SENTENZA N. 16
ANNO 2024
Commento alla decisione di
Emanuele Cocchiara
per g.c. dell'Osservatorio costituzionale
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta da:
Presidente: Augusto Antonio BARBERA;
Giudici: Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge della Regione Puglia 18 aprile 2023, n. 6 (Misure di salvaguardia per la tutela del riccio di mare), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 19 giugno 2023, depositato in cancelleria il 20 giugno 2023, iscritto al n. 18 del registro ricorsi 2023 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 29, prima serie speciale, dell’anno 2023.
Visto l’atto di costituzione della Regione Puglia;
udita nell’udienza pubblica del 9 gennaio 2024 la Giudice relatrice Emanuela Navarretta;
uditi l’avvocato dello Stato Giancarlo Caselli per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocata Carmela Patrizia Capobianco per la Regione Puglia;
deliberato nella camera di consiglio del 24 gennaio 2024.
Ritenuto in fatto
1.– Con ricorso iscritto al n. 18 reg. ric. 2023, depositato il 20 giugno 2023, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge della Regione Puglia 18 aprile 2023, n. 6 (Misure di salvaguardia per la tutela del riccio di mare), per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, con riguardo alla materia «tutela dell’ambiente [e] dell’ecosistema», in relazione all’art. 32 della legge 14 luglio 1965, n. 963 (Disciplina della pesca marittima), all’art. 24 del decreto legislativo 9 gennaio 2012, n. 4 (Misure per il riassetto della normativa in materia di pesca e acquacoltura, a norma dell’articolo 28 della legge 4 giugno 2010, n. 96), nonché all’art. 4 del decreto del Ministro delle risorse agricole, alimentari e forestali del 12 gennaio 1995 (Disciplina della pesca del riccio di mare); e per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera a), Cost., con riguardo alle materie «politica estera e rapporti internazionali dello Stato» e «rapporti dello Stato con l’Unione europea», in relazione all’art. 2 del regio decreto 30 marzo 1942, n. 327 (Approvazione del testo definitivo del Codice della navigazione).
2.– L’art. 1 della legge reg. Puglia n. 6 del 2023 dispone che «la Regione Puglia intende favorire il ripopolamento del riccio di mare nei mari regionali, garantendo un periodo di riposo della specie, preservando la risorsa ittica e scongiurando il rischio di estinzione dovuto ai massicci prelievi».
L’art. 2 della medesima legge regionale prevede, al comma 1, che «[n]el mare territoriale della Puglia, a decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge è vietato il prelievo, la raccolta, la detenzione, il trasporto, lo sbarco e la commercializzazione degli esemplari di riccio di mare (Paracentrotus lividus) e dei relativi prodotti derivati freschi, per un periodo di tre anni»; e, al comma 2, che «[l]a commercializzazione del riccio di mare non è vietata per gli esemplari provenienti (con certificazioni e tracciabilità secondo legge) da mari territorialmente non appartenenti alla Regione Puglia».
3.– Con il primo motivo di ricorso, l’Avvocatura generale dello Stato impugna le disposizioni richiamate, in quanto si porrebbero in contrasto con la competenza legislativa esclusiva statale in materia di «tutela dell’ambiente [e] dell’ecosistema», che – secondo quanto argomenta il ricorso – deve ritenersi «“trasversale” e “prevalente”».
Spetterebbe, pertanto, esclusivamente allo Stato «fissare livelli di tutela ambientale uniformi sull’intero territorio nazionale».
Se il carattere trasversale della competenza in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema rende inevitabile l’intersezione con «“campi di esperienza” – le cosiddette “materie” in senso proprio – attribuiti alla competenza legislativa regionale», nondimeno – a parere del ricorrente – la normativa statale comporterebbe un «preciso limite alla disciplina che le Regioni, anche a statuto speciale, e le Province autonome» possono «adottare nei settori di loro competenza, non essendo ad esse consentito […] compromettere il punto di equilibrio fra esigenze contrapposte, per come individuato dalla norma statale» (viene richiamata la sentenza di questa Corte n. 197 del 2014).
3.1.– Sulla base di tale presupposto, il ricorrente rileva, anzitutto, che la finalità perseguita dalla disciplina regionale, quale emerge dall’art. 1 della legge reg. Puglia n. 6 del 2023, sarebbe indiscutibilmente orientata al perseguimento dell’obiettivo di preservare la specie del riccio di mare.
A tal fine, il legislatore regionale avrebbe vietato per tre anni «il prelievo, la raccolta, la detenzione, il trasporto e la commercializzazione di esemplari di riccio di mare e dei relativi prodotti derivati freschi “nel mare territoriale della Puglia”», senza escludere la commercializzazione del prodotto ove proveniente da altri territori (art. 2).
3.2.– Sennonché una tale finalità attrarrebbe le disposizioni impugnate (i citati artt. 1 e 2 della legge reg. Puglia n. 6 del 2023) nell’ambito di competenza legislativa spettante in via esclusiva allo Stato, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.
Nell’esercizio della richiamata competenza lo Stato avrebbe regolato la materia con il già citato d.m. 12 gennaio 1995.
Tale fonte troverebbe la sua legittimazione nell’art. 32 della legge n. 963 del 1965 e sarebbe – a detta del ricorrente – «tuttora vigente», in virtù di quanto disposto dal d.lgs. n. 4 del 2012, che, all’art. 27, commi 1, lettera a) e 2, ha «abrogato e sostituito» la precedente legge n. 963 del 1965.
In particolare, – aggiunge la difesa statale – l’art. 24 del d.lgs. n. 4 del 2012, in continuità con quanto previsto dal citato art. 32 dell’abrogata legge n. 963 del 1965, «prevede da un lato che “il Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali [oggi Ministro dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste] può, con proprio decreto, sentita la Commissione consultiva centrale per la pesca marittima, disciplinare la pesca anche in deroga alle discipline regolamentari nazionali, in conformità alle norme comunitarie, al fine di adeguarla al progresso delle conoscenze scientifiche e delle applicazioni tecnologiche, e favorirne lo sviluppo in determinate zone o per determinate classi di essa” (comma 1), e dall’altro che lo stesso Ministro “può, con proprio decreto, sospendere l’attività di pesca o disporne limitazioni in conformità alle disposizioni del regolamento (CE) n. 2371/2002, al fine di conservare e gestire le risorse della pesca” (comma 2)».
Sulla base di tale elementi, l’Avvocatura generale dello Stato ritiene che «l’apposizione di sospensioni o limitazioni in conformità con quanto previsto a livello europeo, in chiave di protezione ambientale delle risorse ittiche» sarebbe «assegnata in maniera esclusiva dalla legge statale alla competenza del Ministero dell’agricoltura e della sovranità alimentare, e per esso allo Stato» e che, pertanto, le norme impugnate violerebbero «l’articolo 117, secondo comma, lett. s), Cost., che attribuisce allo Stato la competenza esclusiva in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, materia nella quale ricade la disciplina del fermo di pesca».
3.3.– Da ultimo, il ricorrente sottolinea che «la definizione di pesca accolta nell’ordinamento nazionale italiano ripropone quella offerta dal legislatore unionale nel Regolamento UE n. 1380/2013, relativo alla politica comune della pesca» e che, in generale, il settore della pesca sarebbe stato profondamente inciso dalla disciplina recata da norme di diritto dell’Unione europea, «con conseguente aumento d’attenzione per gli aspetti di tutela ambientale ad essa connessi e [con] un forte ridimensionamento del ruolo delle normative nazionali». Simile impostazione avrebbe avuto ripercussioni anche sul piano costituzionale, determinando «una lettura espansiva della materia di competenza statale esclusiva “tutela dell’ambiente”, tale da comprendere anche la regolamentazione di aspetti relativi all’attività di pesca» (viene richiamata la sentenza n. 9 del 2013).
4.– Con il secondo motivo di ricorso, il Presidente del Consiglio dei ministri impugna le medesime disposizioni regionali, in quanto invasive della competenza legislativa esclusiva dello Stato prevista dall’art. 117, secondo comma, lettera a), Cost., con riguardo sia alla materia «politica estera e rapporti internazionali dello Stato» sia a quella «rapporti dello Stato con l’Unione europea», e individua come norma interposta l’art. 2 cod. nav.
Ad avviso del ricorrente, il contrasto con la richiamata competenza legislativa statale esclusiva si determinerebbe là dove le disposizioni regionali impugnate fanno riferimento al «mare territoriale della Puglia» e ai «mari territorialmente non appartenenti alla Regione Puglia» (così l’art. 2).
4.1.– Il presupposto delle disposizioni impugnate sarebbe costituito «dalla astratta configurabilità di un “mare territoriale regionale”, ipoteticamente appartenente o riferibile alla Regione Puglia, quale ambito entro il quale la stessa Regione sarebbe abilitata ad esercitare la propria potestà normativa».
Sennonché, secondo l’Avvocatura dello Stato, «la individuazione, delimitazione e classificazione dello “spazio marino” [sarebbero] precluse alla competenza regionale, in quanto soggette anche ad interessi internazionali e a discipline dettate dal diritto dell’Unione Europea».
Ad avviso del ricorrente, una nozione di «mare territoriale regionale» sarebbe sconosciuta all’ordinamento interno e internazionale. Non sarebbe dunque possibile «equiparare o assimilare al territorio regionale (per come delimitato dai relativi confini) la fascia marina antistante alle singole coste regionali (di larghezza di 12 miglia, corrispondente all’estensione del mare territoriale ex articolo 2 cod. nav.), che per l’appunto il Codice della navigazione qualifica come “mare territoriale” assoggettato alla sovranità statale».
4.2.– A tal riguardo, l’Avvocatura generale dello Stato ricostruisce la giurisprudenza costituzionale in materia di competenze delle regioni e degli enti locali sulle acque costiere.
Riconosce in effetti che, a partire dalle sentenze n. 23 del 1957 e n. 49 del 1958 e fino alla più recente sentenza n. 102 del 2008 – pronunciate su controversie tra Stato e regioni sorte in ordine alla possibilità di queste ultime di legiferare in relazione allo sfruttamento, a vario titolo, delle acque costiere – questa Corte avrebbe ammesso una «forma di competenza legislativa delle Regioni sul mare territoriale».
Tuttavia, segnala pronunce che avrebbero una differente impostazione, in cui questa Corte avrebbe affermato che, «[q]uello dell’esistenza di un mare territoriale regionale altro non è se non problema di esistenza, fra le competenze regionali, di singole materie aventi un oggetto che implica l’utilizzazione di quel mare» (così sentenza n. 21 del 1968). In quell’occasione la Corte, «[r]ichiamando la sentenza n. 27 del 1953 [recte: n. 23 del 1957]», avrebbe «precisato che l’attribuzione di una competenza in materia di pesca marittima non implica il riconoscimento dell’esistenza di un mare territoriale regionale o la possibilità di esercitare poteri su quel mare, sia pure limitatamente alla pesca».
In particolare, il ricorrente evoca la distinzione operata dalla citata sentenza n. 21 del 1968 tra «mare territoriale» e «fondo» o «sottofondo sottostante al mare territoriale», sulla cui base questa Corte avrebbe ritenuto «che la disciplina del fondo e del sottofondo non potrebbe che essere rimessa alla potestà legislativa statale». Ad avviso del ricorrente, la giurisprudenza costituzionale non avrebbe mutato indirizzo sul punto dopo la riforma costituzionale del 2001. In particolare, con la sentenza n. 39 del 2017, questa Corte, ad avviso del ricorrente, avrebbe «sostanzialmente confermato l’orientamento espresso nel 1968, ribadendo che “sul fondo e sul sottofondo marino si esplicano poteri di contenuto e di intensità uguali per tutta la fascia che va dalla linea della bassa marea fino al limite esterno della piattaforma, circostanza che non consente di riconoscere alle Regioni una competenza neppure con riguardo alle attività che possono esercitarsi sulla porzione di fondo e di sottofondo sottostante al mare territoriale”».
Per ciò che concerne la specifica perimetrazione ai fini della pesca, il ricorrente ritiene che eventuali ripartizioni delle aree marine non potrebbero che essere correlate «all’aspetto morfologico ed ecologico del mare, con riferimento alla varietà di habitat, alle condizioni ambientali e alle comunità biologiche presenti, che debbono essere valutate unitariamente, in una ottica necessariamente sovraregionale, anche perché in relazione ad ambiti marini prospicienti le coste di più Regioni».
4.3.– In conclusione, l’Avvocatura generale dello Stato censura l’impugnata normativa in quanto pretenderebbe di esercitare una potestà legislativa regionale che si giustificherebbe per il mero riferimento «ad un “ambito marittimo regionale”», che non sarebbe però in alcun modo «predefinito o legittimato a livello statale o internazionale».
Le regioni, ad avviso del ricorrente, non potrebbero introdurre una inedita nozione giuridica di “mare territoriale regionale”: «non [essendo] la Regione un ente sovrano, i limiti di esistenza della potestà regionale non potrebbero che essere posti da fonti sovraordinate, che – allo stato – non operano alcuna ripartizione regionale del mare territoriale».
Ad avviso del Presidente del Consiglio dei ministri, riconoscere un “mare territoriale regionale”, da un lato, confliggerebbe «con la competenza esclusiva dell’Unione europea in materia di pesca, sulle acque unionali che ricomprendono, come noto, le acque territoriali dei Paesi membri».
Da un altro lato, si porrebbe in contrasto con la giurisprudenza di questa Corte, che riferisce «i “rapporti internazionali” e la “politica estera” (art. 117, secondo comma, lettera a, Cost.) […] “a singole relazioni, dotate di elementi di estraneità rispetto al nostro ordinamento” ed alla “attività internazionale dello Stato unitariamente considerata in rapporto alle sue finalità ed al suo indirizzo” (sentenze n. 258 e n. 131 del 2008, n. 211 del 2006)» (è citata la sentenza n. 299 del 2010).
Tali situazioni – secondo il ricorrente – ricorrerebbero nella fattispecie all’esame, allorché «la nomenclatura giuridica del “mare territoriale” deriva da principi di diritto internazionale acquisiti nella normativa nazionale (e segnatamente nell’articolo 2 del Codice della navigazione, che al diritto internazionale fa espresso rinvio al terzo comma), rispetto ai quali le norme regionali qui denunciate, con il loro riferimento alla definizione di un “mare territoriale regionale”», si porrebbero in manifesto contrasto.
5.– Si è costituita in giudizio, con atto depositato il 28 luglio 2023, la Regione Puglia, chiedendo che il ricorso sia dichiarato non fondato.
5.1.– Con riferimento al primo motivo di ricorso, la difesa della Regione richiama l’art. 1 della legge reg. Puglia n. 6 del 2023, evidenziando che il suo scopo è testualmente quello di preservare «la risorsa ittica» e di introdurre un rimedio a fronte dei massicci prelievi «provocati dal turismo di massa».
A tal fine, la legge regionale impugnata avrebbe previsto una restrizione limitata alla fascia costiera pugliese e per il solo periodo di tempo di tre anni, sulla base della potestà legislativa in materia di pesca, spettante alle regioni, in quanto competenza legislativa residuale, ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost.
La difesa della Regione precisa, invero, che la pesca, pur essendo oggetto della potestà legislativa residuale delle regioni, possa, «per la complessità e la polivalenza delle attività in cui si estrinseca», interferire con «più interessi eterogenei, taluni statali, altri regionali», con «indiscutibili riflessi sulla ripartizione delle competenze legislative ed amministrative», il che rende necessario fare riferimento ai principi di prevalenza e di leale collaborazione.
Di riflesso, avendo riguardo alla materia «tutela dell’ambiente [e] dell’ecosistema», la resistente evidenzia come allo Stato spetti fissare «livelli “adeguati e non riducibili di tutela” (sentenza n. 61 del 2009)», mentre alle regioni sia consentito, «nel rispetto dei livelli di tutela fissati dalla disciplina statale (sentenze n. 214 e n. 62 del 2008), esercitare le proprie competenze, dirette essenzialmente a regolare la fruizione dell’ambiente, evitandone compromissioni o alterazioni».
In sostanza, «la “trasversalità” dell’ambiente legittim[erebbe] interventi normativi delle Regioni le quali, nell’esercizio delle loro competenze, curino interessi che risultino all’ambiente funzionalmente collegati – ancorché si tratti di un esercizio regionale “condizionato”, ossia tenuto a non diminuire la tutela ambientale stabilita dallo Stato».
A sostegno di tale impostazione, la difesa della Regione insiste diffusamente sulla giurisprudenza di questa Corte che consentirebbe alle regioni «di prescrivere livelli di tutela ambientale più elevati di quelli previsti dallo Stato» (sono richiamate in proposito le sentenze n. 88 e n. 63 del 2020, n. 61, n. 30 e n. 12 del 2009, n. 104 del 2008).
La resistente, inoltre, sottolinea che anche il legislatore statale avrebbe consentito alle regioni, con l’art. 3-quinquies, comma 2, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), di adottare forme di tutela giuridica dell’ambiente più restrittive, qualora lo richiedano situazioni particolari del loro territorio (è richiamata a riguardo anche la sentenza n. 58 del 2013).
La legge regionale in esame non si porrebbe, dunque, in contrasto con gli standard di tutela fissati dal legislatore statale (è menzionato il d.m. 12 gennaio 1995), e anzi adotterebbe una misura analoga a quella statale, ispirata al principio di precauzione, di cui all’art. 3-ter dello stesso d.lgs. n. 152 del 2006, non discriminatoria nella sua applicazione e che realizzerebbe un «ragionevole equilibrio tra le attività produttive utili all’attuale fabbisogno collettivo e le buone regole del rispetto dell’ambiente».
Conclusivamente, quanto al primo motivo di ricorso, ad avviso della difesa della parte resistente, le censure non sarebbero fondate in quanto: a) la disciplina avrebbe a oggetto una specifica attività di pesca, materia che la stessa Costituzione, all’art. 117, quarto comma, ricondurrebbe a quelle residuali che sarebbero «di competenza esclusiva della Regione» (è richiamata la sentenza di questa Corte n. 213 del 2006); b) non ridurrebbe il livello di tutela fissato dallo Stato in quanto agirebbe «in melius rispetto alla normativa statale»; c) non altererebbe «l’equilibrio tra gli interessi in gioco di cui al Regolamento UE 1380/2013 in tema di sviluppo sostenibile, avendo ragionevolmente contemperato le ragioni della filiera economica con la necessità di preservare l’ecosistema a fronte di una particolare situazione di emergenza».
5.2.– Non fondato, a parere della difesa regionale, sarebbe anche il secondo motivo di ricorso, concernente l’asserita violazione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di «politica estera e rapporti internazionali dello Stato» e di «rapporti dello Stato con l’Unione Europea», di cui all’art. 117, secondo comma, lettera a), Cost.
In particolare, non sarebbe giustificata la censura che contesta l’utilizzo, nelle disposizioni impugnate, del riferimento al «mare territoriale della Puglia» ed ai «mari territorialmente non appartenenti alla Regione Puglia» per delimitare l’ambito applicativo della disciplina.
Secondo la stessa difesa, il richiamo ai mari regionali opererebbe quale mero criterio funzionale di prossimità («sostanziale-fattuale e non formale»), che limiterebbe l’ambito operativo delle restrizioni introdotte, senza «la pretesa di vantare o esercitare una competenza legislativa generalizzata».
La difesa della Regione Puglia ricorda, inoltre, le pronunce di questa Corte (sentenza n. 102 del 2008 che richiama la sentenza n. 23 del 1957), secondo cui «non importa se il mare territoriale sia demanio marittimo o meno (…), in quanto occorre solo verificare i limiti della potestà normativa della Regione, con la conseguenza che (…) anche se il mare territoriale non facesse parte del territorio della Regione (…), l’attribuzione alla Regione dei poteri legislativi ed amministrativi in una determinata materia importa che la disciplina regionale debba estendere la propria efficacia fino all’estremo margine dello spazio marittimo che circonda il territorio».
Dalla giurisprudenza costituzionale si desumerebbe, pertanto, che il «concetto di “territorio” non si risolverebbe nella mera “terraferma” ma andrebbe inteso nella più ampia accezione di ambito in cui si esplica il legittimo potere normativo della Regione», eventualmente anche con riferimento al mare territoriale, purché la regione eserciti tale potere normativo per tutelare interessi di rilevanza regionale.
Questo sarebbe, ad avviso della resistente, il caso di specie, in cui il riferimento a un “mare territoriale regionale” verrebbe in rilievo come «problema di esistenza, fra le competenze regionali, di singole materie aventi un oggetto che implica l’utilizzazione di quel mare» (così la sentenza n. 21 del 1968).
6.– Con memoria integrativa depositata il 18 dicembre 2023, la Regione Puglia ha insistito sulle tesi già illustrate in sede di costituzione in giudizio.
A sostegno di tali ragioni, la difesa regionale ha allegato alla memoria integrativa un documento, recante una «Valutazione dello stato di salute delle popolazioni del riccio edule, Paracentrotus Lividus (Lamarck 1816) lungo le coste del Salento», nonché una consulenza tecnico-scientifica, nella quale è riportato un parere giuridico le cui argomentazioni sono state trasfuse nella memoria integrativa.
6.1.– In tale memoria, la resistente sottolinea la eccezionalità, temporaneità e territorialità delle misure introdotte dalla normativa impugnata, che sarebbe stata prevista per far fronte alla «grave condizione di sovrasfruttamento del riccio di mare» in Puglia.
Secondo la resistente, la delimitazione territoriale e temporale del divieto recato dalla disciplina impugnata sarebbe indice della «volontà del Legislatore pugliese di esercitare la propria potestà legislativa in materia di “pesca”, non sostituendo il legislatore nazionale nella disciplina della materia ambientale, ma integrandone in melius i livelli di tutela».
Nella memoria integrativa, la resistente insiste sulle ragioni già esposte in sede di costituzione, ricostruendo il quadro teorico concernente la ripartizione costituzionale delle competenze legislative e concludendo che «la mera “disciplina d’uso della risorsa ambientale-faunistica”» non rientrerebbe, in quanto tale, «nella materia di cui all’art. 117, secondo comma, lett. s) Cost.» (vengono richiamate le sentenze n. 21 del 2022, n. 171 e n. 7 del 2019, n. 212 e n. 74 del 2017, n. 267 del 2016 e n. 30 del 2009). Viene, dunque, rimarcata la «elasticità del criterio della competenza dal punto di vista della tutela dell’ambiente» nel contesto della pesca, che si ribadisce essere qualificabile alla stregua di materia residuale regionale, cui andrebbero ascritte le disposizioni regionali impugnate.
Quanto alla contestata violazione del «punto di equilibrio» fra esigenze contrapposte, individuato dalle norme statali, la memoria evidenzia il carattere assertivo della censura e ritiene inconferente la giurisprudenza richiamata, che si riferirebbe a pronunce di illegittimità costituzionale relative a interventi regionali non migliorativi, ma peggiorativi rispetto al punto di equilibrio individuato nella tutela dell’ambiente (la resistente fa riferimento alla sentenza n. 197 del 2014), nonché a pronunce non riferite a norme regionali, bensì a previsioni statali (così le sentenze n. 9 del 2013 e n. 249 del 2009).
Da ultimo, la difesa della resistente segnala come «una normativa di analogo tenore» rispetto alle impugnate disposizioni della legge regionale pugliese sarebbe stata prevista dalla Regione autonoma della Sardegna, senza essere «oggetto di impugnativa da parte dello Stato», così come «un analogo disegno di legge» sarebbe stato «presentato lo scorso 25 ottobre (DDL n. 624)» nella Regione Siciliana.
6.2.– Proseguendo, la memoria integrativa ribadisce la non fondatezza anche del secondo motivo di ricorso, con cui il ricorrente evoca la violazione della competenza legislativa esclusiva statale, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera a), Cost.
Ad avviso della difesa regionale i riferimenti al mare territoriale regionale andrebbero intesi in «un senso descrittivo e funzionale al perseguimento dello scopo della legge, limitandone il significato alla considerazione di quel tratto di mare prospicente la costa e interessato alla riproduzione dei ricci», che sarebbero presenti soltanto a breve distanza dalla linea di costa, in profondità non superiori ai 20 metri. In tale senso deporrebbero sia il criterio ermeneutico letterale sia il criterio dell’intenzione del legislatore, che farebbe emergere l’uso atecnico del riferimento lessicale. La resistente ritiene dunque che, attesa l’asserita riconducibilità della legge alla materia della pesca, i riferimenti alle pronunce di questa Corte n. 39 del 2017 e n. 21 del 1968 sarebbero inconferenti, perché quei precedenti – nei quali pure si è affermato che «il fondale marittimo è oggetto della potestà statale a prescindere dalle materie di competenza regionale» – avrebbero riguardato «tutt’altra materia, quella energetica delle attività di prospezione, ricerca e di coltivazione degli idrocarburi». A parere della resistente, a opporsi all’applicabilità di quella giurisprudenza al caso di specie vi sarebbe la «elementare» constatazione per cui «i ricci di mare, sia pure posati sul fondale, non [sarebbero] parificabili agli idrocarburi». A ciò si aggiungerebbe, ad avviso della difesa della resistente, la impossibilità di «negare qualsivoglia competenza [regionale] che abbia a che vedere con il mare territoriale», posto che ciò sarebbe contraddetto dalla vigente formulazione dell’art. 117 Cost., nella parte in cui «ha superato la distinzione fra pesca nelle acque interne e pesca marittima».
Infine, secondo la difesa regionale, ove venisse condiviso il percorso ermeneutico sostenuto nel ricorso, sarebbe comunque sufficiente accedere a «una sentenza interpretativa di rigetto» per superare il dubbio di legittimità costituzionale concernente l’art. 117, secondo comma, lettera a), Cost.
7.– All’udienza pubblica del 9 gennaio 2024 la difesa della Regione Puglia e l’Avvocatura generale dello Stato hanno insistito per l’accoglimento delle conclusioni rassegnate negli scritti difensivi.
Considerato in diritto
1.– Con ricorso iscritto al n. 18 reg. ric. 2023, depositato il 20 giugno 2023, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge reg. Puglia n. 6 del 2023, per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., con riguardo alla materia «tutela dell’ambiente [e] dell’ecosistema», in relazione all’art. 32 della legge n. 963 del 1965, all’art. 24 del d.lgs. n. 4 del 2012, nonché all’art. 4 del d.m. 12 gennaio 1995; e per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera a), Cost., con riguardo alle materie «politica estera e rapporti internazionali dello Stato» e «rapporti dello Stato con l’Unione europea», in relazione all’art. 2 cod. nav.
2.– La prima disposizione impugnata – l’art. 1 – prevede che «la Regione Puglia intende favorire il ripopolamento del riccio di mare nei mari regionali, garantendo un periodo di riposo della specie, preservando la risorsa ittica e scongiurando il rischio di estinzione dovuto ai massicci prelievi».
L’altra previsione impugnata – l’art. 2 – dispone: al comma 1, che «[n]el mare territoriale della Puglia, a decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge è vietato il prelievo, la raccolta, la detenzione, il trasporto, lo sbarco e la commercializzazione degli esemplari di riccio di mare (Paracentrotus lividus) e dei relativi prodotti derivati freschi, per un periodo di tre anni»; e, al comma 2, che «[l]a commercializzazione del riccio di mare non è vietata per gli esemplari provenienti (con certificazioni e tracciabilità secondo legge) da mari territorialmente non appartenenti alla Regione Puglia».
3.– Due sono i motivi di ricorso.
3.1.– Anzitutto, l’Avvocatura generale dello Stato ritiene che le citate norme si porrebbero in contrasto con la competenza legislativa esclusiva statale nella materia «tutela dell’ambiente [e] dell’ecosistema», che – secondo quanto argomenta il ricorso – deve ritenersi «“trasversale” e “prevalente”».
Spetterebbe, pertanto, esclusivamente allo Stato «fissare livelli di tutela ambientale uniformi sull’intero territorio nazionale». Di riflesso, benché la tutela ambientale non potrebbe che toccare «“campi di esperienza” – le cosiddette “materie” in senso proprio – attribuiti alla competenza legislativa regionale», nondimeno le norme statali adottate nell’esercizio di tale competenza esclusiva fungerebbero «da preciso limite alla disciplina che le Regioni, anche a statuto speciale, e le Province autonome, possono adottare nei settori di loro competenza, non essendo ad esse consentito di compromettere il punto di equilibrio fra esigenze contrapposte, per come individuato dalla norma statale» (è richiamata la sentenza di questa Corte n. 197 del 2014).
3.2.– Di seguito, il ricorrente impugna le medesime disposizioni regionali, in quanto invasive della competenza legislativa esclusiva dello Stato nelle materie «politica estera e rapporti internazionali dello Stato» e «rapporti dello Stato con l’Unione europea», di cui all’art. 117, secondo comma, lettera a), Cost.
In particolare, l’asserita invasione della competenza legislativa statale esclusiva si determinerebbe là dove le disposizioni regionali impugnate – per delimitare il proprio ambito applicativo – fanno riferimento ai «mari regionali» (art. 1), al «mare territoriale della Puglia» e ai «mari territorialmente non appartenenti alla Regione Puglia» (art. 2).
In sostanza, il presupposto delle disposizioni impugnate sarebbe costituito «dalla astratta configurabilità di un “mare territoriale regionale”, ipoteticamente appartenente o riferibile alla Regione Puglia, quale ambito entro il quale la stessa Regione sarebbe abilitata ad esercitare la propria potestà normativa».
Ciò si porrebbe in aperto contrasto con quanto disposto dall’art. 2 cod. nav., invocato quale norma interposta, che assoggetta alla sovranità dello Stato – nei limiti indicati dalla medesima previsione – i golfi, i seni, le baie e le coste che circondano le «coste continentali ed insulari della Repubblica».
Secondo l’Avvocatura dello Stato, «la individuazione, delimitazione e classificazione dello “spazio marino” [sarebbero] precluse alla competenza regionale, in quanto soggette anche ad interessi internazionali e a discipline dettate dal diritto dell’Unione Europea».
4.– Venendo a esaminare il primo motivo di ricorso, occorre sottolineare che, secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, le disposizioni regionali impugnate avrebbero alterato l’esigenza di «livelli di tutela ambientale uniformi sull’intero territorio nazionale» e avrebbero compromesso «il punto di equilibrio fra esigenze contrapposte, per come individuato dalla norma statale».
In particolare, il ricorrente richiama varie norme interposte che conducono, attraverso collegamenti sistematici, alla disciplina dettata dall’art. 4 del d.m. 12 gennaio 1995, che stabilisce i limiti temporali vòlti a regolare la pesca professionale e sportiva del riccio di mare.
Il richiamato decreto è stato, infatti, adottato ai sensi dell’art. 32 della legge n. 963 del 1965, in base al quale l’allora Ministro della marina mercantile (le cui competenze in materia sono state poi trasferite al Ministro delle risorse agricole, alimentari e forestali, e successivamente al Ministro dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste) poteva «con suo decreto, sentita la Commissione consultiva centrale per la pesca marittima, emanare norme per la disciplina della pesca anche in deroga alle discipline regolamentari, al fine di adeguarla al progresso delle conoscenze scientifiche e delle applicazioni tecnologiche, e favorirne lo sviluppo in determinate zone o per determinate classi di essa».
Di seguito, il d.lgs. n. 4 del 2012 ha, da un lato, abrogato e sostituito la precedente legge n. 963 del 1965 (art. 27, commi 1, lettera a, e 2), e, da un altro lato, ha ribadito che compete al Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali (oggi: Ministro dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste) regolare, con proprio decreto, sentita la Commissione consultiva centrale per la pesca marittima, «la pesca anche in deroga alle discipline regolamentari nazionali, in conformità alle norme comunitarie, al fine di adeguarla al progresso delle conoscenze scientifiche e delle applicazioni tecnologiche, e favorirne lo sviluppo in determinate zone o per determinate classi di essa» (art. 24, comma 1), nonché «sospendere l’attività di pesca o disporne limitazioni in conformità alle disposizioni del regolamento (CE) n. 2371/2002, al fine di conservare e gestire le risorse della pesca» (art. 24, comma 2).
Sulla premessa della persistente vigenza del d.m. 12 gennaio 1995, le disposizioni regionali impugnate avrebbero, dunque, alterato il punto di equilibrio individuato dall’art. 4 del citato decreto ministeriale, secondo cui «[l]a pesca professionale e sportiva del riccio di mare è vietata nei mesi di maggio e giugno».
5.– La questione non è fondata.
6.– In via preliminare, occorre richiamare i criteri in base ai quali questa Corte individua l’ambito della competenza legislativa statale esclusiva nella materia «tutela dell’ambiente [e] dell’ecosistema», nonché l’ambito della competenza legislativa regionale residuale nella materia della pesca.
6.1.– Sin dalle prime pronunce rese dopo la riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione, questa Corte ha riconosciuto alla materia «tutela dell’ambiente [e] dell’ecosistema» i tratti propri di una competenza legislativa trasversale, governata dall’elemento teleologico, il cui dispiegarsi lascia agevolmente prefigurare possibili interferenze rispetto all’esercizio di competenze legislative spettanti alle regioni (ex plurimis, sentenze n. 160 del 2023, n. 191, n. 144 e n. 21 del 2022, n. 189, n. 158, n. 86 e n. 21 del 2021, n. 88 del 2020).
Di riflesso, questa Corte, da un lato, non ha escluso «la titolarità in capo alle Regioni di competenze legislative su materie (governo del territorio, tutela della salute, ecc.) per le quali […] assume rilievo (sentenza n. 407 del 2002)» (sentenza n. 536 del 2002) la protezione dell’ambiente. Da un altro lato, ha chiarito in che termini la competenza legislativa statale esclusiva in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema opera quale limite all’esercizio delle competenze legislative regionali e in che misura queste ultime possono invece dispiegarsi, andando a lambire la tutela ambientale.
In particolare, questa Corte ha affermato che le disposizioni legislative statali «“fungono da limite alla disciplina che le Regioni, anche a statuto speciale, dettano nei settori di loro competenza, [nel senso che] ad esse [è] consentito soltanto eventualmente di incrementare i livelli della tutela ambientale, senza però compromettere il punto di equilibrio tra esigenze contrapposte espressamente individuato dalla norma dello Stato (sentenze n. 145 e n. 58 del 2013, n. 66 del 2012, n. 225 del 2009)” (sentenza n. 300 del 2013)» (sentenza n. 197 del 2014).
L’esigenza di non compromettere il punto di equilibrio individuato dalla norma dello Stato ha diverse implicazioni.
6.1.1.– Anzitutto, quando il legislatore ha bilanciato l’ambiente con interessi rispetto ai quali non si possono concepire soluzioni disarticolate sul piano territoriale, questa Corte ha ritenuto l’intervento statale imprescindibile e tale da non lasciare spazio a interventi regionali, che incidano, sia pure in melius, rispetto alla protezione dell’ambiente. Infatti, quando la logica di fondo della disciplina statale non si risolve nella mera tutela dell’ambiente, ma serve a fissare punti di equilibrio che rispondono «ad una ratio più complessa e articolata», gli stessi «debbono ritenersi inderogabili dalle Regioni anche in melius» (sentenza n. 307 del 2003).
Su tali basi, questa Corte è intervenuta in ambiti oltremodo eterogenei, considerando inderogabili: la «organica disciplina statale di principio» sulla collocazione delle linee elettriche (sentenza n. 331 del 2003) e sull’individuazione delle soglie di emissione elettromagnetica (sentenza n. 307 del 2003); il termine di durata dei titoli abilitativi edilizi, «nella cui determinazione si ravvisa un punto di equilibrio fra [la] realizzazione di interventi di trasformazione del territorio [e] la tutela dell’ambiente e dell’ordinato sviluppo urbanistico» (sentenza n. 245 del 2021 e, in senso analogo, sentenza n. 147 del 2023); la disciplina che regola la coesistenza tra colture transgeniche, biologiche e convenzionali, che richiede, parimenti, una sintesi unitaria fra divergenti interessi (sentenza n. 116 del 2006).
6.1.2.– Inoltre, questa Corte ha precisato che la stessa «valutazione intorno alla “previsione di standard ambientali più elevati non può essere realizzata nei termini di un mero automatismo o di una semplice sommatoria – quasi che fosse possibile frazionare la tutela ambientale dagli altri interessi costituzionalmente rilevanti – ma deve essere valutata alla luce della ratio sottesa all’intervento normativo e dell’assetto di interessi che lo Stato ha delineato nell’esercizio della sua competenza esclusiva” (sentenza n. 147 del 2019)» (sentenza n. 178 del 2019). Se, dunque, nel garantire la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema il legislatore statale ha concepito un disegno unitario, eventualmente anche attraverso soluzioni modulate fra i vari ambiti territoriali, simile ratio non ammette interventi legislativi regionali suscettibili di determinare interferenze, anche se in melius rispetto alla tutela dell’ambiente (sentenze n. 258 e n. 88 del 2020).
In particolare, simili interferenze sono state escluse a fronte di interventi legislativi statali che sono stati considerati espressione di un unico disegno inscindibile (sentenza n. 93 del 2013, relativa alla previsione dell’unitaria disciplina della VIA, quale procedura che valuta in concreto e preventivamente la sostenibilità ambientale; sentenza n. 235 del 2011, riguardante la previsione di una unitaria procedura di tutela paesaggistica; sentenza n. 246 del 2018, concernente l’individuazione di un parametro uniforme dei livelli essenziali delle prestazioni nell’ambito della disciplina del procedimento amministrativo e della conferenza di servizi).
6.1.3.– Al di fuori delle citate ipotesi, ove, dunque, la ratio dell’intervento legislativo statale in materia di protezione dell’ambiente sia riconducibile alla previsione di uno standard di tutela minimo, può invece dispiegarsi l’esercizio di competenze legislative regionali, che intervengano indirettamente a elevare quello standard. Il limite che pone allora la competenza legislativa statale al bilanciamento di interessi individuato dal legislatore regionale è che esso non vìoli lo standard di tutela minimo fissato dalla previsione statale (sentenze n. 148 del 2023, n. 69 del 2022, n. 44 e n. 7 del 2019, n. 218, n. 174, n. 139 e n. 74 del 2017, n. 303 del 2013 e n. 278 del 2012).
In tal caso, le regioni e le province autonome possono, pertanto, «adottare norme di tutela ambientale più elevata», pur sempre «nell’esercizio di [loro] competenze, previste dalla Costituzione, che concorrano con quella dell’ambiente» (sentenze n. 198 e n. 66 del 2018, n. 199 del 2014; nello stesso senso, inoltre, sentenze n. 246 e n. 145 del 2013, n. 67 del 2010, n. 104 del 2008 e n. 378 del 2007). Così, nella sentenza n. 7 del 2019, si è riconosciuto che «la normativa regionale in tema di specie cacciabili è abilitata a derogare alla disciplina statale in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, purché, ove quest’ultima esprima regole minime e uniformi di tutela, innalzi tale livello di protezione».
6.2.– Individuati gli spazi entro i quali può operare una competenza legislativa regionale, che intersechi la tutela ambientale, occorre, di seguito, rievocare quanto questa Corte ha precisato proprio in merito alla materia della pesca, nel cui ambito la Regione Puglia assume di aver legiferato.
Dopo la riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione, questa Corte ha ritenuto superata la pregressa distinzione fra la pesca nelle acque interne, in passato assegnata alla competenza legislativa concorrente delle regioni, e la pesca in mare, e ha ritenuto che trovasse «conferma la progressiva generale attribuzione della “pesca” alle Regioni ordinarie, senza alcuna distinzione basata sulla natura delle acque. La pesca, pertanto, costituisce materia oggetto della potestà legislativa residuale delle Regioni, ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost.» (sentenza n. 213 del 2006; nonché, in senso analogo, sentenza n. 81 del 2007).
Nondimeno, sin dalle citate pronunce, questa Corte ha rilevato che, pur dovendosi ribadire la riconducibilità della pesca alla «potestà legislativa residuale delle Regioni, ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost.», «tuttavia, per la complessità e la polivalenza delle attività in cui essa si estrinseca, possono interferire più interessi eterogenei, tanto statali, quanto regionali. […] La Corte ha così ritenuto che assume […] peculiare rilievo, nell’esame delle concrete fattispecie sottoposte al suo giudizio, l’applicazione del principio di prevalenza tra le materie interessate e di quello, fondamentale, di leale collaborazione, che “si deve sostanziare in momenti di reciproco coinvolgimento istituzionale e di necessario coordinamento dei livelli di governo statale e regionale” (sentenza n. 213 del 2006)» (sentenza n. 81 del 2007 e, analogamente, sentenze n. 9 del 2013 e n. 30 del 2009).
7.– Tanto premesso, occorre verificare se le disposizioni regionali impugnate possano ascriversi all’esercizio della competenza legislativa residuale regionale nella materia della pesca e se ricorrano le condizioni che consentono il dispiegarsi di tale competenza legislativa regionale, con contenuti che lambiscono la tutela dell’ambiente.
7.1.– Sul piano contenutistico e teleologico, le disposizioni impugnate regolamentano un profilo particolare dell’attività di pesca del riccio di mare – un fermo pesca straordinario – il cui obiettivo, enunciato dalla prima disposizione impugnata (l’art. 1), è quello di preservare tale risorsa ittica, ai fini del futuro svolgimento dell’attività di pesca lungo le coste del territorio regionale.
Nello specifico, la risorsa ittica, di cui viene temporaneamente sospesa l’attività di pesca, si trova nei fondali a breve distanza dalla linea di costa e il suo sfruttamento economico è strettamente correlato alle tradizioni locali.
In particolare, dall’art. 1 si inferisce che l’intervento è motivato dai «massicci prelievi» effettuati nelle aree prospicienti la costa pugliese, il che si collega al rilievo di simile risorsa nell’ambito delle tradizioni locali, rilievo che viene amplificato dal suo impiego ai fini del turismo.
Dunque, per contrastare il sovra-sfruttamento a livello locale di tale risorsa ittica, l’art. 2, a sua volta impugnato, prevede una sospensione per tre anni dell’attività di pesca, che si svolge nelle aree marine prospicienti la costa regionale, con una temporanea compressione di contrapposti interessi (economici e non).
La disciplina attiene, pertanto, alla materia della pesca, pur andando senza dubbio a intersecare un profilo di tutela ambientale.
7.2.– Proseguendo nella prospettiva del possibile inquadramento delle disposizioni regionali nella competenza legislativa residuale in materia di pesca, occorre poi considerare il piano degli interessi implicati.
A tal riguardo, non sfugge a questa Corte che la disciplina regionale impugnata rientra nel cono d’ombra di quella che, nei rapporti fra Unione europea e Stati membri, è una competenza legislativa che l’art. 3, comma 1, lettera d), TFUE assegna in via esclusiva all’Unione europea: vale a dire, la conservazione delle risorse biologiche del mare nel quadro della politica comune della pesca.
Nondimeno, nell’esercizio di tale competenza esclusiva, l’Unione europea – con il regolamento (UE) n. 1380/2013, del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 dicembre 2013, relativo alla politica comune della pesca, che modifica i regolamenti (CE) n. 1954/2003 e (CE) n. 1224/2009 del Consiglio e che abroga i regolamenti (CE) n. 2371/2002 e (CE) n. 639/2004 del Consiglio, nonché la decisione 2004/585/CE del Consiglio – ha adottato un approccio che non esclude spazi di possibile autonomo intervento da parte degli Stati membri, in mancanza di misure analoghe adottate dall’Unione per la medesima zona o per il medesimo problema.
Di conseguenza, fermo restando che, con il ricorso in esame, non viene contestata la violazione di alcuna specifica previsione dettata dall’Unione europea, si deve rilevare che, là dove l’Unione preserva ambiti di disciplina agli Stati membri, non possono a priori escludersi misure nazionali che lascino spazio a limitati interventi regionali.
7.3.– Tornando, dunque, a considerare, nella prospettiva interna, il possibile inquadramento delle disposizioni impugnate nella competenza legislativa regionale residuale in materia di pesca e il loro rapporto con la competenza legislativa statale esclusiva in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, va osservato che l’incidenza della disciplina impugnata è limitata sul piano degli interessi implicati.
Gli artt. 1 e 2 della legge reg. Puglia n. 6 del 2023 introducono, infatti, una misura specifica, concernente un fermo pesca disposto una tantum, che si riverbera temporaneamente su un’attività che si svolge sui fondali posti a breve distanza dalle coste pugliesi e che riguarda una risorsa ittica, il cui consumo è strettamente correlato al territorio e alle tradizioni locali, tant’è che la misura è la conseguenza di un massiccio sovra-sfruttamento.
Il carattere specifico, temporaneo e territorialmente circoscritto delle disposizioni impugnate rende, dunque, non imprescindibile un bilanciamento operato sul piano statale.
Quanto alle modalità con cui lo Stato, nel concreto esercizio della sua competenza legislativa esclusiva a «tutela dell’ambiente [e] dell’ecosistema», è intervenuto nel regolare la conservazione della specie riccio di mare, si deve ritenere che la soluzione adottata, con riguardo al fermo pesca, non sia incompatibile con una possibile modulazione di interventi legislativi regionali, mirati a risolvere specifiche criticità locali.
La disciplina dettata dal d.m. 12 gennaio 1995 – alla quale conducono i rimandi sistematici operati dalle disposizioni evocate quali parametri interposti – ha, infatti, previsto, con riferimento al fermo pesca, una soluzione generale (la sospensione nei mesi di maggio e di giugno), non modulata in funzione delle peculiari criticità di alcune zone costiere, nelle quali le condizioni ambientali si sono particolarmente aggravate.
Pertanto, sul piano ermeneutico, tale profilo della disciplina statale non può che interpretarsi quale previsione di uno standard di tutela minimo.
Di conseguenza, in linea con la costante giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 148 del 2023, n. 44 e n. 7 del 2019, n. 218, n. 174, n. 139 e n. 74 del 2017, n. 303 del 2013 e n. 278 del 2012, nonché le altre pronunce richiamate al punto 6.1.3.), non contrastano con la competenza legislativa statale esclusiva dello Stato le disposizioni regionali impugnate che, nell’esercizio della competenza legislativa regionale residuale in materia di pesca, producono l’effetto di elevare, in relazione a specifiche esigenze del territorio, il livello di tutela ambientale.
In particolare, non si può dubitare che incidano in melius sulla tutela ambientale, e nello specifico sulla protezione del riccio di mare, che è parte dell’ecosistema marino, norme che indirettamente agevolano la riproduzione di tale specie animale.
L’intervento operato a livello regionale si pone, del resto, nel solco dell’esigenza di disciplinare la pesca in conformità a obiettivi che la stessa Unione europea enuncia con il citato regolamento n. 1380/2013/UE: l’esigenza di una regolamentazione delle attività di pesca che garantisca il loro essere «sostenibili dal punto di vista ambientale nel lungo termine» (art. 2, paragrafo 1), nonché il rispetto dell’«approccio precauzionale», il quale assicuri che «lo sfruttamento delle risorse biologiche marine vive ricostituisca e mantenga le popolazioni delle specie pescate al di sopra di livelli in grado di produrre il rendimento massimo sostenibile» (art. 2, paragrafo 2).
8.– Per le ragioni esposte, gli artt. 1 e 2 della legge reg. Puglia n. 6 del 2023 non violano la competenza legislativa statale esclusiva nella materia «tutela dell’ambiente [e] dell’ecosistema».
9.– Passando ora a considerare il secondo motivo di ricorso, esso prospetta la violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera a), Cost. nelle materie «politica estera e rapporti internazionali dello Stato» e «rapporti dello Stato con l’Unione europea», in relazione all’art. 2 cod. nav., nella parte in cui gli artt. 1 e 2 della legge reg. Puglia n. 6 del 2023 introducono le nozioni di «mari regionali», di «mare territoriale della Puglia» e di «mari territorialmente non appartenenti alla Regione Puglia».
10.– La questione è fondata, nei termini di seguito precisati.
11.– Con riferimento alla delimitazione territoriale dell’efficacia delle norme regionali anche rispetto allo spazio marino, questa Corte, sin dalla sentenza n. 23 del 1957 – concernente una legge della Regione autonoma della Sardegna, cui lo statuto attribuiva (e tutt’ora attribuisce) una competenza legislativa primaria in materia di pesca – ha affermato che, «[p]oiché la potestà normativa in materia di pesca è statutariamente attribuita alla Regione autonoma della Sardegna senza limitazione alcuna, salvo le limitazioni delle norme costituzionali, la legge regionale in materia contiene una disciplina che estende legittimamente la propria efficacia anche alle acque del mare territoriale».
A quella originaria giurisprudenza si ricollegano interventi successivi di questa Corte (sentenze n. 49 del 1958 e n. 102 del 2008), nei quali, riprendendo testualmente passaggi del citato precedente, ha affermato che non interessa «se il mare territoriale sia demanio marittimo o meno e neppure se si tratti di acque del mare territoriale o di acque del demanio marittimo» (sentenza n. 102 del 2008), in quanto occorre solo verificare i limiti della potestà normativa della regione, poiché «l’attribuzione [a quest’ultima] dei poteri legislativi ed amministrativi in una determinata materia “importa che la disciplina regionale […] debba estendere la propria efficacia fino all’estremo margine dello spazio marittimo che circonda il territorio e sul quale, sia pure a titolo accessorio, si esercita il potere dello Stato” (sentenza n. 23 del 1957, in tema di competenza della Regione Sardegna in materia di pesca nel mare territoriale)» (sempre sentenza n. 102 del 2008).
Di conseguenza, questa Corte non ha mai consentito alle regioni di fare riferimento a «un mare territoriale» regionale (sentenza n. 21 del 1968, ripresa dalla sentenza n. 39 del 2017), ma ha solo riconosciuto loro la facoltà di esercitare sulle acque costiere, nei limiti di precise competenze regionali, «un complesso di poteri […] che coesistono con quelli spettanti allo Stato: poteri […] che prescindono da ogni problema relativo all’appartenenza del mare territoriale e che sono suscettibili di essere regolati anche dalla legge regionale (come rilevato dalla […] sentenza n. 23 del 1957)» (ancora, sentenza n. 102 del 2008).
12.– Sulla base di tali precisazioni, è possibile, dunque, esaminare le censure del ricorrente che si appuntano sull’introduzione nelle disposizioni impugnate delle nozioni di «mari regionali», di «mare territoriale della Puglia» e di «mari territorialmente non appartenenti alla Regione Puglia».
12.1.– Anzitutto, è doveroso rimarcare l’infelice tecnica normativa adottata dal legislatore pugliese, che si è avvalso – nelle disposizioni impugnate – di espressioni lessicalmente eterogenee per esprimere il medesimo concetto.
Ma soprattutto, occorre rilevare che i tre sintagmi lessicali adoperati interferiscono direttamente con la nozione di mare territoriale, quale enucleata dall’art. 2 cod. nav. – che definisce un elemento costitutivo della sovranità –, ed evocano un frazionamento di tale paradigma su base regionale, che è del tutto sconosciuto all’ordinamento giuridico.
Viceversa, come si evince dalla giurisprudenza di questa Corte (punto 11), gli effetti spaziali di un intervento legislativo regionale, che ha riverberi sullo spazio marino, non sono altro che una proiezione funzionale della competenza legislativa regionale esercitata e della natura degli interessi coinvolti e non consentono di evocare una supposta delimitazione del mare territoriale, inteso come elemento costitutivo della sovranità dello Stato.
12.2.– Pertanto, la seconda questione avente a oggetto quanto prevedono gli artt. 1 e 2 della legge reg. Puglia n. 6 del 2023 è fondata, nella parte in cui le citate disposizioni stabiliscono che la Regione Puglia favorisce il ripopolamento del riccio di mare «nei mari regionali», anziché «nello spazio marittimo prospiciente il territorio regionale» (art. 1); nella parte in cui dispongono il fermo biologico dei ricci di mare «Nel mare territoriale della Puglia», anziché «Nello spazio marittimo prospiciente il territorio regionale» (art. 2, comma 1); nella parte in cui escludono dall’applicazione del divieto di commercializzazione del riccio di mare gli esemplari provenienti «da mari territorialmente non appartenenti alla Regione Puglia», anziché «dallo spazio marittimo non prospiciente il territorio regionale» (art. 2, comma 2).
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge della Regione Puglia 18 aprile 2023, n. 6 (Misure di salvaguardia per la tutela del riccio di mare), nella parte in cui favorisce il ripopolamento del riccio di mare «nei mari regionali», anziché «nello spazio marittimo prospiciente il territorio regionale», dell’art. 2, comma 1, della legge reg. Puglia n. 6 del 2023, nella parte in cui dispone il fermo biologico dei ricci di mare «Nel mare territoriale della Puglia», anziché «Nello spazio marittimo prospiciente il territorio regionale» e dell’art. 2, comma 2, della legge reg. Puglia n. 6 del 2023, nella parte in cui esclude dall’applicazione del divieto di commercializzazione gli esemplari di riccio di mare provenienti «da mari territorialmente non appartenenti alla Regione Puglia», anziché «dallo spazio marittimo non prospiciente il territorio regionale»;
2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge reg. Puglia n. 6 del 2023, promossa, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 gennaio 2024.
F.to:
Augusto Antonio BARBERA, Presidente
Emanuela NAVARRETTA, Redattrice
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria il 15 febbraio 2024