SENTENZA N. 71
ANNO 2015
Commenti alla decisione di
I. Luigi Salvia, Un
"legale rimedio” per acquisire la proprietà dei beni illegittimamente occupati
dalla PA: l’acquisizione sanante supera il vaglio della Corte Costituzionale.
(Commento a Corte Costituzionale, sentenza 71/2015.), per g.c. dell’Osservatorio AIC
II. Laura Uccello Barretta, L’art.
42-bis del Testo Unico sulle espropriazioni dopo la sentenza della Corte
costituzionale n. 71/2015: il caso dell’acquisizione sanante "temporanea”, per g.c. dell’Osservatorio AIC
per g.c.
della Rivista AIC
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
-
Alessandro CRISCUOLO Presidente
- Paolo
Maria NAPOLITANO Giudice
-
Giuseppe FRIGO ”
- Paolo GROSSI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario
Rosario MORELLI ”
-
Giancarlo CORAGGIO ”
-
Giuliano AMATO ”
-
Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità
costituzionale dell’art. 42-bis del d.P.R.
8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità – Testo A),
articolo introdotto dall’art. 34, comma 1, del decreto-legge 6 luglio 2011, n.
98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111, promossi
dalla Corte di cassazione − sezioni unite civili, con due ordinanze del
13 gennaio 2014 e dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione
seconda, con ordinanze del 12 maggio e del 5 giugno 2014, rispettivamente
iscritte ai nn. 89, 90, 163 e 219
del registro ordinanze 2014 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica nn. 24, 42 e 50, prima serie speciale, dell’anno 2014.
Visti
gli atti di costituzione del Comune
di Porto Cesareo, di S.C. ed altri, di Corrida srl, nonchè gli atti di intervento di D.G.G. nella qualità di
erede universale di C.R., di SEP − Società Edilizia Pineto spa e del
Presidente del Consiglio dei ministri;
udito
nell’udienza pubblica del 10 marzo
2015 e nella camera di consiglio dell’11 marzo 2015 il Giudice relatore Nicolò
Zanon;
uditi gli avvocati Giuseppe Lavitola
per SEP − Società Edilizia Pineto spa, Luca Di Raimondo per S.C. ed
altri, Giovanni Pallottino e Francesco Nardocci per Corrida
srl e l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio
dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– La Corte di cassazione, sezioni
unite civili, ed il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione
seconda, con quattro distinte ordinanze di analogo tenore, pronunciate in
altrettanti giudizi, rispettivamente le prime due del 13 gennaio 2014 (r.o. n.
89 del 2014 e n. 90 del 2014), la terza del 12 maggio 2014 (r.o. n. 163 del
2014) e la quarta del 5 giugno 2014 (r.o. n. 219 del 2014), hanno sollevato, in
riferimento agli artt. 3,
24, 42, 97, 111, primo e secondo
comma, 113 e 117, primo comma, della
Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 42-bis del
d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità – Testo A), con
il quale viene disciplinata la «Utilizzazione senza titolo di un bene per scopi
di interesse pubblico».
2.– La prima ordinanza della Corte di
cassazione (r.o. n. 89 del 2014) espone che, nel giudizio a quo, instaurato innanzi
al Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione staccata di Lecce,
il ricorrente, proprietario di un fondo oggetto di procedura espropriativa, ha
chiesto la condanna del Comune di Porto Cesareo alla restituzione dei beni,
occupati senza titolo da tale amministrazione, per l’inutile scadenza della
dichiarazione di pubblica utilità che li aveva destinati alla realizzazione di
strade, parchi e parcheggi.
Con sentenza del 25 giugno 2010 n. 1614,
il TAR ha ordinato al Comune di Porto Cesareo l’adozione del provvedimento
acquisitivo delle aree (adottato con delibera consiliare 19 ottobre 2011) ai
sensi dell’allora vigente art. 43 del T.U. sulle espropriazioni, approvato con
il citato d.P.R. n. 327 del 2001.
Dichiarata costituzionalmente illegittima
tale norma, con sentenza
n. 293 del 2010 di questa Corte, il ricorrente ha nuovamente adito il
medesimo TAR per ottenere la restituzione del fondo ed il risarcimento del
danno.
Essendo stato introdotto, nelle more,
l’art. 42-bis nello stesso T.U. sulle espropriazioni, attraverso l’art. 34,
comma 1, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la
stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma
1, della legge 15 luglio 2011, n. 111, il Comune di Porto Cesareo, con
provvedimento del 19 ottobre 2011, ha disposto l’acquisizione dei terreni al
suo patrimonio, liquidando al proprietario l’indennizzo previsto dalla nuova
norma.
Avendo il ricorrente, con motivi
aggiunti, richiesto anche la rideterminazione dell’indennizzo in base al valore
venale attuale dei beni, il Comune di Porto Cesareo ha proposto regolamento di
giurisdizione, chiedendo alla Corte di cassazione che la controversia sulla
rideterminazione dell’indennizzo fosse attribuita al giudice ordinario, in
forza della previsione di cui all’art. 133, primo comma, lettera f), del codice
del processo amministrativo (decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, recante
«Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega
al governo per il riordino del processo amministrativo»).
La Corte di cassazione ha così ritenuto
di sollevare questione di legittimità costituzionale della norma di cui
all’art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni, in riferimento agli artt. 3, 24,
42, 97, 111, primo e secondo comma, 113 e 117, primo comma, Cost.
2.1.– Il giudice rimettente, in punto di
rilevanza, osserva che, da un lato, sarebbe pacifica l’applicabilità
dell’istituto della cosiddetta "acquisizione sanante”, (re)introdotto dall’art.
42-bis del T.U. sulle espropriazioni e, dall’altro, sarebbe proprio il
sopravvenire di detta normativa ad aver mutato quella previgente, più
favorevole, invocata dal ricorrente e ad impedire la restituzione dei terreni
di fatto occupati dalla pubblica amministrazione, nonché a sostituire il
diritto al risarcimento del danno integrale con quello al conseguimento
dell’indennizzo, causa del regolamento di giurisdizione.
In particolare, secondo il giudice
rimettente, l’esame del ricorso potrebbe indurre astrattamente al suo
accoglimento, con la traslatio iudicii
al giudice ordinario, nella vigenza della norma della cui legittimità
costituzionale si dubita. Ove invece l’art. 42-bis, per i prospettati dubbi di
compatibilità con la Costituzione, venisse espunto dall’ordinamento, il
ricorrente fruirebbe del trattamento risultante dalla disciplina previgente
all’emanazione delle disposizioni impugnate. Un trattamento per lui più
favorevole – già richiesto al Tribunale amministrativo davanti al quale il
giudizio resterebbe incardinato – e consistente nella restituzione
dell’immobile soggetto ad occupazione in radice illegittima, oltre al
risarcimento del danno, informato ai principi generali dell’art. 2043 del codice
civile.
2.2.– Quanto alla non manifesta
infondatezza della questione, il giudice rimettente ha premesso che l’art.
42-bis del T.U. sulle espropriazioni avrebbe riproposto l’istituto previsto dal
precedente art. 43, di cui ha ereditato la rubrica.
2.2.1.– Il giudice rimettente dubita, in
primo luogo, della compatibilità della norma censurata con gli artt. 3 e 24
Cost.
Quanto alla violazione dell’art. 3
Cost., espressione del principio di uguaglianza, la Corte di cassazione sostiene
che verrebbe riservato un trattamento privilegiato alla pubblica
amministrazione che abbia commesso un fatto illecito. Mentre per qualsiasi
altro soggetto dell’ordinamento l’illecito sarebbe fonte dell’obbligazione
«risarcitoria/restitutoria» di cui agli artt. 2043 e 2058 cod. civ., alla
pubblica amministrazione verrebbe attribuita la facoltà di mutare –
successivamente all’evento dannoso prodotto nella sfera giuridica altrui, e per
effetto di una propria unilaterale manifestazione di volontà – il titolo e
l’ambito della responsabilità, nonché il tipo di sanzione (da risarcimento in
indennizzo) stabiliti in via generale dal precetto del neminem
laedere.
Secondo il giudice rimettente, la
pubblica amministrazione, allorquando opera al di fuori della funzione
amministrativa, sarebbe invece soggetta a tutte le regole vincolanti per gli
altri soggetti (e dunque esposta alle medesime responsabilità), sicché, una
volta attuata in tutti i suoi elementi costitutivi una lesione "ingiusta” di un
diritto soggettivo, quest’ultima non potrebbe mai mutare natura e divenire
"giusta” per effetto dell’autotutela amministrativa, cui non potrebbe neppure
consentirsi di eliminare ex post le obbligazioni restitutorie e risarcitorie
conseguenti.
Questa impostazione avrebbe trovato
piena corrispondenza nella giurisprudenza della Corte EDU (di cui vengono
citate numerose sentenze), proprio in materia di ingerenza illegittima nella
proprietà privata, fondata sempre e comunque sul corollario che alla pubblica
amministrazione non è consentito (né direttamente né indirettamente) trarre
vantaggio da propri comportamenti illeciti e, più in generale, da una
situazione di illegalità da essa stessa determinata.
La norma censurata, invece, per il solo
fatto della connotazione pubblicistica del soggetto responsabile, avrebbe
soppresso il pregresso regime dell’occupazione abusiva di un immobile altrui,
sottraendo al proprietario l’intera gamma delle azioni di cui disponeva in
precedenza a tutela del diritto di proprietà e la stessa facoltà di scelta di
avvalersene o meno.
In tal modo, considerando esclusivamente
gli scopi dell’amministrazione, avrebbe trasferito tale facoltà di scelta dalla
«vittima dell’ingerenza» (tale qualificata dalla Corte europea), all’autore
della condotta illecita, attraverso la sostanziale introduzione, con il
semplice atto di acquisizione autorizzato dalla norma censurata, di un nuovo
modo di acquisto della proprietà privata, che prescinderebbe ormai dal
collegamento con la realizzazione di opere pubbliche, e perfino con una
pregressa procedura espropriativa.
Inoltre, sia sotto il profilo
dell’eguaglianza, sia alla luce della necessaria razionalità intrinseca
postulata dalla norma costituzionale, la disposizione censurata lederebbe
l’art. 3 Cost., legando la determinazione dell’«indennizzo/risarcimento» al
valore venale del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità e, se
l’occupazione riguarda un terreno edificabile, «sulla base delle disposizioni
dell’art. 37, commi 3, 4, 5, 6 e 7».
A tale proposito, il rimettente ricorda
che la Corte costituzionale (a partire dalla sentenza n. 369 del
1996, che aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1,
comma 65, della legge 28 dicembre 1995, n. 549, recante «Misure di
razionalizzazione della finanza pubblica», in quanto tale norma equiparava
l’entità del risarcimento del danno da occupazione acquisitiva a quella
dell’indennizzo espropriativo) aveva affermato la radicale diversità strutturale
e funzionale delle obbligazioni così comparate, sicché, sotto il profilo della
ragionevolezza intrinseca, la parificazione del quantum risarcitorio alla
misura dell’indennità si prospetta come un di più che sbilancia eccessivamente
il contemperamento tra i contrapposti interessi, pubblico e privato, in
eccessivo favore del primo.
L’art. 42-bis disattenderebbe tali
principi sotto diversi profili, in quanto, disponendo che l’indennizzo debba
essere sempre e comunque commisurato «al valore venale del bene utilizzato»,
attribuisce ai proprietari interessati da un provvedimento di acquisizione
"sanante” un trattamento deteriore rispetto a quello concesso ai proprietari
che, in mancanza di tale provvedimento, possono chiedere la restituzione
dell’immobile insieme al risarcimento del danno, pur quando destinatari di una
medesima occupazione abusiva in radice (cosiddetta usurpativa), in base ai
parametri del danno emergente e del lucro cessante ex art. 2043 cod. civ.
Tale trattamento, osserva ancora il
rimettente, resterebbe inferiore nel confronto con l’espropriazione legittima
dello stesso immobile, in quanto:
a) ove quest’ultimo abbia destinazione
edificatoria, non è riconosciuto l’aumento del 10 per cento di cui all’art. 37,
comma 2, del T.U. sulle espropriazioni, non richiamato dalla norma impugnata;
b) ove abbia destinazione agricola, non
è applicabile il precedente art. 40, comma 1, che impone di tener conto delle
colture effettivamente praticate sul fondo e «del valore dei manufatti edilizi
legittimamente realizzati, anche in relazione all’esercizio dell’azienda
agricola».
La norma, poi, non considererebbe
affatto l’ipotesi di espropriazione parziale e non consentirebbe di tener conto
della diminuzione di valore del fondo residuo, invece indennizzata fin dalla
legge 25 giugno 1865, n. 2359 (Espropriazioni per causa di utilità pubblica),
il cui art. 40 è stato trasfuso nell’art. 33 del T.U. sulle espropriazioni.
L’art. 42-bis, infine, secondo la
prospettazione del rimettente, avrebbe trasformato il precedente regime
risarcitorio in un indennizzo derivante da atto lecito, che di conseguenza
assumerebbe natura di debito di valuta non automaticamente soggetto a
rivalutazione monetaria (ai sensi del secondo comma dell’art. 1224 cod. civ.),
a differenza del risarcimento da espropriazione e/o occupazione illegittime,
costituente credito di valore, che deve essere liquidato alla stregua dei
valori monetari corrispondenti al momento della relativa pronuncia, sicché il
giudice deve tenere conto della svalutazione monetaria sopravvenuta fino alla
decisione, anche di ufficio, a prescindere dalla prova della sussistenza di uno
specifico pregiudizio dell’interessato dipendente dal mancato tempestivo
conseguimento dell’indennizzo medesimo.
Tale natura risarcitoria parrebbe invece
mantenuta, dal terzo comma dell’art. 42-bis, al (solo) corrispettivo per il
periodo di occupazione illegittima antecedente al provvedimento di
acquisizione, che tuttavia verrebbe anch’esso determinato in base ad un
parametro riduttivo rispetto a quelli cui è commisurato l’analogo indennizzo
per l’occupazione temporanea dell’immobile, in quanto:
a) il parametro base è costituito
dall’interesse del 5 per cento annuo sul valore venale dell’immobile stimato ai
fini dell’indennizzo, perciò corrispondente a circa 1/20 del suo valore annuo,
laddove l’art. 50 del T.U. sulle espropriazioni, recependo analoga disposizione
in precedenza contenuta nell’art. 20 della legge 22 ottobre 1971, n. 865
(Programmi e coordinamento dell’edilizia residenziale pubblica; norme sulla
espropriazione per pubblica utilità; modifiche ed integrazioni alle leggi 17
agosto 1942, n. 1150; 18 aprile 1962, n. 167; 29 settembre 1964, n. 847; ed
autorizzazione di spesa per interventi straordinari nel settore dell’edilizia
residenziale, agevolata e convenzionata), stabilisce in tutti i casi di
occupazione legittima di un immobile che «è dovuta al proprietario una
indennità per ogni anno pari ad un dodicesimo di quanto sarebbe dovuto nel caso
di esproprio dell’area e, per ogni mese o frazione di mese, una indennità pari
ad un dodicesimo di quella annua», perciò corrispondente ad una redditività
predeterminata nella più elevata misura percentuale dell’8,33 per cento
all’anno sul valore venale dell’immobile;
b) il criterio rigido introdotto dalla
norma censurata impedirebbe l’applicazione del principio, consolidato nella
giurisprudenza di legittimità, secondo cui, nell’ipotesi di espropriazione
parziale, la percentuale suddetta va calcolata sull’indennità di espropriazione
computata tenendo conto anche del decremento di valore subito dalla parte di
immobile rimasta in proprietà dell’espropriato.
2.2.2.– Il giudice rimettente dubita,
inoltre, della compatibilità dell’art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni con
gli artt. 42, 97 e 113 Cost.
Ricorda che il primo e fondamentale
presupposto per procedere al trasferimento coattivo di un immobile mediante
espropriazione, ai sensi dell’art. 42 Cost., è costituito dalla necessaria
ricorrenza di «motivi d’interesse generale», con puntuale riscontro in quello
di eguale tenore dell’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla Convenzione
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata
a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955,
n. 848 (d’ora in avanti «CEDU»), per cui l’ingerenza nella proprietà privata
può essere attuata soltanto «per causa di pubblica utilità».
Ciò comporta (come statuito dalla Corte
costituzionale nella sentenza n. 90 del
1966) «la necessità che la legge indichi le ragioni per le quali si può far
luogo all’espropriazione; e inoltre che quest’ultima non possa essere
autorizzata se non nella effettiva presenza delle ragioni indicate dalla
legge»; ed ancora che «fin dal primo atto della procedura espropriativa debbono
risultare definiti non soltanto l’oggetto, ma anche le finalità, i mezzi e i
tempi di essa […]».
Ne consegue, ad avviso del rimettente,
che la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera si porrebbe come garanzia
prima e fondamentale del cittadino e nel contempo come ragione giustificatrice
del suo sacrificio, nel bilanciamento degli interessi – quello del proprietario
alla restituzione dell’immobile e quello dell’amministrazione al mantenimento
dell’opera pubblica – in virtù della funzione sociale della proprietà.
La suddetta garanzia costituzionale
sarebbe, dunque, rispettata soltanto se la causa del trasferimento sia
predeterminata nell’ambito di un apposito procedimento amministrativo, sicché
la mancanza della preventiva dichiarazione di pubblica utilità implicherebbe
(come da costante giurisprudenza di legittimità) il difetto di potere
dell’amministrazione nel procedere all’espropriazione (sia essa rituale o
attuata in forma anomala, come nell’ipotesi dell’occupazione appropriativa).
La norma costituzionale richiederebbe,
quindi, che i motivi d’interesse generale per giustificare l’esercizio del
potere espropriativo, nei (soli) casi stabiliti dalla legge, siano
predeterminati dall’amministrazione ed emergano da un apposito procedimento –
individuato, appunto, in quello dichiarativo del pubblico interesse culminante
nell’adozione della dichiarazione di pubblica utilità – preliminare, autonomo e
strumentale rispetto al successivo procedimento espropriativo in senso stretto,
nel quale l’amministrazione programma un nuovo bene giuridico destinato a
soddisfare uno specifico interesse pubblico, attuale e concreto.
Richiederebbe, altresì, che tali motivi
siano palesati gradualmente e anteriormente al sacrificio del diritto di
proprietà, in un momento in cui la comparazione tra l’interesse pubblico e
l’interesse privato possa effettivamente evidenziare la scelta migliore, nel
rispetto dei principi d’imparzialità e proporzionalità (ai sensi dell’art. 97
Cost.). In un momento, quindi, in cui la lesione del diritto di proprietà non
sia ancora attuale ed eventuali ipotesi alternative all’espropriazione non
siano ostacolate da una situazione fattuale ormai irreversibilmente
compromessa. Da qui la formula dell’art. 42, terzo comma, Cost., per cui
l’espropriazione in tanto è costituzionalmente legittima in quanto è originata
da «motivi d’interesse generale», ovvero collegata ad un procedimento
amministrativo che evidenzi i motivi che giustificano un’incisione nella sfera
del privato proprietario, valorizzando il ruolo partecipativo di quest’ultimo.
E da qui, ancora, la conseguenza che tale risultato non sarebbe garantito
dall’esercizio di un potere amministrativo che, sebbene presupponga
astrattamente una valutazione degli interessi in conflitto, è destinato in
concreto a giustificare ex post il sacrificio espropriativo, unicamente in base
alla situazione di fatto illegittimamente determinatasi.
Ulteriore profilo di illegittimità
costituzionale per contrasto con l’art. 42 Cost. è individuato nell’omessa
fissazione di termini certi.
Il giudice rimettente ricorda che l’art.
13 della legge fondamentale sulle espropriazioni n. 2359 del 1865, onde evitare
l’indefinito protrarsi dell’incertezza sulla sorte dei beni espropriandi,
e, nel contempo, per assicurare l’attualità della rispondenza dell’opera
all’interesse generale, ha attribuito ai proprietari un’ulteriore garanzia
fondamentale, oggi rispondente al principio di legalità e tipicità del
procedimento espropriativo, disponendo che nel provvedimento dichiarativo della
pubblica utilità dell’opera devono essere fissati quattro termini (e cioè
quelli di inizio e di compimento della espropriazione e dei lavori), e
stabilendo che «[t]rascorsi i termini, la dichiarazione
di pubblica utilità diventa inefficace».
Sopravvenuta la Costituzione, questa
disposizione avrebbe assunto rilevanza costituzionale, avendo la Corte
costituzionale statuito che «la fissazione di tali termini costituisce regola
indefettibile per ogni e qualsiasi procedimento espropriativo» (sentenza n. 355 del
1985; in tal senso anche sentenze n. 141 del
1992 e n.
257 del 1988). La loro omessa fissazione comporterebbe la giuridica
inesistenza della dichiarazione di pubblica utilità, con tutte le conseguenze
del caso, prima fra tutte che tale situazione non è idonea a far sorgere il
potere espropriativo e, dunque, ad affievolire il diritto soggettivo di
proprietà sui beni espropriandi.
Nella diversa prospettiva della
cosiddetta acquisizione "sanante”, invece, anche la garanzia offerta dai
termini espropriativi sarebbe destinata a non trovare spazio. La norma non
indicherebbe, infatti, alcun limite temporale entro il quale l’amministrazione
debba esercitare il relativo potere, esponendo il diritto di proprietà al
pericolo dell’emanazione del provvedimento acquisitivo senza limiti di tempo ed
accentuando, così, i dubbi di contrasto con l’art. 3 Cost., per il regime
discriminatorio provocato tra il procedimento ordinario – in cui l’esposizione
è temporalmente limitata all’efficacia della dichiarazione di pubblica utilità
(nella disciplina del T.U. sulle espropriazioni, anche a quella del vincolo
preordinato all’esproprio) – e quello "sanante”, in cui il bene privato
detenuto sine titulo è, invece, sottoposto in
perpetuo al sacrificio dell’espropriazione.
2.2.3.– Il giudice rimettente ritiene,
ancora, che la norma censurata sia in contrasto con l’art. 117, primo comma,
Cost., in quanto non sarebbe conforme ai principi della CEDU, secondo
l’interpretazione fornita dalla Corte di Strasburgo dell’art. 1 del Primo
Protocollo addizionale alla CEDU.
La nuova operazione "sanante” – in tutte
le fattispecie individuate dall’art. 42-bis, compresa quella di utilizzazione
del bene senza titolo «in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio»
– presenterebbe numerosi ed insuperabili profili di contrasto con le norme
convenzionali, non risolvibili in via ermeneutica, sulla base
dell’interpretazione offerta dalla Corte di Strasburgo delle tre norme
dell’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla CEDU (principio generale di
rispetto della proprietà; privazione della proprietà solo alle condizioni
indicate; riconoscimento agli Stati del potere di disciplinare l’uso dei beni
in conformità all’interesse generale).
Ricorda il rimettente che la Corte EDU
avrebbe in più occasioni considerato «in radicale contrasto» con la CEDU il
principio dell’"espropriazione indiretta”, con la quale il trasferimento della
proprietà del bene dal privato alla pubblica amministrazione avviene in virtù
della constatazione della situazione di illegalità o illiceità commessa dalla
stessa amministrazione, con l’effetto di convalidarla, consentendo a
quest’ultima di trarne vantaggio e di passare oltre le regole fissate in
materia di espropriazione, con il rischio di un risultato imprevedibile o
arbitrario per gli interessati.
Nella categoria dell’"espropriazione
indiretta”, la Corte EDU avrebbe sistematicamente inserito non soltanto
l’ipotesi corrispondente alla cosiddetta occupazione espropriativa, ma tutte
indistintamente le fattispecie di perdita di ogni disponibilità dell’immobile
combinata con l’impossibilità di porvi rimedio, e con conseguenze assai gravi
per il proprietario che subisce una espropriazione di fatto incompatibile con
il suo diritto al rispetto dei propri beni, ritenendo ininfluente che una tale
vicenda sia giustificata soltanto dalla giurisprudenza, ovvero sia consentita
mediante disposizioni legislative, come è avvenuto con l’art. 3 della legge 27
ottobre 1988, n. 458 (Concorso dello Stato nella spesa degli enti locali in
relazione ai pregressi maggiori oneri delle indennità di esproprio), ovvero da
ultimo con l’art. 43 del T.U. sulle espropriazioni, in quanto il principio di
legalità non significa affatto esistenza di una norma di legge che consenta
l’espropriazione indiretta, bensì esistenza di norme giuridiche interne
sufficientemente accessibili, precise e prevedibili. Con la conseguenza che il
supporto di «una base legale non è sufficiente a soddisfare il principio di
legalità» e che «è utile porre particolare attenzione sulla questione della
qualità della legge» (sono citate le sentenze 19
maggio 2005, Acciardi e altra contro Italia e 17
maggio 2005, Scordino contro Italia).
Secondo il rimettente, conclusivamente,
la "legalizzazione dell’illegale” non sarebbe consentita dalla giurisprudenza
di Strasburgo neppure ad una norma di legge, né tanto meno ad un provvedimento
amministrativo di essa attuativo, quale è quello che disponga la cosiddetta
acquisizione "sanante”.
Infine, il principio di legalità non
sarebbe recuperabile in forza dei bilanciamenti e delle comparazioni tra
interessi pubblici e privati devoluti, dalla norma censurata, all’autorità
amministrativa che dispone l’acquisizione.
La disposizione impugnata, infatti,
attribuirebbe ad uno dei due portatori dell’interesse in conflitto – la
pubblica amministrazione responsabile dell’illecito ed interessata alla
acquisizione dell’immobile – il potere di comparare gli interessi suddetti, e,
quindi la scelta di restituirlo ovvero di acquisirlo al proprio patrimonio
indisponibile. L’assetto del bene, perciò, non dipenderebbe più (neppure) dalla
sua (oggettiva) trasformazione in un bene demaniale o patrimoniale
indisponibile, ma verrebbe affidato – senza neppure limiti temporali –
esclusivamente alla imprevedibile volontà dell’amministrazione di ricorrere o
meno al nuovo istituto. In caso, poi, di impugnazione del provvedimento di
acquisizione, l’assetto del bene sarebbe affidato alla pronuncia del giudice
amministrativo, che potrebbe consentirne o escluderne la restituzione, con
conseguente ulteriore incertezza ed imprevedibilità della sua situazione
giuridica, fino al momento della sentenza definitiva.
Ciò renderebbe l’istituto nuovamente
incompatibile con la Convenzione «non potendosi escludere il rischio di un
risultato imprevedibile o arbitrario», come affermato dalla Corte EDU (sentenza
28 giugno 2011, De Caterina e altri contro Italia).
2.2.4.– Il giudice rimettente dubita,
infine, della conformità della norma censurata agli artt. 111, primo e secondo
comma, e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della CEDU, secondo
l’interpretazione fornita dalla Corte di Strasburgo.
Il giudice rimettente ricorda che la
Corte EDU, pur non escludendo che, in materia civile, una nuova normativa possa
avere efficacia retroattiva, ha ripetutamente considerato lecita l’applicazione
dello ius superveniens in
cause già pendenti soltanto in presenza di «ragioni imperative d’interesse
generale», pena la violazione del principio di legalità nonché del diritto ad
un processo equo. Ciò perché, in ipotesi del genere, il potere legislativo
introduce nuove disposizioni specificamente dirette ad influire sull’esito di
un giudizio già in corso (specie considerando quelli ove sia parte
un’amministrazione pubblica), inducendo il giudice a decisioni su base diversa
da quella alla quale la controparte poteva legittimamente aspirare al momento
di introduzione della lite (Grande Camera, sentenza
28 ottobre 1999, Zielinski e altri contro Francia;
sentenze, 20
febbraio 2003, Forrer-Niedenthal contro Germania,
proprio in materia di espropriazione per pubblica utilità; 27
maggio 2004, OGIS-Institut Stanislas
e altri contro Francia; 29 luglio
2004, Scordino contro Italia).
La norma censurata violerebbe questi
principi, in quanto, malgrado la precisazione del primo comma, secondo cui
l’atto di acquisizione è destinato a non operare retroattivamente (rivolta a
rispondere ad uno dei rilievi espressi dalla sentenza n. 293 del
2010 di questa Corte), con la disposizione dell’ottavo comma avrebbe
confermato la possibilità dell’amministrazione di utilizzare il provvedimento
"sanante” ex tunc, per fatti anteriori alla sua
entrata in vigore ed anche se vi sia già stato un provvedimento di acquisizione
successivamente ritirato o annullato, in conformità alla finalità di attribuire
alle amministrazioni occupanti una legale via di uscita dalle situazioni di
illegalità venutesi a verificare nel corso degli anni.
Pertanto, i privati proprietari – i
quali, per effetto della sentenza n. 293 del
2010 di questa Corte, avrebbero avuto diritto alla restituzione dei loro
immobili, nonché al risarcimento del danno alla stregua dei parametri contenuti
nell’art. 2043 cod. civ. – in conseguenza del sopravvenuto art. 42-bis, nonché
del provvedimento acquisitivo adottato nel corso del giudizio, avrebbero
perduto in radice la tutela reale, e potrebbero avvalersi soltanto di quella
«indennitaria/risarcitoria» introdotta dalla norma censurata. Quest’ultima,
perciò, non si sottrarrebbe neppure all’addebito, in casi analoghi mosso dalla Corte
europea al legislatore nazionale, «di averla slealmente introdotta in giudizi
iniziati ed impostati secondo diversi presupposti normativi, sì da incorrere
anche nella violazione dell’art. 6, par. 1, della Convenzione» per il mutamento
«delle regole in corsa».
Sotto tale profilo, la norma
risulterebbe anche in contrasto con l’art. 111, primo e secondo comma, Cost.,
nella parte in cui, disponendo l’applicabilità ai giudizi in corso delle regole
sull’acquisizione "sanante” in seguito ad occupazione illegittima, violerebbe i
principi del giusto processo, in particolare la condizione di parità delle
parti davanti al giudice, che risulterebbe lesa dall’intromissione del potere
legislativo nell’amministrazione della giustizia, allo scopo di influire sulla risoluzione
di una circoscritta e determinata categoria di controversie.
2.3.– Nel giudizio si è costituito, con
atto depositato il 24 giugno 2014, il Comune di Porto Cesareo.
Afferma l’ente comunale che, con
sentenza del 25 giugno 2010, n. 1614, il TAR Puglia, sezione staccata di Lecce,
ha definito un ricorso proposto dal medesimo ricorrente nel giudizio a quo,
qualificando la domanda dallo stesso proposta – in conseguenza della scadenza
del termine quinquennale di validità della dichiarazione di pubblica utilità
dell’opera pubblica programmata (realizzazione di area a verde pubblico, di
parcheggi e strade di raccordo) senza l’emanazione del decreto definitivo di
esproprio del fondo privato occupato a tale fine – come intesa ad ottenere il
solo ristoro economico, ordinando al Comune convenuto l’emissione del
provvedimento ex art. 43 del T.U. sulle espropriazioni allora vigente.
Dichiarata incostituzionale la norma da
ultimo citata, il ricorrente ha adito nuovamente il giudice amministrativo per
chiedere la restituzione dei fondi, in palese contrasto con il giudicato ormai
formatosi sulle statuizioni della precedente sentenza n. 1614 del 2010, che
aveva escluso il diritto a tale restituzione.
Nelle more del giudizio è stato
introdotto l’art. 42-bis nel T.U. sulle espropriazioni, sicché il Comune di
Porto Cesareo, in applicazione espressa di tale norma, ha disposto
l’acquisizione del fondo al proprio patrimonio indisponibile, determinando e
quantificando l’indennizzo dovuto.
Tale provvedimento è stato impugnato con
motivi aggiunti dal ricorrente, il quale ha chiesto la rideterminazione
dell’indennizzo, in considerazione dell’effettivo valore venale del bene.
Il Comune di Porto Cesareo ha proposto,
dunque, regolamento di giurisdizione, sul rilievo che la domanda giudiziale,
avuto riguardo al petitum sostanziale ed alla causa petendi, atteneva
esclusivamente alla contestazione del quantum spettante a titolo di indennizzo,
con conseguente configurabilità della giurisdizione del giudice ordinario, ai
sensi dell’art. 133, comma 1, lettera f), del codice del processo
amministrativo (d.lgs. n. 104 del 2010).
Il TAR ha dichiarato la manifesta
inammissibilità del regolamento preventivo di giurisdizione, stante l’asserita
intervenuta formazione di un giudicato (originato dalla sentenza n. 1614 del
2010) sulla domanda (esclusivamente) risarcitoria proposta dal ricorrente,
quantificando in sentenza l’ammontare del risarcimento dovuto.
La pronuncia è stata impugnata dal
Comune di Porto Cesareo con appello al Consiglio di Stato, sia in punto di
giurisdizione (prospettata come spettante al giudice ordinario), sia nel
merito.
Il giudizio risulta ancora pendente e
nelle more è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 42-bis, proprio nell’ambito dell’instaurato regolamento di
giurisdizione innanzi alla Corte di cassazione, sezioni unite civili.
2.3.1.– Il Comune di Porto Cesareo
eccepisce, in primo luogo, l’inammissibilità della questione di legittimità
costituzionale, per carenza di motivazione in ordine ai requisiti della
rilevanza e della non manifesta infondatezza.
Il giudice rimettente, infatti, ha
sostenuto che, qualora l’art. 42-bis venisse espunto dall’ordinamento, il
privato potrebbe aspirare ad ottenere la restituzione del bene illegittimamente
occupato.
Secondo l’ente comunale, invece, la
restituzione non sarebbe più ipotizzabile, in virtù, in particolare, del
giudicato formatosi sulla precedente sentenza (n. 1614 del 2010) del medesimo
TAR adito, che ne aveva espressamente escluso la possibilità, peraltro in
presenza di una sostanziale rinuncia dello stesso ricorrente a conseguire tale
restituzione. Ciò sarebbe dimostrato dal contenuto dei motivi aggiunti proposti
nel giudizio amministrativo ancora pendente, tendenti solo ad ottenere la determinazione
dell’indennizzo, in seguito al provvedimento di acquisizione ex art. 42-bis
nelle more adottato dal Comune di Porto Cesareo.
A fronte del giudicato formatosi
sull’esclusione del diritto alla restituzione del bene, nessuna utilità
potrebbe dunque ricavare il privato dall’eventuale caducazione della norma
censurata.
Quanto alla questione sollevata in
riferimento al diritto al risarcimento integrale del danno (informato ai
principi di cui agli artt. 2043 e 2059 cod. civ.), in luogo del mero indennizzo,
il Comune di Porto Cesareo ne sostiene l’inammissibilità per difetto di
rilevanza. Infatti, il danno sarebbe già stato determinato in forma integrale,
sempre in esecuzione del giudicato formatosi sulla precedente sentenza n. 1614
del 2010, adempiendo al quale la determinazione dell’indennizzo sarebbe stata
superiore a quanto spettante in applicazione della norma censurata.
2.3.2.– Nel merito, il Comune di Porto
Cesareo ha sostenuto l’infondatezza della questione prospettata, per i seguenti
motivi:
− quanto all’asserita violazione
dell’art. 3 Cost. (unitamente all’art. 24 Cost.), occorrerebbe tenere conto
della particolare natura della pubblica amministrazione e degli interessi di
cui è portatrice, nonché delle garanzie di cui la legge avrebbe circondato
l’esercizio del potere ablatorio ex post conferito dalla norma censurata, quali
la necessità di un formale atto amministrativo fondato sulla valutazione degli
«interessi in conflitto», da compiere con particolare rigore e da esibire nella
motivazione dell’atto; il carattere non retroattivo dell’acquisizione; il
riconoscimento del ristoro dei danni; l’eccezionalità della procedura,
esperibile solo nell’impossibilità di ricorrere ad una procedura espropriativa
ordinaria;
− quanto all’asserita violazione
dell’art. 42 Cost., l’acquisizione avverrebbe in forza di un provvedimento
previsto e disciplinato (anche nel contenuto) direttamente dalla legge e privo
di efficacia retroattiva, previa rigorosa valutazione degli interessi in
conflitto manifestata nella motivazione dell’atto, in caso di preminenza delle
ragioni di interesse pubblico che la legge vuole espressamente rivestite del
carattere dell’"eccezionalità” ed in mancanza di ragionevoli alternative;
− in relazione alla censura per
violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. – per contrasto con le norme
interposte costituite dall’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla CEDU e
dall’art. 6 della CEDU – il Comune di Porto Cesareo sostiene il rispetto dei
«principi rivenienti dalla giurisprudenza di Strasburgo richiamata
nell’ordinanza» di rimessione;
− in riferimento alla violazione
dell’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’intrinseca irrazionalità della
determinazione dell’indennizzo, si sostiene che la determinazione del quantum
operata dal legislatore andrebbe letta in stretta connessione con gli interessi
pubblici di cui è portatrice la pubblica amministrazione, fermo restando che la
misura prevista dalla legge sarebbe da considerare come indubbiamente
caratterizzata da serietà.
2.4.– Nel giudizio è intervenuto il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, sostenendo l’infondatezza della sollevata questione di
legittimità costituzionale, e prospettando, in via preliminare,
l’inammissibilità della stessa.
2.4.1.– Secondo l’Avvocatura generale,
in punto di ammissibilità, il riparto di giurisdizione in materia è
disciplinato dall’art. 133 del codice del processo amministrativo (d.lgs. n.
104 del 2010), la cui lettera f) attribuisce alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo tutte le controversie aventi ad oggetto gli atti e i
provvedimenti delle pubbliche amministrazioni in materia urbanistica e
edilizia, tranne quelle riguardanti la determinazione e la corresponsione delle
indennità in conseguenza dell’adozione di atti di natura espropriativa.
Ne consegue che solo ove l’indennizzo
previsto dall’art. 42-bis fosse qualificabile come "indennità” potrebbe
ipotizzarsi la traslatio iudicii
prospettata dal giudice rimettente, in caso di superamento dei dubbi di
legittimità costituzionale sollevati.
Secondo la difesa erariale, invece, al
di là del termine utilizzato dalla norma (in stretta connessione con il
sostantivo utilizzato dal terzo comma dell’art. 42 Cost.), la ricostruzione
sistematica dell’istituto porterebbe a concludere per la configurabilità di una
obbligazione di matrice risarcitoria. Infatti, il presupposto dell’emanazione
dell’atto ablatorio da parte della pubblica amministrazione sarebbe costituito
dal pregresso cattivo uso dell’ordinario potere espropriativo, con conseguente
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, indipendentemente dalla
fondatezza o meno della sollevata questione di legittimità costituzionale della
norma, che difetterebbe, dunque, di rilevanza nell’ambito del regolamento di
giurisdizione azionato nel giudizio a quo.
2.4.1.2.– Ulteriore profilo di
inammissibilità sarebbe rinvenibile nella scarna descrizione della fattispecie
concreta da cui ha avuto origine la proposizione del regolamento di
giurisdizione, non avendo specificato il giudice a quo se la vicenda abbia
avuto origine da una ipotesi di occupazione "usurpativa” o di occupazione
"acquisitiva”, in dipendenza della mancanza, o meno, della dichiarazione di
pubblica utilità. Solo nel primo caso, secondo la costante giurisprudenza di
legittimità (richiamata nella stessa ordinanza di rimessione), il privato
avrebbe diritto alla restituzione del bene.
2.4.2.– Quanto al merito, secondo la
difesa erariale, il legislatore del 2011, con l’introduzione dell’art. 42-bis
(e non di un nuovo art. 43) nell’ambito del T.U. sulle espropriazioni, avrebbe
inteso assicurare un diverso bilanciamento degli interessi che si
contrappongono in caso di occupazione senza titolo – quello della pubblica
amministrazione a conservare l’opera pubblica e quello del privato ad un
ristoro per l’illegittimità subita – inserendo nell’ordinamento un istituto
affine, ma non identico, a quello disciplinato dall’art. 43, dichiarato
incostituzionale.
Gli elementi di discontinuità, che
consentirebbero di ritenere superati i profili di contrasto con i principi
enunciati dalla Corte di Strasburgo (mai pronunciatasi espressamente sulla
compatibilità dell’art. 43 con le previsioni della CEDU), si coglierebbero nei
seguenti aspetti:
− quanto agli effetti
dell’acquisto della proprietà del bene da parte della pubblica amministrazione,
esso avviene ex nunc, solo al momento dell’emanazione
dell’atto di esproprio, sicché risulterebbe sconfessata dal legislatore l’interpretazione
giurisprudenziale del precedente art. 43, che estendeva in via retroattiva
l’acquisto della proprietà del bene, anche in presenza di un giudicato che
avesse già disposto la restituzione del bene al privato;
− il legislatore avrebbe previsto uno
specifico obbligo motivazionale in capo alla pubblica amministrazione
procedente, che dovrebbe rendere note le ragioni di eccezionale interesse
pubblico che la spingono ad adottare una procedura che si presenterebbe come extrema ratio dell’agire amministrativo. Ciò sarebbe
dimostrato dal fatto che nella motivazione dell’atto non risulterebbe
sufficiente la mera indicazione della corrispondenza dell’opera all’interesse
pubblico, ma si dovrebbe dare conto della mancanza di possibili alternative
all’ablazione del bene e dell’impossibilità di restituirlo;
− nel computo dell’indennizzo
viene fatto rientrare non solo il danno patrimoniale, ma anche quello non
patrimoniale, forfetariamente liquidato nella misura del 10 per cento del
valore venale del bene (che costituisce un surplus rispetto alla somma che
sarebbe spettata nella vigenza della precedente disciplina), sottoponendo il
passaggio del diritto di proprietà alla condizione sospensiva del pagamento
delle somme dovute, da effettuare entro 30 giorni dal provvedimento di
acquisizione;
− la nuova disciplina si applica
non solo quando manchi del tutto l’atto espropriativo, ma anche laddove sia
stato annullato – o impugnato a tal fine, nel qual caso occorre il previo
ritiro in autotutela da parte della medesima pubblica amministrazione – l’atto
da cui sia sorto il vincolo preordinato all’esproprio, oppure la dichiarazione
di pubblica utilità dell’opera oppure, ancora, il decreto di esproprio;
− non si prevede più la cosiddetta
"acquisizione in via giudiziaria”, precedentemente disposta dal comma 3
dell’art. 43, in virtù della quale l’acquisizione del bene in favore della
pubblica amministrazione poteva realizzarsi anche per effetto
dell’intermediazione di una pronuncia del giudice amministrativo, volta a paralizzare
l’azione restitutoria proposta dal privato.
Tali elementi di novità sarebbero stati
valorizzati – sostiene l’Avvocatura generale – dalla giurisprudenza
amministrativa (Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza 15 marzo 2012, n.
1438) nel vagliare la tenuta costituzionale della nuova disciplina e la sua
compatibilità con i principi sanciti dalla Corte EDU. Questa giurisprudenza
considera il nuovo assetto della materia sufficientemente chiaro, preciso e
prevedibile, come tale compatibile con il principio di legalità di cui all’art.
1 del Primo Protocollo addizionale alla CEDU e con l’alto livello di protezione
accordato al diritto di proprietà dalla Corte di Strasburgo.
Quanto al contrasto – sottolineato dalla
giurisprudenza della Corte EDU richiamata nell’ordinanza di rimessione – degli
istituti dell’"espropriazione indiretta” con il principio di legalità
sostanziale, che impedisce alla pubblica amministrazione di trarre vantaggio
(anche indirettamente) da propri comportamenti illeciti, la difesa erariale
sottolinea che i richiamati precedenti della Corte di Strasburgo non avrebbero
affatto riguardato l’istituto dell’occupazione "sanante”, quanto piuttosto il
potere conferito al giudice (amministrativo) di impedire la restituzione del
bene ai sensi del terzo comma dell’art. 43, dichiarato incostituzionale e non
riproposto nella nuova disciplina.
2.5.– Con atto depositato in data 19
giugno 2014, è intervenuto nel presente giudizio D.G.G., nella qualità di erede
universale di C.R.
Questi specifica di non essere parte del
giudizio a quo, ma di altro giudizio avente ad oggetto l’occupazione di urgenza
di un fondo – nel territorio del Comune di Ragusa, di proprietà di uno dei
genitori, nel frattempo deceduto – finalizzata all’espropriazione per la costituzione
di una servitù coattiva di acquedotto, procedura non completatasi nei termini
assegnati, nonostante la parziale costruzione dell’opera, con conseguente
richiesta di restituzione del fondo, previo ripristino dello stato originario,
e, in subordine, di risarcimento del danno. Aggiunge che l’azione così
intrapresa è stata rigettata dall’autorità giudiziaria, per effetto del
provvedimento di acquisizione emanato ai sensi dell’art. 42-bis del T.U. sulle
espropriazioni – nelle more introdotto nell’ordinamento – con sentenza avverso
la quale è stato proposto ricorso alla Corte di cassazione, sezioni unite
civili, ancora pendente, al pari di altri tre giudizi innanzi al Tribunale
superiore delle acque pubbliche, instaurati per impugnare altrettanti provvedimenti
di acquisizione emessi sempre ai sensi dell’art. 42-bis oggetto del presente
giudizio di costituzionalità.
L’interveniente aderisce a tutte le
argomentazioni contenute nell’ordinanza di rimessione della Corte di
cassazione, sezioni unite civili (ritenute rilevanti anche per la fattispecie
concreta – dettagliatamente descritta ed illustrata con il deposito di copiosa
documentazione – affrontata nei giudizi in cui è parte).
Con memoria depositata in data 26
gennaio 2015, l’interveniente ha, in particolare, argomentato «sull’attualità
dell’interesse all’intervento».
2.6.– Con atto depositato in data 23
giugno 2014, è intervenuta nel presente giudizio la SEP – Società Edilizia
Pineto spa. La difesa della SEP spa specifica, a sua volta, di non essere parte
del giudizio a quo, ma di altro giudizio avente ad oggetto il progetto di
lavori di sistemazione a parco pubblico di aree nel Comune di Roma, opera
dichiarata di pubblica utilità con conseguente occupazione dell’area
interessata, di sua proprietà.
Aggiunge che l’intera procedura
espropriativa è stata annullata dal giudice amministrativo, sebbene in un
giudizio intrapreso da altri proprietari di fondi oggetto della medesima
occupazione di urgenza, ma con efficacia erga omnes.
Espone di avere, quindi, adito il TAR
Lazio per ottenere il ristoro dei danni subiti, vedendosi tuttavia rigettata la
domanda, con pronuncia impugnata in appello, in un giudizio ancora pendente.
Ciò perché, per effetto dell’annullamento degli atti della procedura
espropriativa, il privato deve considerarsi ancora proprietario del bene, onde
non può chiedere il controvalore di esso, previa rinuncia abdicativa alla
proprietà, non potendosi imporre alla pubblica amministrazione l’acquisto del
fondo, rimesso piuttosto ad una scelta discrezionale da esercitare con
l’emanazione del provvedimento previsto dall’art. 42-bis del T.U. sulle
espropriazioni, nelle more introdotto dall’ordinamento (oppure con l’avvio di
altra legittima procedura espropriativa o con gli ordinari strumenti
contrattuali).
Di qui, il prospettato interesse della
SEP spa ad intervenire nel presente giudizio, a sostegno della sollevata
questione di legittimità costituzionale della norma impugnata, il cui
accoglimento impedirebbe la rinuncia abdicativa del fondo in favore della
pubblica amministrazione, che lo ha irreversibilmente trasformato, previo
integrale risarcimento del danno subìto.
L’interveniente ha aderito a tutte le
argomentazioni contenute nell’ordinanza di rimessione della Corte di
cassazione, sezioni unite civili (ritenute rilevanti anche per la fattispecie
concreta affrontata nei giudizi di cui è parte, dettagliatamente descritta ed
illustrata con il deposito di copiosa documentazione).
3.– La seconda ordinanza della Corte di
cassazione, sezioni unite civili, (r.o. n. 90 del 2014) espone che il giudizio
a quo è stato instaurato da alcuni privati proprietari di fondi, dopo che il
Tribunale superiore delle acque pubbliche, con sentenza del 24 febbraio 2006
(confermata dalla Corte di cassazione, sezioni unite civili, con sentenza del 3
dicembre 2008, n. 28652), ha annullato gli atti della procedura ablativa
condotta dall’Agenzia interregionale del fiume Po (AIPO) nei confronti di tali
terreni, preordinata a realizzare un argine lungo un torrente, per evitare il ripetersi
di esondazioni in danno del territorio comunale.
Non avendo l’AIPO dato esecuzione alla
sentenza, i proprietari hanno ottenuto dal Tribunale superiore delle acque
pubbliche la nomina di un Commissario ad acta, con il potere di provvedere alla
restituzione degli immobili espropriandi, ovvero di
conseguirne l’acquisizione tramite l’istituto di cui all’art. 43 del T.U. sulle
espropriazioni, allora vigente.
Dichiarata tale ultima norma
incostituzionale (con sentenza n. 293 del
2010), ed introdotto nello stesso T.U. l’art. 42-bis, il Commissario ad
acta ha disposto l’acquisizione dei terreni al patrimonio dell’AIPO, liquidando
ai proprietari l’indennizzo di cui alla nuova norma.
Il ricorso contro il provvedimento
commissariale è stato quindi respinto dal Tribunale superiore delle acque
pubbliche con sentenza del 14 marzo 2012.
I proprietari dei terreni hanno proposto
ricorso per cassazione avverso la sentenza del Tribunale superiore delle acque
pubbliche, sollevando, in primo luogo, l’eccezione di illegittimità
costituzionale dell’art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni.
L’autorità giudiziaria adita ha
ritenuto, dunque, di sollevare questione di legittimità costituzionale della
norma di cui all’art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni
3.1.– Il giudice rimettente, in punto di
rilevanza, osserva che l’esame dei motivi di ricorso per cassazione potrebbe
portare al rigetto dello stesso, nella vigenza della norma della cui
legittimità costituzionale si dubita, mentre, ove l’art. 42-bis venisse espunto
dall’ordinamento, i ricorrenti potrebbero fruire del trattamento, risultante
dalla disciplina previgente e per loro più favorevole, consistente nella
restituzione dell’immobile soggetto ad occupazione in radice illegittima, oltre
al risarcimento del danno informato ai principi generali di cui all’art. 2043
cod. civ., con accoglimento dei restanti motivi di ricorso.
In sostanza, i ricorrenti – i quali, per
effetto della sentenza
n. 293 del 2010 di questa Corte, avrebbero avuto diritto, tanto al momento
del ricorso introduttivo del giudizio, quanto a quello del passaggio in
giudicato della sentenza del Tribunale superiore delle acque pubbliche che lo
aveva interamente accolto, alla restituzione dei loro immobili, nonché al
risarcimento del danno alla stregua dei parametri contenuti nell’art. 2043 cod.
civ. – in conseguenza del sopravvenuto art. 42-bis, nonché del provvedimento
acquisitivo adottato nel corso del giudizio, avrebbero perduto completamente la
tutela reale e potrebbero avvalersi soltanto di quella
«indennitaria/risarcitoria» dalla stessa introdotta.
3.2.– Quanto alla non manifesta
infondatezza della questione, il giudice rimettente ha ripercorso integralmente
i passaggi argomentativi già illustrati in precedenza, con riferimento al
giudizio r.o. n. 89 del 2014.
3.3.– Nel giudizio innanzi alla Corte,
con atto depositato il 24 giugno 2014, si sono costituiti anche i privati
proprietari dei fondi oggetto del provvedimento di acquisizione, i quali, in
via preliminare, hanno chiarito che tutte le loro iniziative giudiziarie sono
sempre state mirate ad ottenere la restituzione dei fondi e non il risarcimento
del danno per equivalente pecuniario.
In punto di non manifesta infondatezza,
le parti aderiscono in sostanza al contenuto dell’ordinanza del giudice a quo.
3.4.– Nel giudizio è intervenuto il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, sostenendo l’infondatezza della sollevata questione di
legittimità costituzionale e riproponendo le medesime difese di merito svolte
nel giudizio r.o. n. 89 del 2014.
3.5.– Con atto depositato in data 19
giugno 2014, è intervenuto nel presente giudizio D.G.G. nella qualità di erede
universale di C.R., specificando di non essere parte del giudizio a quo, bensì
di altro giudizio, riproponendo le argomentazioni di cui all’atto di intervento
nel giudizio r.o. n. 89 del 2014.
Con memoria depositata in data 26
gennaio 2015, l’interveniente ha ulteriormente argomentato «sull’attualità
dell’interesse all’intervento».
4.– L’ordinanza di rimessione del 12
maggio 2014 (r.o. n. 163 del 2014) è stata adottata dal TAR Lazio, sezione
seconda, nel corso di un giudizio avente ad oggetto una procedura posta in
essere dal Comune di Roma, originata dall’intervenuta approvazione, con
delibera della Giunta municipale del Comune di Roma 7 maggio 1981, n. 3253, del
progetto per la realizzazione di opere di edilizia scolastica comunale, con
contestuale dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità e urgenza nonché
autorizzazione all’occupazione d’urgenza, su una porzione di terreni di
proprietà della Corrida srl.
Effettuata l’occupazione dei terreni, le
opere sono state realizzate, senza che il Comune resistente abbia portato a
termine la procedura espropriativa mediante adozione di decreto di esproprio.
Tutti gli atti della procedura, ivi
compresa la delibera di approvazione del progetto e di dichiarazione di
pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza dell’opera, sono stati annullati
con sentenza del TAR Lazio del 28 ottobre 2002, n. 5711, confermata con
sentenza del Consiglio di Stato del 12 giugno 2009, n. 3731.
Adito il Tribunale civile di Roma al
fine di ottenere il risarcimento dei danni da occupazione, qualificata come
usurpativa, la società ricorrente, a seguito di pronuncia dichiarativa del
difetto di giurisdizione, ha quindi riassunto il giudizio innanzi al TAR Lazio.
Ritenendo che, a fronte dell’irreversibile trasformazione dell’area, per
effetto della realizzazione dell’opera pubblica, non potesse ritenersi
verificata l’accessione invertita – essendo stata annullata la dichiarazione di
pubblica utilità – la ricorrente ha chiesto l’accertamento dell’illiceità
dell’occupazione dei terreni e della loro irreversibile trasformazione per
effetto della realizzazione dell’opera pubblica comunale; l’accertamento e la
declaratoria della propria abdicazione al diritto di proprietà sulle aree
interessate dalla realizzazione dell’opera pubblica; l’accertamento del diritto
ad ottenere il risarcimento del danno per equivalente, corrispondente al valore
venale delle aree (aventi destinazione edificatoria), oltre al risarcimento del
danno per mancata loro utilizzazione durante il periodo di occupazione senza
titolo, a decorrere dall’inizio della stessa, maggiorato da rivalutazione
monetaria ed interessi di legge.
Il TAR ha preliminarmente dichiarato
l’inammissibilità della domanda volta all’accertamento dell’intervenuta
abdicazione al diritto di proprietà sulle aree interessate dalla realizzazione
dell’opera pubblica.
4.1.– Il giudice rimettente, in punto di
rilevanza, osserva che la fattispecie concreta rientra nell’ambito di
applicabilità del citato art. 42-bis. Il Tribunale dovrebbe quindi limitarsi a
ordinare all’amministrazione comunale di procedere alla restituzione alla
società ricorrente delle aree illegittimamente occupate, previa riduzione in
pristino, e a risarcire il danno per l’occupazione illegittima, fermo restando
che l’amministrazione potrebbe paralizzare tale pronuncia mediante l’adozione
del provvedimento di acquisizione ex nunc del bene al
proprio patrimonio indisponibile, con corresponsione al proprietario di un
indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale.
4.2.– Quanto alla non manifesta
infondatezza della questione, il TAR ripercorre integralmente i passaggi
argomentativi già illustrati in precedenza, con riferimento al giudizio r.o. n.
90 del 2014, replicando (quasi) letteralmente l’incedere argomentativo
dell’ordinanza di rimessione della Corte di cassazione, sezioni unite civili, e
riproponendo gli identici profili di contrasto con i parametri costituzionali
evocati nel provvedimento da ultimo menzionato.
4.3.– Nel giudizio innanzi alla Corte,
con atto depositato il 27 ottobre 2014, si è costituita anche la società
proprietaria dei fondi oggetto della procedura ablativa, chiedendo la
declaratoria di illegittimità costituzionale della norma impugnata.
4.4.– È intervenuto in giudizio il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, sostenendo l’infondatezza della questione di legittimità
costituzionale e riproponendo le medesime difese di merito svolte nel giudizio
r.o. n. 89 del 2014.
5.– L’ordinanza di rimessione del 5
giugno 2014 (r.o. n. 219 del 2014) è stata adottata dal TAR Lazio, sezione
seconda, nel corso di un giudizio avente ad oggetto l’occupazione di urgenza di
un appezzamento di terreno nel Comune di Roma, appartenente in comproprietà ad
alcuni privati, interamente trasformato in maniera irreversibile
dall’amministrazione e legittimamente espropriato solo per una parte, con
decreti del Presidente della Giunta regionale del Lazio 30 luglio 1993, n. 1420
e n. 1421.
I privati proprietari hanno promosso un
giudizio innanzi alla Corte d’appello di Roma per ottenere la determinazione
dell’indennità di occupazione, nonché, limitatamente alla parte espropriata, la
determinazione dell’indennità di esproprio.
Il giudizio si è concluso con sentenza
12 giugno 2000, n. 2043, passata in giudicato, con la quale la Corte d’appello
di Roma ha determinato e liquidato l’indennità di occupazione dell’intero
terreno originariamente occupato, per tutto il periodo di occupazione, e ha
determinato e liquidato l’indennità di esproprio per il terreno effettivamente
espropriato.
Nel corso del giudizio di fronte alla
Corte d’appello, è emerso che anche la restante parte del terreno non espropriata
era stata utilizzata dal Comune, che vi aveva eseguito la prevista opera
pubblica.
I privati proprietari, dunque, ritenuta
verificatasi la cosiddetta "accessione invertita”, con conseguente diritto al
risarcimento del danno in misura pari al valore venale del terreno
illecitamente acquisito (dopo la declaratoria di illegittimità costituzionale
del comma 7-bis dell’art. 5-bis del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333,
recante «Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica», convertito,
con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 8 agosto 1992, n. 359, per
effetto della sentenza
di questa Corte n. 349 del 2007), con motivi aggiunti hanno rappresentato
di avere inutilmente diffidato l’amministrazione a procedere, secondo il
sopravvenuto art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni, all’acquisizione del
terreno, previa determinazione e pagamento delle somme loro dovute.
Alla luce del mutato contesto normativo,
hanno quindi spiegato un’ulteriore domanda, alternativa rispetto a quella
originaria, volta a conseguire, in via costitutiva, il trasferimento in favore
di Roma Capitale della proprietà del terreno (alla quale non hanno più
interesse), oltre alla condanna dell’amministrazione al risarcimento del danno.
Il TAR ha preliminarmente dichiarato
l’inammissibilità della domanda volta all’accertamento dell’intervenuta
abdicazione, da parte dei ricorrenti, al diritto di proprietà sulle aree
interessate dalla realizzazione dell’opera pubblica.
5.1.– Il giudice rimettente, in punto di
rilevanza, in termini perfettamente identici rispetto all’ordinanza del TAR
Lazio del 12 maggio 2014 (illustrata nell’ambito del giudizio r.o. n. 163 del 2014),
osserva che la fattispecie concreta rientra nell’ambito di applicabilità del
citato art. 42-bis, sicché l’autorità giudiziaria dovrebbe limitarsi a ordinare
alla resistente amministrazione comunale di procedere alla restituzione alla
società ricorrente delle aree illegittimamente occupate, previa riduzione in
pristino, e a risarcire il danno per l’occupazione illegittima, fermo restando
che l’amministrazione potrebbe paralizzare tale pronuncia mediante l’adozione
del provvedimento con cui disporre l’acquisto ex nunc
del bene al suo patrimonio indisponibile, con corresponsione al proprietario di
un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale subìto.
5.2.– Quanto alla non manifesta
infondatezza della questione, il TAR ha ripercorso integralmente i passaggi
argomentativi già illustrati in precedenza con riferimento al giudizio r.o. n.
90 del 2014, anche in tal caso replicando (quasi) letteralmente l’incedere
argomentativo dell’ordinanza di rimessione della Corte di cassazione, sezioni unite
civili, e riproponendo gli identici profili di contrasto con i parametri
costituzionali evocati nel provvedimento da ultimo menzionato.
5.3.– Nel giudizio è intervenuto il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale
dello Stato, sostenendo l’infondatezza della sollevata questione di legittimità
costituzionale e riproponendo le medesime difese di merito svolte nel giudizio
r.o. n. 89 del 2014.
Considerato in diritto
1.– Le questioni sollevate dalla Corte
di cassazione, sezioni unite civili, e dal Tribunale amministrativo regionale
per il Lazio, sezione seconda, con quattro distinte ordinanze di contenuto in
larga misura coincidente (rispettivamente r.o. n. 89, n. 90, n. 163 e n. 219
del 2014), riguardano l’art. 42-bis del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo
unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di
espropriazione per pubblica utilità – Testo A), con il quale viene disciplinata
la «Utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico».
1.1.– I giudizi hanno ad oggetto la
stessa norma, censurata con riferimento agli stessi parametri, sotto gli stessi
profili e in gran parte con le stesse argomentazioni. Ponendo, pertanto,
identiche questioni, vanno riuniti e decisi con un’unica pronuncia.
1.2.– Va ribadito quanto statuito con
l’ordinanza della quale è stata data lettura in pubblica udienza, allegata al
presente provvedimento, in ordine all’inammissibilità dell’intervento, nel
giudizio promosso dalla Corte di cassazione r.o. n. 89 del 2014, della SEP –
Società Edilizia Pineto spa.
1.3.– Va, ancora, dichiarata
l’inammissibilità dell’intervento, in entrambi i giudizi promossi dalla Corte
di cassazione (r.o. n. 89 del 2014 e n. 90 del 2014), di D.G.G., il quale non è
parte dei giudizi a quibus, ma di altri giudizi in
cui si controverte circa la legittimità di procedure espropriative,
suscettibili di essere definiti con l’applicazione della norma impugnata.
Secondo la costante giurisprudenza di
questa Corte, infatti, possono partecipare al giudizio in via incidentale di
legittimità costituzionale le sole parti del giudizio principale e i terzi
portatori di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto
sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni
altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura (tra le tante, sentenze n. 162 del
2014, n. 293
del 2011, n.
118 del 2011 e n. 138 del 2010;
ordinanze n. 240
del 2014, n.
156 del 2013 e n. 150 del 2012).
I rapporti sostanziali dedotti in causa
dall’interveniente sono del tutto differenti rispetto a quelli oggetto dei
procedimenti da cui sono scaturiti i giudizi costituzionali r.o. n. 89 e n. 90
del 2014, pur essendo, secondo la prospettazione dello stesso interveniente,
suscettibili di essere regolati dalla norma oggetto di censura.
Sotto altro profilo, l’ammissibilità
d’interventi ad opera di terzi, titolari di interessi soltanto analoghi a
quelli dedotti nel giudizio principale, contrasterebbe con il carattere
incidentale del giudizio di legittimità costituzionale, in quanto l’accesso
delle parti al detto giudizio avverrebbe senza la previa verifica della
rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione da parte del
giudice a quo (per tutte, sentenze n. 119 del
2012, n. 49
del 2011 e ordinanza
n. 32 del 2013).
2.– Come l’analogo art. 43 del T.U.
sulle espropriazioni, dichiarato incostituzionale per eccesso di delega con sentenza n. 293 del
2010 di questa Corte, l’art. 42-bis oggi censurato ha ad oggetto la
disciplina dell’utilizzazione senza titolo, da parte della pubblica
amministrazione, di un bene immobile per scopi di interesse pubblico,
modificato in assenza di un valido provvedimento di esproprio o dichiarativo
della pubblica utilità.
Nei suoi tratti essenziali, la
disposizione prevede che l’autorità che utilizza il bene possa disporne
l’acquisizione, non retroattiva, al proprio patrimonio indisponibile, contro la
corresponsione di un indennizzo patrimoniale e non patrimoniale, quest’ultimo
forfetariamente liquidato nella misura del 10 per cento del valore venale del
bene. Per l’eventuale periodo di occupazione senza titolo è computato, a titolo
risarcitorio, un interesse del 5 per cento annuo sul valore venale, salva la
prova del maggior danno.
Le nuove regole valgono non solo quando manchi
del tutto l’atto espropriativo, ma anche laddove sia stato annullato l’atto da
cui sia sorto il vincolo preordinato all’esproprio, l’atto che abbia dichiarato
la pubblica utilità di un’opera o il decreto di esproprio.
Prevede la norma che il provvedimento di
acquisizione possa essere adottato anche durante la pendenza di un giudizio per
l’annullamento degli atti appena citati, ma a condizione che l’amministrazione
che ha adottato il precedente atto impugnato lo ritiri.
Il provvedimento di acquisizione deve
recare l’indicazione delle circostanze che hanno condotto alla indebita
utilizzazione dell’area, se possibile la data dalla quale essa ha avuto inizio,
e deve essere specificamente motivato in riferimento alle attuali ed
eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l’emanazione,
valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati. Deve essere
evidenziata altresì «l’assenza di ragionevoli alternative» alla adozione del
provvedimento. Il pagamento dell’indennizzo, liquidato nel provvedimento, deve
essere disposto entro trenta giorni, e la notifica dell’atto al proprietario
determina il passaggio del diritto di proprietà, sotto condizione sospensiva
del pagamento delle somme dovute ovvero del loro deposito. L’autorità che emana
il provvedimento ne dà inoltre comunicazione, entro trenta giorni, alla Corte
dei conti, mediante trasmissione di copia integrale.
Si prevede, infine, che queste
disposizioni trovino applicazione anche con riguardo a fatti anteriori
all’entrata in vigore della norma, ed anche se vi sia già stato un
provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o annullato, ferma
restando la necessità di rinnovare la valutazione di attualità e prevalenza
dell’interesse pubblico a disporre l’acquisizione.
3.– In punto di non manifesta
infondatezza, tutti i giudici rimettenti ritengono che la norma censurata si
ponga in contrasto con diversi parametri costituzionali.
3.1.– In primo luogo, l’art. 42-bis
contrasterebbe con gli artt. 3 e 24 della Costituzione, riservando un
trattamento privilegiato alla pubblica amministrazione che abbia commesso un
fatto illecito, fonte, per qualsiasi altro soggetto, dell’obbligazione
«risarcitoria/restitutoria» di cui agli artt. 2043 e 2058 del codice civile. La
disposizione censurata, infatti, attribuirebbe alla pubblica amministrazione la
facoltà di mutare – successivamente all’evento dannoso prodotto nella sfera
giuridica altrui, e per effetto di una propria unilaterale manifestazione di
volontà – il titolo e l’ambito della responsabilità, nonché il tipo di sanzione
(da risarcimento in indennizzo) stabiliti in via generale dal precetto del neminem laedere, pur avendo
operato al di fuori della funzione amministrativa. Ciò le consentirebbe di
trarre vantaggio da una situazione di illegalità da essa stessa determinata,
sottraendo, peraltro, al privato danneggiato la tutela restitutoria, alla quale
in precedenza aveva diritto.
Sotto altro profilo, l’indennizzo
previsto dalla norma impugnata sarebbe ingiustificatamente inferiore nel
confronto con l’espropriazione legittima dello stesso immobile.
La norma, poi, avrebbe trasformato il
precedente regime risarcitorio in un indennizzo derivante da atto lecito, che
di conseguenza assumerebbe natura di debito di valuta non automaticamente
soggetto alla rivalutazione monetaria.
Anche il ristoro che avrebbe mantenuto
natura risarcitoria, ossia il corrispettivo per il periodo di occupazione
illegittima antecedente al provvedimento di acquisizione, verrebbe determinato
in base ad un parametro riduttivo rispetto a quelli cui è commisurato l’analogo
indennizzo per la legittima occupazione temporanea dell’immobile.
3.2.– In secondo luogo, tutti i giudici
rimettenti dubitano della compatibilità della norma impugnata con gli artt. 42,
97 e 113 Cost.
Osservano, in proposito, che la
dichiarazione di pubblica utilità dell’opera si pone come garanzia prima e
fondamentale del cittadino e, nel contempo, quale ragione giustificatrice del
suo sacrificio, sicché, in mancanza di questa, si determinerebbe il difetto di
potere dell’amministrazione nel procedere all’espropriazione. La norma
costituzionale richiederebbe, infatti, che i motivi d’interesse generale che
giustificano l’esercizio del potere espropriativo, nei (soli) casi stabiliti
dalla legge, siano predeterminati dall’amministrazione ed emergano da un
apposito procedimento – individuato, appunto, in quello dichiarativo del
pubblico interesse culminante nell’adozione della dichiarazione di pubblica
utilità – preliminare, autonomo e strumentale rispetto al successivo
procedimento espropriativo in senso stretto.
Nella prospettazione dei rimettenti, i
motivi di interesse generale richiesti dal terzo comma dell’art. 42 Cost.
dovrebbero palesarsi gradualmente e anteriormente al sacrificio del diritto di
proprietà, in un momento in cui la comparazione tra l’interesse pubblico e
l’interesse privato possa effettivamente evidenziare la scelta migliore, nel
rispetto dei principi d’imparzialità e proporzionalità (ai sensi dell’art. 97
Cost.). In un momento, cioè, in cui la lesione del diritto di proprietà non sia
ancora attuale ed eventuali ipotesi alternative all’espropriazione non siano
ostacolate da una situazione fattuale ormai irreversibilmente compromessa.
L’art. 42-bis, invece, prescindendo
dalla dichiarazione di pubblica utilità, autorizzerebbe l’espropriazione in
assenza di una predeterminazione dei motivi d’interesse generale, reputando
sufficiente che la perdita del bene da parte del proprietario trovi
giustificazione nella situazione di fatto venutasi a creare per effetto del
comportamento contra ius dell’amministrazione.
Ulteriore profilo di illegittimità
costituzionale, per contrasto con l’art. 42 Cost., è individuato nella ritenuta
assenza, nella norma, di termini certi di avvio e conclusione del procedimento,
con conseguente esposizione del diritto di proprietà al pericolo
dell’emanazione del provvedimento acquisitivo senza limiti di tempo.
3.3.– I giudici rimettenti dubitano,
ancora, della conformità della norma impugnata all’art. 117, primo comma,
Cost., per contrasto con i principi della Convenzione per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre
1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (d’ora in
avanti «CEDU»), secondo l’interpretazione fornita dalla Corte di Strasburgo
dell’art. 1 del Primo Protocollo addizionale. La Corte europea avrebbe,
infatti, dichiarato «in radicale contrasto» con tale art. 1 il fenomeno
dell’"espropriazione indiretta”, nel quale il trasferimento della proprietà del
bene dal privato alla pubblica amministrazione avviene in virtù della
constatazione della situazione di illegalità o illiceità commessa da
quest’ultima, con l’effetto di convalidarla, consentendo all’amministrazione di
trarne vantaggio e di passare oltre le regole fissate in materia di
espropriazione, con il rischio di un risultato imprevedibile o arbitrario per
gli interessati.
La Corte EDU, osservano i rimettenti, ha
sempre ritenuto che una tale vicenda ponga problemi alla luce del principio di
legalità tutelato dalla Convenzione, non solo quando giustificata unicamente
dalla giurisprudenza in via pretoria, ma anche quando consentita mediante
disposizioni legislative. Ciò perché il principio di legalità non si accontenta
della mera esistenza di una norma di legge che consenta l’espropriazione
indiretta, bensì richiede l’esistenza di norme giuridiche interne
sufficientemente accessibili, precise e prevedibili.
3.4.– I giudici rimettenti, infine,
dubitano della conformità della norma censurata agli artt. 111, primo e secondo
comma, e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della CEDU, secondo
l’interpretazione fornita dalla Corte di Strasburgo.
La Corte EDU, infatti, ha ripetutamente
considerato lecita l’applicazione dello ius superveniens in cause già pendenti soltanto in presenza di
«ragioni imperative di interesse generale», pena la violazione del principio di
legalità nonché del diritto ad un processo equo. Ciò perché, in ipotesi del
genere, il potere legislativo introduce nuove disposizioni specificamente
dirette ad influire sull’esito di un giudizio già in corso (specie considerando
i giudizi ove sia parte un’amministrazione pubblica), inducendo il giudice a
decisioni su base diversa da quella alla quale la controparte poteva
legittimamente aspirare al momento di introduzione della lite.
La norma censurata violerebbe questi
principi, in quanto, malgrado la precisazione del primo comma secondo cui
l’atto di acquisizione è destinato a non operare retroattivamente, con la
disposizione dell’ottavo comma avrebbe confermato la possibilità
dell’amministrazione di utilizzare il provvedimento ex tunc,
per fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed anche se vi sia già stato un
provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o annullato, in conformità
alla finalità di attribuire alle amministrazioni occupanti una legale via di
uscita dalle situazioni di illegalità venutesi a verificare nel corso degli
anni.
Sotto tale profilo, la norma
risulterebbe anche in contrasto con l’art. 111, primo e secondo comma, Cost.,
nella parte in cui, disponendo la propria applicabilità ai giudizi in corso,
violerebbe i principi del giusto processo, in particolare la condizione di
parità delle parti davanti al giudice, che risulterebbe lesa dall’intromissione
del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia, allo scopo di
influire sulla risoluzione di una circoscritta e determinata categoria di
controversie.
4.– In via preliminare, deve essere
dichiarata l’inammissibilità, per difetto di rilevanza, delle questioni
sollevate con le due ordinanze (r.o. n. 163 del 2014 e n. 219 del 2014) del TAR
Lazio, sezione seconda.
In entrambi i casi, infatti, non risulta
essere stato emanato alcun provvedimento di acquisizione ex art. 42-bis del
T.U. sulle espropriazioni da parte della pubblica amministrazione.
Il TAR rimettente, anzi, in entrambe le
ordinanze ha affermato che dovrebbe limitarsi a ordinare alla resistente
pubblica amministrazione di procedere alla restituzione alla parte ricorrente
delle aree illegittimamente occupate, previa riduzione in pristino, e a
risarcire il danno per l’occupazione illegittima, fermo restando che
l’amministrazione «può paralizzare tale pronuncia mediante l’adozione del
provvedimento con cui disporre l’acquisto ex nunc del
bene al suo patrimonio indisponibile».
Trattasi, dunque, di una circostanza
solo eventuale che non risulta essersi realizzata, il che esclude la necessità
di fare applicazione nel caso concreto della norma impugnata.
5.– Sempre in via preliminare, occorre
esaminare le eccezioni di inammissibilità prospettate dall’Avvocatura generale
dello Stato e dal Comune di Porto Cesareo (parte costituita nel procedimento a
quo) nel giudizio r.o. n. 89 del 2014.
5.1.– Secondo l’Avvocatura generale, il
riparto di giurisdizione in materia è disciplinato dall’art. 133, primo comma,
del codice del processo amministrativo (decreto legislativo 2 luglio 2010, n.
104, recante «Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69,
recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo»), la cui
lettera f) attribuisce alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo
tutte le controversie aventi ad oggetto gli atti e i provvedimenti delle
pubbliche amministrazioni in materia urbanistica e edilizia, tranne quelle
riguardanti la determinazione e la corresponsione delle indennità in
conseguenza dell’adozione di atti di natura espropriativa o ablativa.
Ne consegue che, solo ove l’indennizzo
previsto dall’art. 42-bis fosse qualificabile come "indennità”, potrebbe ipotizzarsi
la traslatio iudicii
prospettata dal giudice rimettente, in caso di superamento dei dubbi di
legittimità costituzionale sollevati.
Secondo la difesa erariale, invece, al
di là del termine utilizzato dalla norma (in stretta connessione con il sostantivo
utilizzato dal terzo comma dell’art. 42 Cost.), la ricostruzione sistematica
dell’istituto porterebbe a concludere per la configurabilità di una
obbligazione di matrice risarcitoria, con conseguente giurisdizione esclusiva
del giudice amministrativo, indipendentemente dalla fondatezza o meno della
sollevata questione di legittimità costituzionale della norma. Difetterebbe,
dunque, la rilevanza della questione nell’ambito del regolamento di
giurisdizione azionato nel giudizio a quo.
5.1.1.– L’eccezione non è fondata.
Il giudizio di rilevanza, per costante
giurisprudenza costituzionale, è riservato al giudice rimettente, sì che
l’intervento della Corte deve limitarsi ad accertare l’esistenza di una
motivazione sufficiente, non palesemente erronea o contraddittoria, senza
spingersi fino ad un esame autonomo degli elementi che hanno portato il giudice
a quo a determinate conclusioni.
In altre parole, nel giudizio di
costituzionalità, ai fini dell’apprezzamento della rilevanza, ciò che conta è
la valutazione che il rimettente deve fare in ordine alla possibilità che il
procedimento pendente possa o meno essere definito indipendentemente dalla
soluzione della questione sollevata, potendo la Corte interferire su tale
valutazione solo se essa, a prima vista, appaia assolutamente priva di
fondamento (ex plurimis, sentenze n. 91 del
2013, n. 41
del 2011 e n.
270 del 2010). Un simile presupposto non si verifica nel caso di specie,
avendo il rimettente motivato in maniera non implausibile
circa la qualificazione in termini indennitari (e non risarcitori) del ristoro
previsto dalla norma censurata per il pregiudizio patrimoniale e non
patrimoniale subìto dal privato (peraltro conformemente ad un indirizzo accolto
– sebbene non unanimemente – anche dalla giurisprudenza amministrativa: Consiglio
di Stato, sezione quarta, sentenza 29 agosto 2013, n. 4318 e, sezione sesta,
sentenza 15 marzo 2012, n. 1438).
5.2.– Un ulteriore profilo di
inammissibilità per difetto di rilevanza è individuato dall’Avvocatura generale
nella scarna descrizione della fattispecie concreta da cui ha avuto origine la
proposizione del regolamento di giurisdizione. Il giudice rimettente non
avrebbe, infatti, specificato se la vicenda abbia avuto origine da un’ipotesi
di occupazione "usurpativa” o di occupazione "acquisitiva”. Solo nel primo
caso, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, il privato avrebbe
diritto alla restituzione del bene.
5.2.1.– Anche tale eccezione non è
fondata.
Sebbene in termini sintetici,
l’ordinanza di rimessione specifica che la dichiarazione di pubblica utilità
dell’opera era in effetti intervenuta, ma che ne erano inutilmente scaduti i
termini, rientrando, dunque, la fattispecie nell’ambito della cosiddetta
occupazione acquisitiva.
5.3.– Il Comune di Porto Cesareo ha
eccepito, a sua volta, l’inammissibilità della questione di legittimità
costituzionale.
Il giudice rimettente, infatti, ha
sostenuto che, qualora l’art. 42-bis venisse espunto dall’ordinamento, il
privato potrebbe aspirare ad ottenere la restituzione del bene illegittimamente
occupato.
Ad avviso del Comune, tale restituzione
non sarebbe più ipotizzabile, in virtù del giudicato formatosi sulla precedente
sentenza (del 25 giugno 2010, n. 1614) del TAR adito, che ne aveva
espressamente esclusa la possibilità. Ciò, peraltro, su sostanziale rinuncia
dello stesso ricorrente a conseguire la restituzione, come dimostrato dal
contenuto dei motivi aggiunti proposti nel giudizio amministrativo ancora
pendente, tendenti solo ad ottenere la determinazione dell’indennizzo in
seguito al provvedimento ex art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni nelle
more adottato dal Comune di Porto Cesareo.
Nessuna utilità – osserva il Comune −
potrebbe dunque ricavare il privato dalla eventuale caducazione della norma
impugnata.
5.3.1.– L’eccezione non è fondata.
Il regolamento di giurisdizione è stato
proposto – proprio dal Comune resistente – perché il privato ha comunque
chiesto anche la rideterminazione dell’indennizzo, esattamente in forza
dell’art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni, entrato in vigore nelle more
del giudizio. Come evidenziato nell’ordinanza di rimessione, ne risulta che se
la norma censurata fosse dichiarata incostituzionale, il ristoro economico
sarebbe assoggettato al regime del risarcimento ex art. 2043 cod. civ., a
prescindere dal riconoscimento del diritto alla restituzione del bene.
In altri termini, la rilevanza della
questione emerge dal fatto che se la questione di legittimità costituzionale
fosse accolta, il giudizio rimarrebbe incardinato innanzi al giudice
amministrativo, investito della domanda di rideterminazione del ristoro
economico, che acquisterebbe natura risarcitoria; se essa fosse rigettata, ne
deriverebbe invece la traslatio iudicii
innanzi al giudice ordinario, per i profili di quantificazione dell’indennizzo
previsto dall’art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni.
5.4.– Sotto altro aspetto, quello del
diritto al risarcimento integrale del danno (informato ai principi di cui agli
artt. 2043 e 2059 cod. civ.), in luogo del mero indennizzo, il Comune eccepisce
ulteriormente l’inammissibilità della questione per difetto di rilevanza, in
quanto il danno sarebbe già stato determinato in forma integrale, sempre in
esecuzione del giudicato formatosi sulla precedente sentenza n. 1614 del 2010
del Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione distaccata di
Lecce, adempiendo al quale la determinazione dell’indennizzo sarebbe stata
superiore a quanto spettante in applicazione della norma censurata.
5.4.1.– Anche tale eccezione è
infondata, inerendo al merito del giudizio che ha dato luogo al regolamento di
giurisdizione, e nell’ambito del quale dovrà essere vagliata dall’autorità
giudiziaria che sarà individuata come attributaria
della controversia.
6.– Le questioni sollevate dalla Corte
di cassazione, sezioni unite civili, con le ordinanze r.o. n. 89 e n. 90 del
2014, non sono fondate, in riferimento agli artt. 3, 24, 97 e 113 Cost. Con
riferimento agli artt. 42, 111, primo e secondo comma, e 117, primo comma,
Cost., tali questioni non sono fondate nei sensi di cui in motivazione.
6.1.– L’art. 42-bis è stato introdotto
nel T.U. sulle espropriazioni dall’art. 34, comma 1, del decreto-legge 6 luglio
2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria),
convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio
2011, n. 111, dopo che questa Corte, con sentenza n. 293 del
2010, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale, per eccesso di
delega, dell’art. 43 del medesimo T.U. sulle espropriazioni, che disciplinava
un istituto affine.
6.2.– È utile partire dalla sommaria
descrizione del contesto, anche giurisprudenziale, nel quale sono stati
inseriti, dapprima l’art. 43, e poi l’art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni.
Come è noto, in presenza di una serie di
patologie rilevabili nei procedimenti amministrativi di espropriazione, la
giurisprudenza di legittimità aveva elaborato gli istituti dell’occupazione «appropriativa» ed «usurpativa».
In sintesi, la prima era caratterizzata
da una anomalia del procedimento espropriativo, a causa della sua mancata
conclusione con un formale atto ablativo, mentre la seconda era collegata alla
trasformazione del fondo di proprietà privata, in assenza di dichiarazione di
pubblica utilità. Nel primo caso (a partire dalla sentenza della Corte di
cassazione, sezioni unite civili, 26 febbraio 1983, n. 1464), l’acquisto della
proprietà conseguiva ad un’inversione della fattispecie civilistica
dell’accessione di cui agli artt. 935 e seguenti cod. civ., in considerazione
della trasformazione irreversibile del fondo. Secondo questa ricostruzione, la
destinazione irreversibile del suolo privato illegittimamente occupato
comportava l’acquisto a titolo originario, da parte dell’ente pubblico, della
proprietà del suolo e la contestuale estinzione del diritto di proprietà del
privato. La successiva sentenza della Corte di cassazione, sezioni unite
civili, 10 giugno 1988, n. 3940, precisò poi la figura della «occupazione
acquisitiva», limitandola al caso in cui si riscontrasse una valida
dichiarazione di pubblica utilità che permetteva di far prevalere l’interesse
pubblico su quello privato.
L’«occupazione usurpativa», invece, non
accompagnata da dichiarazione di pubblica utilità, ab initio
o per effetto dell’intervenuto annullamento del relativo atto o per scadenza
dei relativi termini, in quanto tale non determinava l’effetto acquisitivo a
favore della pubblica amministrazione.
6.3.– Nel dichiarare l’illegittimità
costituzionale dell’art. 43 del T.U. sulle espropriazioni per eccesso di
delega, questa Corte (sentenza n. 293 del
2010) ha rilevato che l’intervento della pubblica amministrazione sulle
procedure ablatorie, come disciplinato dalla norma da ultimo richiamata,
eccedeva gli istituti della occupazione appropriativa
ed usurpativa, così come delineati dalla giurisprudenza di legittimità,
prevedendo un generalizzato potere di sanatoria, attribuito alla stessa
amministrazione che aveva commesso l’illecito, addirittura a dispetto di un
giudicato che avesse disposto il ristoro in forma specifica del diritto di
proprietà violato.
Nella medesima pronuncia, questa Corte
aveva, inoltre, prospettato in termini dubitativi la compatibilità del
meccanismo di "acquisizione sanante”, per come disciplinato dalla norma allora
impugnata, con la giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Quest’ultima,
infatti, sia pure incidentalmente, ha più volte osservato che l’espropriazione
cosiddetta indiretta si pone in violazione del principio di legalità, perché
non è in grado di assicurare un sufficiente grado di certezza e permette
all’amministrazione di utilizzare a proprio vantaggio una situazione di fatto
derivante da «azioni illegali». Ciò accade sia allorché tale situazione
costituisca conseguenza di un’interpretazione giurisprudenziale, sia allorché
derivi da una legge (con espresso riferimento all’art. 43 del T.U. sulle
espropriazioni), in quanto l’espropriazione indiretta non può comunque costituire
un’alternativa ad un’espropriazione adottata secondo «buona e debita forma» (sentenza
12 gennaio 2006, Sciarrotta e altri contro Italia).
6.4.– È dunque opportuno che lo scrutinio
della norma censurata nel presente giudizio di legittimità costituzionale sia
preceduto da un suo raffronto con l’art. 43 del T.U. sulle espropriazioni,
dovendosi, dapprima, stabilire se il nuovo meccanismo acquisitivo risulti
disciplinato in modo difforme rispetto a quello previsto dal precedente art.
43, e successivamente valutare la consistenza delle censure mosse dalle
ordinanze di rimessione.
6.5.– L’art. 42-bis del T.U. sulle
espropriazioni ha certamente reintrodotto la possibilità, per l’amministrazione
che utilizza senza titolo un bene privato per scopi di interesse pubblico, di
evitarne la restituzione al proprietario (e/o la riduzione in pristino stato),
attraverso un atto di acquisizione coattiva al proprio patrimonio
indisponibile. Tale atto sostituisce il regolare procedimento ablativo
prefigurato dal T.U. sulle espropriazioni, e si pone, a sua volta, come una
sorta di procedimento espropriativo semplificato, che assorbe in sé sia la
dichiarazione di pubblica utilità, sia il decreto di esproprio, e quindi
sintetizza uno actu lo svolgimento dell’intero
procedimento, in presenza dei presupposti indicati dalla norma.
Come evidenziato dalla difesa erariale,
tuttavia, il nuovo meccanismo acquisitivo presenta significative differenze
rispetto all’art. 43 del T.U. sulle espropriazioni.
La nuova disposizione, risolvendo un
contrasto interpretativo insorto in giurisprudenza sull’art. 43 appena citato,
dispone espressamente che l’acquisto della proprietà del bene da parte della
pubblica amministrazione avvenga ex nunc, solo al
momento dell’emanazione dell’atto di acquisizione (ciò che impedisce l’utilizzo
dell’istituto in presenza di un giudicato che abbia già disposto la
restituzione del bene al privato).
Inoltre, la norma censurata impone uno
specifico obbligo motivazionale "rafforzato” in capo alla pubblica
amministrazione procedente, che deve indicare le circostanze che hanno condotto
alla indebita utilizzazione dell’area e se possibile la data dalla quale essa
ha avuto inizio.
La motivazione, in particolare, deve
esibire le «attuali ed eccezionali» ragioni di interesse pubblico che
giustificano l’emanazione dell’atto, valutate comparativamente con i
contrapposti interessi privati, e deve, altresì, evidenziare l’assenza di
ragionevoli alternative alla sua adozione.
Ancora, nel computo dell’indennizzo
viene fatto rientrare non solo il danno patrimoniale, ma anche quello non
patrimoniale, forfetariamente liquidato nella misura del 10 per cento del
valore venale del bene. Ciò costituisce sicuramente un ristoro supplementare
rispetto alla somma che sarebbe spettata nella vigenza della precedente
disciplina.
Il passaggio del diritto di proprietà,
inoltre, è sottoposto alla condizione sospensiva del pagamento delle somme
dovute, da effettuare entro 30 giorni dal provvedimento di acquisizione.
La nuova disciplina si applica non solo
quando manchi del tutto l’atto espropriativo, ma anche laddove sia stato
annullato – o impugnato a tal fine, nel qual caso occorre il previo ritiro in
autotutela da parte della medesima pubblica amministrazione – l’atto da cui sia
sorto il vincolo preordinato all’esproprio, oppure la dichiarazione di pubblica
utilità dell’opera oppure, ancora, il decreto di esproprio.
Non è stata più riproposta la cosiddetta
acquisizione in via giudiziaria, precedentemente prevista dal comma 3 dell’art.
43, ed in virtù della quale l’acquisizione del bene in favore della pubblica
amministrazione poteva realizzarsi anche per effetto dell’intervento di una
pronuncia del giudice amministrativo, volta a paralizzare l’azione restitutoria
proposta dal privato.
Non secondaria, nell’economia
complessiva del nuovo istituto, è infine la previsione (non presente nel
precedente art. 43) in base alla quale l’autorità che emana il provvedimento di
acquisizione ne dà comunicazione, entro trenta giorni, alla Corte dei conti
mediante trasmissione di copia integrale.
Si è, dunque, in presenza di un istituto
diverso da quello disciplinato dall’art. 43 del T.U. sulle espropriazioni.
Occorre ora esaminare partitamente le censure
mosse dalle ordinanze di rimessione, con riferimento ai singoli parametri
evocati.
6.6.– La prima censura attiene al
supposto contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost.
Il parametro di cui all’art. 3 Cost.
viene invocato dai giudici rimettenti sotto il duplice versante della
violazione del principio di eguaglianza – con profili involgenti anche la
violazione dell’art. 24 Cost., sub specie di compressione del diritto di difesa
– e dell’intrinseca irragionevolezza della norma impugnata.
La questione non è fondata.
6.6.1.– Quanto al primo versante della
questione così posta, i giudici rimettenti rilevano che la norma riserverebbe
un trattamento privilegiato alla pubblica amministrazione rispetto a qualsiasi
altro soggetto dell’ordinamento che abbia commesso un fatto illecito, pur in
mancanza di un pregresso effettivo esercizio di funzione amministrativa e,
dunque, sulla base della sola qualifica soggettiva dell’autore della condotta.
Secondo il costante orientamento della
giurisprudenza costituzionale, la violazione del principio di eguaglianza
sussiste solo qualora situazioni sostanzialmente identiche siano disciplinate
in modo ingiustificatamente diverso, ma non quando alla diversità di disciplina
corrispondano situazioni non assimilabili (ex plurimis,
sentenza n. 155
del 2014; ordinanze
n. 41 del 2009 e n. 109 del 2004),
sempre con il limite generale dei principî di proporzionalità e ragionevolezza
(sentenza n. 85
del 2013).
Nel caso di specie, i giudici rimettenti
omettono di considerare che, se pure il presupposto di applicazione della norma
sia «l’indebita utilizzazione dell’area» – ossia una situazione creata dalla
pubblica amministrazione in carenza di potere (per la mancanza di una
preventiva dichiarazione di pubblica utilità dell’opera o per l’annullamento o
la perdita di efficacia di essa) – tuttavia l’adozione dell’atto acquisitivo,
con effetti non retroattivi, è certamente espressione di un potere attribuito
appositamente dalla norma impugnata alla stessa pubblica amministrazione. Con
l’adozione di tale atto, quest’ultima riprende a muoversi nell’alveo della
legalità amministrativa, esercitando una funzione amministrativa ritenuta
meritevole di tutela privilegiata, in funzione degli scopi di pubblica utilità perseguiti,
sebbene emersi successivamente alla consumazione di un illecito ai danni del
privato cittadino.
Sotto questo punto di vista, trascurato
dai rimettenti, la situazione appare conforme alla giurisprudenza di questa
Corte, secondo cui «[…] la P.A. ha una posizione di preminenza in base alla
Costituzione non in quanto soggetto, ma in quanto esercita potestà
specificamente ed esclusivamente attribuitele nelle forme tipiche loro proprie.
In altre parole, è protetto non il soggetto, ma la funzione, ed è alle singole
manifestazioni della P.A. che è assicurata efficacia per il raggiungimento dei
vari fini pubblici ad essa assegnati» (così la sentenza n. 138 del
1981).
Di conseguenza, neppure potrebbe dirsi
violato l’art. 24 Cost., come sostengono i rimettenti. Tale norma
costituzionale è infatti posta a presidio del diritto alla tutela
giurisdizionale (ordinanza
n. 32 del 2013), assumendo così una valenza processuale (ordinanze n. 244
del 2009 e n.
180 del 2007).
In particolare, l’art. 24, come pure il
successivo art. 113 Cost., enunciano il principio dell’effettività del diritto
di difesa, il primo in ambito generale, il secondo con riguardo alla tutela
contro gli atti della pubblica amministrazione, ed entrambi tali parametri sono
volti a presidiare l’adeguatezza degli strumenti processuali posti a
disposizione dall’ordinamento per la tutela in giudizio dei diritti, operando
esclusivamente sul piano processuale (in tal senso, ex plurimis,
sentenza n. 20
del 2009).
Ne deriva che la violazione di tale
parametro costituzionale può considerarsi sussistente solo nei casi di
«sostanziale impedimento all’esercizio del diritto di azione garantito
dall’art. 24 della Costituzione» (sentenza n. 237 del
2007) o di imposizione di oneri tali da compromettere irreparabilmente la
tutela stessa (ordinanza
n. 213 del 2005) e non anche nel caso in cui, come nella specie, la norma
censurata non elimini affatto la possibilità di usufruire della tutela
giurisdizionale (sentenza
n. 85 del 2013). Tale tutela viene bensì parzialmente "conformata”, in modo
da garantire comunque un serio ristoro economico, prevedendosi l’esclusione
delle sole azioni restitutorie; ma queste ultime non sarebbero congruamente
esperibili rispetto ad un comportamento non più qualificato in termini di
illecito.
In definitiva, il diritto alla tutela
giurisdizionale, a presidio del quale la norma costituzionale invocata è posta
(sentenza n. 15
del 2012), non risulta violato dalla disposizione censurata.
6.6.2.– Sotto altro aspetto, sempre
secondo i giudici rimettenti, la violazione del principio di eguaglianza
risulterebbe dal fatto che l’indennizzo previsto dalla norma censurata sarebbe
ingiustificatamente inferiore nel confronto con l’espropriazione in via
ordinaria dello stesso immobile.
In realtà, la norma attribuisce al
privato proprietario il diritto ad ottenere il ristoro del danno patrimoniale
nella misura pari al valore venale del bene (così come accade per
l’espropriazione condotta nelle forme ordinarie), oltre ad una somma a titolo
di danno non patrimoniale, quantificata in misura pari al 10 per cento del
valore venale del bene. Si è perciò in presenza di un importo ulteriore, non
previsto per l’espropriazione condotta nelle forme ordinarie, determinato
direttamente dalla legge, in misura certa e prevedibile. E deve sottolinearsi
che il privato, in deroga alle regole ordinarie, è in tal caso sollevato
dall’onere della relativa prova.
Quanto all’indennità dovuta per il
periodo di occupazione illegittima antecedente al provvedimento di
acquisizione, è vero che essa viene determinata in base ad un parametro
riduttivo rispetto a quello cui è commisurato l’analogo indennizzo per la
(legittima) occupazione temporanea dell’immobile, ma il terzo comma della norma
impugnata contiene una clausola di salvaguardia, in base alla quale viene fatta
salva la prova di una diversa entità del danno.
6.6.3.– Sollecitano i giudici rimettenti
un ulteriore vaglio di conformità al principio di eguaglianza, in quanto nel
sistema delineato dalla norma censurata il bene privato detenuto sine titulo sarebbe sottoposto in perpetuo al sacrificio
dell’espropriazione, mentre nel procedimento ordinario di espropriazione
l’esposizione al pericolo dell’emanazione del provvedimento acquisitivo è
temporalmente limitata all’efficacia della dichiarazione di pubblica utilità.
La norma impugnata, in effetti, non
prevede alcun termine per l’esercizio del potere riconosciuto alla pubblica
amministrazione. Ma i rimettenti non hanno preso in considerazione le
molteplici soluzioni, elaborate dalla giurisprudenza amministrativa, per
reagire all’inerzia della pubblica amministrazione autrice dell’illecito: a
seconda degli orientamenti, infatti, talvolta è stato posto a carico del
proprietario l’onere di esperire il procedimento di messa in mora, per poi
impugnare l’eventuale silenzio-rifiuto dell’amministrazione; in altri casi, è
stato riconosciuto al giudice amministrativo anche il potere di assegnare
all’amministrazione un termine per scegliere tra l’adozione del provvedimento
di cui all’art. 42-bis e la restituzione dell’immobile.
È dunque possibile scegliere – tra le
molteplici elaborate – un’interpretazione idonea ad evitare il pregiudizio
consistente nell’asserita esposizione in perpetuo al potere di acquisizione,
senza in alcun modo forzare la lettera della disposizione (per tutte, tra le
più recenti, sentenza
n. 235 del 2014).
6.6.4.– I rimettenti lamentano, infine,
l’intrinseca irragionevolezza dell’art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni,
con presunta violazione dell’art. 3 Cost. anche sotto questo profilo.
Secondo i giudici rimettenti, in primo
luogo, la norma avrebbe trasformato il precedente regime risarcitorio in un
indennizzo derivante da atto lecito, che di conseguenza assumerebbe natura di
debito di valuta, non automaticamente soggetto alla rivalutazione monetaria.
Lamentano, inoltre, i rimettenti che il
ristoro economico assicurato resterebbe pur sempre inferiore nel confronto con
l’espropriazione per le vie ordinarie dello stesso immobile, in quanto: a) ove
il fondo abbia destinazione edificatoria, non è riconosciuto l’aumento del 10
per cento di cui all’art. 37, comma 2, del T.U. sulle espropriazioni, non
richiamato dalla norma impugnata; b) se il terreno è agricolo, non è
applicabile il precedente art. 40, comma 1, che impone di tener conto delle
colture effettivamente praticate sul fondo e «del valore dei manufatti edilizi
legittimamente realizzati, anche in relazione all’esercizio dell’azienda
agricola».
È noto che lo scrutinio di
ragionevolezza, in ambiti connotati da un’ampia discrezionalità legislativa,
impone alla Corte di verificare che il bilanciamento degli interessi
costituzionalmente rilevanti non sia stato realizzato con modalità tali da
determinare il sacrificio o la compressione di uno di essi in misura eccessiva
e pertanto incompatibile con il dettato costituzionale. Tale giudizio deve
svolgersi «attraverso ponderazioni relative alla proporzionalità dei mezzi
prescelti dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalità rispetto alle
esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità che intende perseguire, tenuto
conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti» (sentenza n. 1130
del 1988).
Orbene, alla luce di tali premesse,
anche queste censure non sono fondate.
Quanto a quella relativa alla mutata
natura del ristoro, la norma prevede bensì la corresponsione di un indennizzo,
ma determinato in misura corrispondente al valore venale del bene e con
riferimento al momento del trasferimento della proprietà di esso, sicché non
vengono in considerazione somme che necessitano di una rivalutazione.
Quanto alle restanti censure, è appena
il caso di sottolineare che l’aumento del 10 per cento previsto dal comma 2
dell’art. 37 del T.U. sulle espropriazioni non si applica a tutte le procedure,
ma solo nei casi in cui sia stato concluso l’accordo di cessione (o quando esso
non sia stato concluso per fatto non imputabile all’espropriato, ovvero perché
a questi è stata offerta un’indennità provvisoria che, attualizzata, risulta
inferiore agli otto decimi di quella determinata in via definitiva), senza
contare che ai destinatari del provvedimento di acquisizione spetta sempre un
surplus pari proprio al 10 per cento del valore venale del bene, a titolo di
ristoro del danno non patrimoniale.
Va, ancora, considerato che
l’inapplicabilità del comma 1 dell’art. 37 del T.U. sulle espropriazioni (pure
non richiamato dalla norma censurata per i terreni a vocazione edilizia)
esclude anche la riduzione del 25 per cento dell’indennizzo – prevista invece
per le espropriazioni legittime – imposta quando la vicenda è finalizzata ad
attuare interventi di riforma economico-sociale.
Infine, i giudici rimettenti – basandosi
sul solo dato letterale e trascurando una visione di sistema − non hanno
sperimentato la praticabilità di un’interpretazione che, facendo riferimento
genericamente al «valore venale del bene», consenta di ritenere riconducibili
ad esso anche le somme corrispondenti al valore delle colture effettivamente
praticate sul fondo e al valore dei manufatti edilizi legittimamente realizzati,
anche in relazione all’esercizio dell’azienda agricola, previsti dall’art. 40
del T.U. sulle espropriazioni.
La stessa obiezione può essere mossa
alla censura secondo cui la norma impugnata non contemplerebbe l’ipotesi di
espropriazione parziale e non consentirebbe, per questo motivo, di tener conto
della diminuzione di valore del fondo residuo, invece indennizzata fin dalla
legge 25 giugno 1865, n. 2359, recante «Espropriazioni per causa di utilità
pubblica» (art. 40, ora trasfuso nell’art. 33 del T.U. sulle espropriazioni).
6.7.– I giudici rimettenti dubitano
della compatibilità della norma censurata con l’art. 42 Cost.
In particolare, ritengono che l’art. 42
Cost. – disciplinando la potestà espropriativa come avente carattere
eccezionale, esercitabile solo nei casi in cui sia la legge a prevederla e
nella necessaria ricorrenza di «motivi di interesse generale» – imponga che
questi ultimi siano predeterminati dall’amministrazione ed emergano da un
apposito procedimento, anteriormente al sacrificio del diritto di proprietà.
L’emersione del pubblico interesse, culminante nell’adozione della
dichiarazione di pubblica utilità, dovrebbe perciò risultare da una fase
preliminare, autonoma e strumentale rispetto al successivo procedimento
espropriativo in senso stretto, cioè in un momento in cui sia possibile
un’effettiva comparazione tra l’interesse pubblico e l’interesse privato, al
fine di evidenziare la scelta migliore, quando eventuali ipotesi alternative
all’espropriazione non siano ostacolate da una situazione fattuale ormai
irreversibilmente compromessa.
La questione, così posta, non è fondata,
nei sensi qui di seguito indicati.
Da una parte, la norma censurata delinea
pur sempre una procedura espropriativa, che in quanto tale non può non
presentare alcune caratteristiche essenziali. Ma non si deve trascurare,
dall’altra parte, che si tratta di una procedura "eccezionale”, che ha
necessariamente da confrontarsi con la situazione fattuale chiamata a
risolvere, in cui la previa dichiarazione di pubblica utilità dell’opera
sarebbe distonica rispetto ad un’opera pubblica già realizzata. La norma
censurata presuppone evidentemente una già avvenuta modifica dell’immobile,
utilizzato per scopi di pubblica utilità: da questo punto di vista, non è
congrua la pretesa che l’adozione del provvedimento di acquisizione consegua
all’esito di un procedimento scandito in fasi logicamente e temporalmente
distinte, esattamente come nella procedura espropriativa condotta nelle forme
ordinarie.
Si è, invece, in presenza di una procedura
espropriativa che, sebbene necessariamente "semplificata” nelle forme, si
presenta "complessa” negli esiti, prevedendosi l’adozione di un provvedimento
«specificamente motivato in riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di
interesse pubblico che ne giustificano l’emanazione, valutate comparativamente
con i contrapposti interessi privati ed evidenziando l’assenza di ragionevoli
alternative alla sua adozione».
L’adozione del provvedimento acquisitivo
presuppone, appunto, una valutazione comparata degli interessi in conflitto,
qualitativamente diversa da quella tipicamente effettuata nel normale
procedimento espropriativo. E l’assenza di ragionevoli alternative all’adozione
del provvedimento acquisitivo va intesa in senso pregnante, in stretta correlazione
con le eccezionali ragioni di interesse pubblico richiamate dalla disposizione
in esame, da considerare in comparazione con gli interessi del privato
proprietario. Non si tratta, soltanto, di valutare genericamente una eccessiva
difficoltà od onerosità delle alternative a disposizione dell’amministrazione,
secondo un principio già previsto in generale dall’art. 2058 cod. civ. Per
risultare conforme a Costituzione, l’ampiezza della discrezionalità
amministrativa va delimitata alla luce dell’obbligo giuridico di far venir meno
l’occupazione sine titulo e di adeguare la situazione
di fatto a quella di diritto, la quale ultima non risulta mutata neppure a
seguito di trasformazione irreversibile del fondo. Ne deriva che l’adozione
dell’atto acquisitivo è consentita esclusivamente allorché costituisca l’extrema ratio per la soddisfazione di "attuali ed
eccezionali ragioni di interesse pubblico”, come recita lo stesso art. 42-bis
del T.U. delle espropriazioni. Dunque, solo quando siano stati escluse, all’esito
di una effettiva comparazione con i contrapposti interessi privati, altre
opzioni, compresa la cessione volontaria mediante atto di compravendita, e non
sia ragionevolmente possibile la restituzione, totale o parziale, del bene,
previa riduzione in pristino, al privato illecitamente inciso nel suo diritto
di proprietà.
Soltanto sotto questa luce tornano ad
essere valorizzati – pur in assenza di una preventiva dichiarazione di pubblica
utilità o in caso di suo annullamento o perdita di efficacia – i «motivi di
interesse generale» presupposti dall’art. 42 Cost., secondo il quale il diritto
di proprietà può essere compresso «sol quando lo esiga il limite della
"funzione sociale” […]: funzione sociale, la quale esprime, accanto alla somma
dei poteri attribuiti al proprietario nel suo interesse, il dovere di
partecipare alla soddisfazione di interessi generali, nel che si sostanzia la
nozione stessa del diritto di proprietà come viene modernamente intesa e come è
stata recepita dalla nostra Costituzione» (sentenza n. 108 del
1986).
Soltanto adottando questa prospettiva
ermeneutica, l’attribuzione del potere ablatorio (in questa forma eccezionale)
può essere ritenuta legittima, sulla scia della giurisprudenza costituzionale
che impone alla legge ordinaria di indicare «elementi e criteri idonei a
delimitare chiaramente la discrezionalità dell’Amministrazione» (sentenza n. 38 del
1966).
6.8.− Si lamenta, inoltre, dai
giudici rimettenti che l’art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni violerebbe
il principio del giusto procedimento, desumibile dall’art. 97 Cost. Ciò perché
il provvedimento acquisitivo consentirebbe il trasferimento della proprietà in
assenza di una sequenza procedimentale partecipata dal privato. Il principio di
legalità dell’azione amministrativa sarebbe leso anche sotto il profilo della
tutela giurisdizionale effettiva di cui all’art. 113 Cost.
Anche tale questione non è fondata.
Bisogna, innanzitutto, ricordare che il
principio del "giusto procedimento” (in virtù del quale i soggetti privati
dovrebbero poter esporre le proprie ragioni, e in particolare prima che vengano
adottati provvedimenti limitativi dei loro diritti), non può dirsi assistito in
assoluto da garanzia costituzionale (sentenze n. 312,
n. 210 e n. 57 del 1995, n. 103 del 1993
e n. 23 del 1978;
ordinanza n. 503
del 1987).
Questa constatazione non sminuisce certo
la portata che tale principio ha assunto nel nostro ordinamento, specie dopo
l’entrata in vigore della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia
di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti
amministrativi), e successive modifiche, in base alla quale «il destinatario
dell’atto deve essere informato dell’avvio del procedimento, avere la
possibilità di intervenire a propria difesa, ottenere un provvedimento
motivato, adire un giudice» (sentenza n. 104 del
2007).
Del resto, proprio in materia
espropriativa, questa Corte ha da tempo affermato che i privati interessati
devono essere messi «in condizioni di esporre le proprie ragioni sia a tutela
del proprio interesse, sia a titolo di collaborazione nell’interesse pubblico»
(sentenza n. 13
del 1962; sentenze
n. 344 del 1990, n. 143 del 1989
e n. 151 del
1986).
Per parte sua, il provvedimento
disciplinato dalla norma in esame non potrebbe, innanzitutto, sottrarsi
all’applicazione delle ricordate, generali, regole di partecipazione del
privato al procedimento amministrativo, come, infatti, è riconosciuto dalla
giurisprudenza amministrativa, che impone la previa comunicazione di avvio del
procedimento.
Ma, soprattutto, in virtù della
effettiva comparazione degli interessi contrapposti richiesta dalla norma in
questione, il privato sarà ulteriormente sempre posto in grado di accentuare il
proprio ruolo partecipativo, eventualmente facendo valere l’esistenza delle
«ragionevoli alternative» all’adozione dell’annunciato provvedimento
acquisitivo, prima fra tutte la restituzione del bene.
6.9.– I giudici rimettenti dubitano,
ancora, della conformità della norma impugnata all’art. 117, primo comma,
Cost., in quanto la norma sarebbe in contrasto con i principi della CEDU,
secondo l’interpretazione fornitane dalla Corte di Strasburgo, sotto due
distinti profili.
In primo luogo, l’art. 42-bis violerebbe
la norma interposta di cui all’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla
CEDU, rispetto al quale il fenomeno delle cosiddette "espropriazioni indirette”
si porrebbe «in radicale contrasto».
In secondo luogo, l’art. 42-bis
violerebbe la norma interposta di cui all’art. 6 CEDU, avendo la Corte EDU
ripetutamente considerato lecita l’applicazione dello ius
superveniens in cause già pendenti soltanto in
presenza di «ragioni imperative di interesse generale».
La norma risulterebbe anche in contrasto
con l’art. 111, primo e secondo comma, Cost., nella parte in cui, disponendo la
propria applicabilità ai giudizi in corso, violerebbe i principi del giusto
processo, con particolare riferimento alla condizione di parità delle parti
davanti al giudice.
6.9.1.– Le doglianze possono essere
esaminate congiuntamente, per concludere nel senso della loro infondatezza, nei
sensi della motivazione che segue, per le ragioni già esposte, sia pur in
relazione al diverso parametro di cui all’art. 42 Cost., al precedente punto
6.7.
È vero, infatti, che la norma trova
applicazione anche ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore, per i quali
siano pendenti processi, ed anche se vi sia già stato un provvedimento di
acquisizione successivamente ritirato o annullato. Ma è anche vero che questa
previsione risponde alla stessa esigenza primaria sottesa all’introduzione del
nuovo istituto (così come del precedente art. 43): quella di eliminare
definitivamente il fenomeno delle "espropriazioni indirette”, che aveva fatto
emergere quella che la Corte EDU (nella sentenza
6 marzo 2007, Scordino contro Italia) aveva definito una "défaillance structurelle”, in contrasto con l’art. 1 del Primo
Protocollo allegato alla CEDU.
Né si deve trascurare che con l’art.
42-bis del T.U. sulle espropriazioni − come peraltro già accadeva con il
precedente art. 43 − l’acquisto della proprietà da parte della pubblica
amministrazione non è più legato ad un accertamento in sede giudiziale,
connotato, come tale, da margini di imprevedibilità criticamente evidenziati
dalla Corte EDU. Soprattutto, come già rilevato (supra
punto 6.5), rispetto al precedente art. 43, l’art. 42-bis contiene
significative innovazioni, che rendono il meccanismo compatibile con la
giurisprudenza della Corte EDU in materia di espropriazioni cosiddette
indirette, ed anzi rispondente all’esigenza di trovare una soluzione definitiva
ed equilibrata al fenomeno, attraverso l’adozione di un provvedimento formale
della pubblica amministrazione.
Le differenze rispetto al precedente
meccanismo acquisitivo consistono nel carattere non retroattivo dell’acquisto
(ciò che impedisce l’utilizzo dell’istituto in presenza di un giudicato che
abbia già disposto la restituzione del bene al privato), nella necessaria
rinnovazione della valutazione di attualità e prevalenza dell’interesse
pubblico a disporre l’acquisizione e, infine, nello stringente obbligo
motivazionale che circonda l’adozione del provvedimento.
Anche alla luce dell’asserita violazione
degli artt. 111, primo e secondo comma, e 117, primo comma, Cost., questo
obbligo motivazionale, in base alla significativa previsione normativa, che
richiede «l’assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione», deve essere
interpretato, come già chiarito al punto 6.7., nel senso che l’adozione
dell’atto è consentita – una volta escluse, all’esito di una effettiva
comparazione con i contrapposti interessi privati, altre opzioni, compresa la
cessione volontaria mediante atto di compravendita – solo quando non sia
ragionevolmente possibile la restituzione, totale o parziale, del bene, previa
riduzione in pristino, al privato illecitamente inciso nel suo diritto di
proprietà.
Solo se così interpretata la norma
consente infatti:
− di riconoscere, per le
situazioni prodottesi prima della sua entrata in vigore, l’esistenza di
«imperativi motivi di interesse generale» legittimanti l’applicazione dello ius superveniens in cause già
pendenti. Tali motivi consistono nell’ineludibile esigenza di eliminare una
situazione di deficit strutturale, stigmatizzata dalla Corte EDU;
− di prefigurare, per le
situazioni successive alla sua entrata in vigore, l’applicazione della norma
come extrema ratio, escludendo che essa possa
costituire una semplice alternativa ad una procedura espropriativa condotta «in
buona e debita forma», come imposto, ancora una volta, dalla giurisprudenza
della Corte EDU;
− di considerare rispettata la
condizione, posta dalla stessa Corte EDU nella citata sentenza
Scordino del 6 marzo 2007, secondo cui lo Stato italiano avrebbe dovuto
«sopprimere gli ostacoli giuridici che impediscono la restituzione del terreno
sistematicamente e per principio»;
− di impedire alla pubblica
amministrazione – ancora una volta in coerenza con le raccomandazioni della
Corte EDU − di trarre vantaggio dalla situazione di fatto da essa stessa
determinata;
− di escludere il rischio di
arbitrarietà o imprevedibilità delle decisioni amministrative in danno degli
interessati.
Va, infine, valorizzata nella giusta
misura la previsione del comma 7 dell’art. 42-bis del T.U. sulle
espropriazioni, in base alla quale «[l]’autorità che emana il provvedimento di
acquisizione […] ne dà comunicazione, entro trenta giorni, alla Corte dei
conti». Questo richiamo alle possibili conseguenze per i funzionari che, nel corso
della vicenda espropriativa, si siano discostati dalle regole di diligenza
previste dall’ordinamento risponde, infatti, ad un invito della stessa Corte
EDU (sempre sentenza
6 marzo 2007, Scordino contro Italia), secondo cui «lo Stato convenuto
dovrebbe scoraggiare le pratiche non conformi alle norme degli espropri in
buona e dovuta forma, adottando misure dissuasive e cercando di individuare le
responsabilità degli autori di tali pratiche».
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara
inammissibile, nel presente giudizio di costituzionalità, l’intervento di
D.G.G.;
2) dichiara
non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 42-bis del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico
delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per
pubblica utilità – Testo A), sollevata, in riferimento agli artt. 42, 111,
primo e secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, dalla Corte di
cassazione, sezioni unite civili, con le ordinanze indicate in epigrafe;
3) dichiara
non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 42-bis del
d.P.R. n. 327 del 2001, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 97 e 113
Cost., dalla Corte di cassazione, sezioni unite civili, con le ordinanze
indicate in epigrafe;
4) dichiara
inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 42-bis del
d.P.R. n. 327 del 2001, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 42, 97,
111, primo e secondo comma, 113 e 117, primo comma, Cost., dal Tribunale
amministrativo regionale per il Lazio, sezione seconda, con le ordinanze
indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della
Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’11 marzo 2015.
F.to:
Alessandro CRISCUOLO, Presidente
Nicolò ZANON, Redattore
Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 30 aprile
2015.
Allegato:
Ordinanza letta
all'udienza del 10 marzo 2015