorio della
posizione giuridica dei ricorrenti.
Lo stesso rimettente precisa di avere
riconosciuto, nella sentenza parziale, sia il diritto degli appellanti ad
ottenere lo svincolo delle somme relative all’indennità provvisoria di
espropriazione, giacenti presso il Ministero dell’economia e delle finanze –
costituendo tali somme «un debito già assolto», anche se antecedente al 28
aprile 2008, e dunque «estraneo alla tematica del riparto tra Comune e gestione
commissariale» –, sia il diritto ad ottenere da Roma Capitale le somme
liquidate a titolo di spese legali dalla sentenza oggetto di ottemperanza,
trattandosi di obbligazione sorta al momento del deposito della sentenza, e
quindi in epoca successiva al 28 aprile 2008.
Il Consiglio di Stato ha ritenuto di non
poter pervenire alle medesime conclusioni, cioè alla condanna di Roma Capitale
all’ottemperanza, con riguardo alla statuizione principale contenuta nella
sentenza della Corte d’appello di Roma, di liquidazione della somma dovuta a
titolo di indennità di espropriazione, con i relativi interessi legali, sul
rilievo che «in questo caso, appare del tutto evidente che il diritto di
credito (e la corrispondente obbligazione di Roma Capitale) è sorto ben prima
del 28 aprile 2008, assumendo – a fronte di ciò – la sentenza esclusivamente
valore accertativo della sussistenza ed entità del diritto di credito (già
esistente), con conseguente condanna dell’amministrazione al pagamento della
somma accertata». L’obbligazione corrispondente al credito così accertato, in
applicazione degli artt. 78 del d.l. n. 112 del 2008
e 4, comma 8-bis, del d.l. n. 2 del 2010,
rientrerebbe nella gestione commissariale, con la conseguenza che il giudizio
di ottemperanza, in parte qua, dovrebbe essere dichiarato impromovibile.
Tuttavia, il Consiglio di Stato dubita
della compatibilità costituzionale delle disposizioni indicate e solleva le
relative questioni, evidenziando che il giudizio principale potrebbe
concludersi con pronuncia di merito soltanto ove le norme censurate fossero
dichiarate costituzionalmente illegittime.
1.4.– Le questioni, prospettate in
riferimento a numerosi parametri, possono essere sintetizzate per nuclei
tematici.
1.4.1.– Il primo blocco di censure muove
dalla ricognizione della giurisprudenza costituzionale in tema di norme
interpretative, e fa riferimento all’art. 4, comma 8-bis, del d.l. n. 2 del 2010, che è intervenuto sulla disciplina
configurata dall’art. 78 del d.l. n. 112 del 2008.
Dopo avere premesso che,
«indipendentemente dalla natura innovativa con efficacia retroattiva (come
sostenuto dagli appellanti) ovvero di interpretazione autentica, del citato
art. 4, comma 8-bis», il problema da affrontare riguarda i limiti che la
portata retroattiva della disposizione incontra alla luce del principio di
ragionevolezza, il rimettente segnala le pronunce della Corte costituzionale a
proposito della qualificazione delle norme come interpretative (sentenze n. 155 del 1990
e n. 233 del
1988). È esaminata in particolare la sentenza n. 291 del
2003, nella quale la Corte costituzionale ha precisato che «il legislatore
può porre norme che retroattivamente precisino il significato di altre norme
preesistenti, ovvero impongano una delle possibili varianti di senso del testo
originario, purché compatibile con il tenore letterale di esso (sentenze n. 421 del 1995, n. 376 del 1995,
n. 15 del 1995,
n. 397 del 1994)».
In tali casi, aggiunge il rimettente, il problema da affrontare riguarda non
tanto la natura della legge, quanto piuttosto i limiti che la sua portata
retroattiva incontra, alla luce del principio di ragionevolezza (sono
richiamate le sentenze n. 525 del 2000
e n. 299 del
1999).
Su questa premessa, il rimettente
censura le disposizioni contenute nell’art. 78, comma 6, primo periodo, del d.l. n. 112 del 2008 e nell’art. 4, comma 8-bis, ultimo
periodo, del d.l. n. 2 del 2010, in riferimento agli
artt. 3, 97, primo comma, 114, 118 e 119 Cost.,
rilevando come, per effetto di tali previsioni, sia impedita la «puntuale e
temporalmente definita ricognizione dello stato debitorio propriamente inteso,
da assegnare alla gestione commissariale».
In particolare, la disposizione
contenuta nell’art. 4, comma 8-bis, del d.l. n. 2 del
2010, anziché introdurre un criterio per la definizione della massa debitoria,
agirebbe esclusivamente ex post, attribuendo alla gestione commissariale le
obbligazioni sorte prima del 28 aprile 2008, «ma nel momento in cui sopravviene
l’accertamento con sentenza». Si tratterebbe, dunque, non di un criterio di
ricognizione attuale del debito, bensì di un criterio successivo di imputazione
dello stesso, oltretutto in deroga alla disciplina sul dissesto degli enti
locali contenuta nell’art. 254 del d.lgs. n. 267 del 2000, che prevede la
pubblicazione di un avviso ai creditori, ai fini della insinuazione dei crediti
e, quindi, della ricognizione della massa passiva.
Tale criterio non consentirebbe di
raggiungere la certezza del presupposto (l’indebitamento) che ha determinato
l’introduzione della disciplina eccezionale, donde l’irragionevolezza della
norma censurata ed il contrasto della stessa con il principio di buon andamento
della pubblica amministrazione.
L’incertezza sulla consistenza
dell’indebitamento si rifletterebbe sulla «indeterminatezza temporale della
gestione commissariale», così evidenziandosi un ulteriore profilo di
irragionevolezza della normativa censurata, che avrebbe prodotto «una non
giustificabile deroga e compressione (temporalmente non definite) all’autonomia
dell’ente locale, come precisata a garantita dagli artt. 114, 118 e 119 Cost.».
1.4.2.– Con un secondo gruppo di
censure, è prospettato il contrasto tra le norme oggetto e gli artt. 2, 3, 24,
103, 113 e 117, primo comma, Cost., con
l’interposizione, in riferimento a quest’ultimo parametro, degli artt. 6, comma
1, e 13 della Convenzione EDU.
Il legislatore, disponendo che i diritti
di credito accertati in sede giurisdizionale, «ma riferiti a fatti o atti
anteriori al 28 aprile 2008», sono ricompresi tra quelli per i quali non sono
consentite azioni esecutive, avrebbe inciso «retroattivamente, senza alcuna
ragionevolezza», su diritti riconosciuti con sentenze passate in giudicato
prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 2 del 2010,
come avvenuto nel caso oggetto del giudizio principale.
Il rimettente richiama la sentenza n. 155 del
1990 della Corte costituzionale, secondo cui una norma interpretativa «non
viola di per sé gli artt. 101, 102 e 104 Cost. […], a
meno che essa non leda il giudicato già formatosi o non sia intenzionalmente
diretta ad incidere sui giudizi in corso», ritenendo che si dovrebbe pervenire
alla medesima conclusione anche nel caso in cui una norma interpretativa, pur
non disconoscendo il diritto accertato dal giudice, né incidendo sul suo
contenuto, agisca sul diverso piano della effettività della tutela
giurisdizionale, in sede esecutiva.
Per queste ragioni, le disposizioni
censurate contrasterebbero con l’art. 3 Cost., per la
manifesta irragionevolezza «in relazione al principio di eguaglianza dei
cittadini dinanzi alla legge», nonché con gli artt. 2, 24, 103 e 113 Cost., che garantiscono il diritto inviolabile alla tutela
giurisdizionale.
Il Consiglio di Stato ritiene altresì
violato l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione
agli artt. 6, comma 1, e 13 della Convenzione EDU, i quali sanciscono,
rispettivamente, il diritto ad un equo processo, da celebrare in tempi
ragionevoli, dinanzi ad un tribunale indipendente ed imparziale costituito per
legge, per la determinazione dei diritti e dei doveri di carattere civile, ed
il diritto di poter esperire «un ricorso effettivo davanti ad una istanza
nazionale», nel caso di violazione delle libertà e dei diritti riconosciuti
dalla stessa Convenzione.
Le norme convenzionali citate ed i
princìpi da esse desumibili, che costituiscono, ai sensi dell’art. 117, primo
comma, Cost., altrettanti limiti alla potestà
legislativa, risulterebbero violati in quanto le norme censurate, mediante il
richiamo all’art. 248, comma 2, del d.lgs. n. 267 del 2000, negano la
possibilità di intraprendere o proseguire azioni esecutive nei confronti
dell’ente locale «per i debiti che rientrano nella competenza dell’organo
straordinario di liquidazione».
1.4.3.– Con il terzo gruppo di censure,
il giudice a quo prospetta un contrasto tra le norme oggetto del giudizio e gli
artt. 101, 102, 104 e 108, secondo comma, Cost.
Si assume, in particolare, che
l’intervento legislativo avrebbe compresso ex post l’autonomia e l’indipendenza
dell’autorità giudiziaria, incidendo sulla effettività delle pronunce da essa
rese.
È richiamata in proposito la sentenza n. 364 del
2007 della Corte costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale dell’art. 7-quater del decreto-legge 31 gennaio 2005, n. 7
(Disposizioni urgenti per l’università e la ricerca, per i beni e le attività
culturali, per il completamento delle grandi opere strategiche, per la mobilità
dei pubblici dipendenti e per semplificare gli adempimenti relativi a imposte
di bollo e tasse di concessione, nonché altre misure urgenti), convertito, con
modificazioni, dall’art. 1 della legge 31 marzo 2005, n. 43.
La citata disposizione, prosegue il
rimettente, stabiliva «l’inefficacia nei confronti di un ente succeduto ad un
altro – anche nei rapporti pendenti, con istituzione di una gestione
commissariale per i debiti del secondo – dei decreti ingiuntivi e delle
sentenze emesse nei confronti del primo ente per debiti relativi al secondo e
l’estinzione d’ufficio dei giudizi di ottemperanza pendenti in base al medesimo
titolo».
La Corte costituzionale ha ritenuto che
tale disposto violasse le attribuzioni costituzionali dell’autorità
giudiziaria, cui spetta la tutela dei diritti, non essendo dubitabile che
l’emissione di provvedimenti idonei ad acquistare autorità di giudicato
costituisca uno dei principali strumenti per realizzare il suddetto compito. La
stessa Corte ha altresì rilevato la lesione degli artt. 3 e 24 Cost., in quanto le previsioni contenute nella disposizione
sottoposta a scrutinio vanificavano i risultati dell’attività difensiva svolta,
sulla cui definitività i creditori potevano fare ragionevole affidamento.
Il Consiglio di Stato sottolinea il
passaggio motivazionale in cui la Corte costituzionale, dopo aver ribadito che
«in materia non penale la legittimità di leggi retroattive è condizionata dal
rispetto di altri principi costituzionali e, in particolare, di quello della
tutela del ragionevole, e quindi legittimo, affidamento (ex plurimis, sentenze n. 446 del 2002
e n. 234 del
2007)», ha affermato che «anche se le disposizioni in scrutinio non possono
essere definite retroattive in senso tecnico, tuttavia esse, travolgendo
provvedimenti giurisdizionali definitivi ed incidendo sui regolamenti dei
rapporti in essi consacrati, finiscono per avere la stessa efficacia di norme
retroattive e per incontrare i medesimi limiti costituzionali per queste
enunciati».
1.4.4.– Ulteriori censure sono
prospettate in riferimento agli artt. 3, 24 e 41, primo comma, Cost., sul rilievo che l’applicazione delle disposizioni
censurate pregiudichi il legittimo affidamento che i creditori del Comune di
Roma hanno riposto nel positivo svolgimento dell’attività difensiva,
finalizzata a tutelare in giudizio i propri interessi, «in tal modo incidendo
sulla libertà di impresa, riconosciuta e garantita dall’art. 41 Cost.».
Le disposizioni censurate violerebbero,
infine, gli artt. 42 e 117, primo comma, Cost.,
quest’ultimo in relazione all’art. 1 del primo Protocollo addizionale alla
Convenzione EDU.
Ad avviso del rimettente, «per il
tramite di un rinvio ad un termine "incertus quando”,
senza alcuna distinzione in ordine alla natura del credito insorto in momento
anteriore al 28 febbraio 2011 [recte: 28 aprile
2008]», sarebbe leso il diritto costituzionalmente garantito ad una effettiva
corresponsione dell’indennità di esproprio, quale indispensabile presupposto
dell’esercizio della potestà ablatoria.
E del resto, nemmeno potrebbe parlarsi
di indennità di esproprio nell’accezione di "serio ristoro” per la perdita
della proprietà, enucleata dalla giurisprudenza costituzionale (a partire dalla
sentenza n. 5
del 1980, fino alle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007),
nel caso in cui la corrispondente somma non possa essere «materialmente e
celermente conseguita».
In questa prospettiva, risulterebbe
violato anche il parametro convenzionale, che tutela la proprietà privata.
2.– Con atto depositato il 27 dicembre
2011, si sono costituti in giudizio, con unica difesa, la Società Consorcasa Regione Lazio Coop. a r.l.,
Fiore Verbena s.r.l., Pao. Mar. s.r.l., Immobiliare
Tuscolana 1976 s.r.l., Edilizia Residenziale Nomentana s.r.l. e la sig.ra Emma Natili, appellanti nel giudizio principale, per chiedere
l’accoglimento della questione.
2.1.– La difesa delle parti private
introduce il tema delle leggi-provvedimento, ritenendo che le disposizioni
censurate debbano qualificarsi come tali, alla luce della consolidata
giurisprudenza costituzionale (è richiamata la sentenza n. 270 del
2010). Le predette norme inciderebbero, infatti, su un numero determinato e
limitato di destinatari, presentando contenuto particolare e concreto, anche in
quanto ispirate da particolari esigenze. Si imporrebbe dunque uno «scrutinio
stretto di costituzionalità».
2.2.– A parere della difesa delle parti
private risulterebbe evidente la lesione dei principi di certezza giuridica e
della tutela dell’affidamento, riconosciuti dalla consolidata giurisprudenza
costituzionale a partire dalla sentenza n. 349 del
1985.
In particolare, è richiamata la sentenza n. 525 del
2000, nella quale la Corte costituzionale ha definito l’affidamento del
cittadino nella certezza delle situazioni giuridiche come «principio che […]
non può essere leso da norme con effetti retroattivi che incidano
irragionevolmente su situazioni regolate da leggi precedenti».
Come puntualmente segnalato dal
rimettente, le disposizioni censurate produrrebbero tale effetto, incidendo
retroattivamente, «senza alcuna ragionevolezza», sui diritti di credito vantati
dagli espropriati, accertati in sede giudiziaria, che non possono essere
esercitati perché le predette disposizioni escludono la proponibilità delle
azioni esecutive.
L’impedimento all’azione di ottemperanza
degli obblighi della pubblica amministrazione, avrebbe «sconvolto il quadro
normativo che regola non solo i rapporti di credito, ma anche i rapporti
processuali» (donde la lesione dell’art. 24 Cost.)
tra i soggetti espropriati e il Comune di Roma, «frustrando il legittimo
affidamento dei privati che avevano già incardinato i relativi giudizi per
l’ottenimento del ristoro in seguito all’espropriazione».
2.3.– Dopo aver esaminato nel dettaglio
le questioni, la difesa delle parti private argomenta a sostegno di tutti
profili di censura formulati dal rimettente, e conclude chiedendo
l’accoglimento delle questioni.
3.– Con atto depositato il 3 gennaio
2012, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le
questioni siano dichiarate inammissibili o, comunque, infondate.
3.1.– Preliminarmente, la difesa statale
descrive il sistema creato dal legislatore per affrontare il dissesto
finanziario del Comune di Roma.
L’art. 78 del d.l.
n. 112 del 2008 ha previsto, al comma 1, la nomina del Sindaco di Roma a
Commissario straordinario del Governo ai fini della «ricognizione della
situazione economico-finanziaria del Comune e delle società da esso partecipate
[non quotate] e per la predisposizione ed attuazione di un piano di rientro
dell’indebitamento pregresso». Il comma 3 dello stesso art. 78 ha quindi
stabilito che «la gestione commissariale assume, con bilancio separato rispetto
a quello della gestione ordinaria, tutte le entrate e tutte le obbligazioni
assunte alla data del 28 aprile 2008» e il comma 6 ha previsto che, per le
predette obbligazioni si applicano le disposizioni di cui ai commi 2, 3, 4
dell’art. 248, e di cui al comma 12 dell’art. 255 del d.lgs. n. 267 del 2000.
Il successivo art. 4, comma 8-bis, del d.l. n. 2 del 2010 ha precisato, con interpretazione
autentica, che ricadono nel bilancio separato tutte le obbligazioni anteriori
al 28 aprile 2008, «anche qualora le stesse siano accertate ed i relativi
crediti siano liquidati con sentenze pubblicate successivamente alla medesima
data».
Tale ultima disposizione ha inoltre
separato la funzione del Commissario straordinario da quella di Sindaco,
affidandola ad un Commissario governativo da nominarsi con successivo decreto
del Presidente del Consiglio dei ministri.
3.2.– Ciò posto, l’Avvocatura eccepisce
la carenza di una adeguata valutazione del requisito della rilevanza, da parte
del giudice a quo.
Le norme censurate non avrebbero posto
alcun impedimento alla promozione di giudizi di ottemperanza, avendo vietato
soltanto le «azioni esecutive», e cioè le azioni che incidono direttamente sul
patrimonio del debitore. Il giudizio di ottemperanza, invece, investirebbe in
primo luogo l’attività dell’ente pubblico, determinandone i comportamenti, e
non sarebbe in ogni caso parificabile a un giudizio di espropriazione
mobiliare, tanto che per la sua promozione non è necessaria l’apposizione della
formula esecutiva (art. 115, comma 3, decreto legislativo 2 luglio 2010, n.
104, recante «Codice del processo amministrativo»).
Il giudizio di ottemperanza non sarebbe
dunque impedito dalla normativa sugli enti locali in dissesto, richiamata
dall’art. 78 del d.l. n. 112 del 2008 per il
commissariamento del Comune di Roma, pur risultando diverse le modalità di
attuazione del giudicato a fronte dello stato particolare in cui versa l’ente
locale.
Pertanto, il rimettente avrebbe dovuto
esaminare la possibilità di una diversa interpretazione delle norme censurate,
e quindi valutare la sussistenza o non di «un interesse del creditore al bene
della vita che può conseguire da una statuizione di inserimento nella massa
passiva dell’importo dovuto a titolo di capitale, accessori e spese (art. 248
TUEL)», nei termini in cui ha disposto il TAR Lazio, giudice dell’ottemperanza
in primo grado.
3.3.– Nel merito, le questioni sarebbero
infondate.
3.3.1.– Con riferimento alla prospettata
violazione degli artt. 3, 97, 114, 118 e 119 Cost.,
la difesa statale osserva che, «per quanto è dato comprendere», il contrasto
tra le norme oggetto e i parametri evocati risiederebbe nella irragionevolezza
della scelta di demandare i debiti anteriori al 28 aprile 2008 alla gestione
separata commissariale, in deroga anche alla disciplina degli enti locali, che
impone la pubblicazione di un avviso pubblico, ai fini dell’insinuazione al
passivo, e senza un delimitazione temporale, così violando anche l’autonomia
dell’ente.
L’Avvocatura evidenzia come, al
contrario, nel momento in cui si è proceduto all’istituzione di Roma Capitale,
con il relativo ordinamento (decreto legislativo 17 settembre 2010, n. 156,
titolato «Disposizioni recanti attuazione dell’articolo 24 delle legge 5 maggio
2009, n. 42, e successive modificazioni, in materia di ordinamento transitorio
di Roma Capitale»), in attuazione dell’art. 114, terzo comma, Cost., non si potesse far nascere il nuovo Ente in
condizione di dissesto finanziario per il peso dei debiti pregressi. Era stato
perciò necessario prevedere «da subito» che, a decorrere dalla data di
istituzione della gestione commissariale (28 aprile 2008), tutte le
obbligazioni assunte in epoca antecedente gravassero sul bilancio separato
della predetta gestione. In questo modo, soltanto, si poteva consentire al
nuovo Ente di «realizzare il raggiungimento di quegli obiettivi strutturali di
risanamento», al quale è finalizzata la normativa dettata dall’art. 78 del d.l. n. 112 del 2008. Non sussisteva peraltro la necessità
di pubblicare un avviso per i creditori, in quanto la gestione commissariale
era stata istituita con legge, né di individuare un termine ulteriore rispetto
a quello di approvazione del piano di rientro (art. 78, comma 4) e di durata
della gestione commissariale (art. 78, comma 5).
La difesa statale osserva inoltre che,
per effetto della netta separazione tra la gestione commissariale ed il nuovo
Ente, non sarebbe ravvisabile alcuna compressione dell’autonomia comunale,
tanto più che il legislatore ha avuto cura di prevedere nuovi termini per la
deliberazione del bilancio di previsione per l’anno 2010, per l’approvazione
del rendiconto relativo all’esercizio 2009, e per l’adozione della delibera di
ricognizione sullo stato di attuazione dei programmi (art. 4, comma 8-bis, del d.l. n. 2 del 2010). Del resto, l’art. 78, comma 3, del d.l. n. 112 del 2008 prevede che le disposizioni dei commi
precedenti «non incidono sulle competenze ordinarie degli organi comunali
relativamente alla gestione del periodo successivo alla data del 28 aprile
2008».
3.3.2.– Prive di fondamento
risulterebbero anche le censure prospettate in riferimento agli artt. 2, 3, 24,
101, 102, 103, 104, 117 Cost., per violazione dei
diritti riconosciuti dall’autorità giudiziaria con sentenza passata in giudicato
prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 2 del 2010.
L’art. 4, comma 8-bis, del citato
decreto non avrebbe aggiunto nulla a quanto già poteva evincersi dalla norma
oggetto di interpretazione, e cioè dall’art. 78, comma 3, del d.l. n. 112 del 2008, che faceva riferimento al momento
genetico dell’obbligazione, non a quello dell’accertamento giudiziale, ai fini
dell’imputazione del debito alla gestione straordinaria.
3.3.3.– Analogamente, non sarebbe
ravvisabile la lesione degli artt. 101, 102, 104 e 108 Cost.,
prospettata sull’assunto che le norme oggetto, incidendo sull’effettività della
pronuncia giurisdizionale, comprimerebbero l’autonomia e l’indipendenza
dell’autorità giudiziaria.
L’Avvocatura contesta il presupposto del
ragionamento del rimettente, e cioè che il legislatore avrebbe vanificato
ovvero reso inefficaci pronunce giurisdizionali, come avvenuto con la norma
dichiarata illegittima dalla sentenza n. 364 del
2007 della Corte costituzionale, richiamata dallo stesso rimettente.
In realtà, nel caso in esame la
pronuncia ottenuta dalle parti private rimane valida ed operante, con il
limite, dovuto alla situazione di dissesto dell’ente debitore, del rispetto
della par condicio creditorum,
in termini analoghi a quanto avviene nel caso in cui, successivamente
all’insorgere del credito, il debitore venga dichiarato fallito. D’altra parte,
lo stesso giudice a quo avrebbe riconosciuto che le disposizioni oggetto di
scrutinio non possono essere definite retroattive in senso tecnico.
3.3.4. – La difesa statale esamina,
infine, le censure formulate in riferimento sia agli artt. 3, 24 e 41 Cost., per il pregiudizio arrecato al legittimo affidamento
dei creditori del Comune di Roma, sia agli artt. 42 e 117, primo comma, Cost., per la lesione del diritto all’indennità di
espropriazione.
Quanto al primo profilo, si evidenzia
come il legittimo affidamento sia salvaguardato dalla previsione che devolve
alla gestione commissariale «tutte le entrate di competenza», oltre a tutte le
obbligazioni assunte alla data del 28 aprile 2008.
Tra le obbligazioni che entrano a far
parte della massa passiva della gestione commissariale vi è anche l’indennità
di espropriazione, che deve soggiacere al principio generale della par condicio
creditorum, a differenza dell’indennità provvisoria –
a disposizione degli espropriati sin dal tempo dell’esproprio – e degli
interessi legali maturati dalla data di pubblicazione della sentenza
determinativa dell’indennità, i quali, essendo sorti successivamente al 28
aprile 2008, gravano sul nuovo Ente.
4.– Con atto depositato il 9 gennaio
2012, si è costituita in giudizio Roma Capitale (già Comune di Roma), in
persona del Sindaco pro-tempore,
chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate manifestamente infondate.
4.1.– La difesa di Roma Capitale si
sofferma sul contenuto dell’ordinanza di rimessione, e in particolare
sull’interpretazione delle norme censurate proposta dal Consiglio di Stato.
La difesa dell’Ente contesta l’assunto
da cui muove, a suo dire, il rimettente, secondo cui le norme censurate
«comportano, ove applicate, il mancato reale conseguimento dell’utilità
riconosciuta agli appellanti a seguito della sentenza della Corte d’appello n.
4565/2008». In altre parole, dal punto di vista del giudice a quo, le norme istitutive della gestione commissariale non
garantirebbero il pagamento dei debiti assunti dall’ente locale in crisi
finanziaria, costituendo, invece, un modo per evitare di dare soddisfazione ai creditori.
Tale assunto, sul quale, in definitiva,
si fonderebbero tutte le censure prospettate dal rimettente, sarebbe frutto di
una visione distorta del sistema commissariale e degli interessi pubblici ad
esso sottesi.
Al contrario, secondo Roma Capitale, il
credito azionato dagli appellanti nel giudizio a quo, riconosciuto con sentenza
passata in giudicato, è espressione di un interesse particolare, che non può
prevalere «sull’interesse generale al corretto funzionamento dell’Ente locale
ed all’integrale soddisfacimento di tutti i debiti pregressi mediante
reperimenti di risorse "speciali” tramite una gestione governativa».
4.2.– La medesima difesa illustra la
vicenda storica che ha segnato il commissariamento del Comune di Roma,
attraverso l’esame delle norme censurate e di quelle in esse richiamate,
precisando che, con il divieto di azioni esecutive individuali nei confronti
dei debiti rientranti nel bilancio commissariale, il legislatore ha definito lo
«sdoppiamento» della gestione ordinaria da quella commissariale e che, a
differenza di quanto previsto dal d.lgs. n. 267 del 2000 per il dissesto degli
enti locali, nel caso in esame non vi è stata «successione temporale di
bilanci», ma coesistenza, fino alla chiusura di quello commissariale con l’approvazione
del rendiconto finale.
Il Commissario straordinario ha
provveduto alla formazione dello stato passivo – previa ricognizione di ogni
passività riconducibile ad epoca antecedente al 28 aprile 2008 – e quest’ultimo
è stato approvato con d.P.C.m. 5 dicembre 2008.
4.3.– La difesa dell’Ente ricorda che la
Corte costituzionale, con la sentenza n. 155 del
1994, ha già affrontato e risolto il tema della compatibilità
costituzionale del sistema configurato dal legislatore per gestire il dissesto
degli enti locali, con riferimento all’antecedente storico dell’art. 248 del
d.lgs. n. 267 del 2000, e cioè all’art. 21 del decreto-legge 18 gennaio 1993,
n. 8 (Disposizioni urgenti in materia di finanza derivata e di contabilità
pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 19 marzo 1993, n. 68.
I principi enunciati nella citata
pronuncia varrebbero a definire le questioni odierne nel senso della manifesta
infondatezza, avuto riguardo sia alla scelta di creare una gestione separata,
finalizzata al pagamento dei debiti pregressi, sia al divieto di azioni
esecutive individuali sul patrimonio dell’ente.
La gestione separata, infatti, è per
definizione ispirata al principio della concorsualità,
il cui fine fondamentale è l’attuazione della par condicio creditorum, che implica, a
sua volta, il divieto di azioni esecutive individuali.
Lo scopo ultimo è il risanamento
finanziario dell’ente, che non può cessare di esistere in quanto espressione
dell’autonomia locale, né può vedere paralizzata la propria attività per
soddisfare una «adombrata, ma in realtà insussistente, intangibilità delle
posizioni dei creditori», i cui diritti non risultano affatto lesi, se solo si
considera che la procedura di liquidazione prevede la formazione di una massa
attiva, destinata a soddisfare i creditori in misura e con modalità più
favorevoli di quanto avverrebbe in una normale procedura esecutiva individuale.
A tale ultimo proposito, la difesa di
Roma Capitale precisa che nella massa attiva rientrano non soltanto il ricavato
dell’attività di realizzo posta in essere dal commissario, indicata nel
cosiddetto piano di rientro, ma anche, (e soprattutto), eventuali finanziamenti
straordinari nel quadro degli interventi di attuazione dell’ordinamento di Roma
Capitale, previsti dall’art. 114, terzo comma, della Costituzione.
Sono richiamati i precedenti casi di
«sdoppiamento di gestioni» configurati con legge, nei quali è stata prevista una
doppia gestione di bilancio: quella ordinaria, per lo svolgimento delle
funzioni istituzionali, e quella «stralcio o commissariale o liquidatoria», per
l’amministrazione e liquidazione dei rapporti pregressi.
Negli stessi casi è stato altresì
disposto il blocco delle azioni esecutive individuali e dei pignoramenti,
nonché della decorrenza di interessi e rivalutazione per il periodo della
gestione liquidatoria, nel rispetto del principio della par condicio creditorum.
4.4.– La difesa di Roma Capitale esamina,
quindi, l’art. 4, comma 8-bis, del d.l. n. 2 del
2010, censurato dal rimettente perché inciderebbe retroattivamente su
provvedimenti giurisdizionali, a prescindere dalla natura di norma a contenuto
innovativo ovvero interpretativa. Diversamente da quanto affermato dal
rimettente, la qualificazione della norma sarebbe dirimente.
Dopo aver richiamato alcune pronunce
della Corte costituzionale sul tema (sentenze n. 155 del 1990,
n. 233 del 1988),
la difesa dell’Ente locale afferma che, se anche non esistesse l’art. 4, comma
8-bis, del d.l. n. 2 del 2010, il criterio di riparto
delle obbligazioni, tra gestione commissariale e gestione ordinaria di Roma
Capitale, non risulterebbe diverso da quanto in detta disposizione precisato.
Nel bilancio della gestione commissariale, infatti, rientrano tutte le
obbligazioni sorte in data anteriore al 28 aprile 2008, né si potrebbe dubitare
che le fonti delle obbligazioni siano quelle indicate nell’art. 1173 del codice
civile, e non le pronunce giurisdizionali che le accertano e le rendono liquide
ed esigibili.
A riprova di quanto affermato, l’art.
78, comma 4, del d.l. n. 112 del 2008 espressamente
include nella gestione commissariale i debiti non ancora liquidi al momento
della ricognizione delle passività (28 aprile 2008), prevedendo che «il piano
di rientro […] assorbe, anche in deroga a disposizioni di legge, tutte le somme
derivanti da obbligazioni contratte, a qualsiasi titolo, […] anche non scadute
e contiene misure idonee a garantire il sollecito rientro dall’indebitamento».
Nel caso di specie, l’obbligazione di
corrispondere l’indennità di espropriazione è sorta nel momento in cui è stato
emesso il relativo decreto, tant’è che la Corte d’appello di Roma ha
riconosciuto la spettanza degli interessi legali da quel momento. Discorso
analogo varrebbe per i giudizi di risarcimento danni, nei quali l’obbligazione
nasce al momento del fatto lesivo e non con la pubblicazione della sentenza di
condanna, che ha natura soltanto dichiarativa.
In tal senso militerebbero le
disposizioni generali del codice civile contenute negli artt. 1173 e 2043,
nonché nell’art. 1219, ai sensi del quale la costituzione in mora del debitore
non è necessaria quando il debito deriva da fatto illecito (sono richiamate le
sentenze della Corte di cassazione 20 aprile 2009, n. 9338; 25 settembre 1997,
n. 9415; 27 gennaio 1996, n. 637).
In definitiva, la data in cui viene
emessa la sentenza che riconosce e liquida l’obbligazione a carico dell’ente
locale sarebbe del tutto ininfluente ai fini dell’inserimento del relativo
debito nel bilancio della gestione commissariale ovvero della gestione
ordinaria di Roma Capitale.
4.5.– La difesa dell’ente esamina nel
dettaglio le questioni prospettate dal rimettente, per contestarne
specificamente la fondatezza, in prevalenza sulla base delle argomentazioni sin
qui sintetizzate.
In particolare, la denunciata
irragionevolezza della disciplina censurata sarebbe frutto di erronea
interpretazione della stessa, essendo vero, al contrario, che il criterio di
riparto – costituito dal momento genetico dell’obbligazione, all’interno di un
sistema nel quale il bilancio commissariale e quello ordinario coesistono –
consente di rispettare il principio di uguaglianza dei creditori.
Non rivestirebbe significato la mancata
previsione della pubblicazione dell’avviso pubblico per l’inserimento dei
crediti nella massa passiva, posto che «tale inserimento avviene […] in modo
automatico e discende dal dato temporale che caratterizza la nascita
dell’obbligazione».
Non vi sarebbe neppure alterazione dei
poteri dell’ente locale o compressione dell’autonomia dello stesso, a meno di
confondere il sistema liquidatorio previsto appositamente per il Comune di Roma
dall’art. 78 del d.l. n. 112 del 2008 con la
disciplina del dissesto degli enti locali, nella quale, in effetti, la gestione
ordinaria dell’ente dichiarato in dissesto è interrotta dalla gestione
commissariale.
Le norme censurate non inciderebbero sui
giudicati che incorporano altrettante obbligazioni del Comune di Roma,
essendosi limitate a vietare le azioni esecutive individuali a garanzia dello
svolgimento corretto della procedura concorsuale instaurata per il pagamento
dei debiti antecedenti al 28 aprile 2008 (è richiamata nuovamente la sentenza della
Corte costituzionale n. 155 del 1994).
Per le stesse ragioni, il divieto di
azioni esecutive individuali non sarebbe lesivo dei diritti fondamentali
riconosciuti dagli artt. 6 e 13 della Convenzione EDU, richiamati dal
rimettente per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost.
La relativa questione sarebbe mal posta,
prima ancora che non fondata, giacché, per un verso, gli atti posti in essere
dal Commissario liquidatore possono essere sottoposti all’autorità giudiziaria,
e, per altro verso, gli interessi pubblici sottesi alla procedura concorsuale
giustificano lo svolgimento della stessa in ambito amministrativo, come
affermato dalla già richiamata sentenza n. 155 del
1994 a proposito della disciplina del dissesto degli enti locali.
Del resto, sin dalla sentenza n. 115 del
1994, la Corte costituzionale ha chiarito che, ove sorga l’esigenza di una
procedura concorsuale, non necessariamente questa deve svolgersi nel contesto
di un procedimento giurisdizionale, ben potendo il legislatore prevedere un
procedimento amministrativo, tanto più se sono coinvolti interessi pubblici.
Nondimeno, tale assetto della procedura di liquidazione non potrebbe mai
incidere sulla giustiziabilità delle posizioni
soggettive in essa coinvolte, con conseguente sacrificio del principio supremo
dell’ordinamento costituzionale costituito dal diritto alla tutela
giurisdizionale (sono richiamate le sentenze della Corte costituzionale n. 392 del 1992
e n. 18 del 1982).
Prive di fondamento risulterebbero anche
le censure prospettate in riferimento agli artt. 101, 102, 104 e 108 Cost., sul rilievo che il legislatore avrebbe compresso
l’autonomia e l’indipendenza dell’autorità giudiziaria, con un intervento
irragionevole che incide, ex post, sulla effettività delle pronunce
giurisdizionali.
La difesa di Roma Capitale osserva come
il richiamo, operato dal rimettente, alla sentenza della
Corte costituzionale n. 364 del 2007, sia del tutto inconferente.
Quanto, infine, alla censura riferita
alla violazione del diritto degli espropriati a ricevere una indennità che
costituisca un serio ristoro della perdita subita, la difesa di Roma Capitale
evidenzia che la nozione elaborata dalla giurisprudenza della Corte
costituzionale (sentenze n. 349 e n. 348 del 2007,
n. 5 del 1980)
ha riguardo alla quantificazione dell’indennità di esproprio, non anche alla
riscossione della stessa.
5.– In data 14 febbraio 2013, la difesa
dello Stato ha depositato memoria con la quale insiste nelle conclusioni già
rassegnate.
In via preliminare, l’Avvocatura reitera
l’eccezione di inammissibilità delle questioni per omesso compiuto esame della
rilevanza, sull’assunto che il giudice a quo avrebbe identificato il giudizio
di ottemperanza con le azioni esecutive, laddove gli istituti non sarebbero del
tutto coincidenti, in quanto il giudizio di ottemperanza presenta contenuto
composito, come ripetutamente affermato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di
Stato (sentenza
n. 2 del 2013, sentenze nn. 2, 18 e 24 del 2012).
Nel merito, la difesa statale ribadisce
l’infondatezza delle questioni sollevate, nel solco delle argomentazioni già
svolte con l’atto di intervento.
6.– In data 10 maggio 2013, la difesa di
Roma Capitale ha depositato memoria con la quale innanzitutto segnala che, nel
giudizio principale, le parti appellanti hanno depositato «brevi note per la
cessazione della materia del contendere», a seguito dell’avvenuto
soddisfacimento del credito oggetto del ricorso in ottemperanza.
Nel merito, la difesa dell’Ente pubblico
ribadisce le argomentazioni già svolte nel senso della manifesta infondatezza
delle questioni.
Si precisa, dalla stessa difesa, che le
norme censurate, lungi dal negare la soddisfazione dei debiti rientranti nella
gestione commissariale, sarebbero finalizzate ad assicurarne l’integrale
soddisfacimento, mediante il reperimento di risorse ulteriori rispetto a quelle
sulle quali, normalmente, l’Ente può contare.
La procedura di liquidazione,
riguardante i debiti assunti prima del 28 aprile 2008, sarebbe configurata in
modo tale da alimentare «la massa attiva, destinata a soddisfare i creditori di
Roma Capitale», con fonti di finanziamento straordinario, come precisato nel
piano di rientro, e dunque, diversamente da quanto avviene nelle procedure
esecutive individuali, non soltanto dal ricavato dell’attività di realizzo dei
beni del debitore.
7.– In data 13 maggio 2013, la difesa
delle parti private costituite, Soc. Consorcasa Regione Lazio Coop. a r.l.
ed altri, ha depositato un documento contenente «brevi note per la cessazione
della materia del contendere», notificate a Roma Capitale il 22 marzo 2013 e
depositate al Consiglio di Stato il 2 aprile 2013.
Le parti private danno atto che Roma
Capitale ha adempiuto a quanto ordinato dal Consiglio di Stato, con la sentenza
parziale 10 agosto 2011, n. 4772, e che, quanto all’obbligazione principale, di
corresponsione dell’indennità di espropriazione definitiva, «con determinazione
dirigenziale n. 1135 del 6 novembre 2011 – emessa ai sensi dell’art. 78, comma
3, del d.l. n. 112 del 2008, come modificato
dall’art. 1, comma 26, del d.l. n. 128 del 2011 [recte: d.l. n. 138 del 2011] –
Roma Capitale ha operato il riconoscimento del debito fuori bilancio attinente
alla Gestione Commissariale e discendente dalla sentenza della Corte d’appello
di Roma n. 4565 del 2008».
Alla predetta determinazione «ha fatto
seguito la stipula, in data 6 febbraio 2013, dell’atto di transazione tra le
appellanti e il Commissario straordinario del Governo (nominato per il piano di
rientro dal debito pregresso di Roma Capitale), avente ad oggetto l’estinzione
parziale, da parte di quest’ultimo, del debito riconosciuto».
Le parti private dichiarano di avere
percepito l’importo concordato nell’atto di transazione e di essersi impegnate
a non vantare ulteriori pretese nei confronti di Roma Capitale e della gestione
commissariale, con la conseguenza che è venuta meno ogni ragione di
contenzioso.
8.– Con ordinanza del 26 luglio 2012, il
Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, ha sollevato – in riferimento
agli artt. 2, 3, 24, 25, primo comma, 41, primo comma, 42, secondo e terzo
comma, 97, primo comma, 101, 102, 103, 104, 108, secondo comma, 113, 114, 117,
primo comma, (in relazione all’art. 6, comma 1, e all’art. 13 della Convenzione
EDU, nonché in relazione all’art. 1 del I Protocollo addizionale alla medesima
Convenzione), 118 e 119 Cost. – questioni di
legittimità costituzionale dell’art. 78, comma 6, primo periodo, del d.l. n. 112 del 2008, nella parte in cui prevede
l’applicazione dell’art. 248 del d.lgs. n. 267 del 2000 alle obbligazioni
rientranti nella gestione commissariale del Comune di Roma, e dell’art. 4,
comma 8-bis, ultimo periodo, del d.l. n. 2 del 2010,
nella parte in cui prevede, «ai fini di una corretta imputazione del piano di
rientro», che il primo periodo del comma 3 dell’art. 78 del d.l.
n. 112 del 2008 «si interpreta nel senso che la gestione commissariale del
comune assume, con bilancio separato rispetto a quello della gestione
ordinaria, tutte le obbligazioni derivanti da fatti o atti posti in essere fino
alla data del 28 aprile 2008, anche qualora le stesse siano accertate e i
relativi crediti liquidati con sentenze pubblicate successivamente alla
medesima data».
8.1.– Le questioni sono in larga parte
identiche a quelle sollevate dal Consiglio di Stato con l’ordinanza registrata
al numero 265 del 2011, richiamata espressamente dal rimettente.
Quest’ultimo riferisce di essere
investito del ricorso per l’ottemperanza della sentenza del TAR Lazio 26 giugno
2009, n. 13834, che ha condannato il Comune di Roma a risarcire alla Bindi Pratopronto s.a.s. di Michele Bindi & C. il danno da
responsabilità precontrattuale, da liquidarsi ai sensi dell’art. 35, comma 2,
del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80 (Nuove disposizioni in materia di
organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di
giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa,
emanate in attuazione dell’articolo 11, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n.
59), mediante offerta di una somma da parte dell’Amministrazione condannata,
oltre alle spese legali.
Il rimettente precisa che la società
ricorrente ha invitato il Comune di Roma a dare esecuzione alla sentenza, senza
ricevere alcuna offerta di risarcimento.
È richiamata, quindi, l’ordinanza 31
maggio 2011, n. 5492, con la quale il Consiglio di Stato, in relazione a
fattispecie analoga, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale della
normativa che disciplina la sorte dei crediti accertati nei confronti del
Comune di Roma, derivanti da fatti o atti antecedenti al 28 aprile 2008.
Osserva il TAR Lazio che il credito
vantato dalla società ricorrente «trova titolo in fatti avvenuti nel 2004, e
quindi ben prima del 28 aprile 2008», sicché, in applicazione degli artt. 78,
comma 6, primo periodo, del d.l. n. 112 del 2008 e 4,
comma 8-bis, del d.l. n. 2 del 2010, «la domanda
giudiziale proposta nei confronti del Comune di Roma […] dovrebbe essere
dichiarata inammissibile».
8.2.– Con riferimento alla non manifesta
infondatezza delle questioni, il rimettente riepiloga le argomentazioni svolte
dal Consiglio di Stato, affermando di condividerne il contenuto e di fare
rinvio alle stesse, e poi procede ad illustrare ulteriori ragioni di contrasto
delle norme oggetto con «gli artt. 41 e 42, 24 e 25 e 113, nonché 97 della
Costituzione».
8.2.1.– In particolare, il giudice a quo
ritiene violato «il regime di garanzie costituzionali volto ad assicurare il
libero esercizio dell’attività economica», configurato dagli artt. 41, primo
comma, e 42, secondo e terzo comma, Cost.,
all’interno del quale «un credito certo, liquido ed esigibile e che sia dotato
dell’efficacia di titolo esecutivo costituisce un bene che può essere oggetto
di diritto di proprietà (tanto è vero che è cedibile e negoziabile sul
mercato)». Di qui la conseguenza che «un atto che toglie valore al titolo
esecutivo rendendo l’Amministrazione debitrice sostanzialmente immune dal
potere del creditore, equivale ad una vera e propria "espropriazione”».
8.2.2.– Il meccanismo introdotto dalla
normativa censurata violerebbe anche il sistema di garanzie processuali
configurato dagli artt. 24, primo comma, 25, primo comma, e 113 Cost.
Per un verso, infatti, i creditori anche
in possesso di titoli esecutivi per obbligazioni sorte, nei confronti del
Comune di Roma, anteriormente alla data del 28 aprile 2008, verrebbero a
trovarsi nell’anomala situazione di non poter agire in giudizio per la
realizzazione e soddisfazione dei propri diritti, e, per altro verso, il
giudice che sarebbe naturalmente competente a rispondere alla relativa domanda
di giustizia – cioè il giudice dell’esecuzione – dovrebbe dichiarare estinta la
procedura esecutiva, «nonostante sussistano tutte le condizioni per procedere
(e nessuna condizione sostanziale per dichiarare l’intervenuta estinzione del
procedimento)».
Tutto ciò avverrebbe al solo scopo di
escludere la tutela giurisdizionale nei confronti di una pubblica
amministrazione, cioè il Comune di Roma, con riferimento ad una determinata
categoria di atti (quelli esecutivi per debiti contratti entro una certa data),
donde l’evidente violazione dell’art. 113 Cost.
8.2.3.– La normativa in esame si
porrebbe in contrasto anche con l’art. 97, primo comma, Cost.,
giacché l’immunità dalle azioni esecutive e la riduzione di responsabilità
accordati all’Amministrazione, «finisce con il premiare – con violazione del
principio del buon andamento dell’amministrazione – l’organismo pubblico
inadempiente che abbia mal gestito le sue risorse». Inoltre, in violazione del
principio di imparzialità dell’azione amministrativa, si sarebbe creata una
disparità ex lege tra titolari di diritti di credito
sorti prima o dopo una certa data.
9.– Con atto depositato il 28 novembre
2012, si è costituita in giudizio la società Bindi Pratopronto
s.a.s., ricorrente nel procedimento principale, per chiedere l’accoglimento
delle questioni.
9.1.– La difesa della parte privata, pur
osservando che, nella vigenza delle norme censurate, il rimettente avrebbe
potuto procedere alla quantificazione del risarcimento e a disporre in suo favore
il pagamento delle spese di lite, nondimeno concorda con il rilievo dello
stesso rimettente, secondo cui la «piena ed immediata tutela del creditore può
ritenersi effettiva soltanto nell’ipotesi in cui possa essere nominato un
commissario ad acta, che si sostituisca in tutto e per tutto a Roma Capitale,
ivi compreso il pagamento dell’intero credito ed entro i termini previsti
dall’ordinamento (120 giorni dalla notificazione del titolo esecutivo)». Di qui
la rilevanza delle questioni, giacché solo la neutralizzazione delle norme
censurate consentirebbe la realizzazione del credito nei termini indicati.
9.2.– Nel merito, le questioni sarebbero
fondate, come emergerebbe dall’esame delle pronunce della Corte costituzionale
sulla disciplina del dissesto degli enti locali (sono richiamate, in
particolare, le sentenze n. 242 e n. 155 del 1994).
Le norme censurate avrebbero configurato
una fattispecie giuridica nuova che, per un verso, si sovrappone a quella
dettata in materia di dissesto degli enti locali dagli artt. 264 e seguenti del
d.lgs. n. 267 del 2000 e, per altro verso, ne esclude l’applicazione se non nei
limiti delle norme espressamente richiamate, che sono – in sostanza – quelle
più favorevoli all’amministrazione.
La difesa della parte privata sottolinea
il mancato richiamo alle disposizioni dettate per il dissesto degli enti locali
riguardo alla costituzione della massa attiva, necessario per fare fronte al
pagamento dei debiti, con la previsione, di segno contrario, secondo cui «tutte
le entrate di competenza dell’anno 2008 sono attribuite alla gestione corrente
di Roma Capitale, ivi comprese quelle riferibili ad atti e fatti antecedenti
all’anno 2008, purché accertate successivamente al 31 dicembre 2007».
Il sistema così delineato risulterebbe
illegittimo quanto meno per contrasto con gli artt. 3, 41, e 42 Cost.
9.3.– Discorso a sé, poi, varrebbe per
la disposizione contenuta nell’art. 4, comma 8-bis, del d.l.
n. 2 del 2010, che avrebbe natura di legge provvedimento, innovativa con
efficacia retroattiva.
La ratio
legis della norma sarebbe chiaramente
individuabile nella tutela di un interesse particolare, quello dell’Ente,
«incidendo intenzionalmente su un numero limitato di soggetti (tra tutti i
creditori del Comune di Roma, già hortus clausus, quelli che non hanno visto il loro credito
all’interno del piano di rientro approvato con dPCm
del 5 dicembre 2008 perché a tale data non ancora accertato giudizialmente o
comunque liquidato), sui giudizi in corso e sui diritti di credito accertati in
giudizio prima della sua entrata in vigore».
10.– Con atto depositato il 4 dicembre
2012, si è costituita in giudizio Roma Capitale, in persona del sindaco
pro-tempore, e ha concluso per il rigetto delle questioni, con argomentazioni
in tutto identiche a quelle svolte nell’atto di costituzione depositato nel
giudizio r.o. n. 265 del 2011, alla cui sintesi si
può rinviare.
11.– Con atto depositato il 4 dicembre
2012, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ed ha chiesto che
le questioni siano dichiarate inammissibili o, comunque, infondate.
11.1.– La difesa statale riepiloga le
censure prospettate dal rimettente e, con riguardo a quelle formulate per relationem
all’ordinanza n. 5492 del 2011 del Consiglio di Stato (r.o.
n. 265 del 2011), richiama le osservazioni e le deduzioni depositate nel
giudizio incidentale introdotto dalla citata ordinanza, allegando copia del
relativo atto difensivo.
11.2.– Quanto alle ulteriori questioni
prospettate dal TAR Lazio in riferimento agli artt. 41, primo e secondo comma,
e 42, secondo comma, Cost., la difesa statale
evidenzia che la premessa del ragionamento svolto dal rimettente sarebbe
smentita proprio dalle affermazioni contenute nell’ordinanza del Consiglio di
Stato, secondo cui, con la normativa censurata, «non si attua un
disconoscimento del diritto, accertato dal giudice, né una incisione sul suo
contenuto».
Le norme censurate avrebbero introdotto,
infatti, una diversa modalità di esercizio del diritto, che, seppure più
gravosa per i creditori, non potrebbe essere ritenuta di per sé irragionevole,
in quanto finalizzata ad assicurare il raggiungimento degli obiettivi
strutturali di risanamento della finanza dell’Ente (è richiamata la sentenza n. 155 del
1994 della Corte costituzionale).
11.3.– A parere della difesa statale,
non sussisterebbe la violazione degli artt. 24, primo comma, 25, secondo comma,
e 113 Cost., in quanto le norme censurate non
impediscono a coloro i quali vantino un credito certo, liquido ed esigibile,
sorto anteriormente al 28 aprile 2008, di agire per ottenerne l’adempimento, ma
impongono di procedere secondo determinate modalità e al fine di consentire
all’Amministrazione una ordinata liquidazione delle poste passive, senza
disperdere le energie nel fronteggiare le molteplici, sparse iniziative dei
creditori.
Si dovrebbe inoltre considerare che,
nella procedura di «esecuzione collettiva» nei confronti di un ente pubblico, i
creditori conseguono maggiori possibilità di soddisfacimento del credito perché
possono fare affidamento anche sul contributo concesso dallo Stato.
11.4.– La difesa statale contesta,
infine, la fondatezza della censura prospettata in riferimento all’art. 97 Cost., evidenziando come, al contrario, il principio di
buon andamento della pubblica amministrazione imponga la temporanea immunità
dalle azioni esecutive individuali, per consentire all’amministrazione di
raggiungere condizioni strutturali di riequilibrio della gestione finanziaria,
garantendo, al contempo, la «parità di trattamento tra i creditori anteriori al
momento di apertura della gestione commissariale».
12.– In data 10 maggio 2013, la difesa
di Roma Capitale ha depositato memoria con la quale ribadisce quanto già
evidenziato nell’atto di costituzione, svolgendo argomenti identici a quelli
rappresentati nella memoria depositata in pari data nel giudizio r.o. n. 265 del 2011, alla cui sintesi si rinvia.
13.– In data 13 maggio 2013, la difesa
della Bindi Pratopronto s.a.s. ha depositato memoria
illustrativa, nella quale illustra ulteriormente gli argomenti già svolti
nell’atto di costituzione a sostegno della rilevanza delle questioni sollevate
per la definizione del giudizio a quo.
13.1.– La difesa della società ribadisce
l’anomalia della normativa dettata per il commissariamento del Comune di Roma,
rispetto alla disciplina sul dissesto degli enti locali, con riguardo in
particolare alla costituzione della massa attiva.
La nuova normativa si sarebbe limitata a
demandare ad un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri
l’individuazione delle coperture necessarie per l’attuazione del piano di
rientro «nei limiti delle risorse allo scopo destinate a legislazione vigente».
In questo modo, assume la stessa difesa,
«ai creditori del Comune di Roma non solo non è consentita l’aggressione e
liquidazione del patrimonio del Comune neppure nell’ambito della procedura
concorsuale», ma non sarebbe noto se e quando, nonché in quale misura, i
crediti inseriti nel piano di rientro possano essere soddisfatti.
Le norme censurate, infatti, non
avrebbero stabilito alcun criterio, nemmeno temporale, «di trasparente
liquidazione dei creditori», non richiamerebbero il principio della par condicio creditorum,
e, in definitiva, avrebbero reso il Commissario liquidatore legibus solutus, come dimostrato dal fatto che
lo stesso avrebbe «provveduto a liquidare i creditori in modo frammentario».
Il sistema così configurato risulterebbe
gravemente lesivo del principio di uguaglianza, «creando disparità di
trattamento tra creditori, in conseguenza del nome del debitore e del fatto se
il credito sia o meno liquido ed esigibile», della certezza dei rapporti
giuridici e del principio di affidamento.
13.2.– Quanto all’art. 4, comma 8-bis,
del d.l. n. 2 del 2010, la difesa della società
ribadisce trattarsi di disposizione solo apparentemente interpretativa, che, in
realtà, avrebbe riscritto la disciplina dettata dall’art. 78 del d.l. n. 112 del 2008.
La stessa difesa osserva, in primo
luogo, che la disposizione in esame è intervenuta su una precedente legge
provvedimento che aveva parzialmente esaurito i suoi effetti, a seguito
dell’approvazione del piano di rientro del debito operata con il d.P.C.m. del 5 dicembre 2008, peraltro non pubblicato sulla
Gazzetta Ufficiale.
In secondo luogo, la stessa norma ha
previsto la definitiva ricognizione del piano di rientro già approvato, senza
fissare un termine per provvedervi (diversamente dalla norma "interpretata”),
nonostante il carattere temporaneo della gestione commissariale.
In terzo luogo, l’art. 4, comma 8-bis,
avrebbe esteso l’applicazione della gestione commissariale anche alle
obbligazioni non contrattuali, che l’art. 78 del d.l.
n. 112 del 2008 non comprendeva.
L’espressione «tutte le somme derivanti
da obbligazioni contratte […] alla data del 28 aprile 2008», contenuta
nell’art. 78, comma 3, evocherebbe unicamente le obbligazioni contrattuali, ed
anche sotto il profilo sistematico, la previsione in capo al Commissario della
facoltà di recesso «dalle obbligazioni contratte» deporrebbe nel senso che l’intenzione
del legislatore fosse di circoscrivere l’applicazione della gestione
commissariale alle obbligazioni nascenti da contratto, dalle quali soltanto è
possibile recedere.
L’art. 4, comma 8-bis, nella parte in
cui estende la gestione commissariale a tutte le obbligazioni sorte in virtù di
atti o fatti antecedenti al 28 aprile 2008, anche qualora accertate con
sentenze pubblicate successivamente alla medesima data, avrebbe inoltre reso
incerti i tempi di ricognizione del piano di rientro ed inciderebbe sui giudizi
pendenti.
La difesa della società osserva in
conclusione che, indipendentemente dalla natura innovativa o interpretativa, il
carattere retroattivo della disposizione censurata non troverebbe
giustificazione sul piano della ragionevolezza e si porrebbe in contrasto con
una serie di valori ed interessi costituzionalmente protetti, come già
segnalato dai giudici rimettenti.
Sono richiamati alcuni arresti della
giurisprudenza della Corte EDU (sentenza
28 ottobre 1999, Zielinsky vs. Repubblica Francese),
secondo cui è esclusa a priori la compatibilità con l’art. 6 della Convenzione
EDU delle norme interpretative che incidano retroattivamente su un numero
limitato di soggetti, ovvero presentino un contenuto contra personam, o, ancora, estinguano
diritti intangibili, cioè posizioni consolidate, anche se non ancora racchiuse
in decisioni definitive (sentenza
10 novembre 2004, Lizarraga vs. Regno di Spagna).
Considerato in diritto
1.– Con due ordinanze di tenore analogo,
il Consiglio di Stato (reg. ord. n. 265 del 2011) e
il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio (reg. ord.
n. 252 del 2012) hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale
dell’articolo 78, comma 6, primo periodo, del decreto-legge 25 giugno 2008, n.
112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la
competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione
tributaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 6
agosto 2008, n. 133, nella parte in cui prevede l’applicazione dell’art. 248
del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali) alle obbligazioni rientranti nella gestione
commissariale del Comune di Roma, e dell’art. 4, comma 8-bis, ultimo periodo,
del decreto-legge 25 gennaio 2010, n. 2 (Interventi urgenti concernenti enti locali
e regioni), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 26
marzo 2010, n. 42, nella parte in cui prevede, «ai fini di una corretta
imputazione del piano di rientro», che il primo periodo del comma 3
dell’articolo 78 del d.l. n. 112 del 2008 «si
interpreta nel senso che la gestione commissariale del comune assume, con
bilancio separato rispetto a quello della gestione ordinaria, tutte le
obbligazioni derivanti da fatti o atti posti in essere fino alla data del 28
aprile 2008, anche qualora le stesse siano accertate e i relativi crediti
liquidati con sentenze pubblicate successivamente alla medesima data».
1.1.– Il Consiglio di Stato assume un
contrasto tra le predette norme e gli artt. 2, 3, 24, 41, primo comma, 42,
terzo comma, 97, primo comma, 101, 102, 103, 104, 108, secondo comma, 113, 114,
117, primo comma, (in relazione all’art. 6, comma 1, e all’art. 13 della
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva in
Italia dalla legge 4 agosto 1955, n. 848, nonché in relazione all’art. 1 del
primo Protocollo addizionale alla medesima Convenzione, firmato a Parigi il 20
marzo 1952), 118 e 119 della Costituzione.
1.2.– Il TAR Lazio richiama la
motivazione dell’atto di promovimento del Consiglio di Stato, facendo proprie
le censure ivi formulate, alle quali aggiunge ulteriori ragioni di contrasto
delle norme in oggetto con gli artt. 24, 25, secondo comma, 41, primo comma,
42, secondo e terzo comma, 97 e 113 Cost.
1.3.– Dinanzi ai rimettenti pendono
altrettanti giudizi di ottemperanza, aventi ad oggetto sentenze di condanna
pronunciate nei confronti del Comune di Roma, per obbligazioni sorte in epoca
antecedente al 28 aprile 2008, e dunque imputabili alla gestione commissariale
configurata dall’art. 78 del d.l. n. 112 del 2008.
Per quanto riferito dai rimettenti, le
sentenze azionate sono passate in giudicato prima dell’entrata in vigore
dell’art. 4, comma 8-bis, del d.l. n. 2 del 2010, inserito
dalla legge di conversione n. 42 del 2010.
1.3.1.– Più specificamente, il Consiglio
di Stato è adito in sede di appello avverso la sentenza 5 novembre 2010, n.
33208, resa dal TAR Lazio sul ricorso per l’ottemperanza della sentenza della
Corte d’appello di Roma n. 4565 del 2008, che ha liquidato, a favore della
società Consorcasa Regione Lazio Coop. a r.l. ed altri, l’indennità, maggiorata di interessi legali,
per un’espropriazione avvenuta molti anni addietro.
Il giudice di primo grado ha ritenuto di
poter accogliere il ricorso in ottemperanza, facendo nel contempo applicazione
della normativa sul commissariamento del Comune di Roma, di cui agli artt. 78
del d.l. n. 112 del 2008 e 4, comma 8-bis, del d.l. n. 2 del 2010, e, per l’effetto, ha ordinato al Comune
di Roma di dare esecuzione alle statuizioni contenute nella sentenza della
Corte d’appello di Roma, previa verifica della disponibilità nel bilancio
dell’Ente delle risorse necessarie, ovvero, in caso di esito negativo della
predetta verifica, di procedere all’inserimento dell’importo dovuto a titolo di
capitale, accessori e spese, nella massa passiva della gestione commissariale.
Le parti creditrici hanno appellato la
sentenza, chiedendo al Consiglio di Stato di disporre concretamente l’ottemperanza
della pronuncia della Corte d’appello di Roma, in particolare imponendo al
Comune di pagare le somme ivi liquidate entro un termine prefissato, e
provvedendo subito alla nomina di un commissario ad acta.
In subordine, per l’ipotesi di ritenuta applicabilità
degli artt. 78 del d.l. n. 112 del 2008 e 4, comma
8-bis, del d.l. n. 2 del 2010, gli appellanti hanno
eccepito l’illegittimità costituzionale delle predette norme, per contrasto con
numerosi parametri.
Il Consiglio di Stato ha dapprima proceduto
a riformare parzialmente la sentenza appellata, scorporando alcune voci di
credito a suo dire imputabili ratione temporis alla gestione ordinaria di Roma Capitale (già
Comune di Roma), e quindi ha sollevato questioni di legittimità costituzionale
delle norme indicate, ritenendo il relativo scrutinio pregiudiziale alla
decisione avente ad oggetto la condanna al pagamento dell’indennità di
espropriazione, siccome imputabile alla gestione commissariale, e pertanto
sottratto all’esecuzione individuale.
Soltanto in caso di declaratoria di
illegittimità delle norme censurate sarebbe possibile definire nel merito il
giudizio di ottemperanza, dovendosi, in caso contrario, dichiararne
l’inammissibilità, stante appunto il divieto di azioni esecutive individuali,
sancito dalle stesse norme.
1.3.2.– Il TAR Lazio è adito per
l’ottemperanza alla sentenza n. 13834 del 2009, emessa in sede di cognizione
dal medesimo TAR, con la quale il Comune di Roma è stato condannato al
risarcimento del danno da responsabilità precontrattuale in favore della Bindi Pratopronto s.a.s. di Michele Bindi & C., da liquidarsi
ai sensi dell’art. 35, comma 2, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80
(Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle
amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di
giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione dell’articolo 11, comma 4,
della legge 15 marzo 1997, n. 59), mediante offerta di una somma da parte
dell’Amministrazione condannata, oltre alle spese legali.
Il rimettente precisa che la società
ricorrente ha invitato il Comune di Roma a dare esecuzione alla sentenza, senza
ricevere alcuna offerta di risarcimento, e quindi ha promosso il giudizio di
ottemperanza.
Lo stesso rimettente evidenzia che il
credito vantato dalla ricorrente trova titolo in fatti accaduti nel 2004, e
dunque in epoca antecedente al 28 aprile 2008, sicché soltanto la declaratoria
di illegittimità costituzionale delle norme censurate consentirebbe di
pervenire all’esecuzione del giudicato, diversamente dovendosi dichiarare
l’inammissibilità del ricorso in ottemperanza.
2.– Quanto alla non manifesta
infondatezza delle questioni, il Consiglio di Stato assume che le disposizioni
censurate – nel prevedere l’applicazione, alla gestione commissariale del
Comune di Roma, dell’art. 248 del d.lgs. n. 267 del 2000, e cioè del divieto di
azioni esecutive individuali, per l’adempimento di obbligazioni sorte per fatti
o atti avvenuti in epoca antecedente al 28 aprile 2008, anche se accertati con
sentenze passate in giudicato in epoca successiva a tale data – si porrebbero
in contrasto con numerosi parametri costituzionali.
2.1.– Sarebbero violati innanzitutto gli
artt. 3, 97, primo comma, 114, 118 e 119 Cost.,
giacché le norme censurate avrebbero introdotto un sistema che,
irragionevolmente e in deroga alla disciplina sul dissesto degli enti locali,
prevede, in luogo di un criterio per la definizione della massa debitoria, un
criterio di imputazione ex post delle obbligazioni alla gestione commissariale.
In tal modo non sarebbe possibile
raggiungere la certezza sull’entità dell’indebitamento, e la stessa gestione
commissariale presenterebbe una indeterminatezza temporale incompatibile con il
principio di buon andamento della pubblica amministrazione, oltre che lesiva
dell’autonomia dell’ente locale.
2.2.– Sarebbero violati gli artt. 2, 3,
24, 103, 113 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo
parametro con l’interposizione degli artt. 6, comma 1, e 13 della Convenzione
EDU, in quanto le norme censurate inciderebbero retroattivamente, senza
giustificazione, su diritti riconosciuti con sentenze passate in giudicato
prima dell’entrata in vigore dell’art. 4, comma 8-bis, del d.l.
n. 2 del 2010.
Pur senza disconoscere i diritti
accertati giudizialmente, e senza incidere sul contenuto dei medesimi, il
divieto di procedere in executivis per i crediti derivanti da obbligazioni che
rientrano nella competenza della gestione commissariale agirebbe sul diverso
piano della effettività della tutela giurisdizionale, negandola.
2.3.– L’incidenza sulla effettività
della tutela giurisdizionale determinerebbe, per un verso, la violazione degli
artt. 101, 102, 104 e 108, secondo comma, Cost., a
causa della lesione delle prerogative dell’autorità giudiziaria, e, per altro
verso, degli artt. 3, 24 e 41, primo comma, Cost., in
ragione del pregiudizio al legittimo affidamento che i creditori del Comune di
Roma hanno riposto nel positivo svolgimento dell’attività difensiva,
finalizzata a tutelare in giudizio i propri interessi. Il Consiglio di Stato
richiama in proposito la ratio decidendi della sentenza n. 364 del
2007 di questa Corte.
2.4.– È infine prospettato il contrasto
tra le disposizioni censurate e gli artt. 42 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 del primo
Protocollo addizionale alla Convenzione EDU, sul rilievo che, per effetto del
rinvio ad un termine incerto, senza distinzioni in ordine alla natura dei
crediti insorti in data anteriore al 28 aprile 2008, sarebbe leso il diritto
alla corresponsione dell’indennità di esproprio, quale indispensabile
presupposto del legittimo esercizio della potestà ablatoria. Nemmeno si
potrebbe parlare di serio ristoro per la perdita della proprietà, a fronte di
una indennità di espropriazione che non possa essere «materialmente e
celermente conseguita».
3.– Il TAR Lazio prospetta ulteriori
questioni in riferimento agli artt. 41, primo comma, e 42, secondo e terzo
comma, Cost.
Le norme censurate avrebbero sottratto
valore al titolo esecutivo che incorpora il diritto di credito, da considerarsi
bene negoziabile sul mercato, e quindi violerebbero il regime di garanzie
costituzionali che assicura il libero esercizio dell’attività economica e la
tutela della proprietà privata.
3.1.– Sarebbe inoltre leso il sistema
delle garanzie processuali configurato dagli artt. 24, primo comma, 25, secondo
comma, e 113 Cost., in quanto le disposizioni
censurate impedirebbero l’esercizio del diritto di azione, al tempo stesso
imponendo al giudice naturale di dichiarare estinta la procedura esecutiva, con
l’effetto di escludere la tutela giurisdizionale dei diritti vantati nei
confronti del Comune di Roma.
3.2.– Sussisterebbe, infine, un contrasto
tra le norme censurate e l’art. 97, primo comma, Cost.,
in quanto il blocco delle azioni esecutive, e la connessa riduzione di
responsabilità dell’amministrazione debitrice, finirebbero per premiare l’Ente
che ha mal gestito le proprie risorse.
4.– In ragione della parziale identità
delle questioni sollevate, i giudizi debbono essere riuniti per essere definiti
con unica decisione.
5.– Preliminarmente deve essere
esaminata l’eccezione di inammissibilità delle questioni, sollevata dalla
difesa dello Stato intervenuta in entrambi i giudizi incidentali.
Si assume dall’Avvocatura generale una
carenza motivazionale delle ordinanze di rimessione, con riferimento alla
rilevanza delle questioni nei giudizi a quibus,
entrambi di ottemperanza.
In particolare, i rimettenti avrebbero
motivato la pregiudizialità delle questioni sul presupposto che il divieto di
azioni esecutive individuali, sancito dalle norme censurate attraverso il
richiamo all’art. 248 del d.lgs. n. 267 del 2000, si applichi anche al giudizio
di ottemperanza, e quindi identificando quest’ultimo con le azioni esecutive.
Viceversa, secondo la difesa statale,
tale parificazione sarebbe erronea, stante la diversità, per finalità e
struttura, che segnerebbe il giudizio di ottemperanza rispetto all’ordinaria
azione esecutiva.
In tal senso l’Avvocatura richiama i più
recenti arresti della giurisprudenza amministrativa (Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato, decisione n. 2 del 2013, che richiama le decisioni n. 2, n. 18 e n. 24 del 2012),
osservando come, dall’esame della disciplina di cui agli artt. 112 e seguenti
del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Codice del processo
amministrativo), emergerebbe il contenuto composito del giudizio di
ottemperanza, nel quale convergono azioni diverse, non solo di mera esecuzione
di sentenze di condanna nei confronti della pubblica amministrazione, ma anche
di cognizione.
Ne deriverebbe che il divieto di azioni
esecutive individuali, imposto dalla normativa censurata a tutela della par condicio creditorum,
non avrebbe ragione d’essere a fronte di una pronuncia che ammettesse al
passivo della gestione straordinaria i crediti portati dalla sentenza oggetto
di ottemperanza.
In definitiva, ad avviso della difesa
statale, la normativa censurata non avrebbe reso gli odierni giudizi a quibus inammissibili, come invece ritenuto dai rimettenti.
5.1.– L’eccezione non è fondata.
La normativa censurata, pur con varianti
significative, richiama la disciplina sul dissesto degli enti locali, e in
particolare, per quello che qui rileva, il principio di concorsualità
che rende effettiva l’uguaglianza tra i creditori.
Con orientamento consolidato, la
giurisprudenza amministrativa ritiene che la tutela della concorsualità
comporti, in linea generale, il divieto del ricorso in ottemperanza, in quanto
misura coattiva di soddisfacimento individuale del creditore (ex plurimis,
Consiglio di Stato, sentenza n. 8363 del 2010).
Tale affermazione non è incompatibile con
quanto ritenuto dalla stessa giurisprudenza amministrativa a proposito del
contenuto composito del giudizio di ottemperanza, e difatti si è affermato da
tempo (Adunanza Plenaria, decisione n. 4 del 1998) che la disciplina sul
dissesto degli enti locali, mentre inibisce le azioni esecutive pure, ammette
quelle a contenuto di cognizione, quale, ad esempio, l’azione volta a
quantificare le somme effettivamente dovute in base ad un giudicato che si sia
limitato a fissare i criteri generali di determinazione del dovuto, allo scopo
di segnalarne l’esistenza e l’importo al commissario straordinario.
Diversamente, a fronte della richiesta
di esecuzione del giudicato di condanna nei termini rappresentati dagli odierni
rimettenti, il divieto di azioni esecutive non può che comportare
l’inammissibilità del ricorso in ottemperanza.
Quanto detto vale innanzitutto per il
giudizio pendente davanti al Consiglio di Stato, la cui definizione
stragiudiziale, intervenuta medio tempore, non incide sulla rilevanza delle
questioni, per il principio di autonomia del giudizio incidentale (ex plurimis e
da ultimo, sentenza
n. 274 del 2011), ma vale anche per il giudizio pendente dinanzi al TAR
Lazio.
A tale proposito va chiarito che il
rimettente ha motivato non implausibilmente sulla
rilevanza, avendo dato atto che la parte ricorrente, prima di chiedere
l’ottemperanza della sentenza di condanna generica, ha inutilmente invitato il
Comune di Roma a darvi esecuzione, secondo quanto stabilito dal previgente art.
35, comma 2, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80 (Nuove disposizioni
in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni
pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione
amministrativa, emanate in attuazione dell’articolo 11, comma 4, della legge 15
marzo 1997, n. 59), ed oggi previsto dall’art. 34, comma 4, del d.lgs. n. 104
del 2010. Né è consentito censurare, in sede di controllo sulla rilevanza, la
scelta del rimettente di non provvedere a quantificare l’importo dovuto, in
base ai criteri fissati nella sentenza di condanna generica, prima di sollevare
le questioni aventi ad oggetto norme che impediscono di dare esecuzione al
giudicato di condanna.
6.– Nel merito, la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 78, comma 6, primo periodo, del d.l. n. 112 del 2008 non è fondata.
6.1.– I rimettenti censurano la norma
indicata relativamente alla sola previsione che sancisce – mediante il rinvio agli
artt. 248, commi 2, 3 e 4, e 255, comma 12, del d.lgs. n. 267 del 2000 – il
divieto di azioni esecutive individuali, e l’art. 4, comma 8-bis, del d.l. n. 2 del 2010, nella parte in cui interpreta l’art.
78, comma 3, del d.l. n. 112 del 2008, nel senso che
sono imputate alla gestione straordinaria del Comune di Roma le obbligazioni
nascenti da atti o fatti precedenti al 28 aprile 2008, anche se accertate con
sentenze diventate definitive successivamente a tale data.
I rimettenti danno atto, altresì, che i
crediti accertati dalle sentenze oggetto di ottemperanza nei rispettivi giudizi
sono sorti prima del 28 aprile 2008, mentre i rispettivi giudicati si sono
formati prima dell’entrata in vigore della norma interpretativa (inserita dalla
legge di conversione n. 42 del 2010). L’oggetto centrale delle censure è quindi
l’estensione del divieto di azioni esecutive individuali ai crediti accertati
con sentenze passate in giudicato prima del 26 marzo 2010. Vi sarebbe stata
dunque violazione del giudicato, in quanto la norma contenuta nell’art. 4,
comma 8-bis, del d.l. n. 2 del 2010, definita dalla
stessa disposizione come interpretativa, avrebbe in realtà natura innovativa ed
efficacia retroattiva.
Oggetto di censura è, più in generale,
l’intera procedura commissariale, ritenuta irragionevole, anche per l’asserita
indeterminatezza temporale della stessa e per la violazione dell’effettività
della tutela giurisdizionale dei crediti.
6.2.– In particolare, i rimettenti
pongono in rilievo in modo critico la deroga, contenuta nella normativa
censurata, all’art. 254 del d.lgs. n. 267 del 2000, e cioè la mancata
previsione di un avviso pubblico ai fini della ricognizione dei debiti.
Si deve osservare che la deroga trova
giustificazione nell’introduzione con legge – atto munito di pubblicità legale
ed assistito da presunzione di conoscenza – della gestione commissariale del
debito pregresso del Comune di Roma, in luogo della dichiarazione di dissesto,
assunta, nella generalità dei casi, con delibera del consiglio comunale, atto
privo delle medesime caratteristiche di pubblicità della legge.
6.3.– Con riferimento alla "singolarità”
della disciplina sul risanamento del Comune di Roma, occorre rilevare che la
stessa presenta profili derogatori rispetto alla normativa generale sul
dissesto degli enti locali in ragione della peculiarità del suddetto Ente,
quale «capitale della Repubblica», sancita dall’art. 114, terzo comma, Cost., che ha trovato attuazione nei decreti legislativi 17
settembre 2010, n. 156 (Disposizioni recanti attuazione dell’articolo 24 della
legge 5 maggio 2009, n. 42 e successive modificazioni, in materia di
ordinamento transitorio di Roma Capitale) e 18 aprile 2012, n. 61 (Ulteriori
disposizioni recanti attuazione dell’art. 24 della legge 5 maggio 2009, n. 42,
in materia di ordinamento di Roma Capitale).
Il legislatore ha inteso evitare una
dichiarazione di dissesto che investisse, puramente e semplicemente, il Comune
di Roma Capitale, optando per una procedura di risanamento da porre in essere
mediante una gestione straordinaria dell’ingente indebitamento pregresso, da
espletarsi in modo contestuale all’attività ordinaria dell’ente. Ciò allo scopo
di non incidere, nei limiti del possibile, sul livello dei servizi della
Capitale, senza tuttavia creare una situazione deteriore per i creditori del
Comune di Roma, rispetto a quelli di altri Comuni d’Italia dichiarati in stato
di dissesto e assoggettati pertanto alla procedura concorsuale prevista dagli
artt. 248, commi 2, 3 e 4, e 255, comma 12, del d.lgs. n. 267 del 2000, le cui
statuizioni peraltro si ispirano, quanto al divieto di azioni esecutive
individuali, a quelle contenute negli artt. 51 e seguenti del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del
concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione
coatta amministrativa), finalizzate a garantire la par condicio creditorum.
6.4. – Alla luce della giurisprudenza di
questa Corte, la legittimità delle cosiddette leggi-provvedimento, che
contengono disposizioni dirette a destinatari determinati, deve essere valutata
in relazione al loro specifico contenuto (ex
plurimis, sentenza n. 270 del
2010). Nel caso in esame, la deroga alla disciplina generale del dissesto
degli enti locali si limita all’introduzione di una doppia gestione (ordinaria
e commissariale), volta a mantenere indenni dal peso di debiti pregressi le
risorse destinate all’attività ordinaria del Comune di Roma Capitale, in
considerazione del rilievo del tutto peculiare di quest’ultimo, sia in campo
nazionale che internazionale. Per conseguire tale scopo è indispensabile
stabilire una data precisa (individuata nel 28 aprile 2008), al fine di
determinare una separazione temporale tra obbligazioni ad essa precedenti, i
cui effetti ricadono sulla gestione commissariale, e obbligazioni successive, i
cui effetti sono imputati alla gestione ordinaria. Si deve, in definitiva,
ritenere che l’art. 78, comma 6, primo periodo, del d.l.
n. 112 del 2008 sia coerente con la ratio che presiede alle funzioni ed
all’attività dell’organo straordinario di liquidazione, di cui all’art. 245 e
agli artt. 252 e seguenti del d.lgs. n. 267 del 2000, con la differenza della
contestualità di gestione ordinaria e commissariale, volta a preservare la
prima dal dissesto.
6.5.– Per quanto riguarda la posizione
dei creditori, si può ritenere valido anche per il presente caso quanto questa
Corte ha affermato sulla compatibilità costituzionale delle procedure
concorsuali per la definizione del debito degli enti locali dissestati: «Non vi
è lesione del diritto di azione perché la pretesa creditoria all’esecuzione
forzata non è frustrata, ma è meramente deviata da uno strumento di
soddisfacimento individuale verso uno di tipo concorsuale»; il rispetto della
par condicio creditorum «costituisce ragione
sufficiente di tale meccanismo sostitutorio dello
strumento di tutela approntato dall’ordinamento» (sentenza n. 155 del
1994). Come si è ricordato sopra, i princìpi di riferimento sono quelli
della disciplina del fallimento, adattati alla specifica natura dell’ente
locale, che non può cessare di esistere, in quanto espressione di autonomia
costituzionalmente tutelata. Gli stessi princìpi sono stati ribaditi più di
recente dalla sentenza
n. 355 del 2006.
6.6.– Quanto alla garanzia dei creditori
rappresentata dalla massa attiva della gestione commissariale, si deve
ricordare che l’art. 78, comma 3, del d.l. n. 112 del
2008 ha previsto che tutte le entrate di competenza, riferibili ad atti o fatti
antecedenti al 28 aprile 2008, fossero assunte, con bilancio separato, alla
suddetta gestione.
Il d.P.C.m. 5
dicembre 2008 ha stabilito che all’attuazione del piano di rientro si provvede
mediante utilizzo dei contributi, di cui all’art. 5, comma 3, del decreto-legge
7 ottobre 2008, n. 154 (Disposizioni urgenti per il contenimento della spesa
sanitaria e in materia di regolazioni contabili con le autonomie locali),
convertito dalla legge 4 dicembre 2008, n. 189. Si tratta delle risorse
assegnate ai singoli Comuni, a valere sul fondo per le aree sottoutilizzate,
che possono essere impiegate anche per le finalità inerenti al ripiano delle
anticipazioni della Cassa depositi e prestiti alla gestione commissariale. La
stessa disposizione prevede: «In sede di attuazione dell’art. 119 della
Costituzione, a decorrere dall’anno 2010, viene riservato prioritariamente a
favore di Roma Capitale un contributo annuale di 500 milioni di euro, anche per
finalità previste dal presente comma [ripiano delle anticipazioni della Cassa
depositi e prestiti], nell’ambito delle risorse disponibili». Lo stesso d.P.C.m. 5 dicembre 2008 stabilisce che il commissario
straordinario può chiedere finanziamenti alla Cassa depositi e prestiti o a
primari istituti di credito e che, poi, «il Ministero competente alla gestione
dei capitoli di spesa, ove sono contabilizzati i trasferimenti pluriennali, corrisponde
questi ultimi, alle originarie scadenze, direttamente alla Cassa depositi e
prestiti o all’istituto di credito a titolo di progressiva estinzione dei
finanziamenti concessi». Si deduce, pertanto, che il piano di rientro è
finanziato con i trasferimenti pluriennali dovuti al Comune di Roma.
Inoltre, l’art. 4, commi 7 e 8, del d.l. n. 2 del 2010 dispone che «è attribuito al Commissario
straordinario del Governo […] un importo pari a 600 milioni di euro, di cui un
sesto al Comune di Roma e cinque sesti al Commissario straordinario del
Governo». Ulteriori interventi sono stati effettuati con il decreto-legge 31
maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e
di competitività economica), che, all’art. 14, comma 14, prevede la
costituzione di un fondo su apposito capitolo di bilancio del Ministero
dell’economia e delle finanze, con dotazione annua di 300 milioni di euro, a
partire dal 2011, per il concorso al sostegno degli oneri derivanti
dall’attuazione del piano di rientro. La restante quota delle somme occorrenti
alla scopo è reperita mediante l’istituzione, fino al conseguimento di 200
milioni di euro annui, di una addizionale sui diritti di imbarco dei passeggeri
in partenza dagli aeroporti di Roma e mediante un incremento dell’addizionale
comunale IRPEF fino al massimo dello 0,4%. Il comma 15 del citato art. 14
prevede ancora l’istituzione di un apposito fondo, con dotazione di 200 milioni
di euro annui, a decorrere dal 2011, destinato esclusivamente all’attuazione del
piano di rientro.
Infine, l’art. 16, comma 12-octies, del
decreto-legge 7 agosto 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della
spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di
rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 135, prevede
che il fondo istituito dall’art. 14, comma 14-bis, del d.l.
n. 78 del 2010 è attribuito al Commissario straordinario. Il fondo in
questione, inizialmente previsto a favore di tutti i Comuni in stato di
dissesto, è stato istituito presso il Ministero dell’economia e delle finanze,
con una dotazione di 50 milioni di euro annui, a decorrere dal 2011.
I dati normativi prima esposti
dimostrano che la provvista di mezzi finanziari per fronteggiare la situazione
debitoria del Comune di Roma non solo non è inferiore a quella che si determina
con la formazione della massa attiva degli enti locali in dissesto, secondo la
disciplina generale del d.lgs. n. 267 del 2000, ma viene periodicamente
impinguata – per effetto di precise disposizioni – da appositi stanziamenti,
erogati non solo una tantum, ma anche con cadenza annua. Da ciò deriva la
conseguenza che i creditori del Comune di Roma, che devono soddisfarsi sulla
massa attiva della gestione commissariale, possono contare sull’intervento
dello Stato, che emerge dalle norme prima citate, e non si trovano pertanto in
una condizione deteriore rispetto a quelli che devono far valere le loro
pretese nei confronti di enti locali in stato di dissesto dichiarato.
7.– La questione di legittimità
costituzionale dell’art. 4, comma 8-bis, del d.l. n.
2 del 2010 non è fondata.
7.1.– Si è già posto in rilievo, nel
paragrafo 6.4, che la scelta legislativa, in sé non irragionevole, di creare
una gestione commissariale con bilancio separato rispetto a quella ordinaria,
allo scopo di fronteggiare la situazione debitoria del Comune di Roma, richiede
la fissazione di una data certa, in modo da individuare quali obbligazioni
ricadano nell’una e nell’altra gestione. La norma censurata non possiede valore
innovativo rispetto a tale regola, stabilita dall’art. 78 del d.l. n. 112 del 2008, ma si limita a rendere esplicito un
significato che già si poteva ricavare da questa disposizione. La precisazione
si è resa necessaria perché di fatto – come emerge dai lavori parlamentari – si
era proceduto, talvolta, al pagamento di debiti nascenti da obbligazioni sorte
in data anteriore al 28 aprile 2008 con i fondi della gestione ordinaria.
Si deve ribadire che in una procedura
concorsuale – tipica di uno stato di dissesto – una norma che ancori ad una
certa data il fatto o l’atto genetico dell’obbligazione è logica e coerente,
proprio a tutela dell’eguaglianza tra i creditori, mentre la circostanza che
l’accertamento del credito intervenga successivamente è irrilevante ai fini
dell’imputazione. Sarebbe irragionevole il contrario, giacché farebbe difetto
una regola precisa per individuare i crediti imputabili alla gestione
commissariale o a quella ordinaria e tutto sarebbe affidato alla casualità del
momento in cui si forma il titolo esecutivo, anche all’esito di una procedura
giudiziaria di durata non prevedibile. La fissazione di una data per
distinguere le due gestioni avrebbe un valore soltanto relativo, né sarebbe
perseguito in modo efficace l’obiettivo di tenere indenne la gestione ordinaria
di Roma Capitale dagli effetti del debito pregresso, con la conseguenza
paradossale che si alleggerirebbe la situazione della gestione commissariale e
si rischierebbe il dissesto della gestione ordinaria, con la inevitabile
compromissione dei servizi della capitale della Repubblica, che il legislatore
ha voluto invece evitare.
In questa prospettiva risulta evidente
che l’intervento legislativo non ha inciso sui giudizi in corso, alterandone
l’esito. Il criterio di imputazione delle obbligazioni, già fissato dall’art.
78, comma 3, del d.l. n. 112 del 2008, impediva che i
titoli esecutivi in esame potessero essere azionati individualmente, nei
confronti di Roma Capitale, perché formatisi per obbligazioni sorte
antecedentemente alla data del 28 aprile 2008, e dunque imputabili alla
gestione commissariale.
7.2.– Non è condivisibile l’argomento,
svolto dalla parte privata costituita nel giudizio r.o.
n. 252 del 2012, secondo cui il contenuto innovativo dell’art. 4, comma 8-bis,
risiederebbe nel riferimento anche alle obbligazioni di origine non
contrattuale. Sarebbe infatti irragionevole concepire una gestione
straordinaria per il rientro dal debito pregresso, improntata ai princìpi della
concorsualità, che distingua le obbligazioni non in
base al tempo in cui sono sorte, ma alla natura del fatto o dell’atto genetico.
È vero, al contrario, che l’elemento differenziale, sul quale si può basare una
procedura concorsuale, è solo quello temporale, che consente di rispettare il
principio di eguaglianza tra i creditori, assicurando eguale trattamento a
tutti quelli che hanno ragioni di credito sorte prima della data del
fallimento, della dichiarazione di dissesto o della diversa data fissata dal
legislatore nei casi – come il presente – di procedure particolari.
7.3.– Il caso oggetto del presente
giudizio è diverso da quello risolto con la sentenza n. 364 del
2007, invocata dai rimettenti a sostegno delle sollevate questioni. In quel
giudizio, difatti, il legislatore era intervenuto, con norma retroattiva, per
trasferire alla gestione liquidatoria della disciolta Azienda Policlinico
Universitario Umberto I di Roma l’esecuzione dei titoli formatisi nei confronti
della nuova Azienda Policlinico Umberto I, senza che quest’ultima avesse
eccepito, nel corso dei giudizi, il proprio difetto di legittimazione passiva
basato sul criterio temporale di imputazione dei crediti tra le due aziende che
si erano succedute nei rapporti contrattuali in corso. Tale criterio trovava il
suo riferimento certo nella data di istituzione della nuova Azienda. Tuttavia i
giudicati si erano formati – per il motivo prima ricordato – nei confronti di
quest’ultima, con l’effetto che la sentenza citata ha considerato lesiva delle
prerogative dell’autorità giudiziaria la sostituzione di un debitore
individuato come tale da sentenze passate in giudicato con un altro, designato
ex post dal legislatore.
Di recente, con la sentenza n. 277 del
2012, questa Corte è intervenuta su un caso analogo a quello appena
richiamato, nell’ambito della successione tra Fondazione Ordine Mauriziano
(sottoposta a procedura di liquidazione concorsuale) e Azienda Sanitaria Ordine
Mauriziano.
Si è rilevato nella citata pronuncia
che, mentre la normativa originaria aveva escluso che la Fondazione rispondesse
dei debiti sorti tra novembre 2004 e gennaio 2005, la norma censurata aveva
invertito la regola e aveva così paralizzato l’efficacia dei titoli esecutivi
formatisi nei confronti della nuova Azienda. Anche in questo caso, la Corte ha
ribadito che il legislatore non può incidere sul soggetto nei cui confronti si
sono formati provvedimenti giurisdizionali definitivi, sostituendolo con un
altro.
In conclusione, la situazione della
gestione commissariale del Comune di Roma differisce – come s’è detto – da
quelle prima ricordate, per alcuni profili essenziali. Non vi è una successione
di soggetti giuridici, giacché il debitore rimane soltanto il Comune di Roma,
nei cui confronti si sono formati i giudicati. Solo le azioni esecutive sono
distinte in base alla data del 28 aprile 2008, senza peraltro che la norma di
interpretazione autentica abbia sostituito un altro soggetto a quello
individuato nelle sentenze, né abbia modificato il criterio di imputazione
stabilito originariamente dall’art. 78 del d.l. n.
112 del 2008.
7.4.– Risultano non fondate, infine, le
questioni poste in riferimento ai parametri interni e convenzionali che
tutelano la proprietà privata, imponendo, nel caso di espropriazione per
pubblica utilità, la corresponsione di un indennizzo che equivalga ad un serio
ristoro per la perdita del diritto reale.
Il principio della par condicio creditorum impedisce che i
crediti sorti a seguito di procedimenti di espropriazione ricevano un
trattamento diverso dagli altri, e la nozione di serio ristoro, richiamata dai
rimettenti in riferimento all’indennità spettante ai proprietari, attiene alla
quantificazione di quest’ultima, non già alle modalità di conseguimento della
stessa.
Né la negoziabilità dei titoli esecutivi
viene compromessa dalla normativa in esame, giacché è sempre possibile la
cessione a terzi di crediti maturati e asseverati da sentenze passate in
giudicato. Tali crediti, infatti, non sono stati «espropriati», ma è stata
stabilita soltanto una particolare modalità di riscossione degli stessi.
7.5.– Per le motivazioni sopra esposte,
le questioni di legittimità costituzionale sollevate da entrambi i rimettenti
non sono fondate in riferimento a tutti i parametri evocati.
riuniti i giudizi,
dichiara
non fondate le questioni di
legittimità costituzionale dell’articolo 78, comma 6, primo periodo, del
decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo
economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della
finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni,
dall’art. 1, comma 1, della legge 6 agosto 2008, n. 133, e dell’art. 4, comma
8-bis, ultimo periodo, del decreto-legge 25 gennaio 2010, n. 2 (Interventi
urgenti concernenti enti locali e regioni), convertito, con modificazioni,
dall’art. 1, comma 1, della legge 26 marzo 2010, n. 42, sollevate – in
riferimento agli artt. 2, 3, 24, 25, secondo comma, 41, primo comma, 42,
secondo e terzo comma, 97, primo comma, 101, 102, 104, 108, secondo comma, 114,
117, primo comma (in relazione agli artt. 6, primo comma, e 13 della
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva in
Italia dalla legge 4 agosto 1955, n. 848, nonché in relazione all’art. 1 del
primo Protocollo addizionale alla medesima Convenzione, firmato a Parigi il 20
marzo 1952), 118 e 119 della Costituzione – dal Consiglio di Stato e dal
Tribunale amministrativo regionale per il Lazio con le ordinanze in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della
Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17 giugno 2013.
F.to:
Franco GALLO, Presidente
Gaetano SILVESTRI, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 21 giugno 2013.