SENTENZA N. 67
ANNO 2010
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Francesco AMIRANTE Presidente
- Ugo DE SIERVO Giudice
- Paolo MADDALENA ''
- Alfio FINOCCHIARO ''
- Franco GALLO ''
- Luigi MAZZELLA ''
- Gaetano SILVESTRI ''
- Sabino CASSESE ''
- Maria Rita SAULLE ''
- Giuseppe TESAURO ''
- Paolo Maria NAPOLITANO ''
- Giuseppe FRIGO ''
- Alessandro CRISCUOLO ''
- Paolo GROSSI ''
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 3, comma 2, della delibera legislativa della Regione Siciliana approvata dall’Assemblea regionale nella seduta del 25 novembre 2008 (disegno di legge n. 133, recante «Norme sulla proroga delle autorizzazioni all’esercizio di cava e sull’aggiornamento del piano regionale dei materiali da cava e del piano regionale dei materiali lapidei di pregio»), e della legge della Regione Campania 6 novembre 2008, n. 14 (Norma urgente in materia di prosecuzione delle attività estrattive), promossi dal Commissario dello Stato per la Regione Siciliana e dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorsi notificati rispettivamente il 1° dicembre 2008 ed il 7 gennaio 2009, depositati in cancelleria il 9 dicembre 2008 ed il 15 gennaio 2009 ed iscritti al n. 94 del registro ricorsi 2008 ed al n. 3 del registro ricorsi 2009.
Visti gli atti di costituzione della Regione Siciliana e della Regione Campania;
udito nell’udienza pubblica del 2 dicembre 2009 il Giudice relatore Paolo Grossi;
uditi gli avvocati dello Stato Maria Gabriella Mangia e Pierluigi Di Palma per il Commissario dello Stato per la Regione Siciliana e per il Presidente del Consiglio dei ministri, e gli avvocati Beatrice Fiandaca per la Regione Siciliana e Francesco Vetro per la Regione Campania.
Ritenuto in fatto
1. – Con ricorso notificato il 1° dicembre 2008 e depositato il 9 dicembre 2008, il Commissario dello Stato per la Regione Siciliana, ha impugnato gli artt. 1 e 3, comma 2, della delibera legislativa della Regione Siciliana approvata dall’Assemblea regionale nella seduta del 25 novembre 2008 (disegno di legge n. 133, recante «Norme sulla proroga delle autorizzazioni all’esercizio di cava e sull’aggiornamento del piano regionale dei materiali da cava e del piano regionale dei materiali lapidei di pregio»), deducendo il contrasto, quanto all’art. 1, con gli artt. 9, 11, 97 e 117, primo e secondo comma, lettere e) ed s), della Costituzione, nonché con l’art. 14 dello statuto speciale, e, quanto all’art. 3, comma 2, con l’art. 97 della Costituzione.
L’organo ricorrente, dopo aver riprodotto il testo dell’art. 1 della delibera legislativa impugnata, rileva che tale disposizione stabilisce che, in caso di mancato completamento del programma di coltivazione autorizzato, le autorizzazioni all’esercizio di cava già rilasciate siano tutte indistintamente «prorogate di diritto» senza alcuna condizione, per termini di durata variabili, sino al completamento del programma medesimo, a prescindere dalla estensione delle aree interessate e dell’eventuale regime vincolistico esistente sulle aree medesime. Posto che tale disposizione costituisce una sostanziale deroga alla normativa di attuazione della direttiva 27 giugno 1985 85/337/CEE, e successive modificazioni, concernente la valutazione di impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati – normativa di attuazione dettata dal legislatore siciliano con l’art. 91 della legge regionale 3 maggio 2001, n. 6 – si verrebbe a delineare un contrasto con la direttiva medesima. Rammentati gli obiettivi di tutela ambientale perseguiti dalla direttiva comunitaria, il ricorrente ha sottolineato come la stessa stabilisca, per i progetti riguardanti le cave, l’assoggettamento obbligatorio a valutazione di impatto ambientale (VIA) per i progetti relativi a «cave e attività minerarie a cielo aperto con superficie del sito superiore a 25 ettari», nonché la sottoposizione a verifica, al fine di procedere o meno a VIA, per i progetti riguardanti «cave, attività minerarie a cielo aperto e torbiere», diverse da quelle di cui al precedente punto. Per quest’ultima ipotesi, la giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee ha chiarito che non è consentito agli Stati membri «dispensare a priori e globalmente dalle procedure di VIA determinate classi di progetti, elencati nell’allegato II della Direttiva 85/337/CEE, ovvero sottrarre alla suddetta procedura uno specifico progetto in forza di un atto legislativo nazionale o sulla base di un esame in concreto del progetto»; mentre la giurisprudenza nazionale ha affermato l’obbligo di assoggettare a VIA i progetti – previsti nell’allegato della citata direttiva – che «siano capaci di provocare impatti rilevanti sull’ambiente». Infine, la stessa Corte di giustizia ha chiarito che gli Stati membri – in ordine ai progetti di cui all’allegato II alla direttiva – possono fissare criteri o soglie, che però «non hanno lo scopo di sottrarre anticipatamente all’obbligo di valutazione talune classi complete di progetti [...] ma mirano unicamente ad agevolare la valutazione delle caratteristiche complete di un progetto al fine di stabilire se sia soggetto al detto obbligo».
La disposizione censurata, pertanto, sottrarrebbe «di fatto ed a priori» le autorizzazioni scadute o prossime alla scadenza dalle procedure cui sarebbero soggette per il rinnovo, «con conseguente valutazione degli interessi pubblici coinvolti e verifica preventiva delle situazioni vincolistiche e di assetto territoriale dei luoghi, eventualmente sopravvenute nel periodo di vigenza del provvedimento autorizzatorio originario». Infatti, dai chiarimenti forniti dalla amministrazione regionale, è emerso che avrebbero diritto alla proroga per la prosecuzione della attività estrattiva nel periodo 2008-2010, 68 attività di cave, pari al 12% di quelle in esercizio, di cui alcune di grandi dimensioni e ricadenti in aree protette (siti di importanza comunitaria e zone di protezione speciale), ed altre mai sottoposte a VIA o a verifica, in quanto antecedenti alla entrata in vigore della disciplina relativa.
Il ricorrente, dopo aver rammentato i princìpi affermati da questa Corte nella sentenza n. 273 del 1998 in tema di unitarietà dei criteri di apprezzamento dell’impatto ambientale, ha osservato che disposizioni che determinassero modifiche, non a livello nazionale, dei livelli di sicurezza, determinerebbero alterazioni sotto il profilo della concorrenza, penalizzando le imprese che operino in Regioni la cui disciplina fosse più rigorosa. Il che porrebbe la delibera legislativa in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione.
La proroga del termine di una autorizzazione, determinando la vanificazione dei controlli alla scadenza – indispensabili per la verifica degli eventuali mutamenti subiti dalle situazioni di fatto e di diritto – comporterebbe, dunque, una modifica sostanziale del relativo regime, che, per la direttiva comunitaria, così come interpretata dalla giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee, equivale a nuova autorizzazione, da sottoporre alle procedure previste per la medesima (VIA o verifica di VIA, a seconda dei casi).
Sarebbe, dunque, violato l’art. 9 Cost., perché la disciplina censurata non assicurerebbe la dovuta tutela dell’ambiente, vanificando sostanzialmente la possibilità di verificare la eventuale compromissione del territorio in dipendenza della attività estrattiva ed eccedendo dai limiti della competenza statutaria in materia di cave e torbiere, attraverso la introduzione di una implicita deroga alla procedura di VIA e di verifica di VIA, in dissonanza con quanto prescritto dagli artt. 23 e 32 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale).
Sarebbe violato anche l’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, in quanto, malgrado la Regione Siciliana goda di competenza esclusiva sotto il profilo urbanistico, della tutela del paesaggio e delle cave e miniere, senza che risulti statutariamente prevista la tutela dell’ambiente, la disciplina censurata, investendo non solo la complessiva tutela dell’ambiente, ma anche il rispetto della normativa comunitaria e la tutela del principio della libera concorrenza, si porrebbe in contrasto con l’indicato parametro nella parte in cui riserva allo Stato la individuazione degli standard minimi ed uniformi di tutela.
La normativa censurata violerebbe anche l’art. 97 Cost., in quanto la stessa impedisce agli organi amministrativi di procedere ad una ponderazione dei diversi interessi coinvolti, privilegiando la tutela di quelli economici dell’imprenditore, il quale potrebbe non aver completato il programma di coltivazione delle cave anche per negligenza e disinteresse.
Anche l’art. 3, comma 2, della delibera legislativa impugnata si porrebbe in contrasto con l’art. 97 Cost. La disposizione in questione, infatti, comporterebbe il venir meno della sanzione della esclusione per un periodo di dieci anni dalla possibilità di ottenere l’autorizzazione alla attività di estrazione per coloro i quali abbiano svolto attività di escavazioni non autorizzate, qualora ciò sia avvenuto per uno «sconfinamento accidentale» rispetto al progetto autorizzato, salvi i casi di recidiva. La estrema genericità della fattispecie esimente la renderebbe applicabile, a prescindere dal danno ambientale arrecato, anche in casi di sconfinamento colposo ed ampio dal giacimento autorizzato, per di più ingenerando dubbi e disparità applicative.
2. – La Regione Siciliana si è costituita depositando memoria nella quale ha chiesto dichiararsi inammissibile o comunque infondato il ricorso. Nel premettere la assoluta inconferenza del richiamo all’art. 11 Cost., indicato nelle conclusioni del ricorso, la Regione osserva che l’art. 1 della delibera legislativa impugnata «si pone come norma eccezionale, di efficacia temporale limitata, al fine di scongiurare il fermo delle attività estrattive che si verrebbe a determinare con lo scadere, a breve termine, delle autorizzazioni già rilasciate». Come infatti emerge dai dati forniti al Commissario dello Stato, la proroga prevista potrebbe avere, al massimo, una durata oscillante tra uno e tre anni e consentirebbe la prosecuzione dei programmi di coltivazione già autorizzati e non completati entro il termine di validità della autorizzazione originaria. Sempre dai dati forniti, emerge, poi, che circa il 10% delle cave sono in esaurimento e che soltanto due di esse sembra superino la soglia di estensione prevista (20 ettari) dalla normativa per l’assoggettamento alla VIA obbligatoria, mentre per le altre vi è solo la possibilità di essere sottoposte a verifica. Infine, la proroga riguarderebbe solo i casi in cui sia stato estratto il 60% del volume assentito, riducendosi così ulteriormente la portata della proroga. La disposizione, poi, che disciplina l’abbandono in sicurezza delle cave dismesse (art. 1, comma 1, secondo periodo), non violerebbe i parametri indicati, mirando ad assicurare la stabilità del territorio e la sicurezza delle persone, in via parallela e non sostitutiva del recupero ambientale delle cave dismesse, già dettagliatamente disciplinate dalla normativa regionale.
Ugualmente infondata sarebbe anche – ad avviso della difesa regionale – la censura riguardante l’art. 3, comma 2, della delibera legislativa impugnata, giacché il legislatore regionale, nell’ambito della propria discrezionalità, avrebbe inteso mitigare – in applicazione del principio di proporzionalità – la portata della sanzione prevista per il caso di esercizio non autorizzato della attività di escavazione, limitandone l’applicazione ai soli casi di recidiva.
3. – Con ricorso notificato il 7 gennaio 2009 e depositato il 15 gennaio 2009, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, ha sollecitato la declaratoria di illegittimità costituzionale, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, della legge della Regione Campania 6 novembre 2008, n. 14, pubblicata nel Bollettino Ufficiale della Regione n. 45 del 10 novembre 2008, recante «Norma urgente in materia di prosecuzione delle attività estrattive».
La legge, che consta di soli due articoli, prevede, all’art. 1, comma 1, che, nelle more della completa attuazione del Piano regionale delle attività estrattive, gli esercizi di cava, a qualunque titolo autorizzati ai sensi della legge regionale 13 dicembre 1985, n. 54, e successive modificazioni ed integrazioni, e per i quali sia già intervenuta o intervenga la scadenza delle autorizzazioni fino al 30 giugno 2010, possano proseguire l’attività sino a tale data, a condizione di non aver completato il progetto estrattivo. A tal fine, la legge prevede – come sottolinea il ricorso – che i titolari presentino, entro novanta giorni dalla pubblicazione della legge medesima, una istanza al competente ufficio regionale che emette una nuova autorizzazione alla prosecuzione della attività estrattiva ed alla ricomposizione ambientale finale, sulla base di un accertamento volto a verificare soltanto il deposito cauzionale ed il versamento dei contributi dovuti ai sensi della legge regionale 30 gennaio 2008, n. 1.
Il successivo comma 3 dello stesso articolo dispone – per le autorizzazioni scadute, il cui progetto estrattivo sia stato già esaurito – che la nuova autorizzazione possa prevedere soltanto la c.d. “ricomposizione ambientale”, da effettuarsi entro lo stesso termine del 30 giugno 2010: “ricomposizione ambientale”, puntualizza il ricorso, che si risolve comunque in una ulteriore attività di estrazione dei materiali al fine di rimodellare i profili di scavo per renderli idonei a successivi interventi di restauro ambientale.
Con tali disposizioni, dunque, la legge regionale permetterebbe che le autorizzazioni scadute o in scadenza, prima della data del 30 giugno 2010, vengano rinnovate “di diritto”, senza alcuna condizione, verifica o procedura di natura ambientale, sottraendo, pertanto, tali progetti alle procedure relative alla valutazione di impatto ambientale (VIA), in contrasto con le disposizioni degli artt. da 20 a 28 e degli Allegati III, lettera s), e IV, par. 8, lettera i), del d.lgs. n. 152 del 2006, e successive modificazioni ed integrazioni. Puntualizza al riguardo il ricorso che la normativa statale vigente ammette quel tipo di rinnovo solo per quei progetti che siano già stati sottoposti alla procedura di VIA o alla procedura di verifica di assoggettabilità a VIA entro gli ultimi cinque anni (termine stabilito a pena di decadenza dall’art. 26, comma 6, del d. lgs. n. 152 del 2006, come modificato dal d. lgs. n. 4 del 2008), mentre lo esclude per quei progetti che, in precedenza, non siano mai stati sottoposti a procedura di VIA o di verifica di assoggettabilità a VIA. Poiché, quindi, il limite temporale di una autorizzazione ne costituisce essenza fondamentale, presupponendosi che alla sua scadenza l’amministrazione possa effettuare le verifiche in ordine al permanere dei presupposti di fatto e di diritto ed adottare le conseguenti determinazioni, in termini prescrittivi o interdittivi, ne deriva che qualsiasi mutamento in ordine al termine della autorizzazione costituisce una evidente modifica della “sostanza” della autorizzazione medesima, che deve essere considerata – alla stregua della giurisprudenza della Corte di giustizia europea – come una vera e propria nuova autorizzazione, con la conseguenza di dover essere assoggettata alle procedure in materia di VIA, «stabilite dalla direttiva 85/337/CEE All. I, p. 22, ed All. II, p. 13, primo trattino». Conclusioni, queste, cui è pervenuta anche la giurisprudenza del Consiglio di Stato. Quanto, poi, alla individuazione del momento a partire dal quale le attività estrattive devono ritenersi assoggettate alla procedura in tema di VIA, tale momento coincide con il 3 luglio 1988, data di entrata in applicazione della citata direttiva comunitaria in materia di VIA.
In conclusione, la normativa regionale censurata mancherebbe – ad avviso del ricorrente – «della necessaria previsione che la verifica ovvero la procedura VIA, non effettuata in sede di prima autorizzazione, debba obbligatoriamente precedere il rinnovo della prima autorizzazione successiva all’entrata in vigore della normativa VIA», derivandone, di conseguenza, il contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione.
4. – La Regione Campania si è costituita depositando memoria nella quale chiede respingersi il ricorso in quanto infondato. Osserva, infatti, la Regione che la legittimità della normativa impugnata è garantita dal comma 2 dell’art. 1, nel quale viene richiamata espressamente la necessità della osservanza della normativa vigente, con la conseguenza che la prosecuzione della attività estrattiva non potrebbe avvenire in contrasto con la normativa comunitaria e nazionale in tema di VIA. Si conclude dunque nel senso che la proroga («resa necessaria a cagione della non ancora completata attuazione del Piano regionale delle attività estrattive» e «limitata nel tempo»), da assentire con apposito provvedimento, non potrebbe derogare alle disposizioni in tema di VIA dovendosi porre in linea con le disposizioni di tutela ambientale, come emergerebbe da quanto stabilito nei commi 4 e 5 del medesimo art. 1.
5. – In prossimità dell’udienza, la Regione Campania ha depositato una memoria con la quale, insistendo per il rigetto del ricorso, ha precisato le ragioni e gli argomenti esposti nell’atto di costituzione.
In particolare, la Regione ha evidenziato che la disciplina “transitoria” in questione si è «resa necessaria, nelle more della attuazione del Piano regionale delle attività estrattive, al fine di evitare un ingiusto pregiudizio alle imprese del settore, le quali, in mancanza dello strumento di programmazione, non potrebbero acquisire nuove autorizzazioni e si vedrebbero costrette ad interrompere l’attività». Subordinando «la possibilità di proroga delle autorizzazioni» a «stringenti condizioni», la normativa impugnata non determinerebbe – come sostenuto dall’Avvocatura – una proroga ope legis, ma lascerebbe quest’ultima «soggetta ad una valutazione dell’Amministrazione a seguito di apposita istanza presentata dall’interessato». Nel consentire la proroga di autorizzazioni già «sottoposte ab origine ad una verifica di compatibilità», l’amministrazione «non potrebbe, in sede di rilascio di una – a tutti gli effetti – nuova (seppur provvisoria) autorizzazione omettere di considerare» gli elementi che la stessa legge impugnata espressamente richiama e, tra questi, anche la «normativa vigente»: sarebbero, perciò, «prive di fondamento» le censure mosse «in ordine all’automatismo della proroga ed all’elusione della scadenza del termine di autorizzazione».
L’intervento normativo in materia rientrerebbe, peraltro, «a pieno titolo nell’ambito delle competenze legislative ed amministrative di spettanza regionale», al pari di «quello previsto dall’art. 5 della l.r. 13 dicembre 1985, n. 54, come sostituito dall’articolo 4 della l.r. n. 17 del 13 aprile 1995 in materia di autorizzazione alla coltivazione di cave», nonché dall’art. 9 della stessa legge, come modificato dall’art. 8 della l.r. n. 17 del 1995, in materia di ricomposizione ambientale.
«Ulteriormente infondato» risulterebbe, poi, nell’«interpretazione costituzionalmente conforme», «il preteso contrasto con la disciplina in materia ambientale nazionale», «per contro nemmeno indicata nella normativa in esame», non essendo questo «l’oggetto della normazione». Limitandosi a «dettare una disciplina transitoria» su «materie di competenza regionale», la legge impugnata nulla, infatti, avrebbe previsto «in difformità alla disciplina di competenza statale con riguardo ai profili ambientali dell’attività d’impresa relativa alla coltivazione delle cave», come «nel secondo comma dell’art. 1 si ha cura di specificare».
«Nessuna deroga» sarebbe, in particolare, prevista alla VIA, «nei limiti in cui questa si renda necessaria o sia imposta dalla relativa disciplina statale», considerato che «oggetto della norma sono autorizzazioni scadute, che nella gran parte dei casi hanno già superato la valutazione di impatto ambientale»: nelle ipotesi «in cui il progetto di sfruttamento della cava (ed anche di ripristino ambientale) sia già stato sottoposto a valutazione di impatto ambientale», la proroga «non entrerà in contrasto con la normativa in materia di VIA». Ove, invece, «si renda necessario, il rilascio dell’autorizzazione (tenendo conto dei termini e della possibilità di proroga prevista dall’art. 26, comma 6, del d.lgs n. 152 del 2006) non potrà prescindere dall’acquisizione della VIA che, oltretutto, ai sensi dell’art. 7, comma 4 (All.ti III e IV) del d.lgs. n. 152 del 2006, è nella gran parte dei casi una VIA regionale».
Considerato in diritto
1. – Il Commissario dello Stato per la Regione Siciliana ha impugnato gli articoli 1 e 3, comma 2, della delibera legislativa della Regione Siciliana, approvata dalla Assemblea regionale nella seduta del 25 novembre 2008, recante «Norme sulla proroga delle autorizzazioni all’esercizio di cava e sull’aggiornamento del piano regionale dei materiali da cava e del piano regionale dei materiali lapidei di pregio», prospettando il contrasto, quanto all’art. 1, con gli articoli 9, 11, 97 e 117, primo e secondo comma, lettere e) ed s), della Costituzione, nonché con l’art. 14 dello statuto della Regione Siciliana, e, quanto all’art. 3, comma 2, con l’art. 97 della medesima Carta.
Sottolinea al riguardo il ricorrente che l’art. 1 della delibera legislativa impugnata prevede che, ove non sia stato completato il programma di coltivazione autorizzato, le autorizzazioni già rilasciate siano tutte indistintamente “prorogate di diritto” senza alcuna condizione e con termini di durata variabili, a prescindere dalla estensione delle aree interessate e dall’eventuale regime vincolistico degli ambiti territoriali in cui le stesse ricadano. Tale disciplina – soggiunge il ricorrente – introduce, nella sostanza, una previsione derogatoria rispetto alla normativa dettata dal legislatore regionale siciliano con l’art. 91 della legge regionale 3 maggio 2001, n. 6 (Disposizioni programmatiche e finanziarie per l’anno 2001), volta a dare attuazione alla direttiva 27 giugno 1985 85/337/CEE, e successive modificazioni, concernente la valutazione di impatto ambientale (VIA) di determinati progetti pubblici e privati, con correlativa violazione della direttiva medesima. La disposizione censurata, infatti, nello stabilire un meccanismo di “proroga di diritto”, vanificherebbe la possibilità di sottoporre le autorizzazioni scadute o prossime alla scadenza alle verifiche inerenti alle procedure di rinnovo, impedendo, quindi, alla amministrazione, di procedere alla «valutazione degli interessi pubblici coinvolti» e di operare una «verifica preventiva delle situazioni vincolistiche e di assetto territoriale dei luoghi, eventualmente sopravvenute nel periodo di vigenza del provvedimento autorizzatorio originario». I progetti di cave, le cui autorizzazioni sarebbero “prorogate di diritto”, potrebbero, infatti, «essere stati approvati, nel rispetto della normativa all’epoca vigente e alle preesistenti situazioni di ordine ambientale, senza preventiva procedura di VIA o di verifica di impatto ambientale, nonché alla valutazione di compatibilità paesaggistica prevista dall’art. 146 del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, come sostituito dall’art. 16 del d.lgs. 24 marzo 2006, n. 157».
Risulterebbe pertanto violato l’art. 9 della Costituzione, in quanto attraverso la previsione oggetto di impugnativa non verrebbe assicurata la dovuta tutela dell’ambiente, dal momento che la disciplina censurata esclude sostanzialmente la possibilità di verificare l’eventuale compromissione del territorio derivante dalla prosecuzione di diritto della attività estrattiva, consentendosi, addirittura, «l’attività all’interno di giacimenti minerari dismessi, nel dichiarato intento di assicurare l’abbandono in sicurezza, ancorché già non rilasciati in “sicurezza”, sulla base di una richiesta del privato corredata da perizia asseverata da tecnico abilitato». La delibera legislativa impugnata si porrebbe poi in contrasto anche con l’art. 11 della Costituzione, per violazione delle direttive comunitarie in tema di valutazione di impatto ambientale, posto che l’intera gamma delle autorizzazioni scadute o prossime alla scadenza viene sottratta al controllo sulla sussistenza o sul permanere dei relativi presupposti di fatto e di diritto, anche in tema ambientale e di rispetto del regime vincolistico.
L’art. 1 della medesima delibera legislativa violerebbe anche l’art. 97 della Costituzione, in quanto, attraverso il denunciato meccanismo di proroga di diritto, si impedirebbe «agli organi amministrativi competenti di svolgere una adeguata istruttoria e di procedere alla ponderazione dei diversi interessi coesistenti, privilegiando invece la tutela di quelli economici del privato imprenditore, che peraltro potrebbe non avere completato il programma di coltivazione delle cave anche per propria negligenza e disinteresse».
In considerazione, poi, della sostanziale elusione delle direttive comunitarie e della disciplina statale in tema di valutazione di impatto ambientale che deriverebbe dal meccanismo normativo oggetto di impugnativa, si profilerebbe un contrasto anche con l’art. 117, primo e secondo comma, lettera s), della Costituzione, considerato che il legislatore regionale siciliano «nell’esercizio della propria competenza legislativa esclusiva è sottoposto al rispetto degli standard minimi ed uniformi di tutela posti in essere dalla legislazione nazionale ex art. 117, comma 2, lettera s), della Costituzione, oltre che al rispetto della normativa comunitaria di riferimento, secondo quanto previsto dall’art. 117, comma 1, della Costituzione». Inoltre, verrebbe ad essere correlativamente coinvolto anche l’art. 117, secondo comma, lettera e), della stessa Carta, in quanto la disposizione censurata, al pari di quelle che «realizzano effetti innovativi sui livelli di sicurezza, che dovrebbero essere identici nell’intero territorio nazionale, potrebbe nei fatti realizzare alterazioni sotto il profilo della concorrenza in danno di quelle imprese che si trovano ad operare in regioni la cui disciplina più gravosa costringe ad affrontare oneri maggiori».
Risulterebbe infine violato anche l’art. 14 dello statuto della Regione Siciliana, il quale prevede la competenza legislativa esclusiva in materia di miniere, cave, torbiere e saline, in quanto verrebbe ad essere in concreto introdotta una «implicita deroga alla procedura di VIA e di verifica VIA, in palese dissonanza con quanto prescritto dagli artt. 23 e 32 del decreto legislativo 152/2006».
Il Commissario dello Stato per la Regione Siciliana impugna, inoltre, l’art. 3, comma 2, della medesima delibera legislativa, il quale stabilisce il venir meno della sanzione della esclusione per un periodo di dieci anni dalla possibilità di ottenere l’autorizzazione all’attività estrattiva per coloro che abbiano svolto attività di escavazione non autorizzate, qualora ciò sia avvenuto per uno “sconfinamento accidentale” rispetto al programma autorizzato, salvo i casi di recidiva. A parere del ricorrente, infatti, tale disposizione si porrebbe in contrasto con l’art. 97 della Costituzione, in quanto la estrema genericità della fattispecie esimente la renderebbe applicabile, a prescindere dal danno ambientale arrecato, anche in casi di sconfinamento colposo ed ampio del giacimento autorizzato, per di più ingenerando dubbi e disparità applicative.
2. – Il Presidente del Consiglio dei ministri ha sollecitato la declaratoria di illegittimità costituzionale, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, della legge della Regione Campania 6 novembre 2008, n. 14, pubblicata nel Bollettino Ufficiale della Regione n. 45 del 10 novembre 2008, recante «Norma urgente in materia di prosecuzione delle attività estrattive». Il provvedimento legislativo di che trattasi, che si compone di due soli articoli, prevede (art. 1, comma 1) che «Nelle more della completa attuazione del Piano regionale delle attività estrattive (PRAE), gli esercizi di cava a qualunque titolo regolarmente autorizzati ai sensi della legge regionale 13 dicembre 1985, n. 54, e successive modifiche, e per i quali sia intervenuto o interviene il termine di scadenza delle autorizzazioni prima del 30 giugno 2010, possono proseguire l’attività fino al 30 giugno 2010, a condizione di non aver completato il progetto estrattivo». Entro tale scadenza deve essere completata anche la ricomposizione ambientale. Stabilisce, poi, il comma 3 del medesimo art. 1, che «I titolari delle autorizzazioni già scadute ai sensi del comma 1, entro e non oltre novanta giorni dalla pubblicazione della presente legge, presentano istanza al competente ufficio regionale delegato che emette il nuovo provvedimento di autorizzazione alla prosecuzione e ricomposizione ambientale, previa verifica di regolarità del deposito cauzionale ed accertamento del versamento di tutti i contributi richiamati dall’art. 19 della legge regionale 30 gennaio 2008, n. 1. Per le autorizzazioni scadute, che hanno già esaurito il progetto estrattivo, la nuova autorizzazione può prevedere solo la ricomposizione ambientale da effettuarsi entro il termine del 30 giugno 2010».
Ad avviso del ricorrente, la disposizione legislativa in questione si porrebbe in contrasto con l’indicato parametro di costituzionalità, in quanto la stessa difetterebbe della necessaria previsione che la verifica inerente alla procedura relativa alla valutazione di impatto ambientale, «non effettuata in sede di prima autorizzazione, debba obbligatoriamente precedere il rinnovo della prima autorizzazione successiva all’entrata in vigore della normativa VIA». Non senza sottolineare come anche la «ricomposizione ambientale» non possa sottrarsi alle stesse esigenze, risolvendosi la stessa «comunque in una ulteriore attività di estrazione di materiali al fine di rimodellare i profili di escavo per renderli idonei a successivi interventi di restauro ambientale».
3. – Coinvolgendo temi e problematiche consimili e presentando aspetti di connessione che ne consigliano la trattazione congiunta, i giudizi vanno riuniti per essere decisi con un’unica sentenza.
4. – Le questioni sono entrambe fondate. Va premesso che, alla stregua della giurisprudenza di questa Corte, la materia nella quale devono essere collocate le discipline relative alla valutazione di impatto ambientale riguarda la tutela dell’ambiente (non espressamente prevista dallo statuto regionale) e rientra, perciò, nell’ambito della previsione di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, «trattandosi di procedure che valutano in concreto e preventivamente la “sostenibilità ambientale”» (da ultimo, le sentenze n. 225 e n. 234 del 2009, nonché la sentenza n. 1 del 2010, anche a proposito di concorso di competenze sullo stesso bene tra Stato e Regioni). L’asserita violazione di tale parametro deve, peraltro, essere esaminata innanzi tutto rispetto alla coesistente presunta violazione dell’art. 117, primo comma, della Costituzione (ex multis, la sentenza n. 368 del 2008), prospettata, nella specie, in riferimento al dedotto contrasto con le direttive comunitarie in materia di VIA, a partire dalla direttiva 85/337/CEE e successive modificazioni ed integrazioni. Occorrerà, dunque, preliminarmente verificare se i provvedimenti legislativi oggetto di impugnativa si pongano o meno in linea con il precetto costituzionale che assegna alla legislazione esclusiva dello Stato la materia della tutela dell’ambiente.
Va altresì ricordato, al riguardo, che la disciplina statale relativa alla tutela dell’ambiente «viene a funzionare come un limite alla disciplina che le Regioni e le Province autonome dettano in altre materie di loro competenza», salva la facoltà di queste ultime di adottare norme di tutela ambientale più elevata nell’esercizio di competenze, previste dalla Costituzione, che concorrano con quella dell’ambiente (sentenza n. 104 del 2008, con rinvio alla sentenza n. 378 del 2007).
5. – A proposito del ricorso proposto dal Commissario dello Stato per la Regione Siciliana, può subito osservarsi come il nucleo delle censure dedotte ruoti attorno ad un rilievo senz’altro corretto. Attraverso la previsione, infatti, di un meccanismo legale che si limita, nella sostanza, ad introdurre una “proroga di diritto” per le autorizzazioni all’esercizio di cave rilasciate dal Distretto minerario, la delibera legislativa impugnata si sostituisce al provvedimento amministrativo di rinnovo, eludendo, quindi, non soltanto l’osservanza della relativa procedura già normativamente prevista, ma anche – e soprattutto – le garanzie sostanziali che quel procedimento mira ad assicurare, nel rispetto degli ambiti di competenza legislativa stabiliti dalla Costituzione (sul punto, la sentenza n. 271 del 2008). Garanzie che, nella specie, riposano, appunto, sulla necessità di verificare se l’attività estrattiva a suo tempo assentita risulti ancora aderente allo stato di fatto e di diritto esistente al momento della “proroga” o del “rinnovo” del provvedimento di autorizzazione.
È ben vero che la Regione Siciliana, nella relazione che accompagna l’originario disegno di legge, insistentemente evoca la non vulnerazione delle direttive CEE in tema di VIA, facendo leva sul rilievo che «i progetti in corso di esecuzione sono sottoposti alla disciplina della direttiva soltanto ove essi siano modificati o ampliati», mentre tale questione non si porrebbe affatto «per le mere proroghe di progetti in precedenza autorizzati». Il che consente alla stessa Regione di affermare che anche la disciplina dettata nella legge regionale 5 luglio 2004, n. 10 (Interventi urgenti per il settore lapideo e disposizioni per il riequilibrio del prezzo della benzina nelle isole minori), ove per i rinnovi delle autorizzazioni parimenti si derogava alla disciplina della VIA, introdotta in Sicilia con la legge regionale 3 maggio 2001, n. 6 (Disposizioni programmatiche e finanziarie per l’anno 2001), non potesse reputarsi «elusiva delle direttive comunitarie in materia di valutazione di impatto ambientale». L’assunto – ancorché non ripreso nella memoria di costituzione della Regione – è però contrastato dal Commissario ricorrente, in base alla stessa pronuncia della Corte di giustizia richiamata (secondo una interpretazione opposta) dalla Regione resistente: vale a dire la sentenza 7 gennaio 2004, procedimento C-201/02. Ebbene, la cennata decisione della Corte (punti 44-47) si presta, obiettivamente, a letture “differenziate,” posto che le relative affermazioni si concentrano sul “distinguo” tra “mera modifica” di una autorizzazione esistente e “nuova autorizzazione” che non può essere sottratta alla VIA. Ma sembra indubbio che risulterebbe sicuramente “contrario all’effetto utile” della direttiva 85/337/CEE – tenuto conto del tempo trascorso da essa e dalla relativa attuazione in campo nazionale e regionale – un sistema che “prorogasse” automaticamente autorizzazioni rilasciate in assenza di procedure di VIA (o, comunque, eventualmente, in assenza di VIA), in ipotesi più volte già “rinnovate”. In via astratta – e per assurdo – le leggi regionali potrebbero mantenere inalterato lo status quo, sostanzialmente sine die, superando qualsiasi esigenza di “rimodulare” i provvedimenti autorizzatori in funzione delle modifiche subite, nel tempo, dal territorio e dall’ambiente: con correlativa e sicura violazione non soltanto dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, avuto riguardo al bene protetto dalla direttiva comunitaria, ma anche dell’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, coinvolgendo (attraverso la contestata previsione “derogatoria”) materia riservata alla legislazione statale.
D’altra parte, la circostanza che l’ordinamento regionale abbia previsto un termine di durata delle autorizzazioni all’esercizio delle attività estrattive «per un periodo massimo di quindici anni, in relazione alla qualità e all’entità del materiale da estrarre», stabilendo, al tempo stesso, la possibilità di rinnovo «previa nuova istruttoria da parte del distretto minerario» (art. 2 della legge regionale 1 marzo 1995, n. 19, recante «Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 9 dicembre 1980, n. 127, in ordine ai giacimenti di materiale da cava»), rende evidente che lo stesso legislatore regionale abbia postulato – come è naturale sia in ogni rapporto di durata – l’esigenza di un controllo ad tempus circa il permanere delle condizioni, soggettive ed oggettive, di legittimazione, in rapporto al (possibile) mutamento del quadro fattuale e normativo nel frattempo intervenuto.
In sostanza, eludere in via legislativa la prevista procedura amministrativa di rinnovo equivarrebbe a rinunciare al controllo amministrativo dei requisiti che, medio tempore, potrebbero essersi modificati o essere venuti meno, con esclusione, peraltro, di qualsiasi sindacato in sede giurisdizionale comune.
Per altro verso, va poi notato come la delibera legislativa contestata si collochi, a sua volta, quale eccezionale deroga rispetto ad altra legge regionale, anch’essa “eccezionalmente” derogatoria rispetto alla disciplina “a regime”. Con la già citata legge regionale n. 10 del 2004, infatti, sempre «al fine di consentire il superamento del grave stato di crisi del settore e il mantenimento dei livelli occupazionali delle imprese operanti nel settore dei materiali lapidei di pregio», è stata prevista la possibilità, per i titolari delle autorizzazioni, di ottenere il «rinnovo» delle autorizzazioni stesse al fine di completare il programma di coltivazione precedentemente assentito, anche in deroga «all’articolo 91 della legge regionale 3 maggio 2001, n. 6» (vale a dire, proprio alla disciplina regionale dettata in tema di valutazione di impatto ambientale). In sostanza, la previsione oggetto di censura finisce per consentire di sfuggire – attraverso il meccanismo della proroga ex lege – anche al controllo che la legge n. 10 del 2004 aveva previsto in sede di rinnovo delle autorizzazioni.
Va d’altra parte rammentato, a tal proposito, che, proprio in tema di autorizzazioni “postume,” la giurisprudenza della Corte di giustizia europea appare ispirata a criteri particolarmente rigorosi (sentenza 3 luglio 2008, procedimento C-215/06), essendosi ribadito che, «a livello di processo decisionale è necessario che l’autorità competente tenga conto il prima possibile delle eventuali ripercussioni sull’ambiente di tutti i processi tecnici di programmazione e di decisione, dato che l’obiettivo consiste nell’evitare fin dall’inizio inquinamenti ed altre perturbazioni, piuttosto che nel combatterne successivamente gli effetti». Il che suona difficilmente compatibile con un sistema che non prevedeva (o poteva non prevedere) l’obbligo della VIA, né all’atto della adozione del provvedimento autorizzatorio, né alla sua scadenza, posto che in luogo di una “nuova” autorizzazione (o di un “rinnovo” della precedente), si sostituisce ex lege la perdurante validità del vecchio titolo, senza possibilità di verificare se, a causa dell’esercizio della relativa (e legittima) attività, possa essersi cagionato o meno un danno per l’ambiente.
Quanto, poi, al limitato “impatto” concreto che la delibera legislativa presenterebbe, atteso il breve periodo di efficacia della normativa e la circoscritta portata delle aziende che ne beneficerebbero, il dato si presenta del tutto inconferente, posto che tali profili inciderebbero eventualmente soltanto sul quantum della eccedenza nell’esercizio della competenza legislativa esercitata, ma non certo sull’an. Per altro verso, neppure i segnalati profili di “eccezionalità” possono venire in discorso, giacché gli stessi non hanno nulla a che vedere con quegli aspetti di sicurezza e contingibilità che possono legittimare l’introduzione di previsioni derogatorie in tema di tutela ambientale (ad es., art. 6, comma 4, lettera c, del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 recante «Norme in materia ambientale», e successive modificazioni, che esclude dal campo di applicazione del decreto «i piani di protezione civile in caso di pericolo per l’incolumità pubblica»).
La riscontrata violazione, ad opera della delibera legislativa impugnata, dell’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, assorbe gli ulteriori profili di illegittimità costituzionale denunciati dal ricorrente.
Le ragioni enunciate a sostegno della declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 1 della delibera legislativa in esame valgono anche in riferimento alla disposizione dettata dall’art. 3, comma 2, della medesima delibera legislativa, in quanto norma priva di reale autonomia nel contesto del provvedimento impugnato.
6. – Rilievi nella sostanza non dissimili possono formularsi anche in ordine al ricorso proposto dal Presidente del Consiglio dei ministri in riferimento alla legge della Regione Campania 6 novembre 2008, n. 14, recante «Norma urgente in materia di prosecuzione delle attività estrattive», trattandosi, anche in questo caso, di una disciplina di eccezionale prorogatio destinata a surrogare, ex lege ed in forma automatica, i controlli tipici dei procedimenti amministrativi di rinnovo delle autorizzazioni alla coltivazione delle cave.
Per la Regione Campania si riscontrano, peraltro, talune peculiarità. Anzitutto, la disciplina regionale di settore (quella fondamentale, antecedente alla disciplina nazionale sulla VIA: si veda, in particolare, la legge regionale 13 dicembre 1985, n. 54, recante «Coltivazione di cave e torbiere», e successive modificazioni ed integrazioni) prevede una durata massima delle autorizzazioni estrattive di venti anni, suscettibile di una “proroga dei termini,” ma non di una specifica procedura di rinnovo.
In secondo luogo, la normativa stessa fa rinvio, come condizione per il rilascio delle autorizzazioni, al rispetto delle prescrizioni previste dal PRAE (Piano regionale attività estrattive), le cui “vicissitudini”, a seguito di impugnative di vario genere, sono state ben scolpite nella relazione illustrativa della iniziativa legislativa de qua. Va anche rammentato, a tal proposito, come l’unica fonte che in qualche modo richiami l’obbligo di conformazione delle autorizzazioni alla VIA è contenuta nell’art. 79 della legge finanziaria regionale del 2008 (legge regionale 30 gennaio 2008, n. 1), a norma del quale si prevede che il Piano regionale delle attività estrattive sancisca che la istanza di autorizzazione o concessione debba «essere corredata dalla documentazione relativa alla Valutazione di Impatto Ambientale, ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 12 aprile 1996 e successive modifiche, nonché dalla documentazione relativa alla Valutazione di Incidenza (Direttiva Habitat – Art. 6 Direttiva 92/42/CEE e art. 5 del decreto del Presidente della Repubblica n. 357/1997)».
Da ultimo, va rilevato che la normativa regionale non soltanto ha espressamente subordinato il rilascio delle autorizzazioni al rispetto del PRAE, ma ha addirittura espressamente precluso – con la legge finanziaria regionale del 2002 – la possibilità di «ogni tipo di rinnovo o nuova autorizzazione» fino alla approvazione del suddetto Piano, stabilendo, peraltro, con la successiva legge finanziaria del 2005, una “proroga” (con formulazione del tutto analoga a quella che compare nella odierna disciplina oggetto di censura) sino al 30 giugno 2006.
In sostanza, da un lato, nessun elemento normativo garantisce (ma, anzi, tutto sembra deporre per il contrario) che le autorizzazioni in corso di “esercizio” (originario o prorogato) fossero state – ab origine o in sede di proroga – assoggettate a valutazione di impatto ambientale; dall’altro, il perdurante regime normativo di mantenimento dello status quo cristallizza, ex lege, l’elusione dell’obbligo e, con esso, attraverso il meccanismo della legge-provvedimento, il mancato rispetto della normativa dettata in materia riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.
D’altra parte, la tesi “interpretativa” proposta dalla Regione nella propria memoria deve ritenersi impraticabile, tanto sul piano testuale che su quello logico-sistematico. Per un verso, infatti, la norma, nel sancire l’obbligo che la “prosecuzione della attività” debba avvenire in conformità agli obiettivi del PRAE e nel “rispetto delle norme vigenti”, appare essere testualmente indirizzata ai soggetti autorizzati, piuttosto che all’organo deputato al rilascio del provvedimento di autorizzazione alla prosecuzione della attività stessa. Tant’è che quest’ultimo è chiamato a verificare (soltanto) la regolarità del deposito cauzionale e dei contributi, come requisito condizionante il provvedimento di proroga.
Da un punto di vista logico, poi, non è dato comprendere in base a quale elemento normativo o di “sistema” sia possibile dedurre che, mentre si impone esclusivamente la conformazione della attività da proseguire agli “obiettivi” del PRAE (e non, quindi, a tutte le relative previsioni, tra le quali – come si è detto – anche quella concernente la VIA), si dovrebbe ritenere compreso l’accertamento di compatibilità della prosecuzione della attività estrattiva alla valutazione di impatto ambientale (non prescritta dalla normativa regionale all’atto della originaria concessione), in virtù del generico richiamo al “rispetto delle norme vigenti”.
Per altro verso, non pare neppure conducente la tesi, sostenuta dalla Regione Campania nella memoria da ultimo depositata, secondo la quale la norma censurata sarebbe legittima giacché nulla prevederebbe «in difformità alla disciplina di competenza statale con riguardo ai profili ambientali dell’attività d’impresa relativa alla coltivazione delle cave», in sostanza reputandosi applicabile, in parte qua, la disciplina dettata in materia di VIA dal d. lgs. n. 152 del 2006. L’argomento non risulta persuasivo in quanto l’assoggettamento a quella disciplina non soltanto dovrebbe essere espresso, ma anche – e soprattutto – lo stesso dovrebbe fungere da presupposto condizionante il provvedimento di “proroga”, proprio perché quest’ultima – secondo quanto deduce la stessa memoria – si atteggia quale «nuovo esercizio della funzione amministrativa in cui l’Amministrazione è chiamata a verificare la sussistenza dei requisiti necessari...». D’altra parte, ove fosse valida la prospettazione della resistente, risulterebbe del tutto superfluo il richiamo alla
statale della VIA che, come si è detto, entra invece espressamente a far parte del Piano regionale delle attività estrattive, alla cui approvazione ed al cui rispetto l’intero sistema delle autorizzazioni è stato – altrettanto espressamente – subordinato.
Le ragioni che sostengono la declaratoria di illegittimità costituzionale dei commi 1, 2 e 3 dell’art. 1 coinvolgono anche le previsioni dettate nei commi 4 e 5 dello stesso articolo 1, in quanto connesse al censurato “automatismo” della proroga.
7. – In conclusione, tutte le disposizioni legislative impugnate devono essere dichiarate costituzionalmente illegittime.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara l’illegittimità costituzionale degli articoli 1 e 3, comma 2, della delibera legislativa della Regione Siciliana approvata il 25 novembre 2008, recante «Norme sulla proroga delle autorizzazioni all’esercizio di cava e sull’aggiornamento del piano regionale dei materiali da cava e del piano regionale dei materiali lapidei di pregio»;
dichiara l’illegittimità costituzionale della legge della Regione Campania 6 novembre 2008, n. 14, recante «Norma urgente in materia di prosecuzione delle attività estrattive».
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 febbraio 2010.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Paolo GROSSI, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 26 febbraio 2010.