SENTENZA N. 66
ANNO 2018
Commenti
alla decisione di
I. Andrea Cardone, Riserva
di amministrazione in materia di piani regionali e divieto di amministrare per
legge: le ragioni costituzionali del "giusto procedimento di pianificazione”,
per g.c. del Forum di Quaderni
Costituzionali
II. Paolo Scarlatti, Leggi
in luogo di provvedimento delle Regioni e potestà legislativa esclusiva dello Stato.
Osservazioni a margine della sentenza n. 66 del 2018 della Corte costituzionale,
per g.c. di Diritti
Regionali
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Giorgio LATTANZI
Presidente
- Aldo CAROSI Giudice
- Marta CARTABIA ”
- Mario
Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò
ZANON ”
- Augusto
Antonio BARBERA ”
- Giulio
PROSPERETTI ”
- Giovanni AMOROSO ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt.
63, comma 7, 68, comma 1, e 95, commi 2, 4 e 5, della legge
della Regione Veneto 30 dicembre 2016, n. 30 (Collegato alla legge di stabilità
regionale 2017), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso
notificato il 28 febbraio - 2 marzo 2017, depositato in cancelleria il 7 marzo
2017 e iscritto al n. 28 del registro ricorsi 2017.
Visto l’atto di costituzione della Regione Veneto;
udito nella udienza pubblica del 20 febbraio 2018 il Giudice relatore Augusto
Antonio Barbera;
uditi l’avvocato dello Stato Chiarina Aiello per il Presidente del Consiglio dei
ministri e gli avvocati Ezio Zanon e Andrea Manzi per la Regione Veneto.
Ritenuto in fatto
1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con ricorso
spedito per la notifica il 28 febbraio 2017 e depositato il successivo 7 marzo,
ha promosso questioni di legittimità costituzionale, tra gli altri, degli artt.
63, comma 7, 68, comma 1, e 95, commi 2, 4 e 5, della legge della Regione
Veneto del 30 dicembre 2016, n. 30 (Collegato alla legge di stabilità regionale
2017).
2.– L’impugnato art. 63, comma 7, inserendo il comma
1-bis all’art. 45-ter della legge della Regione Veneto 23 aprile 2004, n. 11
(Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio), dispone che
«[l]a Giunta regionale, in attuazione all’accordo con il Ministero dei Beni e
delle Attività Culturali e del Turismo (MiBACT) di
cui agli articoli 135, comma 1 e 143, comma 2, del Codice, nelle more dell’approvazione
del piano paesaggistico di cui al comma 1, procede alla ricognizione degli
immobili e delle aree dichiarate di notevole interesse pubblico e delle aree
tutelate per legge di cui, rispettivamente, agli articoli 136 e 142, comma 1,
del Codice».
2.1.– Ad avviso del ricorrente, la disposizione regionale
prevede un procedimento differente e incompatibile rispetto a quanto previsto
dagli artt. 135 e 143 del decreto
legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, recante «Codice dei beni culturali e del
paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137»,
relativi alla pianificazione paesaggistica congiunta tra lo Stato e la Regione,
in violazione dell’art.
117, secondo comma, lettera s), della Costituzione.
L’art. 143, comma 1, cod. beni culturali, dispone che
l’elaborazione del piano paesaggistico comprende, tra l’altro, la ricognizione
delle aree e degli immobili dichiarati di notevole interesse pubblico e di
interesse paesaggistico, ai sensi dell’art. 136 e all’art. 142, cod. beni
culturali; l’art. 135, comma 1, cod. beni culturali, a sua volta, prevede che
lo Stato e le Regioni assicurano che il territorio sia adeguatamente
conosciuto, salvaguardato, pianificato e gestito e che a tal fine le Regioni
sottopongono a specifica normativa d’uso il territorio mediante «piani
paesaggistici». L’elaborazione dei detti «piani paesaggistici» avviene
congiuntamente tra Ministero e Regioni «limitatamente ai beni paesaggistici di
cui all’articolo 143, comma 1, lettere b), c) e d)», tra cui sono compresi
anche «[gli] immobili e [le] aree dichiarati di notevole interesse pubblico».
La disposizione regionale, nel prevedere la ricognizione
degli immobili e delle aree ad opera della sola Giunta regionale, violerebbe la
competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela del
paesaggio. Le aree richiamate dalla legislazione regionale, infatti, coincidono
con i beni contemplati dall’art. 143, comma 1, lettere b) e c), cod. beni
culturali, come oggetto minimo necessario del piano paesaggistico, per le quali
il riportato art. 135, comma 1, cod. beni culturali, prevede inderogabilmente
che la pianificazione avvenga in modo congiunto tra Ministero e Regioni.
Questa previsione, prosegue il ricorrente, inibisce alla
Regione, seppure in via temporanea, di operare unilateralmente la ricognizione
dei beni e delle aree in questione.
Il Presidente del Consiglio dei ministri ricorda che il
piano paesaggistico congiunto deve essere approvato in tempi certi, come
statuito dall’art. 143, comma 2, cod. beni culturali. Tale disposizione
prescrive che l’accordo tra Ministero e Regione indichi il termine entro il
quale il piano dovrà essere elaborato e approvato e che, decorso inutilmente
tale termine, il piano sia approvato dal Ministro in via sostitutiva.
Il ricorrente precisa, inoltre, che la competenza a
dettare le norme di legge che disciplinano la materia della tutela del
paesaggio spetta in via esclusiva allo Stato; l’intervento regionale in materia
di paesaggio è di livello esclusivamente pianificatorio-amministrativo.
Il Presidente del Consiglio dei ministri fa presente
altresì che la disposizione impugnata non è in linea con gli obiettivi del
Protocollo di intesa del 15 luglio 2009, sottoscritto tra il Ministero per i
beni e le attività culturali e la Regione Veneto, e con il successivo
disciplinare, nonostante il richiamo all’accordo contenuto nella disposizione
regionale impugnata.
Il richiamato Protocollo non prevedeva, infatti, alcuna
competenza legislativa regionale in proposito, e all’art. 6 specificava che le
parti si sarebbero impegnate a completare l’elaborazione congiunta del piano
«entro il 31 dicembre 2010».
Il Protocollo del 15 luglio 2009 stabiliva anche che il
piano avrebbe formato oggetto di accordo tra il Ministero e la Regione, ai
sensi dell’art. 15 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di
procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti
amministrativi). L’art. 10, comma 3, del Protocollo prevede, inoltre, l’impegno
delle parti a «completare la ricognizione indicata all’art. 143, comma 1,
lettere b) e c), cod. beni culturali, ivi compresa la determinazione delle
specifiche prescrizioni d’uso intese ad assicurare, rispettivamente, la
conservazione dei valori espressi e la conservazione dei caratteri distintivi
di dette aree e, compatibilmente con essi, la valorizzazione, entro il 31 dicembre
2009».
L’intesa, pertanto, non contemplava alcun intervento
«"sostitutivo” o "interinale”» della Regione, neanche relativamente ai beni di
cui all’art. 143, comma 1, lettere b) e c), oggetto, invece, della disposizione
impugnata.
3.– L’impugnato art. 68, comma 1, della legge reg. Veneto
n. 30 del 2016, rubricato «Norme semplificative per la realizzazione degli
interventi di sicurezza idraulica», dispone che «[g]li interventi di
manutenzione degli alvei, delle opere idrauliche in alveo, delle sponde e degli
argini dei corsi d’acqua, compresi gli interventi sulla vegetazione ripariale
arborea e arbustiva, finalizzati a garantire il libero deflusso delle acque
possono essere eseguiti senza necessità di autorizzazione paesaggistica, ai
sensi dell’articolo 149 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 […] e
della valutazione di incidenza ai sensi del decreto del Presidente della
Repubblica 8 settembre 1997, n. 357 "Regolamento recante attuazione della
direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche”
previa verifica della sussistenza di tali presupposti ai sensi delle
disposizioni statali e regionali».
3.1.– Secondo il ricorrente, la disposizione regionale, sottraendo alcuni
interventi all’autorizzazione paesaggistica, appare costituzionalmente
illegittima, per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettere s) e m),
Cost., in quanto compete solo al legislatore statale individuare le tipologie
di interventi per i quali l’autorizzazione paesaggistica non è richiesta.
Sono richiamate le sentenze n. 207 del
2012 e n.
238 del 2013. Secondo le citate decisioni, «chiare ed inequivocabili sono
[…] le esigenze di uniformità della disciplina in tema di autorizzazione
paesaggistica su tutto il territorio nazionale, tanto da giustificare – grazie
al citato parametro (art. 117, secondo comma, lettera m, Cost.) – che si
impongano anche all’autonomia legislativa delle Regioni»; non sarebbe,
pertanto, consentito alle Regioni «individuare altre tipologie di interventi
realizzabili in assenza di autorizzazione paesaggistica, al di fuori di quelli
tassativamente individuati dall’art. 149, lettera a), del decreto legislativo
n. 42 del 2004».
Il ricorrente sottolinea che l’art. 12, comma 2, del
decreto-legge 31 maggio 2014, n. 83 (Disposizioni urgenti per la tutela del
patrimonio culturale, lo sviluppo della cultura e il rilancio del turismo),
convertito, con modificazioni, nella legge 29 luglio 2014, n. 106, come
modificato dall’art. 25, comma 2, del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133
(Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere
pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica,
l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività
produttive), convertito con modificazioni nella legge 11 novembre 2014, n. 164,
ha previsto che, con regolamento da emanare ai sensi dell’art. 17, comma 2,
della legge 23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina dell’attività di Governo e
ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri), su proposta del
Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, d’intesa con la
Conferenza unificata, sono individuate le tipologie di interventi per i quali
l’autorizzazione paesaggistica non è richiesta, ai sensi dell’articolo 149,
cod. beni culturali, sia nell’ambito degli interventi di lieve entità (già compresi
nell’Allegato 1 al decreto del Presidente della Repubblica 9 luglio 2010, n.
139, intitolato «Regolamento recante procedimento semplificato di
autorizzazione paesaggistica per gli interventi di lieve entità, a norma
dell’articolo 146, comma 9, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e
successive modificazioni»), sia mediante definizione di ulteriori interventi
minori privi di rilevanza paesaggistica.
La disposizione regionale impugnata si porrebbe in
contrasto con questi principi perché creerebbe «un’area di franchigia
dall’autorizzazione paesaggistica per gli interventi in essa contemplati».
Inoltre, la disposizione non specifica quali siano i «presupposti», la cui
verifica renderebbe operante l’esonero dall’autorizzazione prevista dalle norme
statali. Appare al ricorrente inconsistente la formula secondo cui gli
interventi in questione dovrebbero essere «finalizzati a garantire il libero
deflusso delle acque», posto che l’innovazione normativa trascurerebbe comunque
le caratteristiche tecniche e l’entità materiale delle conseguenze.
Ad avviso del ricorrente, le norme statali di esonero
dall’autorizzazione paesaggistica costituiscono eccezioni al principio di cui
all’art. 146, cod. beni culturali, che devono essere tassativamente formulate e
restrittivamente interpretate. La disposizione impugnata presenta, al
contrario, una «formula ampia e indeterminata» che si traduce «nell’abrogazione
in concreto dell’autorizzazione per una intera classe di interventi,
identificati soltanto in base al loro presunto fine».
Si realizzerebbe, dunque, una sovrapposizione della
legislazione regionale alla competenza statale esclusiva esercitata con gli
artt. 146 e 149, cod. beni culturali.
4.– Viene censurato altresì l’art. 95 della legge reg.
Veneto n. 30 del 2016, rubricato «Prime disposizioni in materia di
pianificazione regionale delle attività di cava», con riguardo ai commi 2, 4 e
5.
4.1.– L’impugnato comma 2 dell’art. 95 stabilisce che
«[è] consentito, previa autorizzazione della struttura regionale competente in
materia di attività estrattive, lo stoccaggio e la lavorazione, nelle cave non
estinte, di materiali da scavo costituiti da sabbie e ghiaie, provenienti dalla
realizzazione delle opere [pubbliche] di cui al comma 1, con almeno 500.000
metri cubi di materiale di risulta, ove sussistano le seguenti condizioni: a) i
materiali sono qualificabili come sottoprodotti ai sensi della vigente
normativa; b) i materiali conferiti sono equiparabili per tipologia al
materiale costituente il giacimento coltivato nella cava».
4.1.1.– Secondo il ricorrente, la disposizione regionale inciderebbe sulla
disciplina del trattamento dei sottoprodotti, prevista dall’art. 184-bis del
decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale),
sovrapponendosi alla disciplina statale esclusiva in tema di stoccaggio dei
sottoprodotti da scavo.
La disciplina delle procedure per lo smaltimento delle
rocce e terre da scavo atterrebbe infatti al trattamento dei residui di
produzione e sarebbe perciò da ascrivere alla «tutela dell’ambiente», affidata
dall’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., alla competenza legislativa
esclusiva dello Stato (sono richiamate le sentenze n. 232
e n. 70 del 2014
e n. 300 del
2013).
La disposizione impugnata violerebbe questi principi,
basandosi sul presupposto che i materiali di scarto, equiparabili al giacimento
coltivato nella cava e provenienti da cantieri di opere pubbliche, siano
classificabili come «sottoprodotti» e non come rifiuti e possano essere
stoccati e lavorati in cava. La norma regionale contrasterebbe con la disciplina
statale, di competenza esclusiva ex art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.,
in materia di sottoprodotti da scavo, contenuta negli artt. 183, comma 1,
lettera qq), e 184-bis del
d.lgs. n. 152 del 2006 e nel decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela
del territorio e del mare 10 agosto 2012, n. 161 (Regolamento recante la
disciplina dell’utilizzazione delle terre e rocce da scavo).
Secondo il ricorrente, tale decreto stabilisce, «come
principi fondamentali», che i materiali e le rocce da scavo debbano essere
estratti, utilizzati, riutilizzati esclusivamente in attuazione di un apposito
«Piano di Utilizzo» (di cui all’art. 5 del citato d.m. n. 161), e che ne sia
sempre garantita la caratterizzazione ambientale, cioè l’«attività svolta per
accertare la sussistenza dei requisiti di qualità ambientale dei materiali da
scavo in conformità a quanto stabilito dagli Allegati 1 e 2» (art. 1, lettera
g, del citato d.m.).
Ad avviso del ricorrente, queste regole valgono anche per
i materiali da scavo costituenti sottoprodotti. L’art. 4 del d.m. n. 161 del
2012, infatti, ai commi 1 e 2, definisce sottoprodotto il materiale da scavo
«che risponde ai seguenti requisiti: a) il materiale da scavo è generato
durante la realizzazione di un’opera, di cui costituisce parte integrante, e il
cui scopo primario non è la produzione di tale materiale; b) il materiale da
scavo è utilizzato, in conformità al Piano di Utilizzo: 1) nel corso
dell’esecuzione della stessa opera […] o di un’opera diversa […]; 2) in
processi produttivi, in sostituzione di materiali di cava; c) il materiale da
scavo è idoneo ad essere utilizzato direttamente, ossia senza alcun ulteriore
trattamento diverso dalla normale pratica industriale […]; d) il materiale da
scavo, per le modalità di utilizzo […], soddisfa i requisiti di qualità
ambientale, di cui all’Allegato 4».
La disposizione impugnata, prosegue il ricorrente,
consentendo «indiscriminatamente» la destinazione dei sottoprodotti di scavo
allo stoccaggio in cava, sulla sola base del generico accertamento che i
materiali siano «equiparabili» a quelli coltivati nella cava stessa, vanifica
la previsione del piano di utilizzo e la garanzia che i sottoprodotti in
questione, attraverso la opportuna caratterizzazione, presentino i requisiti di
qualità ambientale, di cui all’Allegato 4 del citato decreto ministeriale.
Lo stoccaggio a tempo indeterminato in cave
«equiparabili» vanificherebbe poi la previsione del medesimo decreto, secondo
cui, decorso il termine di utilizzo previsto dal piano, il materiale di scavo
perde la qualifica di sottoprodotto e viene qualificato come rifiuto, con
applicazione della pertinente legislazione di tutela ambientale (art. 5, commi
6, 7, 8 e 9, del d.m. n. 161 del 2012).
4.2.– L’impugnato art. 95, comma 4, della legge reg. Veneto n. 30 del 2016,
vieta per un periodo di nove anni l’autorizzazione di nuove cave di sabbia e
ghiaia.
4.2.1.– Secondo il ricorrente, la norma dispone «un’aprioristica ed
indiscriminata» sospensione del rilascio dei titoli minerari che impedisce per
un lasso di tempo non trascurabile, sia l’avvio di nuove iniziative nello
specifico settore estrattivo, sia l’esperimento delle procedure di valutazione
di compatibilità correlate a progetti futuri, previste dall’art. 7 del d.lgs.
n. 152 del 2006. Essa determina un «effetto sostanzialmente interdittivo»
rispetto alle attività di coltivazione di nuove cave di inerti, eludendo
l’obbligo di ponderazione di ciascuna proposta progettuale, anche in relazione
alle rispettive alternative praticabili, imposto dalla normativa in tema di
VIA, riconducibile alla potestà legislativa esclusiva statale ex art. 117,
secondo comma, lettera s), Cost.
Il ricorrente richiama la sentenza n. 199 del
2014 della Corte costituzionale, secondo cui le discipline relative alla
valutazione di impatto ambientale «debbono essere ascritte alla materia della
"tutela dell’ambiente” in ordine alla quale lo Stato ha competenza legislativa
esclusiva, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.».
La difesa statale evidenzia anche che questa Corte ha
ritenuto l’illegittimità costituzionale di norme regionali che disponevano
dell’efficacia di titoli minerari in assenza di procedure di valutazione di
impatto ambientale, in base all’assunto che una tale disciplina potrebbe
«mantenere inalterato lo status quo, sostanzialmente sine die, superando
qualsiasi esigenza di "rimodulare” i provvedimenti autorizzatori
in funzione delle modifiche subite, nel tempo, dal territorio e dall’ambiente»
(sentenza n. 67
del 2010), e sarebbe, quindi, «atta ad eludere l’osservanza nell’esercizio
dell’attività di cava della normativa di VIA» (sentenza n. 246 del
2013).
Secondo il ricorrente, l’impugnato art. 95, comma 4,
contrasta anche con il combinato disposto degli artt. 3, primo comma,
e 41 Cost., in
quanto il generalizzato divieto di rilascio dei provvedimenti, sebbene
astrattamente volto «ad un fine di utilità sociale, quali gli scopi di tutela
dell’ambiente» (enumerati al comma 1, dello stesso art. 95), non può ritenersi
conforme a ragionevolezza e proporzionalità, poiché impedisce l’esame delle
ricadute ambientali e delle specifiche soluzioni tecniche relative alle singole
proposte progettuali, precludendo l’assunzione di misure proporzionate rispetto
al concreto contenuto di ciascuna istanza di coltivazione mineraria (sono
richiamate le sentenze
n. 167 del 2009 e n. 152 del 2010).
Nella specie, prosegue il ricorrente, la norma regionale,
vietando nuove iniziative economiche nel settore delle cave, renderebbe
dominante la posizione degli attuali titolari di autorizzazione alla coltivazione
di cave, arrecando loro un beneficio sproporzionato e irragionevole, anche
rispetto alla stessa enunciata finalità di protezione dell’ambiente: lo
sfruttamento esasperato delle cave esistenti, non più bilanciabile
dall’apertura di nuove cave e dalla chiusura e ricomposizione di quelle
preesistenti, non potrebbe che tradursi in un maggior pregiudizio complessivo
all’ambiente stesso, di cui non è più programmabile un equilibrato utilizzo.
4.3.– Il comma 5 dell’art. 95 della legge reg. Veneto n. 30
del 2016 è impugnato in quanto, pur consentendo l’ampliamento delle cave di
sabbia e ghiaia non estinte, lo condiziona alla presenza di taluni requisiti
essenziali, ivi compresi un limite massimo, determinato a priori, dei volumi
complessivamente assentiti ai singoli operatori richiedenti (comma 5, lettera
a), nonché una soglia massima prestabilita (di validità almeno triennale) dei
volumi estraibili in ampliamento per ciascuna Provincia (comma 5, lettera d).
Secondo il ricorrente, le previste limitazioni all’esercizio delle iniziative
imprenditoriali, concernenti l’ampliamento di preesistenti cave di inerti,
derivanti dall’applicazione dell’art. 95 della legge reg. Veneto n. 30 del
2016, collidono con la competenza esclusiva statale ex art. 117, secondo comma,
lettera e), Cost., in materia di tutela della concorrenza; e comunque con la
competenza statale esclusiva in materia di tutela dell’ambiente ex art. 117,
secondo comma, lettera s), Cost.
Il ricorrente ricorda che la giurisprudenza
costituzionale ricomprende nella tutela della concorrenza sia le misure
legislative «che contrastano gli atti ed i comportamenti delle imprese che
incidono negativamente sull’assetto concorrenziale dei mercati e che ne
disciplinano le modalità di controllo, eventualmente anche di sanzione», sia le
misure legislative «di promozione, che mirano ad aprire un mercato o a
consolidarne l’apertura, eliminando barriere all’entrata, riducendo o
eliminando vincoli al libero esplicarsi della capacità imprenditoriale e della
competizione tra imprese, rimuovendo cioè, in generale, i vincoli alle modalità
di esercizio delle attività economiche» (sono citate le sentenze n. 270
e n. 45 del 2010,
n. 160 del 2009,
n. 430 e n. 401 del 2007).
Anche in questo caso si assiste, secondo la difesa
statale, ad una irragionevole limitazione quantitativa e temporale
dell’attività economica di cava che non corrisponde ad una effettiva finalità
di tutela dell’ambiente, poiché tale tutela, nel sistema delineato dal d.lgs.
n. 152 del 2006, può attuarsi solo attraverso una gestione pianificata delle
risorse ambientali, e non attraverso «rigide predeterminazioni legislative
delle modalità di tale gestione» che, in quanto non precedute da specifica
istruttoria e non modificabili se non attraverso un nuovo iter legislativo, in
caso di impatto negativo delle misure sono suscettibili di recare danni
irreversibili all’ambiente.
5.– Si è costituita in giudizio la Regione Veneto,
deducendo l’inammissibilità e l’infondatezza delle questioni.
5.1.– Riguardo all’impugnato art. 63, comma 7, sulla
ricognizione, da parte della Giunta regionale, degli immobili e delle aree
dichiarate di notevole interesse pubblico e delle aree tutelate per legge di
cui, rispettivamente, agli artt. 136 e 142, comma l, cod. beni culturali, la
censura di violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in
riferimento alla competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela
dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali, appare alla resistente
«manifestamente infondata e inammissibile». La legge regionale, infatti, non si
porrebbe in antitesi rispetto alle previsioni della legge statale, né
interferirebbe in alcun modo rispetto al procedimento formativo e agli effetti
del piano paesaggistico.
Secondo la resistente, l’art. 135, cod. beni culturali,
attribuisce ai piani paesaggistici il compito di definire prescrizioni e
previsioni (relative alla conservazione degli elementi costitutivi e delle
morfologie dei beni paesaggistici sottoposti a tutela; alla riqualificazione
delle aree compromesse o degradate; alla salvaguardia delle caratteristiche
paesaggistiche degli altri ambiti territoriali, per assicurare il minor consumo
del territorio; all’individuazione delle linee di sviluppo urbanistico ed
edilizio, in funzione della loro compatibilità con i diversi valori
paesaggistici riconosciuti e tutelati, con particolare attenzione alla
salvaguardia dei paesaggi rurali e dei siti inseriti nella lista del patrimonio
mondiale dell’UNESCO), che non formano oggetto dell’art. 63, comma 7, della
legge reg. Veneto n. 30 del 2016.
Tale disposizione, prosegue la resistente, si limita a
prevedere un’attività preliminare di natura meramente ricognitiva in ordine
agli immobili e alle aree già dichiarate di notevole interesse pubblico e alle
aree già tutelate per legge, di cui, rispettivamente, agli artt. 136 e 142,
comma l, cod. beni culturali. Attività, quella indicata dalla norma regionale,
che è solo accessoria al procedimento formativo del piano regionale
paesaggistico, nonché cedevole nei confronti della successiva attività
ricognitiva che venisse ad essere inglobata nel medesimo piano.
La legge regionale e quella statale evocata quale norma
interposta opererebbero, sotto il profilo degli effetti, «in ambiti paralleli,
ma separati, senza che sia possibile una reciproca interferenza».
Ad avviso della resistente le censure di
incostituzionalità devono ritenersi inammissibili, in quanto nessuna concreta
lesione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela
del paesaggio sussiste per effetto della disposizione impugnata.
Oggetto della stessa, infatti, è un’attività meramente
ricognitiva di vincoli già esistenti e accertati; pertanto la disposizione
impugnata non produrrebbe nessun effetto di natura costitutiva e,
conseguentemente, nessuna lesione "sostanziale” della competenza esclusiva
dello Stato in materia di tutela del paesaggio, né alcun effetto preclusivo
rispetto all’applicazione della disciplina statale. L’attività ricognitiva
costituirebbe attuazione dello specifico accordo intercorso tra la Regione
Veneto e il Ministero per i beni e le attività culturali (MiBAC),
in data 15 luglio 2009, a norma dell’art. 143, comma 2, cod. beni culturali.
Sottolinea la resistente che l’accordo prevede che «le
parti si impegnano sin d’ora a completare la ricognizione indicata, all’art.
143, comma l, lettere b) e c), del Codice». A tal riguardo, la Regione ricorda
che è stata sottoscritta un’intesa, ai sensi dell’art. 143, comma 2, «tra il
Ministero dei Beni e delle Attività Culturali (ora Ministero dei Beni e delle
Attività Culturali e del Turismo - MiBACT) e la
Regione del Veneto, in forza della quale è stata disposta la partecipazione da
parte della Region[e], con delibera n. 1503/2009 […],
ad un Comitato Tecnico del Paesaggio (CTP), a composizione paritetica
ministeriale e regionale», che ha avviato l’attività di ricognizione dei beni
paesaggistici e a cui è stata affidata la «definizione dei contenuti del piano»
e «il coordinamento delle azioni necessarie alla sua definizione».
Una delle principali attività svolte dal CTP, prosegue la
resistente, consiste nella ricognizione e nella validazione degli immobili e
delle aree dichiarati di notevole interesse. La norma regionale, dunque, non fa
che confermare un’attività già in corso di svolgimento sulla base della comune
volontà statale e regionale, consentendo peraltro, mediante la pubblicazione
della ricognizione, di soddisfare l’interesse generale a conoscere lo stato
paesaggistico del territorio, come emerso in sede di CTP, ove è stata più volte
discussa l’opportunità di pubblicare, in attesa dell’approvazione del piano
paesaggistico regionale, a soli fini informativi, le ricognizioni dei beni paesaggistici
ex art. 136, cod. beni culturali, validate dallo stesso CTP.
5.2.– Riguardo all’impugnato art. 68, della legge reg. Veneto n. 30 del 2016,
concernente gli interventi di manutenzione degli alvei, delle opere idrauliche
in alveo, delle sponde e degli argini dei corsi d’acqua, in assenza di
autorizzazione paesaggistica, le censure di violazione dell’art. 117, secondo
comma, lettere m) e s), Cost., sono ritenute dalla resistente manifestamente
infondate, in quanto omettono di considerare il tenore letterale della
disposizione regionale.
Essa, infatti, si pone «in una posizione servente
rispetto alla disciplina statale» che definisce il confine entro cui il
precetto normativo regionale opera. Gli interventi di sicurezza idraulica da
questo contemplati sarebbero esonerati dall’obbligo di sottoposizione
all’autorizzazione paesaggistica solo «laddove la relativa fattispecie sia
sussumibile nell’ambito delle fattispecie previste dalla legislazione statale»
e sempre che «siano previamente accertati i presupposti applicativi
dell’esonero», così come disciplinati dalle leggi statali.
La legge regionale avrebbe quindi una «finalità
"dichiarativa” e "politica”», essendo diretta a sottolineare la rilevanza
teleologica di alcune tipologie di interventi da compiere sul territorio al
fine di soddisfare l’interesse pubblico alla sicurezza idraulica. La sua natura
«servente», inoltre, le impedirebbe «di innovare l’ordinamento giuridico».
A tale proposito, la difesa regionale richiama il decreto
del Presidente della Repubblica 13 febbraio 2017, n. 31 (Regolamento recante
individuazione degli interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o
sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata)
che, nell’Allegato A, sui casi di esclusione dall’obbligo di autorizzazione
paesaggistica, prevede una fattispecie identica a quella della legge regionale.
La disposizione regionale impugnata troverebbe, quindi,
«un addentellamento precettivo» in quella
regolamentare statale, «che ne suffraga la legittimità» e ne veicola la portata
precettiva subordinata alla disciplina statale.
5.3.– Con riferimento all’art. 95, comma 2, della legge
reg. Veneto n. 30 del 2016, censurato nella parte in cui consente, previa
autorizzazione della struttura regionale competente in materia di attività
estrattive, lo stoccaggio e la lavorazione, nelle cave non estinte, di
materiali da scavo costituiti da sabbie e ghiaie, provenienti dalla
realizzazione di opere pubbliche, la difesa regionale sostiene che la
disciplina statale non viene derogata dalla normativa regionale, la quale
presuppone che siano soddisfatti tutti i requisiti previsti dalla normativa
statale, in assenza dei quali non sarà possibile accedere al regime in parola.
5.4.– In relazione alla censura riferita all’art. 95, comma 4, della legge reg.
Veneto n. 30 del 2016, la resistente ravvisa in essa un’incongruenza logica. La
norma regionale, che dispone il divieto di nuove aperture di cave di sabbia e
ghiaia, postula l’assenza di un procedimento amministrativo. Non sarebbe dunque
possibile ipotizzare una lesione sotto forma di mancata attivazione di un
segmento procedimentale decisorio qual è quello della valutazione di impatto
ambientale (VIA).
L’art. 95, comma 4, è inserito tra le «prime disposizioni
in materia di pianificazione regionale delle attività di cava», per «concorrere
alla valorizzazione delle risorse non rinnovabili del territorio regionale
mediante un loro utilizzo razionale anche attraverso il massimo sfruttamento
dei giacimenti ed in coerenza con le politiche regionali di riduzione del
consumo di suolo sotto il profilo del contenimento della estrazione di sabbie e
ghiaie nel territorio, nonché ai fini della tutela del lavoro e delle imprese
del settore estrattivo e della migliore gestione dei materiali inerti estratti nel
corso della realizzazione di opere pubbliche e di pubblica utilità» (comma 1
dello stesso art. 95). La relativa disciplina andrebbe, dunque,
contestualizzata nell’ambito dell’art. 5, della legge reg. Veneto 7 settembre
1982, n. 44 (Norme per la disciplina dell’attività di cava), ove è prevista
l’adozione da parte della Regione di un piano regionale dell’attività di cava,
il cui scopo e la cui funzione è regolamentare lo svolgimento dell’attività di
cava sul territorio regionale.
L’impugnato art. 95, comma 4, avrebbe, perciò, lo scopo
di regolamentare, anche sotto il profilo temporale, lo svolgimento
dell’attività di cava secondo le finalità indicate.
Secondo la resistente, ciò implica che la Regione possa,
«secondo insindacabile valutazione discrezionale», decidere di regolare
l’attività di cava per un determinato periodo di tempo, consentendo, come nel
caso di specie, solo un limitato ampliamento delle cave già esistenti e
vietando l’apertura di nuove cave. Nessuna irragionevolezza sarebbe perciò
ravvisabile, ma solo la naturale esplicazione del potere pianificatorio
riconosciuto in capo alla Regione, attuato sulla base di una complessiva
attività istruttoria (sono richiamati gli allegati alla delibera della Giunta
regionale n. 1647 del 21 ottobre 2016).
Tali considerazioni consentirebbero di superare, secondo
la difesa regionale, anche le doglianze prospettate in relazione alla presunta
lesione della libertà di iniziativa economica. Non vi sarebbe, infatti, alcuna
«arbitrarietà» nella previsione di misure limitative della libertà stessa da
parte dell’impugnato art. 95, comma 4 (è richiamata la sentenza n. 152 del
2010).
L’attività di cava potrebbe essere limitata rispetto a
valori prioritari, quali quelli indicati al comma 1 dello stesso art. 95. La
previsione di un limite temporale all’apertura di nuove cave sarebbe, inoltre,
frutto di una ponderazione dello status estrattivo regionale, come emerge
dall’iter legislativo e sarebbe comunque espressione della discrezionalità
valutativa affidata alla Regione.
5.5.– Ad avviso della Regione, l’impugnato art. 95, comma 5, della legge reg.
Veneto n. 30 del 2016, prevederebbe specifiche e mirate limitazioni
all’ampliamento delle cave di sabbia e ghiaia esistenti e non consentirebbe
un’indiscriminata espansione delle stesse, ragion per cui il prospettato
pregiudizio ambientale appare «un’illazione infondata» alla luce di quanto
emerge dall’iter che ha preceduto l’adozione della disposizione regionale.
Ad avviso della difesa regionale sarebbero
contraddittorie le affermazioni del ricorrente che, da un lato, ritiene
l’ampliamento delle cave esistenti alla stregua di uno sfruttamento esasperato,
idoneo a ledere il bene ambiente, e, dall’altro, critica le previsioni di
limiti e vincoli a tale ampliamento per violazione delle regole della
concorrenza.
Prima ancora che infondata, la censura sarebbe
inammissibile, risultando la sua esposizione a tal punto confusa e contraddittoria
da non far comprendere quali siano le ragioni poste a fondamento della stessa,
negandosi le une con le altre. A riprova di ciò, l’asserita lesione della
concorrenza sarebbe prospettata in modo «assertivo, senza che sia evocato alcun
concreto parametro che evidenzi una tale lesione».
Le doglianze avverso i commi 4 e 5 dell’art. 95, della
legge reg. Veneto n. 30 del 2016, sarebbero inoltre ispirate dall’intento di
privare la Regione di ogni potere pianificatorio in
materia di cave, il che comporterebbe una grave lesione delle sue competenze
costituzionalmente e legislativamente garantite, anche in spregio
dell’interesse al buon andamento dell’agire pubblico e al soddisfacimento degli
interessi collettivi sottesi alla correlata attività amministrativa.
Considerato in diritto
1.– Riservate a separate pronunce le questioni promosse
dal Presidente del Consiglio dei ministri su altre disposizioni della legge
della Regione Veneto 30 dicembre 2016, n. 30 (Collegato alla legge di stabilità
regionale 2017), lo scrutinio deve essere qui limitato a quelle aventi ad
oggetto gli artt. 63, comma 7, 68, comma 1, 95, commi 2, 4 e 5, di detta legge
regionale, in riferimento agli artt. 3, 41, e 117, secondo comma, lettere e),
m) e s), della Costituzione.
2.– L’impugnato art. 63, comma 7, della legge reg. Veneto
n. 30 del 2016, ha inserito i commi 1-bis, 1-ter e 1-quater nell’art. 45-ter,
della legge reg. Veneto 23 aprile 2004, n. 11 (Norme per il governo del
territorio e in materia di paesaggio), il quale disciplina i compiti della
Regione funzionali alla realizzazione del piano paesaggistico.
Il Presidente del Consiglio dei ministri si duole della
prima parte della disposizione, che ha inserito nel richiamato art. 45-ter il
comma 1-bis, il quale così dispone: «La Giunta regionale, in attuazione
all’accordo con il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo
(MiBACT) di cui agli articoli 135, comma 1 e 143,
comma 2, del Codice, nelle more dell’approvazione del piano paesaggistico di
cui al comma 1, procede alla ricognizione degli immobili e delle aree
dichiarate di notevole interesse pubblico e delle aree tutelate per legge di
cui, rispettivamente, agli articoli 136 e 142, comma 1, del Codice».
2.1.– Ad avviso del ricorrente, detta norma attribuirebbe un potere unilaterale
di tipo «sostitutivo» o «interinale» alla Regione, in contrasto con l’art. 135
del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, recante «Codice dei beni
culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002,
n. 137», il quale richiede la pianificazione congiunta tra Ministero e Regioni
e, nel caso di mancata approvazione del piano, un potere sostitutivo in capo al
Ministro. Dalla deroga al meccanismo disegnato dal Codice dei beni culturali
deriverebbe la violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.
2.2.– La questione è fondata.
La disposizione impugnata interseca la disciplina sulla
protezione del paesaggio, normativa che, a sua volta, «rispecchia la natura
unitaria del valore primario e assoluto dell’ambiente» (sentenza n. 246 del
2017), di esclusiva spettanza statale ai sensi dell’art. 117, secondo
comma, lettera s), Cost. Il bene ambientale, infatti, ha una morfologia complessa,
capace di ricomprendere non solo la tutela di interessi fisico-naturalistici,
ma anche i beni culturali e del paesaggio idonei a contraddistinguere in modo
originale, peculiare e irripetibile un certo ambito geografico e territoriale.
2.3.– L’ambiente, come più volte affermato da questa Corte, «non sembra
configurabile come sfera di competenza statale rigorosamente circoscritta e
delimitata, giacché, al contrario, essa investe e si intreccia
inestricabilmente con altri interessi e competenze». Esso «delinea una sorta di
materia "trasversale”, in ordine alla quale si manifestano competenze diverse,
che ben possono essere regionali, spettando allo Stato le determinazioni che
rispondono ad esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull’intero territorio
nazionale» (sentenza
n. 407 del 2002; nello stesso senso, più recentemente, sentenze n. 212 del
2017, n. 210
del 2016 e n.
171 del 2012).
La disciplina statale volta a proteggere l’ambiente e il
paesaggio viene quindi «"a funzionare come un limite alla disciplina che le
Regioni e le Province autonome dettano in altre materie di loro competenza”,
salva la facoltà di queste ultime di adottare norme di tutela ambientale più
elevata nell’esercizio di competenze, previste dalla Costituzione, che
concorrano con quella dell’ambiente» (sentenza n. 199 del
2014; nello stesso senso, sentenze n. 246
e n. 145 del
2013, n. 67
del 2010, n.
104 del 2008, n.
378 del 2007). Essa richiede una strategia istituzionale ad ampio raggio,
che si esplica in un’attività pianificatoria estesa
sull’intero territorio nazionale. In tal senso, l’attribuzione allo Stato della
competenza esclusiva di tale "materia-obiettivo” non implica una preclusione
assoluta all’intervento regionale, purché questo sia volto all’implementazione
del valore ambientale e all’innalzamento dei suoi livelli di tutela.
2.4.– In coerenza con tali orientamenti, il Codice dei beni culturali detta le
coordinate fondamentali della pianificazione paesaggistica, affidata
congiuntamente allo Stato e alle Regioni.
In particolare, l’art. 135 del menzionato Codice
stabilisce che lo Stato e le Regioni sottopongono a specifica normativa d’uso
il territorio mediante «piani paesaggistici», ovvero piani
urbanistico-territoriali con considerazione dei valori paesaggistici implicati.
L’elaborazione di detti piani avviene congiuntamente tra Ministero e Regioni,
«limitatamente ai beni paesaggistici di cui all’articolo 143, comma 1, lettere
b), c) e d) […]». In altri termini, l’elaborazione del piano deve avvenire
congiuntamente con riferimento agli immobili e alle aree dichiarati di notevole
interesse pubblico ai sensi dell’art. 136 (le c.d. "bellezze naturali”), alle
aree tutelate direttamente dalla legge ai sensi dell’art. 142 (le c.d. "zone Galasso”, come territori costieri, fiumi, torrenti, parchi)
e, infine, agli ulteriori immobili ed aree di notevole interesse pubblico (art.
143, lettera d).
2.5.– La legislazione statale pone dunque un obbligo di
elaborazione congiunta del piano paesaggistico; tale obbligo, con riferimento
ai beni vincolati indicati direttamente dall’art. 135, cod. beni culturali,
assurge a principio inderogabile della legislazione statale, a sua volta
riflesso della «impronta unitaria della pianificazione paesaggistica […], tes[a] a stabilire una metodologia uniforme nel rispetto
della legislazione di tutela dei beni culturali e paesaggistici sull’intero
territorio nazionale» (sentenza n. 64 del
2015; nello stesso senso, sentenze n. 210 del
2016, n. 197
del 2014, n.
211 del 2013). Come questa Corte ha già affermato, non è ammissibile la
«generale esclusione o la previsione di una mera partecipazione degli organi
ministeriali» in procedimenti che richiedono la cooperazione congiunta: in tali
ipotesi la tutela paesaggistica verrebbe degradata, «da valore unitario
prevalente e a concertazione rigorosamente necessaria, in mera esigenza
urbanistica» (sentenza
n. 64 del 2015).
2.6.– Alla luce di tali premesse, deve ritenersi che anche la ricognizione dei
beni da sottoporre a vincoli paesaggistici debba essere realizzata
congiuntamente con lo Stato e, per esso, con il Ministero per i beni e le
attività culturali, come emerge dalla lettera del menzionato art. 143, cod.
beni culturali, che annovera la ricognizione dei beni di rilevanza
paesaggistica tra le attività ricomprese nella «elaborazione» del piano. Posto
che l’elaborazione deve avvenire, ai sensi dell’art. 136, comma 1, cod. beni
culturali, «congiuntamente tra Ministero e regioni», ne discende che anche
l’attività ricognitiva deve essere frutto di un percorso condiviso, in ogni suo
passaggio e in ogni sua fase, da Stato e Regioni.
2.7.– In tale direzione si muove, peraltro, il Protocollo
d’Intesa del 15 luglio 2009, finalizzato, in attuazione dell’art. 143, comma 2,
cod. beni culturali, ad attribuire al piano territoriale regionale di
coordinamento (PTRC) «la qualità di piano urbanistico-territoriale con
specifica considerazione dei valori paesaggistici» (art. 1 del Protocollo
sottoscritto tra Ministero per i beni e le attività culturali e la Regione del
Veneto, in attuazione delle disposizioni di cui agli articoli 135, comma 1, e
143 comma 2, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, per l’elaborazione
congiunta del piano paesaggistico regionale e relativo disciplinare attuativo).
L’accordo, oltre a istituire un comitato tecnico a
composizione mista per il coordinamento e la definizione dell’aggiornamento
paesaggistico del piano, ha espressamente disposto, all’art. 10, comma 3, che
«le parti si impegnano sin d’ora a completare la ricognizione indicata all’art.
143, comma 1, lettere b) e c), del Codice», affidando al predetto comitato
paritetico la «definizione dei contenuti» del piano e il «coordinamento delle
azioni necessarie alla sua redazione».
Di qui il contrasto della disposizione regionale con la
normativa statale, e il conseguente accoglimento della questione di legittimità
costituzionale.
3.– Il Presidente del consiglio dei ministri ha altresì
impugnato l’art. 68, comma 1, della legge reg. Veneto n. 30 del 2016. La
disposizione prevede che «[g]li interventi di manutenzione degli alvei, delle
opere idrauliche in alveo, delle sponde e degli argini dei corsi d’acqua,
compresi gli interventi sulla vegetazione ripariale arborea e arbustiva,
finalizzati a garantire il libero deflusso delle acque possono essere eseguiti
senza necessità di autorizzazione paesaggistica ai sensi dell’art. 149 del
decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 […] e della valutazione di incidenza
ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 8 settembre 1997, n. 357
"Regolamento recante attuazione della direttiva 92/43/CEE relativa alla
conservazione degli habitat naturali e seminaturali,
nonché della flora e della fauna selvatiche” previa verifica della sussistenza
di tali presupposti ai sensi delle disposizioni statali e regionali».
Secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, detta
norma si porrebbe in contrasto con la disciplina nazionale sull’autorizzazione
paesaggistica, che spetterebbe allo Stato in virtù dell’art. 117, secondo
comma, lettere m) e s), Cost. A suo avviso, le eccezioni al principio
dell’autorizzazione paesaggistica, previsto dall’art. 146, cod. beni culturali,
devono essere tassativamente formulate, in via esclusiva, dal legislatore
statale. La disposizione reca invece una «formula ampia e indeterminata», che
si traduce «nell’abrogazione in concreto dell’autorizzazione per una intera
classe di interventi, identificati soltanto in base al loro presunto fine».
3.1.– La questione è fondata in riferimento all’art. 117, secondo comma, lett.
s), Cost.
La disposizione censurata si pone in contrasto con i
principi, enunciati da questa Corte, secondo i quali «la legislazione regionale
non può prevedere una procedura per l’autorizzazione paesaggistica diversa da
quella dettata dalla legislazione statale, perché alle Regioni non è consentito
introdurre deroghe agli istituti di protezione ambientale che dettano una
disciplina uniforme, valevole su tutto il territorio nazionale, nel cui ambito
deve essere annoverata l’autorizzazione paesaggistica» (sentenze n. 189 del
2016 e n.
235 del 2011; nello stesso senso, sentenze n. 238 del
2013, n. 101
del 2010 e n.
232 del 2008).
La norma regionale esonera determinati provvedimenti
dall’autorizzazione paesaggistica richiesta dall’art. 146, cod. beni culturali.
In particolare, la normativa statale indica, all’art. 149 di detto Codice,
alcune categorie di interventi per cui non è richiesta l’autorizzazione
paesaggistica, ma tra queste non rientrano le attività indicate dall’impugnato
comma 1 dell’art. 68.
3.2.1.– Va ricordato, inoltre, che l’art. 25, comma 2,
del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133 (Misure urgenti per l’apertura dei
cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del
Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e
per la ripresa delle attività produttive), convertito, con modificazioni, nella
legge 11 novembre 2014, n. 164, ha affidato ad un regolamento di
delegificazione l’individuazione delle «tipologie di interventi per i quali
l’autorizzazione paesaggistica non è richiesta, ai sensi dell’articolo 149 del
medesimo Codice dei beni culturali, sia nell’ambito degli interventi di lieve
entità già compresi nell’allegato 1 al suddetto regolamento di cui all’articolo
146, comma 9, quarto periodo, cod. beni culturali, sia mediante definizione di
ulteriori interventi minori privi di rilevanza paesaggistica».
Tale regolamento, emanato nelle more del presente
giudizio di legittimità costituzionale, successivamente all’entrata in vigore
delle norme impugnate (decreto del Presidente della Repubblica 13 febbraio
2017, n. 31, intitolato «Regolamento recante individuazione degli interventi
esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata»), ha stabilito, per una serie
di interventi, l’esonero dall’autorizzazione paesaggistica.
Tra questi, l’Allegato A del d.P.R.
n. 31 del 2017, come riporta anche la Regione resistente, ha individuato gli
«interventi di manutenzione degli alvei, delle sponde e degli argini dei corsi
d’acqua, compresi gli interventi sulla vegetazione ripariale arborea e
arbustiva, finalizzati a garantire il libero deflusso delle acque e che non
comportino alterazioni permanenti della visione d’insieme della morfologia del
corso d’acqua».
3.2.2.– Emerge chiaramente, tuttavia, come la classe di interventi indicati
dall’allegato non sia identica a quella prevista dalla norma regionale: essa
infatti non menziona le opere idrauliche in alveo (richiamate invece dalla
disposizione regionale) e condiziona l’esenzione dall’autorizzazione
paesaggistica all’«assenza di alterazioni permanenti della visione d’insieme
della morfologia del corso d’acqua». La norma regionale ha, quindi, una portata
più ampia della regolamentazione statale, sia quanto al tipo di interventi
esonerati (le «opere idrauliche in alveo»), sia quanto alle condizioni che
devono sussistere per l’esonero (la necessità che gli interventi di
manutenzione non alterino la «visione d’insieme della morfologia del corso
d’acqua»). Le competenze regionali in materia di difesa del suolo possono
rendere opportuni taluni esoneri, ma essi devono essere realizzati sulla base
della normativa statale, se del caso a seguito di concertazione con la Regione.
3.3.– Anche a volere ritenere, come prospetta la difesa regionale, coincidenti
le due tipologie di interventi (quella regionale e quella statale sopravvenuta),
vi è da considerare che la norma regionale avrebbe prodotto, seppure per un
limitato arco temporale, un abbassamento degli standard di tutela ambientale,
così contravvenendo alla ripartizione costituzionale delle competenze. Ai fini
della declaratoria di illegittimità costituzionale, infatti, ciò che rileva è
l’intervento peggiorativo, in deroga, della Regione nell’ambito riservato
all’esclusiva competenza statale in materia ambientale.
Di qui l’accoglimento della questione di legittimità
costituzionale dell’art. 68, comma 1, della legge reg. Veneto n. 30 del 2016,
per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.
Restano assorbite le ulteriori censure avanzate con
riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost.
4.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha altresì
impugnato i commi 2, 4 e 5 dell’art. 95 della legge della Regione Veneto n. 30
del 2016, rubricato «Prime disposizioni in materia di pianificazione regionale
delle attività di cava».
Tale articolo detta una serie di prescrizioni in materia
di cave, finalizzate alla valorizzazione delle risorse regionali non
riutilizzabili, alla riduzione del consumo di suolo, alla tutela del lavoro e
delle imprese del settore estrattivo e alla migliore gestione dei materiali
inerti nel corso della realizzazione di opere pubbliche e di pubblica utilità
(comma 1 dell’art. 95).
4.1.– In via preliminare, è necessario identificare l’ambito materiale sul quale
incide la disposizione impugnata.
Essa si inserisce in un ampio intervento, realizzato
dalla legge regionale censurata, in materia di pianificazione e gestione
dell’attività di cava.
La disciplina generale di tali attività si trova nel
regio decreto 29 luglio 1927, n. 1443 (Norme di carattere legislativo per
disciplinare la ricerca e la coltivazione delle miniere nel Regno) che, in
considerazione della situazione esistente alla data della sua emanazione, era
volto a favorire lo sviluppo edilizio e infrastrutturale di un Paese in larga
parte ancora rurale e, perciò, meno attento ai valori ambientali e
paesaggistici implicati nell’attività estrattiva.
Il r.d. n. 1443 del 1927,
accanto agli artt. 826 ed 840 del codice civile, identifica i principi generali
di una materia che, anteriormente alla riforma del Titolo V, della Parte II
della Costituzione, spettava alla competenza concorrente dello Stato e delle
Regioni. Queste ultime potevano intervenire a disciplinare le attività
estrattive, mancando specifiche leggi-quadro, sulla base dei principi
desumibili dalle vigenti norme statali. Il cosiddetto "primo trasferimento di
funzioni amministrative” (art. 1 del decreto del Presidente della Repubblica 12
gennaio 1972, n. 2, recante «Trasferimento alle Regioni a statuto ordinario
delle funzioni amministrative statali in materia di acque minerali e termali,
di cave e torbiere e di artigianato e del relativo personale») conferì, alle
Regioni a statuto ordinario, le funzioni amministrative esercitate dagli organi
centrali e periferici dello Stato in materia di cave e torbiere, conferimento
poi completato dal cosiddetto "secondo trasferimento” (art. 62 del decreto del
Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616, recante «Attuazione della
delega di cui all’art. 1 della legge 22 luglio 1975, n. 382»).
4.2.– In tale contesto, questa Corte ha ammesso
«interventi regionali legislativi (e perciò amministrativi), regolanti
l’attività estrattiva e trascendenti il quadro della legislazione nazionale
fino allora vigente» (sentenza n. 7 del
1982; nello stesso senso, sentenze n. 488 del
1995 e n.
499 del 1988), incentrati, tra l’altro, nella generale regolamentazione
dell’esercizio dell’attività estrattiva previa (secondo il regime proprietario
riconosciuto alle stesse) concessione o autorizzazione.
Con la riforma del Titolo V della Costituzione, la
mancata menzione della materia «cave e torbiere» nei cataloghi del novellato
art. 117 Cost., ne ha imposto la riconduzione – affermata dalla Corte – alla
competenza residuale delle Regioni (sentenze n. 210 del
2016 e n.
246 del 2013).
4.3.– La legge regionale, in parte qua, afferisce, dunque, a una materia
riconducibile alla competenza residuale delle Regioni, attenendo all’esercizio
dei poteri pianificatori in materia di cave. Si tratta dunque di verificare,
tramite un’analisi condotta alla luce dell’oggetto e della ratio delle singole
disposizioni, se queste siano eccedenti rispetto all’oggetto e alla finalità
complessiva della normativa, invadendo la competenza legislativa statale e così
infrangendo i livelli di tutela ambientale e paesaggistici individuati dallo
Stato.
L’attività di cava, infatti, può essere regolata dalle
Regioni, fatto salvo il rispetto degli standard ambientali e paesaggistici
fissati dalle leggi statali. Questa Corte, anche di recente, ha ricordato «come
la competenza esclusiva statale in materia di tutela dell’ambiente si debba
confrontare con la competenza regionale in materia di cave, senza che ciò, però,
possa importare alcuna deroga rispetto a quanto già affermato […] in ordine ai
principi che governano la tutela dell’ambiente» (sentenza n. 210 del
2016; nello stesso senso, sentenze n. 199 del
2014 e n.
246 del 2013). La competenza residuale in materia di cave si allarga o si
restringe, quindi, a seconda dell’implicazione dei livelli di tutela
ambientale, di norma cristallizzati in specifiche discipline statali.
5.– Posta tale premessa, viene in rilievo, anzitutto, la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 95, comma 2, della legge reg.
Veneto n. 30 del 2016, il quale consente, previa autorizzazione della struttura
regionale competente in materia di attività estrattive, «lo stoccaggio e la
lavorazione, nelle cave non estinte, di materiali da scavo costituti da sabbie
e ghiaie», proveniente dalla realizzazione di opere pubbliche e di pubblica
utilità, con almeno 500.000 metri cubi di materiale di risulta. Il trattamento
del materiale inerte è consentito purché: a) i materiali siano qualificabili
come sottoprodotti «ai sensi della vigente normativa» e b) i materiali siano
equiparabili per tipologia al materiale costituente il giacimento coltivato
nella cava. La norma censurata consente, quindi, il recupero e la lavorazione
di materiale inerte (sabbia e ghiaia), purché questo sia qualificabile come
sottoprodotto ai sensi della normativa vigente e il materiale sia della
medesima natura di quello coltivato in cava.
5.1.– Ad avviso del Presidente del Consiglio dei ministri, la disposizione
inciderebbe sulla disciplina del trattamento dei sottoprodotti prevista dagli
artt. 183, comma 1, lettera qq), e 184-bis del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152
(Norme in materia ambientale), rientrante nella competenza esclusiva statale in
materia di ambiente ai sensi dell’art. 117, comma secondo, lettera s), Cost. Lo
smaltimento delle rocce da scavo apparterrebbe, infatti, alla competenza
esclusiva dello Stato in materia di ambiente, secondo quanto avrebbe affermato
questa Corte in plurime occasioni (sono richiamate le sentenze n. 232 del
2014, n. 70
del 2014, n.
300 del 2013).
La disciplina regionale, secondo la difesa statale,
violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., allorché, sul solo
presupposto che provenga da cantieri di opere pubbliche, il materiale sia
classificabile come sottoprodotto e non come rifiuto. Inoltre, la disposizione
si porrebbe in contrasto con il decreto del Ministro dell’ambiente e della
tutela del territorio e del mare 10 agosto 2012, n. 161 (Regolamento recante la
disciplina dell’utilizzazione delle terre e rocce da scavo), il quale prevede
che i materiali e le rocce da scavo debbano essere estratti e utilizzati
esclusivamente in attuazione di un apposito piano di utilizzo (art. 5).
5.2.– La questione, concernente il richiamato art. 95, comma 2, non è fondata.
Questa Corte – è ben vero – ha più volte affermato che «la
disciplina delle procedure per lo smaltimento delle rocce e terre da scavo
attiene al trattamento dei residui di produzione ed è perciò da ascriversi alla
"tutela dell’ambiente” affidata in via esclusiva alle competenze dello Stato,
affinché siano garantiti livelli di tutela uniformi su tutto il territorio
nazionale» (sentenze
n. 269 del 2014, n. 232 del 2014;
nello stesso senso, sentenze n. 70 del
2014 e n.
300 del 2013). Inoltre, sono state dichiarate costituzionalmente
illegittime norme che incidevano sulla qualificazione, a fini ambientali, di
terre e rocce da scavo (sentenze n. 315 del
2009 e n. 62
del 2008).
Tale ambito è, infatti, puntualmente regolato a livello
nazionale: in coerenza con la normativa comunitaria, il comma 1 dell’art.
184-bis, cod. ambiente, stabilisce i criteri generali per distinguere i
sottoprodotti dai rifiuti, mentre il secondo comma di detto articolo rinvia a
un decreto ministeriale la definizione «di criteri qualitativi o quantitativi
da soddisfare affinché specifiche tipologie di sostanze o oggetti siano
considerati sottoprodotti e non rifiuti». Sulla scorta di tale disposizione è
stato emanato il d.m. n. 161 del 2012, evocato anche dalla difesa statale,
sostituito dal decreto del Presidente della Repubblica 13 giugno 2017, n. 120
(Regolamento recante la disciplina semplificata della gestione delle terre e
rocce da scavo, ai sensi dell’articolo 8 del decreto-legge 12 settembre 2014,
n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 2014, n. 164),
che integra e specifica la indicata disciplina di rango legislativo.
La disposizione regionale qui in esame, tuttavia, non
incide in alcun modo sulla normativa statale, di diretta derivazione
comunitaria (Direttiva 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, n. 98
del 19 novembre 2008, relativa ai rifiuti e che abroga alcune direttive), in
tema di smaltimento di rifiuti o di qualificazione del materiale inerte,
presupponendone anzi l’applicazione.
La norma censurata prevede piuttosto la possibilità di
riutilizzare materiale inerte – peraltro proveniente dalla realizzazione di
opere pubbliche – purché questo sia qualificabile come «sottoprodotto» alla
stregua della normativa vigente e purché il luogo di conferimento sia
ordinariamente adibito all’estrazione di materiali aventi analoghe
caratteristiche.
La presenza di quest’ultimo requisito, in particolare,
evita che la norma censurata si ponga in contrasto con la disciplina del
cosiddetto deposito intermedio delle terre e rocce da scavo previsto dall’art.
5 del d.P.R. n. 120 del 2017.
5.3.– La disposizione impugnata non si sovrappone alla normativa statale, posto
che l’attività di stoccaggio e lavorazione è condizionata alla qualificazione
quale «sottoprodotto» del materiale inerte, alla stregua della normativa
vigente. La norma censurata, tramite il riferimento alla «normativa vigente»,
dispone, piuttosto, un rinvio alla fonte statale in materia di sottoprodotti,
nel senso che sarà possibile riutilizzare il materiale da scavo solo laddove
siano rispettate le stringenti condizioni poste dalla disciplina statale.
La normativa de qua, quindi, non pregiudica i livelli di
tutela ambientale implicati nella regolazione uniforme dei sottoprodotti.
D’altronde, in un caso analogo, questa Corte ha ritenuto
non costituzionalmente illegittima una normativa della Provincia autonoma di
Bolzano che consentiva la lavorazione nelle aree estrattive dotate «di
materiali inerti provenienti anche da altre cave, sbancamenti, scavi, gallerie,
fiumi, torrenti, rii o zone colpite da eventi naturali eccezionali ubicati ad
una distanza non superiore a 15 chilometri dall’impianto». La norma, non
contenendo «espressamente alcuna definizione di rifiuto, né alcuna esplicita
qualificazione dei materiali inerti di cui si consente la lavorazione», non
incideva «sul regime dei predetti materiali, tantomeno [conteneva] una
presunzione assoluta circa la configurazione dei medesimi come sottoprodotti» (sentenza n. 345 del
2010). La disposizione si limitava «ad individuare le lavorazioni che
possono essere effettuate presso le aree estrattive dotate di impianti
autorizzati alla coltivazione delle cave, rinviando, per la qualificazione e
per l’individuazione del regime al quale i materiali oggetto di lavorazione
devono essere sottoposti, alle norme statali, in particolare alle norme del Codice
dell’ambiente (d.lgs. n. 152 del 2006), che hanno recepito la normativa
comunitaria, in specie la direttiva 2006/12/CE» (sentenza n. 345 del
2010).
Di qui il rigetto delle censure prospettate dal
ricorrente.
6.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha poi
impugnato i commi 4 e 5 dell’art. 95 della legge della reg. Veneto n. 30 del
2016.
6.1.– Il richiamato comma 4 dispone che «[p]er un
periodo di nove (9) anni non può essere autorizzata l’apertura di nuove cave di
sabbia e ghiaia».
Ad avviso del ricorrente, la norma impedirebbe
l’espletamento delle procedure di valutazione di impatto ambientale (VIA),
previste dal Codice dell’ambiente. A conforto della censura è richiamata la
giurisprudenza costituzionale che ha ricondotto la disciplina della VIA alla
competenza esclusiva statale in materia di ambiente (sentenza n. 199 del
2014) ed ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di norme regionali
che disponevano dell’efficacia di titoli minerari in assenza di procedure di
valutazione di impatto ambientale (sentenze n. 246 del
2013 e n. 67
del 2010).
La disposizione sarebbe lesiva dell’art. 117, secondo
comma, lettera s), Cost. e violerebbe anche gli artt. 3 e 41 Cost., in quanto
prevederebbe un limite irragionevole e non proporzionato alla iniziativa
economica privata.
6.2.– Il comma 5 del censurato art. 95 consente ampliamenti, da sottoporre a VIA
(di cui al comma 9, non impugnato), di cave di sabbia e ghiaia situate nelle
Province di Verona e Vicenza «non ancora integralmente estinte», purché
ricorrano alcune condizioni, elencate alle lettere da a) ad e) del medesimo
comma.
La difesa erariale si sofferma, in particolare, sulle
condizioni previste dalla lettera a) («l’impresa richiedente sia titolare di
autorizzazioni di cava per sabbia e ghiaia che, nel complesso, non presentino
un volume residuo estraibile superiore a cinquecentomila metri cubi») e dalla
lettera d) (i volumi autorizzati in ampliamento non devono superare
«complessivamente 8,5 milioni di metri cubi così suddivisi: 4,5 milioni di
metri cubi per il territorio della provincia di Verona e 4 milioni di metri
cubi per il territorio della provincia di Vicenza». Tali previsioni «[…] sono
novennali e soggette a revisione almeno ogni tre anni e comunque ogni qualvolta
se ne determini la necessità»).
Il Presidente del Consiglio dei ministri afferma che tale
disposizione contrasterebbe con le competenze esclusive statali in materia di
tutela della concorrenza, richiamando a tal fine la nozione di concorrenza
accolta dalla giurisprudenza costituzionale (sono citate le sentenze n. 270
e n. 45 del 2010,
n. 160 del 2009,
n. 430 e n. 401 del 2007)
e prospettando una violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.
Il ricorrente si sofferma, altresì, sulla denunciata
violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., sostenendo che
l’ambiente può essere salvaguardato solo attraverso una gestione pianificata
delle risorse ambientali, «non attraverso rigide predeterminazioni legislative
delle modalità di gestione […] non precedute da specifica istruttoria e non
modificabili se non attraverso un nuovo iter legislativo».
7.– In riferimento a tale parametro, le questioni aventi
ad oggetto i commi 4 e 5 dell’art. 95 della legge reg. Veneto n. 30 del 2016
devono essere esaminate congiuntamente, poiché le disposizioni sono
strettamente connesse. Il divieto di aperture di nuove cave trova, infatti, un
necessario contemperamento nella scelta di consentire l’ampliamento delle cave
esistenti in alcuni territori provinciali.
7.1.– Questa Corte, avendo la facoltà di decidere
l’ordine delle censure da affrontare (sentenze n. 212 del
2017, n. 157
del 2017, n.
107 del 2017 e n. 98 del 2013),
ritiene di esaminare prioritariamente le questioni di legittimità
costituzionale sollevate in relazione all’art. 117, secondo comma, lettera s),
Cost.
Le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 95,
commi 4 e 5, della legge reg. Veneto n. 30 del 2016, sono fondate.
L’art. 95, al comma 4, vieta l’apertura di nuove cave sul
territorio regionale per un periodo di nove anni; al comma 5 consente, entro
certi limiti, l’ampliamento delle cave esistenti in determinati territori
provinciali. Il legislatore regionale ha così tentato di conciliare plurimi
interessi meritevoli di protezione: per un verso, il divieto di nuove cave
evita l’eccessivo consumo di suolo, così tutelando l’integrità paesaggistica
del territorio; per altro verso, l’ampliamento delle attività estrattive
promuove il reperimento dei materiali inerti necessari per lo svolgimento di
determinate attività produttive.
Il bilanciamento di questi due interessi spetta
senz’altro alla discrezionalità della Regione; come si avrà subito modo di
chiarire, tuttavia, non è l’esito del bilanciamento che è qui censurato, bensì
lo strumento normativo prescelto.
7.2.– Con le norme in esame, la Regione Veneto ha esercitato proprie funzioni in
materia di attività estrattiva, funzioni già disciplinate, in via generale,
dalla legge della Regione Veneto 7 settembre 1982, n. 44 (Norme per la
disciplina dell’attività di cava). Tale normativa non solo ha classificato i
materiali da estrarre sulla base dell’impatto paesaggistico-territoriale dei
relativi luoghi di coltivazione, annoverando la sabbia e la ghiaia tra i
materiali che comportano «un elevato grado di utilizzazione del territorio»
(art. 3), ma ha anche individuato gli appositi strumenti di pianificazione
(art. 4), i soggetti preposti ai compiti di amministrazione attiva con i
relativi procedimenti autorizzatori (artt. 16 e
seguenti), gli specifici obblighi di ricomposizione paesaggistica gravanti sui
titolari delle attività (art. 14), nonché i titolari dell’attività
sanzionatoria e di vigilanza (artt. 28 e seguenti).
Tra gli strumenti di pianificazione, un compito centrale
è stato affidato al «Piano regionale dell’attività di cava (Prac)»,
che dovrebbe rappresentare l’atto di programmazione e indirizzo delle attività
estrattive nel territorio regionale; in forza di tale atto, le Province venete
avrebbero dovuto dotarsi di apposti piani di attuazione e specificazione del Prac.
7.3.– Tale piano, da adottare all’esito di un procedimento composito, contraddistinto
dalla proposta della Giunta regionale, dalla partecipazione degli enti locali e
dalla definitiva approvazione del Consiglio regionale, non ha però mai visto la
luce, nonostante svariati tentativi. La mancata approvazione del Prac ha prolungato l’applicazione del regime transitorio
previsto dagli artt. 43 e 44 della legge reg. Veneto n. 44 del 1982, che, nelle
more dell’approvazione del piano, individua nella Giunta regionale l’organo
competente a rilasciare le autorizzazioni o le concessioni relative
all’attività di cava sulla base di una serie di criteri indicati dall’art. 44
della medesima legge regionale. Tra questi, per quanto attiene alla sabbia e
alla ghiaia, vengono indicati i territori comunali ove è possibile autorizzare
l’apertura di nuove cave o l’ampliamento di cave già esistenti (art. 44,
lettere a e b) e il limite massimo di quantitativo estraibile annualmente (art.
44, lettera e, ed allegato 3).
7.4.– Le disposizioni censurate tentano, dunque, di sopperire all’indefinita
provvisorietà e alla mancata pianificazione amministrativa delle attività
estrattive nel territorio regionale.
Questa Corte ha in più occasioni ribadito che non può
ritenersi preclusa alla legge, anche regionale, la possibilità di attrarre
nella propria sfera oggetti o materie normalmente affidate all’azione
amministrativa pur dovendo soggiacere ad uno scrutinio stretto di
costituzionalità (da ultimo sentenze n. 114 del
2017, n. 231
del 2014 e n.
85 del 2013). Tuttavia, nel caso di specie l’autorizzazione all’ampliamento
in forma di legge, e dunque l’attrazione a livello legislativo della funzione
amministrativa, incide su procedimenti di piano che intrecciano strettamente
competenze statali (la tutela ambientale e la pianificazione paesaggistica) e
regionali (la disciplina delle cave e delle torbiere). L’ampliamento in via
legislativa delle attività estrattive, infatti, rischia di travolgere gli atti
di pianificazione territoriale eventualmente incompatibili con il dettato
legislativo, così generando una automatica prevalenza delle esigenze legate
all’approvvigionamento del materiale inerte sulle istanze di protezione
paesaggistica, che pure la Costituzione annovera tra i suoi principi
fondamentali (art. 9, secondo comma, Cost.).
Come argomentato dalla difesa statale, nella materia
delle cave, di competenza residuale regionale ma strettamente legata alla
tutela paesaggistica e ambientale, non è possibile agire «attraverso rigide
predeterminazioni legislative delle modalità di […] gestione […] non precedute
da specifica istruttoria e non modificabili se non attraverso un nuovo iter
legislativo». Risulta, infatti, coerente con i vincoli paesaggistici posti
dalla legislazione statale procedere mediante gli strumenti propri della
pianificazione amministrativa, sia essa assimilabile alla pianificazione
strettamente paesaggistica o a quella urbanistico-territoriale (art. 135, cod.
beni culturali), volti a coordinare le attività sul territorio secondo criteri
descrittivi, prescrittivi e propositivi fra loro coerenti.
Non è un caso, peraltro, che l’art. 145, comma 2, cod. beni
culturali, stabilisca che [i] piani paesaggistici possono prevedere misure di
coordinamento con gli strumenti di pianificazione territoriale […]». Tale
generale previsione ha trovato specificazione, nella Regione Veneto, con la
variante al piano territoriale di coordinamento, approvata dalla Giunta
regionale nel 2013, la quale affida al (mai adottato) piano regionale delle
attività di cava il compito di conciliare la «promozione e la valorizzazione
del patrimonio minerario», con le «esigenze della programmazione economica e di
tutela del territorio, dell’ambiente» (allegato B4 della deliberazione della
Giunta della Regione Veneto 10 aprile 2013, n. 427).
La mancata adozione del piano sulle attività di cava –
nonostante i diversi tentativi di approvazione portati avanti dalla Giunta, da
ultimo con la deliberazione 4 novembre del 2013, n. 2015 –, individuato come
strumento di pianificazione dallo stesso legislatore regionale (art. 7, della
legge reg. Veneto, n. 44 del 1982), impedisce una modulazione dell’ampliamento
delle attività di cava coerente con la necessità di mantenere inalterati gli
standard di tutela paesaggistico-ambientale.
La Regione è intervenuta con legge laddove avrebbe dovuto
operare con atti di pianificazione, da adottarsi a seguito di un’adeguata
istruttoria e di un giusto procedimento, aperto al coinvolgimento degli enti
territoriali e dei soggetti privati interessati e preordinato alla valutazione
e alla sintesi delle plurime istanze coinvolte (statali, locali, private). Come
questa Corte ha già affermato, peraltro in relazione all’adozione di un piano
paesistico, al legislatore spetta, di regola, «enunciare delle ipotesi
astratte, predisponendo un procedimento amministrativo attraverso il quale gli
organi competenti provvedano […] dopo avere fatto gli opportuni accertamenti,
con la collaborazione, ove occorra, di altri organi pubblici, e dopo avere
messo i privati interessati in condizioni di esporre le proprie ragioni sia a
tutela del proprio interesse, sia a titolo di collaborazione nell’interesse
pubblico» (sentenza
n. 13 del 1962; più recentemente, nello stesso senso, sentenze n. 71 del
2015 e n.
143 del 1989).
È all’esito del procedimento, infatti, che
l’amministrazione realizza la ponderazione degli interessi emersi nella
sequenza procedimentale, in vista del perseguimento del primario interesse
pubblico, in coerenza con il principio di imparzialità dell’azione
amministrativa di cui all’art. 97, secondo comma, Cost.
L’assenza di una generale pianificazione dell’attività di
cava non può essere surrogata dalla sottoposizione alla procedura di
valutazione di impatto ambientale degli interventi in ampliamento, come pure
previsto dal comma 9 dell’art. 95, della legge reg. Veneto n. 30 del 2016, e
come sostenuto, a difesa della legge impugnata, dalla Regione resistente. Il
provvedimento autorizzatorio, emesso a seguito di valutazione di impatto
ambientale, ha una portata specifica, valevole per il singolo intervento
localmente situato e di portata necessariamente circoscritta, non in grado,
quindi, di tenere in considerazione l’assetto complessivo e l’equilibrio
generale del territorio, che solo l’attività di pianificazione è in condizione
di assicurare.
7.5.– Tali considerazioni sono ancora più pregnanti se si
tiene conto che l’ampliamento riguarda solo alcune zone del territorio regionale,
corrispondenti alle Province di Verona e Vicenza, e si allontana da alcuni
limiti previsti dalla proposta del piano regionale delle attività di cava
adottata dalla Giunta (relativi in particolare, al volume residuo da estrarre,
non superiore al 15 per cento, alla profondità massima di cava, alle distanze
con la falda e a determinate zone commerciali, industriali o ad urbanizzazione
diffusa).
Inoltre, detto ampliamento si discosta da alcune
previgenti disposizioni legislative introdotte nell’ordinamento regionale per
assicurare l’integrità paesaggistica del territorio. Come stabilisce
espressamente il comma 8 dell’art. 95, della legge reg. Veneto n. 30 del 2016,
la norma impugnata deroga, per le cave di ghiaia, non solo al limite di
utilizzo del 3 per cento del territorio agricolo comunale di cui all’art. 34,
comma 2, della legge della Regione Veneto 28 gennaio 2000, n. 5, recante
«Provvedimento generale di rifinanziamento e di modifica di leggi regionali per
la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione (legge
finanziaria 2000)», ma, per le cave situate nel territorio di alcuni Comuni,
anche alle soglie quantitative massime del 30 per cento oltre al volume già
autorizzato (Comuni elencati all’allegato B della legge reg. Veneto n. 44 del
1982). Il menzionato comma 8, dell’art. 95 della censurata legge regionale,
deroga altresì ai limiti (art. 44, comma 1, lettera d, della legge reg. Veneto
n. 44 del 1982), di distanza minima dalle zone cosiddette omogenee di cui al
decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444 (Limiti
inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e
rapporti massimi tra gli spazi destinati agli insediamenti residenziali e
produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde
pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi
strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell’art.
17 della L. 6 agosto 1967, n. 765).
Spetta senz’altro alla discrezionalità politica del
legislatore regionale stabilire (o aggiornare) la disciplina delle attività
estrattive nel territorio regionale; non è tuttavia costituzionalmente
legittimo che, posta una disciplina legislativa generale in una materia
strettamente legata a competenze esclusive dello Stato, la Regione intervenga
con una legge di contenuto particolare, rendendo così inoperanti le garanzie
proprie del procedimento amministrativo, strumentali, nel caso di specie,
all’inveramento dei valori paesaggistici e ambientali interessati dall’attività
di cava.
Restano assorbite le censure proposte in riferimento agli
artt. 3, 41 e 117, secondo comma, lettera e), Cost.
per questi motivi
LA CORTE
COSTITUZIONALE
riservata a separate pronunce la decisione delle altre
questioni di legittimità costituzionale promosse con il ricorso indicato in
epigrafe;
1) dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art. 63, comma 7, della legge della Regione
Veneto 30 dicembre 2016, n. 30 (Collegato alla legge di stabilità regionale
2017);
2) dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art. 68, comma 1, della legge reg. Veneto
n. 30 del 2016;
3) dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art. 95, comma 4, della legge reg. Veneto
n. 30 del 2016;
4) dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art. 95, comma 5, della legge della reg.
Veneto n. 30 del 2016;
5) dichiara non
fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 95, comma 2, della
legge reg. Veneto n. 30 del 2016, promossa, in riferimento all’art. 117,
secondo comma, lettera s), della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei
ministri, con il ricorso indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 febbraio 2018.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Augusto Antonio BARBERA, Redattore
Filomena PERRONE, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 30 marzo 2018.