SENTENZA N. 91
ANNO 2013
Commento alla decisione di
Stefania Parisi
(per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco GALLO Presidente
- Luigi MAZZELLA Giudice
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
- Giuseppe FRIGO "
- Alessandro CRISCUOLO "
- Paolo GROSSI "
- Giorgio LATTANZI "
- Aldo CAROSI "
- Marta CARTABIA "
- Sergio MATTARELLA "
- Mario Rosario MORELLI "
- Giancarlo CORAGGIO "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 29, commi 1 e 2, della legge della Regione Campania 19 gennaio 2009, n. 1 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione Campania – legge finanziaria anno 2009), promosso dal Tribunale amministrativo regionale per la Campania (sezione terza) con ordinanza del 12 luglio 2011, nel procedimento vertente tra A. A. ed altri e la Regione Campania ed altri, iscritta al n. 249 del registro ordinanze dell’anno 2011 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 50, prima serie speciale, dell’anno 2011.
Visti gli atti di costituzione di A. A. ed altri, del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli e della Regione Campania;
udito nell’udienza pubblica del 9 aprile 2013 il Giudice relatore Marta Cartabia;
uditi gli avvocati Alessandro Biamonte per A. A. ed altri, Riccardo Satta Flores per il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli e Beniamino Caravita di Toritto per la Regione Campania.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 12 luglio 2011, iscritta nel registro ordinanze al n. 249 dell’anno 2011 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 50, prima serie speciale, dell’anno 2011, il Tribunale amministrativo regionale per la Campania (sezione terza), ha sollevato, in riferimento all’art. 117, terzo comma, della Costituzione, in relazione alla materia «professioni», questione di legittimità costituzionale dell’articolo 29 della legge della Regione Campania 19 gennaio 2009, n. 1 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione Campania – legge finanziaria anno 2009), che abilita l’avvocatura regionale a svolgere attività di consulenza e a patrocinare in giudizio gli enti strumentali della Regione e le società il cui capitale è interamente sottoscritto dalla Regione e, allo scopo, consente la stipula di convenzioni tra la Giunta regionale da un lato, e gli enti strumentali e le singole società dall’altro, per regolare, in particolare, le modalità attraverso cui può essere richiesta l’attività dell’avvocatura regionale, quantificando anche i relativi oneri.
1.1.– Il giudizio a quo, scaturito dal ricorso di A.A. e altri, funzionari dell’avvocatura regionale, ha ad oggetto la richiesta di annullamento della delibera della Giunta della Regione Campania 27 marzo 2009, n. 603, con cui l’avvocatura regionale è stata autorizzata a stipulare con gli enti strumentali della Regione Campania le convenzioni previste dall’art. 29 della legge reg. n. 1 del 2009. Il ricorso al giudice amministrativo ha ad oggetto, in via derivata, anche la Convenzione n. 14162 del 10 aprile 2009, stipulata dall’avvocatura e dall’Azienda sanitaria locale di Salerno sulla base della predetta delibera giuntale, e ogni altro atto presupposto, connesso o consequenziale, lesivo degli interessi dei ricorrenti.
1.2.– In base alla delibera giuntale, agli avvocati regionali potrebbe essere affidato il patrocinio e la consulenza legale delle Aziende sanitarie. Questa previsione contrasterebbe con il regime delle incompatibilità nell’esercizio della professione di avvocato, stabilito dall’art. 3, secondo comma, del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578 (Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36, e successivamente modificato dalla legge 23 novembre 1939, n. 1949 (Modificazioni alla legge forense), che conterrebbe una deroga, al successivo quarto comma, lettera b), per quanto riguarda gli avvocati degli uffici legali degli enti pubblici, solo per le cause e gli affari propri dell’ente presso il quale prestano la loro opera e a condizione che essi siano iscritti nell’elenco speciale annesso agli albi professionali. I ricorrenti, a causa degli incarichi sopra indicati, sarebbero ora esposti al rischio di sanzioni disciplinari da parte degli ordini di appartenenza o, qualora si rifiutassero di prestare tali attività, da parte del datore di lavoro.
Per tali ragioni, i ricorrenti hanno dedotto l’illegittimità della delibera della Giunta n. 603 del 2009 e delle convenzioni successivamente stipulate e, per quanto qui interessa, dell’art. 29 della legge reg. n. 1 del 2009.
1.3.– Il giudice rimettente ritiene che la deliberazione del Presidente della Giunta regionale della Campania n. 603 del 2009, impugnata nel giudizio a quo, debba essere qualificata come atto di macro-organizzazione del pubblico impiego e di attuazione della presupposta legge reg. n. 1 del 2009, in base al quale gli enti strumentali della Regione Campania hanno la facoltà di avvalersi del patrocinio dell’avvocatura regionale. La delibera giuntale impugnata, prevedendo scelte programmatorie a carattere innovativo, inciderebbe direttamente sulle condizioni di lavoro dei ricorrenti e sul regime del patrocinio nell’esclusivo interesse dell’ente di appartenenza, cosicché sussisterebbe un interesse a ricorrere meritevole di tutela immediata connesso all’esigenza di mantenere inalterati sia il rapporto di correttezza deontologica nei confronti dell’ordine professionale, sia le condizioni di lavoro presso l’ente pubblico di appartenenza.
2.– Poste queste premesse, il giudice rimettente ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 29, comma 1, della legge reg. n. 1 del 2009, in relazione all’art. 117, terzo comma, Cost., in quanto la disposizione regionale violerebbe l’obbligo di rispettare le disposizioni di principio previste dal legislatore statale in materia d’incompatibilità nell’esercizio della professione forense da parte di avvocati dipendenti di enti pubblici.
2.1.– Con riferimento alla rilevanza, il Tribunale amministrativo rimettente sostiene che il giudizio non potrebbe essere deciso prescindendo dall’applicazione della disposizione sottoposta all’esame della Corte, dal momento che la delibera giuntale n. 603 del 2009 impugnata costituisce atto di macro-organizzazione di natura meramente attuativa rispetto all’art. 29 della legge reg. n. 1 del 2009 censurato.
2.2.– Con riferimento alla non manifesta infondatezza, il giudice rimettente richiama l’art. 117, terzo comma, Cost., evocato a parametro, in quanto esso riserva alla legislazione statale la determinazione dei principi fondamentali in materia di professioni. La disciplina delle incompatibilità rientrerebbe, infatti, tra i principi fondamentali che regolano la professione forense e sarebbe riservata al legislatore statale.
2.3.– Il regime d’incompatibilità previsto dall’art. 3 del regio decreto-legge n. 1578 del 1933 consentirebbe solo in via derogatoria (art. 3, quarto comma, lettera b) l’esercizio di attività professionale da parte di dipendenti pubblici, limitatamente alle cause e agli affari propri dell’ente, cui il dipendente sarebbe pertanto legato da un rapporto di esclusività, a tutela tanto dell’indipendenza del professionista quanto degli interessi dell’ente pubblico. Tale deroga sarebbe stata oggetto di un’interpretazione restrittiva ad opera della giurisprudenza della Corte di cassazione, secondo la quale l’iscrizione all’albo speciale sarebbe consentita a condizione che l’ente pubblico abbia costituito un ufficio legale dotato di una sua autonomia nell’ambito della relativa struttura e organizzato in modo tale che il dipendente svolga in via esclusiva attività professionale, con piena libertà e autonomia, in una situazione di sostanziale estraneità all’apparato amministrativo. Infine, il dipendente pubblico dovrebbe essere abilitato a svolgere attività professionale, giudiziaria quanto extragiudiziaria, nel solo interesse dell’ufficio.
2.4.– Il giudice a quo ritiene inoltre che la deroga all’incompatibilità stabilita dal legislatore statale riguardi strettamente le cause e gli affari propri dell’ente presso cui gli avvocati prestano la loro opera. Tale deroga sarebbe insuscettibile d’interpretazione analogica, nel senso di ricomprendervi anche le cause e gli affari di enti terzi, anche se strumentali, rispetto a quelli per i quali gli avvocati prestano la loro opera. Gli interessi dell’ente strumentale, d’altra parte, non coinciderebbero necessariamente con quelli dell’ente presso cui l’avvocato è impiegato.
3.– Con atto depositato presso la Cancelleria della Corte il 29 novembre 2011, si è costituito in giudizio il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Napoli, già costituitosi nel giudizio davanti al Tribunale amministrativo regionale, deducendo l’illegittimità della norma regionale censurata, con motivazioni adesive a quelle esposte nell’ordinanza di rimessione dal giudice a quo.
4.– I ricorrenti nel giudizio a quo si sono costituiti in giudizio con atto depositato nella Cancelleria il 14 dicembre 2011, sostenendo l’illegittimità costituzionale della norma censurata, e in particolare deducendo che essa invade la competenza statale a definire i principi fondamentali in materia di professioni, ex art. 117, terzo comma, Cost.
4.1.– Secondo gli intervenienti, la legislazione regionale censurata si ingerirebbe nelle competenze esclusive dello Stato, disarticolando l’ordinamento delle professioni che dovrebbe invece necessariamente essere uniforme su base nazionale, incidendo sul rito processuale e assimilando il rapporto di patrocinio a quello di una prestazione d’opera professionale. In particolare, la legislazione regionale interferirebbe con i principi fondamentali in materia di professione forense, avviando una invasione delle competenze statali destinata ad accrescersi nel tempo, essendo all’epoca imminente l’approvazione di un regolamento della Giunta regionale relativo all’organizzazione del personale avente contenuto analogo, per quanto qui interessa, a quello della delibera giuntale impugnata davanti al giudice amministrativo.
4.2.– Gli intervenienti notano che l’applicazione della legge regionale impugnata potrebbe dar luogo a una responsabilità disciplinare a carico dei legali ricorrenti nel processo a quo. Il relativo codice deontologico, approvato dal Consiglio nazionale forense il 17 aprile 1997, e successivamente modificato, in attuazione degli artt. 12, primo comma, e 38, primo comma, del r.d.l. n. 1578 del 1933, dispone che gli avvocati evitino situazioni d’incompatibilità (art. 16), mantengano un’autonomia del rapporto con la parte assistita (art. 36), si astengano nel caso di conflitto d’interessi (37) e possano assumere incarichi contro ex-clienti soltanto una volta decorso un biennio dalla cessazione del rapporto professionale espletato in precedenza (art. 51). La situazione nella quale l’avvocatura regionale si sarebbe venuta a trovare a causa della legge impugnata renderebbe, al contrario, impossibile osservare i menzionati divieti del codice deontologico.
4.3.– Inoltre, i ricorrenti nel processo a quo sostengono che la materia delle professioni appartiene alla legislazione concorrente, ex art. 117, terzo comma, Cost., e aggiungono che il decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 30 (Ricognizione dei principi fondamentali in materia di professioni, ai sensi dell’articolo 1 della legge 5 giugno 2003, n. 131), avrebbe previsto, all’art. 3, che l’esercizio di ciascuna professione si svolga nel rispetto della disciplina statale posta a tutela della concorrenza e, all’art. 4, comma 2, che sia la legge statale a definire i requisiti tecnico-professionali e i titoli professionali necessari a esercitare le attività che esigono una specifica preparazione, a garanzia di interessi pubblici generali la cui tutela appartiene allo Stato. Le Regioni, anche in ossequio ai principi della giurisprudenza costituzionale, potrebbero disciplinare solo gli aspetti legati alla realtà regionale.
4.4.– Il divieto inderogabile rivolto agli avvocati degli enti pubblici di espletare prestazioni professionali per enti diversi da quelli da cui dipendono, sostengono i ricorrenti nel giudizio a quo e qui intervenuti, rappresenterebbe un requisito tecnico di iscrizione all’albo, comportando, in caso di violazione, la cancellazione dell’avvocato dall’albo e di conseguenza anche la cessazione del rapporto lavorativo, il quale si reggerebbe sul presupposto dell’abilitazione all’esercizio della professione forense. Il diritto vivente, inoltre, si sarebbe consolidato interpretando la deroga prevista per gli addetti agli uffici legali di enti pubblici come eccezionale e dunque non suscettibile d’interpretazione analogica.
4.5.– Ancora, gli intervenienti riconoscono che l’art. 43 del regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611 (Approvazione del testo unico delle leggi e delle norme giuridiche sulla rappresentanza e difesa in giudizio dello Stato e sull’ordinamento dell’Avvocatura dello Stato), successivamente modificato, prevede che, a seguito di autorizzazione, gli avvocati dello Stato possano patrocinare anche a favore di amministrazioni pubbliche non statali ed enti sovvenzionati in via esclusiva, previa delibera motivata ed eccettuati i casi di conflitto di interessi con lo Stato o con le Regioni. Tuttavia tale norma non costituirebbe un principio fondamentale suscettibile di estensione analogica. Infatti, quest’ipotesi sarebbe stata introdotta in un contesto in cui gli enti non statali erano sprovvisti di propri uffici legali. Inoltre, considerando le condizioni generali stabilite per la prestazione dell’attività professionale da parte dell’Avvocatura dello Stato, bisogna ritenere che l’art. 43 del r.d.l. n. 1611 del 1933 configuri un rapporto organico che non permette all’ente autorizzato ad avvalersi del patrocinio dell’Avvocatura di utilizzare di avvocati del libero foro, se non in casi speciali, attraverso delibera motivata, o in caso di conflitto d’interessi.
4.6.– Non avrebbe infine significato, secondo gli intervenienti, considerare ipotesi come l’art. 11, comma 3.1, del decreto-legge 28 febbraio 1983, n. 55 (Provvedimenti urgenti per il settore della finanza locale per l’anno 1983), convertito, con modificazioni, dalla legge 26 aprile 1983, n. 131, il quale ha introdotto la facoltà, per le allora unità sanitarie locali, di avvalersi degli uffici legali dei Comuni, o il caso delle gestioni liquidatorie, alle quali è stato consentito l’utilizzo degli uffici legali delle aziende sanitarie locali, in base all’art. 2, comma 14, della legge 28 dicembre 1995, n. 549 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), attuato poi dalla legge della Regione Campania 2 settembre 1996, n. 22 (Disposizioni urgenti per le gestioni liquidatorie delle unità sanitarie locali).
5.– Si è costituita in giudizio la Regione Campania, con atto depositato nella Cancelleria della Corte il 29 dicembre 2011, deducendo l’inammissibilità e l’infondatezza della questione proposta.
5.1.– Una prima ragione d’inammissibilità viene individuata nell’indeterminatezza dell’oggetto della questione sottoposta all’esame della Corte. Secondo la parte resistente, il giudice a quo avrebbe fatto genericamente riferimento all’art. 29 della legge reg. n. 1 del 2009, mancando di considerare che l’articolo si compone di una pluralità di norme autonome, riconducibili al comune obiettivo di contenere la spesa degli enti regionali per le consulenze. Il comma 3 dell’art. 3 porrebbe un limite di spesa per l’acquisizione di consulenze, dando pertanto vita a una disposizione autonoma rispetto ai due commi precedenti. L’ostacolo derivante dall’eterogeneità delle disposizioni che compongono l’articolo impugnato non potrebbe essere superato ricavando l’oggetto della questione in via implicita.
5.2.– Una seconda ragione d’inammissibilità sarebbe rinvenibile nel mancato tentativo d’interpretazione conforme a Costituzione, che la Corte costituzionale avrebbe espressamente e ripetutamente individuato quale condizione di ammissibilità delle questioni in via incidentale.
L’esigenza di esperire un tentativo d’interpretazione conforme a Costituzione sarebbe tanto più necessaria in questo caso, poiché la disciplina sospettata d’incostituzionalità s’inserirebbe in un contesto normativo complesso. Il giudice a quo avrebbe invece apoditticamente sostenuto l’impraticabilità di un’interpretazione costituzionalmente compatibile della disposizione impugnata.
5.3.– La questione prospettata mancherebbe, inoltre, del necessario vincolo di pregiudizialità rispetto al giudizio principale. Infatti, la Corte costituzionale avrebbe affermato che tale vincolo non trova sufficiente base nella circostanza che il giudizio a quo verta su un provvedimento attuativo della norma portata alla sua attenzione. Sussisterebbe, invece, il nesso di pregiudizialità qualora il rapporto tra il provvedimento impugnato nel giudizio principale e la norma oggetto del giudizio di legittimità costituzionale sia di «mera esecuzione» e l’adozione del primo provvedimento sia indispensabile per la produzione degli effetti previsti dalla norma censurata di fronte alla Corte.
Con riferimento al caso di specie, la delibera della Giunta regionale n. 603 del 2009, attraverso la quale la Giunta avrebbe inteso approvare uno schema di convenzione tra l’avvocatura regionale e gli enti regionali strumentali per la definizione delle modalità delle richieste di consulenza e patrocinio, non sarebbe invece indispensabile ai fini della produzione degli effetti da parte dell’art. 29 della legge reg. censurata. Tale delibera non conterrebbe, infatti, disposizioni precettive di contenuto innovativo rispetto alla disciplina prevista dalla norma censurata.
L’ordinanza di rimessione, del resto, secondo la difesa regionale, mostrerebbe di aderire alla prospettazione dei ricorrenti nel processo a quo, che avrebbero impugnato la delibera di Giunta in via puramente formale, senza dedurre, neanche in via derivata, la sua illegittimità. Pertanto, dall’ordinanza si evincerebbe il tentativo dei ricorrenti di accedere alla giurisdizione costituzionale in via principale, il che determinerebbe l’inammissibilità del ricorso al giudice amministrativo.
5.4.– Un’ulteriore ragione d’inammissibilità viene rinvenuta nel difetto d’interesse dei ricorrenti nel giudizio a quo.
Il mero rischio, paventato dai ricorrenti, di cancellazione dall’elenco speciale dell’albo da parte dei rispettivi ordini forensi di appartenenza, a causa dell’insorgere di situazioni d’incompatibilità, o di incorrere in sanzioni disciplinari, qualora essi si rifiutassero di prestare il patrocinio a favore degli enti convenzionati, mostrerebbe l’assenza di una lesione concreta e attuale nei confronti delle posizioni giuridiche dei ricorrenti. Il rischio di cancellazione dall’albo o di sanzioni disciplinari sarebbe del tutto futuro e incerto; l’incisione delle posizioni dei ricorrenti si potrebbe configurare solo nel momento in cui gli ordini professionali o la Giunta regionale adottassero provvedimenti nei loro confronti.
Sebbene l’ordinanza di rimessione contenga una motivazione in ordine alla titolarità di una situazione giuridica soggettiva immediatamente idonea a ricevere tutela, tale motivazione sarebbe implausibile. Essa riguarderebbe, stando all’ordinanza, un atto di macro-organizzazione avente a oggetto scelte programmatorie innovative, mentre invece si tratterebbe di uno schema di convenzione tra l’avvocatura regionale e gli enti strumentali, privo di effetti giuridici vincolanti nei confronti degli enti strumentali, dell’avvocatura regionale e dei ricorrenti. In realtà l’atto impugnato non avrebbe dunque alcun carattere innovativo e di conseguenza non sarebbe lesivo degli interessi dei ricorrenti. In definitiva, la questione di legittimità prospettata sarebbe manifestamente irrilevante e dunque inammissibile.
5.5.– La difesa regionale argomenta poi nel merito, deducendo l’infondatezza della questione sollevata.
Il resistente interpreta la norma censurata escludendo che il legislatore regionale abbia inteso innovare il regime d’incompatibilità posto dal r.d.l. n. 1578 del 1933 in ordine alle attività professionali degli avvocati dipendenti di enti pubblici e sostenendo che la disposizione impugnata riguarderebbe la materia della professione forense solo marginalmente.
Infatti, la norma oggetto del presente giudizio s’inserirebbe, secondo la Regione, in un intervento normativo volto a contenere la spesa pubblica regionale nel suo complesso, inclusa quella degli enti che, sebbene distinti formalmente dall’ente Regione, siano legati a quest’ultimo da un nesso di dipendenza e strumentalità. L’art. 29 censurato conterrebbe, dunque, una disciplina dichiaratamente di natura finanziaria, tra l’altro in ottemperanza agli obblighi posti dal Patto di stabilità interno delle Regioni, stabiliti, all’epoca dell’entrata in vigore della norma censurata, dall’art. 77-ter del decreto-legge n. 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133. In particolare, l’art. 46 di tale decreto-legge avrebbe previsto la riduzione delle collaborazioni e delle consulenze nella pubblica amministrazione, analogamente a quanto previsto dalla norma regionale censurata.
La necessità di contenere le spese avrebbe, secondo la parte resistente, già condotto a diverse soluzioni normative di tenore analogo. Ad esempio, l’art. 2, comma 12, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2008), avrebbe disposto che determinati enti locali possano istituire uffici unici di avvocatura per lo svolgimento di attività di consulenza legale, difesa e rappresentanza in giudizio; ancora, l’art. 11, comma 3.1, del decreto-legge n. 55 del 1983, come convertito, avrebbe previsto che le unità sanitarie locali, ove non dispongano di propri uffici legali, possano avvalersi dei corrispondenti uffici dei comuni di appartenenza.
Molteplici indici normativi confermerebbero, dunque, che esigenze derivanti da una sana gestione finanziaria consentono al legislatore, sia statale che regionale, di adottare provvedimenti che lambiscano, seppur marginalmente, la materia delle professioni legali, senza alterarne i tratti essenziali.
5.6.– La difesa regionale argomenta nel senso dell’infondatezza, anche nell’ipotesi in cui la norma censurata venga inquadrata nell’ambito materiale delle professioni. Infatti, anche in questo caso la norma risulterebbe conforme al riparto competenziale ex art. 117, terzo comma, Cost.
La parte resistente riconosce la competenza legislativa statale in materia di professioni, anche alla luce della riserva di legge statale di cui all’art. 33, quinto comma, Cost., e del decreto legislativo n. 30 del 2006, ricognitivo dei principi fondamentali in materia. Tuttavia, la giurisprudenza costituzionale avrebbe chiarito i confini e la portata della potestà legislativa statale in tale ambito, precisando che la competenza regionale incontrerebbe un limite generale nella regola secondo cui l’individuazione delle figure professionali, con i relativi profili e titoli abilitanti, sarebbe riservata allo Stato, mentre sarebbe attribuita alla competenza regionale la disciplina degli aspetti che presentano uno specifico collegamento con la realtà regionale.
La disposizione impugnata rientrerebbe in questa seconda ipotesi, come la giurisprudenza di legittimità avrebbe ripetutamente affermato consentendo l’avvalimento, da parte di un ente, dell’ufficio legale di un altro ente. Infatti, la Corte di cassazione avrebbe ritenuto legittimo che una gestione liquidatoria fosse patrocinata in giudizio da parte di un avvocato dipendente di una cessata unità sanitaria locale, in base all’espressa previsione di una legge regionale. Oppure, la medesima Corte avrebbe consentito che le unità sanitarie locali potessero avvalersi degli uffici legali dei Comuni di appartenenza, ove non ne disponessero di propri. Infine, la resistente evoca l’art. 43 del r.d. n. 1611 del 1933 e l’art. 10 della legge 3 aprile 1979, n. 103 (Modifiche dell’ordinamento dell’Avvocatura dello Stato), che avrebbero previsto un’analoga possibilità con riferimento all’Avvocatura dello Stato.
In definitiva, secondo la difesa regionale, la norma censurata si collocherebbe pienamente nel solco del diritto vivente. Del resto, lo svolgimento delle prestazioni professionali da parte degli avvocati dipendenti pubblici avverrebbe comunque nell’interesse dell’amministrazione di appartenenza, essendo quest’ultima ad auto-vincolarsi mediante la stipula di apposite convenzioni. Gli avvocati, del resto, potrebbero sempre opporre alla richiesta di consulenza da parte dell’ente convenzionato la sussistenza di situazioni d’incompatibilità rispetto agli interessi regionali.
6.– Con memoria depositata nella Cancelleria della Corte il 19 marzo 2013, la Regione Campania ha ulteriormente ribadito le ragioni dell’inammissibilità e, in subordine, dell’infondatezza della censura sollevata dal giudice a quo.
6.1.– La difesa regionale ha inoltre rilevato un ulteriore profilo di inammissibilità, osservando che i ricorrenti nel processo a quo avevano evocato l’imminente approvazione di un regolamento – divenuto il regolamento 15 dicembre 2011, n. 12 (Ordinamento amministrativo della Giunta Regionale della Campania), il cui art. 30 si riferisce alle convenzioni sulla base delle quali l’avvocatura regionale può rappresentare o difendere gli enti regionali. Sul punto, la difesa ritiene che il tentativo di motivare la rilevanza della questione riferendosi a un atto estraneo al giudizio a quo sia inammissibile.
7.– Con memoria depositata il 2 aprile 2013, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli ha ulteriormente dedotto sostenendo l’illegittimità costituzionale della norma impugnata.
7.1.– Dopo aver sinteticamente rammentato lo svolgimento dei fatti e le doglianze presentate di fronte al giudice a quo, la memoria ribadisce che la disposizione impugnata deve essere inquadrata all’interno della materia «professioni» e, come tale, riservata alla legislazione statale quanto alla determinazione dei principi fondamentali della materia, ex art. 117, terzo comma, Cost.
Le deroghe al regime delle incompatibilità, che consentono di patrocinare per l’ente pubblico di appartenenza, previste dall’art. 3, quarto comma, del r.d.l. n. 1578 del 1933, sarebbero espressione di un principio fondamentale e dunque riconducibili alla competenza statale, come del resto sarebbe riconosciuto anche dalla difesa regionale. Dunque, tali ipotesi non potrebbero essere ampliate dal legislatore regionale.
Né, secondo l’Ordine degli Avvocati, sarebbe condivisibile la ricostruzione proposta dalla difesa regionale, secondo cui la normativa censurata inciderebbe sui profili organizzativi, mentre non influirebbe sugli aspetti di tutela della libera professione. Infatti, il regime delle incompatibilità verrebbe alterato dal legislatore regionale. Inoltre, non si comprende quale specificità regionale giustificherebbe la scelta della Regione Campania di modulare i principi riguardanti le incompatibilità.
Le deroghe, pure evocate dalla difesa regionale, che consentono agli avvocati di un ente di patrocinare anche a favore di enti terzi, confermerebbero la ricostruzione offerta dall’interveniente, in quanto si tratterebbe di deroghe in ogni caso stabilite dal legislatore statale. Infine, la situazione degli avvocati dello Stato non sarebbe assimilabile a quella degli altri avvocati che esercitino per enti pubblici sulla base di apposite procure alle liti.
8.– Nelle more del giudizio, il legislatore statale, con la legge 31 dicembre 2012, n. 247 (Nuova disciplina della professione forense), ha innovato la disciplina delle incompatibilità della professione forense e, in particolare, della deroga riguardante il caso degli avvocati che esercitino per conto degli enti pubblici. La nuova disciplina, dopo aver ribadito, in via generale, l’incompatibilità della professione forense «con qualsiasi attività di lavoro subordinato anche se con orario di lavoro limitato» (art. 2), ha poi fatto «salva l’iscrizione nell’elenco speciale per gli avvocati che esercitano attività legale per conto degli enti pubblici» (art. 19). Il successivo art. 23 specifica a quali condizioni gli avvocati possano esercitare attività legale per conto degli enti pubblici: in particolare, viene previsto che nel «contratto di lavoro è garantita l’autonomia e l’indipendenza di giudizio intellettuale e tecnica dell’avvocato» e che per «l’iscrizione nell’elenco gli interessati presentano la deliberazione dell’ente dalla quale risulti la stabile costituzione di un ufficio legale con specifica attribuzione della trattazione degli affari legali dell’ente stesso e l’appartenenza a tale ufficio del professionista incaricato in forma esclusiva di tali funzioni»; che «la responsabilità dell’ufficio è affidata a un avvocato iscritto nell’elenco speciale che esercita i suoi poteri in conformità con i principi della legge professionale», e che «gli avvocati iscritti all’elenco sono sottoposti al potere disciplinare del consiglio dell’ordine». Infine, l’art. 64 delega il Governo a emanare «uno o più decreti legislativi contenenti un testo unico di riordino delle disposizioni vigenti in materia di professione forense», alla luce delle modifiche intervenute.
Considerato in diritto
1.– Con ordinanza del 12 luglio 2011, iscritta al n. 249 del registro ordinanze dell’anno 2011 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 50, prima serie speciale, dell’anno 2011, il Tribunale amministrativo regionale per la Campania (sezione terza) ha sollevato, in riferimento all’art. 117, terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 29 della legge della Regione Campania 19 gennaio 2009, n. 1 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione Campania – legge finanziaria anno 2009), che abilita l’avvocatura regionale a svolgere attività di consulenza e a patrocinare in giudizio per gli enti strumentali della Regione e per le società il cui capitale è interamente sottoscritto dalla Regione e, allo scopo, consente la stipula di convenzioni tra la Giunta regionale da un lato, e gli enti strumentali e le singole società dall’altro, per regolare, in particolare, le modalità attraverso cui può essere richiesta l’attività dell’avvocatura regionale, quantificando anche i relativi oneri.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 maggio 2013.
F.to:
Franco GALLO, Presidente
Marta CARTABIA, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 22 maggio 2013.