SENTENZA N.
293
ANNO 2010
Commenti alla decisione di
I.
Filippo Patroni Griffi, Prime
impressioni a margine della sentenza della Corte costituzionale n. 293 del
2010, in tema di espropriazione indiretta, (per
gentile concessione della Rivista telematica Federalismi.it)
II. Andrea Guazzarotti, "Seguito”
delle sentenze CEDU e opportunismi legislativi, per gentile concessione del Forum dei Quaderni Costituzionali
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME DEL
POPOLO ITALIANO
composta dai signori:
-
-
-
-
-
-
- Luigi MAZZELLA "
-
-
- Maria
-
-
- Giuseppe FRIGO "
- Alessandro CRISCUOLO "
- Paolo GROSSI "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale
dell’articolo 43 del decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per
pubblica utilità), promossi dal Tribunale amministrativo regionale della
Campania con due ordinanze del 28 ottobre e con una ordinanza del 18 novembre
2008, rispettivamente iscritte ai nn. 114, 115 e 116
del registro ordinanze 2009 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 17, prima serie speciale, dell’anno 2009.
Visti gli atti di
costituzione di N.D. ed altri, di M.R.P. ed altri e del Comune di Casapesenna
ed altri nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito
nell’udienza pubblica del 7 luglio 2010 il Giudice relatore
uditi gli
avvocati Francesco Guerriero e Antonio Sasso per N.D. ed altri, Antonio Sasso
per M.R.P. ed altri, Fabrizio Vittoria per il Comune di Casapesenna e
l’avvocato dello Stato Maurizio Borgo per il Presidente del Consiglio dei
ministri.
Ritenuto in fatto
1.
– Il Tribunale amministrativo regionale per la Campania, con tre ordinanze di
identico tenore, pronunciate in altrettanti giudizi, le prime due del 28
ottobre 2008 (r.o. n. 114 e n. 115 del 2009) e la
terza del 18 novembre 2008 (r.o. n. 116 del 2009), ha
sollevato, in riferimento agli articoli 3, 24, 42, 76, 97, 113 e 117, primo
comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale
dell’articolo 43 del decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n.
327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di
espropriazione per pubblica utilità).
1.1.–
Le prime due ordinanze (r.o. n. 114 e n. 115 del
2009), relative ad identiche fattispecie, espongono che i ricorrenti sono tutti
proprietari di un fondo in Casapesenna, oggetto di procedura ablatoria, in
ordine alla quale il medesimo TAR, con sentenze rispettivamente n. 73 e n. 74
del 2008, aveva annullato gli atti impugnati e condannato il Comune di
Casapesenna a restituire il terreno, previo ripristino dello stato dei luoghi.
Gli attori, con distinti ricorsi, poi riuniti dal TAR, hanno proposto ricorso
per l’esecuzione del giudicato, chiedendo la restituzione del fondo, ed hanno
impugnato la delibera del Consiglio comunale con la quale il Comune ha
disposto, ex art. 43, comma 2, del
citato d.P.R., l’acquisizione al patrimonio
indisponibile delle aree in questione, corrispondendo una somma a titolo di
risarcimento dei danni.
1.2.–
I rimettenti premettono ancora, in fatto, che la vicenda era stata oggetto di
una prima pronuncia dello stesso tribunale (sentenza 23 gennaio 2003, n. 387)
con la quale era stato censurato l’operato dell’amministrazione in ragione del
mancato compimento dell’iter previsto
per la formazione della variante urbanistica, e per violazione del
contraddittorio con i soggetti interessati. Nel procedimento di cui
all’ordinanza r.o. n. 114 del 2009, con successive
sentenze veniva poi annullata una nota del comune di diniego di restituzione
del suolo occupato e disposta la restituzione dello stesso con ripristino dello
stato dei luoghi (sentenza 5 giugno 2003, n. 7290), ed ancora veniva accolto il
ricorso per l’esecuzione del relativo giudicato con nomina di un commissario ad acta. In seguito il Consiglio di
Stato, con sentenza 3 maggio 2005, n. 2095, dichiarava che sull’amministrazione
gravava l’obbligo di restituire l’area occupata.
Successivamente,
con le già indicate sentenze del medesimo TAR (n. 73 e n. 74 del 2008), erano
stati annullati per incompetenza gli atti inerenti alla procedura ex art. 43 del d.P.R.
n. 327 del 2001, con condanna del comune alla restituzione del terreno previo
ripristino dello stato dei luoghi. Infine, era intervenuto il provvedimento di
acquisizione sanante ai sensi del citato art. 43.
1.3.–
La terza ordinanza (r.o. n. 116 del 2009) espone, in
fatto, che il ricorrente, proprietario di un fondo sito nel Comune di San
Giuseppe Vesuviano (Napoli), ne aveva subito da parte di detto comune
l’occupazione, senza alcun procedimento espropriativo.
Dopo
alterne vicende in punto di giurisdizione, il Tribunale di Nola, ritenendo la
propria giurisdizione, radicandola per la natura usurpativa dell’occupazione, aveva,
infine, negato l’acquisto della proprietà in capo alla pubblica
amministrazione.
In
seguito, era stato adottato da parte del responsabile del Servizio lavori
pubblici ed urbanistica ed Ufficio espropriazioni del Comune di San Giuseppe
Vesuviano, il decreto n. prot. 2006 0020376,
impugnato nel giudizio principale, con il quale veniva disposta l’acquisizione
coattiva al patrimonio indisponibile comunale dell’area, prevedendo, altresì in
favore del proprietario «oltre l’indennizzo, il risarcimento del danno nonchè il computo degli interessi moratori a decorrere dal
giorno in cui il terreno sia stato occupato senza titolo».
In
particolare, il ricorrente deduceva la violazione degli artt. 43 e 57, comma l,
del d.P.R. n. 327 del 2001, lamentando l’inapplicabilità
al caso di specie del procedimento ex
art. 43 ed invocando l’applicazione del regime transitorio ex art. 57, comma 1, con obbligo di restituzione dell’immobile e
risarcimento del danno ex art. 2043
del codice civile per l’illegittima, ulteriore occupazione.
1.4.–
Ciò posto, i giudici a quibus ricordano che, in caso di annullamento
giurisdizionale degli atti relativi alla procedura di espropriazione per
pubblica utilità, il proprietario può chiedere – mediante il giudizio di
ottemperanza – la restituzione del bene piuttosto che il risarcimento del danno
per equivalente monetario, anche se l’area sia stata irreversibilmente
trasformata in conseguenza dell’esecuzione dell’opera pubblica. Inoltre,
l’unico rimedio per evitare la restituzione dell’area sarebbe l’emanazione di
un provvedimento di acquisizione cosiddetto «sanante» ex art. 43 del d.P.R. n. 327 del
1.5.
– Il TAR Campania, dopo aver ricordato la giurisprudenza di legittimità
relativa alla cosiddetta occupazione «appropriativa»,
assume che tale ricostruzione sarebbe incompatibile con la disciplina normativa
introdotta dal d.P.R. n. 327 del 2001 ed entrata in
vigore il 30 giugno
1.6.–
I rimettenti, quanto alla giurisdizione, ritengono di doversi conformare al
consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui, in materia di
procedimenti di espropriazione per pubblica utilità, sono devolute alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie nelle quali
si faccia questione, anche a fini risarcitori, di attività di occupazione e
trasformazione di un bene conseguenti ad una dichiarazione di pubblica utilità
e con essa congruenti, anche in presenza di atti poi dichiarati illegittimi.
1.7.–
Ciò posto, con riferimento alla delibera di acquisizione delle aree, il
Tribunale richiama la giurisprudenza secondo cui tale atto persegue una
finalità di sanatoria di situazioni prive di procedure legittime di esproprio,
senza che rilevi la causa della illegittimità del comportamento: sia essa
conseguente all’assenza di una dichiarazione di pubblica utilità od
all’annullamento di essa oppure determinata da altre cause, risultando in
proposito rilevante il solo fatto che l’interesse pubblico non potrebbe essere
soddisfatto se non con il mantenimento della situazione ablativa.
In punto di rilevanza i rimettenti
assumono che, aderendo a tale orientamento, nella specie il ricorso in
ottemperanza dovrebbe essere dichiarato improcedibile, in virtù dell’atto
formale di acquisizione sanante, mentre il ricorso avverso la delibera
consiliare dovrebbe essere rigettato, perché il provvedimento oggetto di
impugnazione deve ritenersi conforme al modello astratto di cui al citato art.
43.
1.8.–
Il Tribunale amministrativo campano dubita, tuttavia, della legittimità
costituzionale di tale norma, per violazione degli artt. 3, 24, 42, 76, 97, 113
e 117, Cost..
In particolare, quanto agli artt. 3, 24, 42, 97 e
113 Cost., il Tribunale evidenzia come l’esercizio del potere autoritativo di
acquisizione dell’area, attraverso l’adozione di un atto amministrativo, che
consente di evitare la restituzione del bene e di sanare la pregressa illegalità,
avrebbe assunto la natura di strumento «ordinario», attraverso il quale «si
legalizza l’illegale», rimuovendo l’illecito aquiliano attraverso l’atto di
acquisizione. In tal modo risulterebbe capovolta la garanzia costituzionale del
diritto di proprietà di cui all’art. 42, Cost., nella misura in cui la norma
«consente alla pubblica amministrazione, anche deliberatamente, […] di eludere
gli obblighi procedimentali della instaurazione del contraddittorio, delle tre
fasi progettuali e della verifica delle norme di conformità urbanistica», norme
peraltro imposte non soltanto dall’autorità comunale, ma anche da quelle
preposte alla tutela di ulteriori e distinti vincoli.
L’abuso
di tale strumento imporrebbe, invece, una lettura restrittiva della disposizione,
dal momento che ben difficilmente nella pratica sarebbe possibile immaginare
ipotesi in cui l’Amministrazione non possa giustificare il proprio operato, con
la necessità di perseguire uno scopo pubblico.
Per
altro verso, a giudizio dei rimettenti, non si potrebbe prescindere dai
principi costituzionali e dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva con
legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma
il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa,
firmato a Parigi il 20 marzo 1952), (infra:
anche CEDU o Convenzione europea), in base ai quali il diritto di proprietà
potrebbe essere acquistato dall’Amministrazione soltanto attraverso
l’emanazione di un formale provvedimento amministrativo.
Inoltre,
si precisa, la questione di legittimità costituzionale viene appunto sollevata,
prendendo atto che, di fatto, la sentenza che ha dichiarato l’illegittimità
della procedura si pone come «una sorta di atto presupposto del procedimento
che si perfeziona con l’atto di acquisizione», con conseguente «grave lesione
del principio generale dell’intangibilità del giudicato amministrativo» […]
sostanzialmente «vanificato da un atto amministrativo di acquisizione per
utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico». Del
resto, andrebbe pure considerato che l’acquisizione sanante ben potrebbe essere
«reiterata all’infinito», divenendo non più uno strumento straordinario, ma
ordinario, con conseguente «vanificazione dei principi di certezza giuridica e
di tutela delle posizioni giuridiche».
In
questo contesto, il Tribunale specifica di aver esperito inutilmente ogni
tentativo di interpretazione adeguatrice, al fine
attribuire alla norma un significato costituzionalmente corretto.
1.9.–
Con riferimento, poi, all’art. 117, primo comma, Cost., il Tribunale, dopo aver
richiamato la sentenza
di questa Corte n. 349 del 2007, con riguardo al rapporto fra norma statale
ed obblighi derivanti dalla CEDU, assume che la norma censurata non sarebbe
conforme ai principi della Convenzione europea ed all’art. 6 (F) del Trattato
di Maastricht (modificato dal Trattato di Amsterdam), in base al quale
«l’Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali,
[...] in quanto principi generali del diritto comunitario». In questo senso
deporrebbe la costante giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo
(20 aprile 2006; 15 novembre 2005; 17 maggio 2005), la quale avrebbe più volte
affermato la non conformità all’art. 1, prot. 1,
della Convenzione, della prassi sulla cosiddetta «espropriazione indiretta»,
secondo cui l’amministrazione diventerebbe proprietaria del bene in assenza di
un atto ablatorio. 1.10.– Infine, i
rimettenti censurano l’art. 43 anche con riferimento all’art. 76, Cost., in
quanto l’art. 7, comma 2, lettera d)
della legge-delega 8 marzo 1999, n. 50 (Delegificazione e testi unici di norme
concernenti procedimenti amministrativi - Legge di semplificazione 1998)
avrebbe delegato al Governo il mero «coordinamento formale del testo delle
disposizioni vigenti, apportando, nei limiti di detto coordinamento, le
modifiche necessarie per garantire la coerenza logica e sistematica della
normativa anche al fine di adeguare e semplificare il linguaggio normativo». La
norma in questione, invece, non troverebbe «riferimento o principi e criteri
direttivi in norme preesistenti», non potendosi sostenere che l’acquisizione
sanante fosse una modifica necessaria per garantire la coerenza logica e
sistematica della normativa.
2.–
Nel giudizio innanzi alla Corte si sono costituiti i ricorrenti dei giudizi
principali (N.D. ed altri, quanto all’ordinanza r.o.
n. 114 del 2009 e M.R.P. ed altri, quanto all’ordinanza r.o.
n. 115 del 2009), con atti di identico tenore in diritto, chiedendo che la
questione sia accolta.
2.1.–
La difesa delle parti private, dopo aver ripercorso le motivazioni sottese
all’ordinanza di rimessione, assume, in primo luogo, che l’atto acquisitivo
previsto dalla disposizione impugnata, in quanto finalizzato a «sanare»
un’attività posta in essere dalla pubblica amministrazione contra ius, determinando la perdita della proprietà, violerebbe gli
artt. 3, 24, 42, 97 e 117, Cost., conducendo a «legalizzare» l’illegale,
consentendo l’illecito aquiliano.
I
ricorrenti, riportando peraltro ampi brani di sentenze della Corte di
cassazione sul fenomeno dell’occupazione acquisitiva, ritengono che il
censurato art. 43 si porrebbe al di fuori dei «canoni di legittimità
costituzionale», dal momento che attribuisce alla pubblica amministrazione il
potere di disporre l’acquisizione del bene, anche nell’ipotesi in cui non vi
sia stata alcuna preventiva dichiarazione di pubblica utilità, o la medesima
sia stata annullata o resa inefficace ex tunc.
In
definitiva, la norma censurata determinerebbe uno squilibrato vantaggio per il
soggetto pubblico, pregiudicando la certezza dei rapporti giuridici e
sacrificando l’affidamento dei soggetti nella possibilità di far valere le
proprie ragioni sulla base di condizioni normative «operanti nell’ordinamento
vigente in un determinato periodo storico».
2.2.–
Quanto alla violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., le parti assumono che
la norma si porrebbe in conflitto «con i principi che sorreggono la Convenzione
europea su diritti dell’uomo (CEDU), aventi diretta rilevanza nell’ordinamento
interno, nonché con l’articolo 6 del Trattato di Maastricht, modificato dal
Trattato di Amsterdam».
Tale
contrasto sarebbe evidente, alla luce del costante orientamento della Corte
Europea dei diritti dell’uomo in materia di espropriazione cosiddetta
«indiretta».
In
particolare, si ricordano alcune decisioni di quella Corte nelle quali è stato
affermato che l’espropriazione indiretta tende a stabilizzare una situazione di
fatto derivante dalle illegalità commesse dall’amministrazione e che, «sia in
virtù di un principio giurisprudenziale o di un testo di legge come l’art. 43
del testo unico, l’espropriazione indiretta non dovrebbe costituire un mezzo
alternativo all’«espropriazione operata in forma corretta».
I
ricorrenti ricordano altresì, come «l’anomalia italiana» abbia formato oggetto
anche di una risoluzione interinale, in data 14 febbraio 2007, da parte del
Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, con cui le Autorità nazionali
sono state «incoraggiate» «... a proseguire i loro sforzi e ad adottare
rapidamente tutte le misure necessarie addizionali al fine di rimediare in
maniera definitiva alla pratica della "espropriazione indiretta”».
In
tale contesto europeo, poi, le Autorità governative italiane avrebbero expressis verbis
ammesso che la norma dettata dall’art. 43 t.u. in materia di espropriazione per
pubblica utilità è ex se non coerente
con i principi della Convenzione, tant’è che ne viene suggerita un’applicazione
ed interpretazione «correttiva».
2.3.–
Infine, le parti private, citando giurisprudenza di questa Corte, aderiscono
alla censura formulata con riguardo all’art. 76, Cost., in quanto l’ipotesi
dell’acquisizione, introdotta dall’art. 43 d.P.R. n.
327 del 2001, sarebbe «priva di addentellati con la vigente normativa», nel
mentre il legislatore delegato non era stato autorizzato ad integrare o
correggere le previsioni vigenti, ma semplicemente a riordinarle, attraverso un
intervento di mero coordinamento.
3.–
Nel giudizio relativo alle ordinanze r.o. n. 114 e n.
115 del 2009, si è costituito il Comune di Casapesenna, criticando le
argomentazioni sottese ai provvedimenti del giudice a quo. In primo luogo, il Tribunale campano, affermando che
l’istituto in questione «nelle intenzioni del legislatore doveva conservare una
natura eccezionale», nel mentre avrebbe «assunto la natura di strumento
ordinario», confonderebbe l’ipotetica applicazione «scorretta» della norma in
questione, con la sua illegittimità costituzionale. Inoltre, non sarebbe
neppure corretto affermare che l’art. 43 consentirebbe l’illecito aquiliano, in
quanto, al contrario, la norma in questione avrebbe proprio escluso in radice
che l’eventuale illecito aquiliano possa in sé determinare, come accadeva in
passato, l’acquisto della proprietà da parte della pubblica amministrazione.
Il
giudice a quo non coglierebbe nel
segno neppure con riguardo alla pretesa elusione degli obblighi procedimentali,
in quanto il provvedimento di acquisizione deve dare conto specificamente degli
interessi in conflitto, compiendo un’esaustiva comparazione dei medesimi,
attraverso una congrua motivazione della «sussistenza attuale di un interesse
pubblico specifico e concreto». In questo senso, dunque, lo stringente obbligo
di motivazione consente, proprio al giudice amministrativo, di valutarne la
«logicità e ragionevolezza».
3.1.–
Quanto, poi, al contrasto con la giurisprudenza di Strasburgo, il Comune di
Casapesenna ritiene che, diversamente da quanto opinato dai rimettenti, gli
arresti della CEDU non hanno avuto ad oggetto l’applicazione dell’art. 43 del d.P.R. n. 327 del 2001, ma la pratica dell’accessione
invertita, della quale proprio l’art. 43 costituirebbe la soluzione
legislativa.
3.2.–
Infondata sarebbe pure la censura di violazione del giudicato amministrativo,
in quanto la norma in esame non sarebbe in grado di mettere in discussione né
l’annullamento degli atti preordinati all’esproprio, né il diritto al
risarcimento del privato illegittimamente spossessato, limitandosi piuttosto a
consentire alla pubblica amministrazione di optare per il risarcimento
monetario, piuttosto che per quello in forma specifica. Anzi, il citato art.
43, piuttosto che ledere il precedente giudicato, ne garantirebbe una più piena
esecuzione, in quanto limiterebbe a singoli casi ed alla ricorrenza di
specifici presupposti la facoltà della pubblica amministrazione di optare per
il risarcimento monetario, in luogo di quello in forma specifica.
3.3.–
Da ultimo, con riferimento alla violazione dell’art. 76 Cost., si rileva che il
t.u. sulle espropriazioni, in quanto volto al riordino normativo ed alla
semplificazione delle norme procedurali ed organizzative, avrebbe natura
innovativa e non meramente compilativa, potendo apportare, in sede di
coordinamento delle disposizioni vigenti, «le modifiche necessarie per
garantire la coerenza logica e sistematica della normativa».
4.–
In tutti i giudizi promossi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che, nei
distinti atti, di contenuto sostanzialmente identico, ha chiesto che la
questione sia dichiarata inammissibile ed infondata.
4.1.–
La difesa dello Stato eccepisce, in primo luogo, l’inammissibilità della
questione per difetto di rilevanza, ricordando che questa Corte, nella sentenza n. 191 del
2006, ha espressamente escluso che la norma censurata abbia valore di norma
processuale, sicchè i rimettenti avrebbero dovuto
chiedersi se essa fosse o meno applicabile alla fattispecie concreta. Il tema
dell’applicabilità dell’art. 43 del t.u. in materia di espropriazioni alle
occupazioni sine titulo,
perfezionatesi prima dell’entrata in vigore del d.P.R.
n. 327 del 2001, rappresenterebbe, infatti, uno dei temi più dibattuti sia in
dottrina che in giurisprudenza. Oltre all’orientamento richiamato
dall’ordinanza di rimessione, infatti, sarebbe dato riscontrare, in senso
contrario, in primo luogo quello della Corte di cassazione che, con le sentenze
22 settembre 2008, n. 23943 e 19 dicembre 2007, n. 26732, ne ha escluso
l’applicabilità in considerazione del fatto che l’art. 57 del d.P.R. n. 327 del 2001, nel disciplinare l’applicabilità
della nuova disciplina (e non soltanto delle norme di natura sostanziale), ha
introdotto un criterio fondato esclusivamente sul dato temporale del primo atto
del procedimento espropriativo, a prescindere dalle sue successive vicende e
dai successivi provvedimenti che l’espropriante potesse emanare.
Inoltre,
lo stesso Consiglio di Stato, con la sentenza 26 settembre 2008 n. 4660,
avrebbe negato l’applicazione del citato art. 43 ad una fattispecie
perfezionatasi, come quella in esame oggi, anteriormente all’entrata in vigore
del t.u.
4.2.–
La questione sarebbe, ancora, inammissibile perché i rimettenti non avrebbero
sperimentato un’interpretazione costituzionale della norme censurata. Ciò in
quanto il Tribunale muoverebbe da un’applicazione della disposizione da parte
delle amministrazioni e da parte del diritto vivente, che a suo giudizio
avrebbe condotto a risultati abnormi, quali quello relativo all’operatività
dell’art.
Ad
avviso dell’Avvocatura dello Stato, tuttavia, nulla avrebbe impedito ai giudici
rimettenti di valutare alla stregua di un’interpretazione costituzionalmente
orientata l’illegittimità dell’atto acquisitivo, nel corso del giudizio di
ottemperanza, per le medesime ragioni che sono state poste a sostegno della
questione di costituzionalità.
4.3.
– Nel merito, la difesa dello Stato precisa in primo luogo che lo strumento
della cosiddetta acquisizione sanante, lungi dall’essere uno strumento
ordinario, si sostanzierebbe invece come una «legale via d’uscita» dalle
situazioni di illegalità, verificatesi nel corso degli anni.
Quanto,
poi, al rapporto con il giudicato relativo alla restituzione del fondo, si
sottolinea che la disposizione in esame non costituisce, di per sé, uno
strumento di elusione del giudicato, ma sarebbe semmai l’uso non funzionale
della norma da parte dell’Amministrazione, che potrebbe determinare tale
conseguenza. Sarebbe, quindi, compito del giudice amministrativo verificare con
rigore quella comparazione di interessi sottesa al provvedimento, secondo i
criteri della ragionevolezza e proporzionalità.
Il
Presidente del Consiglio dei ministri evidenzia, poi, come nel caso di specie il
giudice ben avrebbe potuto dichiarare, ai sensi dell’art. 21 septies della
legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento
amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), la nullità
del provvedimento di acquisizione adottato dall’amministrazione comunale, per
violazione del giudicato.
4.4.–
In ordine alla questione relativa alla violazione dell’art. 117, primo comma,
Cost., per violazione della CEDU, l’Avvocatura dello Stato, nonostante i dubbi
di legittimità costituzionale paventati da alcune decisioni della Corte di
cassazione (sentenza n. 26732 del 2007, cit.), premette che la questione della
compatibilità dell’art. 43 non sarebbe mai stata affrontata dalla Corte di
Strasburgo. Ciò posto, il giudice rimettente avrebbe potuto, comunque praticare
un’interpretazione conforme ai «canoni CEDU», prima ancora di sollevare la
questione di legittimità costituzionale. Del resto la giurisprudenza
amministrativa si sarebbe più volte espressa nel senso della piena compatibilità
dell’art. 43 con le disposizioni CEDU, come interpretate dalla Corte europea
dei diritti dell’uomo.
4.5.–
Infine, con riferimento al denunciato vizio di eccesso di delega, il Presidente
del Consiglio dei ministri ricorda, ancora, la giurisprudenza del giudice
amministrativo che avrebbe negato la sussistenza di tale vizio.
4.6.–
Da ultimo l’Avvocatura dello Stato sottolinea come l’eventuale «caducazione»
della norma impugnata avrebbe come inevitabile conseguenza il «ritorno in auge»
degli istituti di creazione pretoria dell’occupazione «acquisitiva» ed
«usurpativa», che esporrebbero lo Stato ad ulteriori e numerosissime condanne
da parte della Corte di Strasburgo.
Considerato
in diritto
1.–
Le questioni sollevate dal Tribunale amministrativo regionale per la Campania,
con tre distinte ordinanze di contenuto in larga misura coincidente (r.o. n. 114, n. 115 e n. 116 del 2009), riguardano
l’articolo 43 del decreto del Presidente della Repubbica
8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità), con il quale
viene disciplinata
1.1.–
I giudizi hanno ad oggetto la stessa norma, censurata con riferimento agli
stessi parametri, sotto gli stessi profili e in gran parte con le stesse
argomentazioni; ponendo, pertanto, un’identica questione, vanno riuniti e
decisi con un’unica pronuncia.
2.–
La norma censurata ha ad oggetto la disciplina dell’utilizzazione senza titolo
di un bene per scopi di interesse pubblico e consente all’autorità che abbia
utilizzato a detti fini un bene immobile in assenza di un valido ed efficace
provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, di disporne
l’acquisizione al suo patrimonio indisponibile, con l’obbligo di risarcire i
danni al proprietario. La disposizione regola, inoltre, tempo e contenuto
dell’atto di acquisizione, l’impugnazione del medesimo, la facoltà della
pubblica amministrazione di chiedere che il giudice amministrativo «disponga la
condanna al risarcimento del danno, con esclusione della restituzione del bene
senza limiti di tempo», fissando i criteri per la quantificazione del
risarcimento del danno.
Secondo
il Tribunale rimettente, in punto di rilevanza, l’applicazione della disciplina
di cui al citato art. 43 determinerebbe l’improcedibilità dei ricorsi in
ottemperanza, in considerazione dell’atto formale di acquisizione sanante;
nello stesso tempo, i ricorsi avverso la delibera di acquisizione dovrebbero
essere rigettati, perché il provvedimento oggetto di impugnazione dovrebbe
ritenersi conforme al modello astratto disegnato dall’intera disposizione,
nonostante, in questo caso, fosse già intervenuta una pronuncia di restituzione
(in particolare nei giudizi iscritti al r.o. n. 114 e
n. 115 del
La
norma si porrebbe in contrasto anzitutto con gli articoli 3, 24, 42, 97 e 113
della Costituzione, in quanto essa consentirebbe, secondo l’interpretazione
assunta come diritto vivente, la sanatoria di espropriazioni illegittime, a
causa della mancanza della dichiarazione di pubblica utilità, dell’annullamento
degli atti ovvero per altra causa. In tal modo, sarebbe prefigurato l’esercizio
di un potere autoritativo di acquisizione dell’area che impedirebbe la
restituzione del bene, rimuovendo l’illecito aquiliano anche a dispetto di un
giudicato amministrativo, consentendo «alla pubblica amministrazione, anche
deliberatamente, … di eludere gli obblighi procedimentali della instaurazione
del contraddittorio, delle tre fasi progettuali e della verifica delle norme di
conformità urbanistica» con «grave lesione del principio generale
dell’intangibilità del giudicato amministrativo», sostanzialmente «vanificato
da un atto amministrativo di acquisizione per utilizzazione senza titolo di un
bene per scopi di interesse pubblico».
3.–
Ad avviso del TAR, la norma impugnata si porrebbe, inoltre, in contrasto con
l’art. 117, primo comma, Cost., in quanto non sarebbe conforme ai principi
della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come interpretati dalla Corte
di Strasburgo, che ha ritenuto in contrasto con l’art. 1, prot.
1, la prassi della cosiddetta «espropriazione indiretta»; violando peraltro
anche l’art. 6 (F) del Trattato di Maastricht (modificato dal Trattato di
Amsterdam), in base al quale «l’Unione rispetta i diritti fondamentali quali
sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali, [...] in quanto principi generali del
diritto comunitario».
4.–
I rimettenti, infine, ritengono che il citato art. 43 impugnato recherebbe vulnus all’art. 76, Cost., in quanto
sarebbe stato emanato in violazione dei criteri della legge-delega 8 marzo
1999, n. 50 (Delegificazione e testi unici di norme concernenti procedimenti
amministrativi – Legge di semplificazione 1998).
5.–
L’Avvocatura dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni, per
difetto di rilevanza nel giudizio a quo,
in quanto questa Corte, la Corte di cassazione ed il Consiglio di Stato
avrebbero escluso l’applicabilità del citato art. 43 alle occupazioni appropriative verificatesi prima del 30 giugno 2003, data
di entrata in vigore del d.P.R. n. 327 del 2001.
5.1.–
L’eccezione non è fondata. La questione dell’applicabilità della norma in esame
non è stata risolta in modo univoco dalla giurisprudenza. La Corte di
cassazione esclude, infatti, l’ammissibilità dell’adozione di un provvedimento
di acquisizione sanante ex art. 43
con riguardo alle occupazioni appropriative
verificatesi prima dell’entrata in vigore del d.P.R.
n. 327 del 2001 (sentenze 22 settembre 2008, n. 23943, 28 luglio 2008 n. 20543,
19 dicembre 2007, n. 26732). Diversamente, nella giurisprudenza del Consiglio
di Stato è ormai prevalente il principio secondo cui «la procedura di
acquisizione in sanatoria di un’area occupata sine titulo, descritta dal citato
articolo 43, trova una generale applicazione anche con riguardo alle
occupazioni attuate prima dell’entrata in vigore della norma» (Cons. Stato,
Sez. IV, 26 marzo 2010, n. 1762, Sez. IV, 8 giugno 2009, n. 3509, inoltre: Ad. Plen. 29 aprile 2005, n. 2; Sez. IV, 16 novembre 2007, n.
5830, esaminata senza rilievi sulla giurisdizione da Cass.,
SS.UU., 16 aprile 2009, n. 9001).
In
presenza di tale contrasto, le ordinanze di rimessione hanno motivato in
maniera non implausibile in ordine all’applicabilità della norma, richiamando
la giurisprudenza assolutamente prevalente ed il «diritto vivente» del Consiglio
di Stato.
6.–
Nel merito, vanno esaminate in via preliminare le censure riferite all’art. 76,
della Costituzione. Spetta, infatti, a questa Corte «valutare il complesso
delle eccezioni e delle questioni costituenti il thema decidendum devoluto al suo esame» e
«stabilire, anche per economia di giudizio, l’ordine con cui affrontarle nella
sentenza e dichiarare assorbite le altre» (da ultimo, sentenze n. 181 del 2010
e n. 262 del
2009), quando si è in presenza di «questioni tra loro autonome per
l’insussistenza di un nesso di pregiudizialità» (sentenza n. 262 del
2009).
Nella
specie, è palese la pregiudizialità logico-giuridica delle censure riferite
all’art. 76 Cost., giacchè esse investono il corretto
esercizio della funzione legislativa e, quindi, la loro eventuale fondatezza
eliderebbe in radice ogni questione in ordine al contenuto precettivo della
norma in esame.
6.1.–
I rimettenti denunciano la violazione dell’art. 76 Cost., deducendo che l’art.
43 non troverebbe «riferimento o principi e criteri direttivi in norme
preesistenti», in quanto la legge-delega n. 50 del 1999 prevedeva il mero
coordinamento formale del testo delle disposizioni vigenti, e consentiva, nei
limiti di tale coordinamento, le sole modifiche necessarie per garantire la
coerenza logica e sistematica della normativa, anche al fine di adeguare e
semplificare il linguaggio.
7.–
La questione è fondata.
8.–
La norma impugnata disciplina l’istituto cosiddetto della «acquisizione
sanante». In particolare essa dispone, fra l’altro, al comma 1, che, «valutati gli
interessi in conflitto, l’autorità che utilizza un bene immobile per scopi di
interesse pubblico, modificato in assenza del valido ed efficace provvedimento
di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può disporre che esso vada
acquisito al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario vadano
risarciti i danni». Viene, poi, precisato, al comma 2, che l’atto di
acquisizione «...a) può essere emanato anche quando sia stato annullato l’atto
da cui sia sorto il vincolo preordinato all’esproprio, l’atto che abbia
dichiarato la pubblica utilità di un’opera o il decreto di esproprio;».
Si
tratta, dunque, della possibilità di acquisire alla mano pubblica un bene
privato, in precedenza occupato e modificato per la realizzazione di un’opera
di interesse pubblico, anche nel caso in cui l’efficacia della dichiarazione di
pubblica utilità sia venuta meno, con effetto retroattivo, in conseguenza del
suo annullamento o per altra causa, o anche in difetto assoluto di siffatta
dichiarazione («assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio o
dichiarativo della pubblica utilità»).
8.1.–
La norma censurata è contenuta nel testo unico, in materia di espropriazioni,
redatto in attuazione della legge n. 50 del
In
particolare, la delega riguardava il «riordino» delle norme elencate
nell’allegato I alla legge n. 59 del 1997 (nel testo risultante a seguito
dell’art. 1, legge 24 novembre 2000, n. 340 – Disposizioni per la delegificazione
di norme e per la semplificazione di procedimenti amministrativi – Legge di
semplificazione 1999), che contemplava, quale oggetto, il «procedimento di
espropriazione per causa di pubblica utilità e altre procedure connesse: legge
25 giugno 1865, n. 2359; legge 22 ottobre 1971, n. 865».
8.2.–
Il chiaro tenore delle norme richiamate rende palese che la delega oggetto
delle medesime concerneva esplicitamente il tessuto normativo costituito dalle
leggi n. 2359 del 1865 e n. 865 del 1971.
Il
sistema dell’espropriazione per pubblica utilità risultante da dette leggi era
articolato, in sintesi, in un procedimento che presupponeva il provvedimento
dichiarativo della pubblica utilità dell’opera e la fissazione di termini, con
la connessa disciplina dei casi di indifferibilità ed urgenza. In seguito, la
legge n. 865 del 1971 aveva previsto la concentrazione del procedimento in
un’unica fase, ricollegando la dichiarazione di pubblica utilità, unitamente
alla dichiarazione di indifferibilità ed urgenza delle opere pubbliche,
all’approvazione dei progetti delle opere da parte degli organi competenti.
Successivamente,
ed in presenza di una nutrita serie di patologie dei procedimenti
amministrativi di espropriazione, consistenti nell’accertamento
dell’occupazione sine titulo
da parte della pubblica amministrazione, la giurisprudenza di legittimità aveva
elaborato gli istituti dell’occupazione «appropriativa»
ed «usurpativa».
In
sintesi, la prima era caratterizzata da una anomalia del procedimento
espropriativo, a causa della sua mancata conclusione con un formale atto
ablativo, mentre la seconda era collegata alla trasformazione del fondo di
proprietà privata, in assenza di dichiarazione di pubblica utilità. Nel primo
caso (il cui leading
case si rinviene nella sentenza delle
Sezioni Unite 26 febbraio 1983, n. 1464), l’acquisto della proprietà conseguiva
ad un’inversione della fattispecie civilistica dell’accessione di cui agli
artt. 935 ss. cod. civ., in considerazione della trasformazione irreversibile
del fondo. Secondo questa ricostruzione, la destinazione irreversibile del
suolo privato illegittimamente occupato comportava l’acquisto a titolo
originario, da parte dell’ente pubblico, della proprietà del suolo e la
contestuale estinzione del diritto di proprietà del privato. La successiva
sentenza delle Sezioni Unite 10 giugno 1988, n. 3940, precisò poi la figura
della «occupazione acquisitiva», limitandola al caso in cui si riscontrasse una
valida dichiarazione di pubblica utilità che permetteva di far prevalere l’interesse
pubblico su quello privato.
L’«occupazione
usurpativa», invece, non accompagnata da dichiarazione di pubblica utilità, ab initio o
per effetto dell’intervenuto annullamento del relativo atto o per scadenza dei
relativi termini, in quanto tale non determinava dunque l’effetto acquisitivo a
favore della pubblica amministrazione.
8.3.–
E’ questo, in sostanza, il contesto normativo in cui è stato inserito il citato
art. 43, comprensivo anche dei ricordati istituti di origine giurisprudenziale,
i quali hanno nel tempo disciplinato la materia.
Nella
redazione del testo unico il legislatore delegato era tenuto ad osservare i
seguenti principi e criteri direttivi, contenuti nell’art. 7, comma 2, della
citata legge n. 50: la puntuale individuazione del testo vigente delle norme
(lettera b dell’art. 7 cit.);
l’indicazione delle norme abrogate, anche implicitamente, da successive
disposizioni (lettera c); il
coordinamento «formale» del testo delle disposizioni vigenti, apportando, nei
limiti di detto coordinamento, le modifiche necessarie per garantire la
coerenza logica e sistematica della normativa, anche al fine di adeguare e
semplificare il linguaggio normativo (lettera d).
La
legge-delega imponeva, poi, l’indicazione delle disposizioni, non inserite nel
testo unico, che restavano comunque in vigore (lettera e) e l’esplicita abrogazione di tutte le rimanenti disposizioni,
non richiamate, che regolavano la materia oggetto di delegificazione, con
espressa indicazione delle stesse in apposito allegato al testo unico (lettera f).
8.4.–
Occorre verificare, pertanto, se il legislatore delegato abbia osservato i
suindicati principi e criteri direttivi.
Secondo
la consolidata giurisprudenza di questa Corte, il sindacato di costituzionalità
sulla delega legislativa si esplica attraverso un confronto tra gli esiti di
due processi ermeneutici paralleli. Il primo riguarda le norme che determinano
l’oggetto, i principi e i criteri direttivi indicati dalla delega, tenendo
conto del complessivo contesto di norme in cui si collocano e si individuano le
ragioni e le finalità poste a fondamento della legge di delegazione. Il secondo
riguarda le norme poste dal legislatore delegato, da interpretarsi nel
significato compatibile con i principi ed i criteri direttivi della delega (ex plurimis,
sentenze n. 230
del 2010, n.
98 del 2008, n.
54 del 2007, n.
280 del 2004, n.
199 del 2003).
Pertanto,
da un lato, deve farsi riferimento alla ratio
della delega; dall’altro, occorre tenere conto della possibilità, insita nello
strumento della delega, di introdurre norme che siano un coerente sviluppo dei
principi fissati dal legislatore delegato; dall’altro ancora, sebbene rientri nella
discrezionalità del legislatore delegato emanare norme che rappresentino un
coerente sviluppo e, se del caso, anche un completamento delle scelte espresse
dal legislatore (sentenza
n. 199 del 2003; ordinanza n. 213
del 2005), è nondimeno necessario che detta discrezionalità sia esercitata
nell’ambito dei limiti stabiliti dai principi e criteri direttivi.
Inoltre,
secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, qualora la delega abbia ad
oggetto, come nella specie, la revisione, il riordino ed il riassetto di norme
preesistenti, queste finalità giustificano un adeguamento della disciplina al
nuovo quadro normativo complessivo, conseguito dal sovrapporsi, nel tempo, di
disposizioni emanate in vista di situazioni ed assetti diversi. L’introduzione
di soluzioni sostanzialmente innovative rispetto al sistema legislativo
previgente è, tuttavia, ammissibile soltanto nel caso in cui siano stabiliti
principi e criteri direttivi idonei a circoscrivere la discrezionalità del
legislatore delegato (sentenza n. 170 del 2007
e n. 239 del
2003).
8.5.–
Alla luce di questi principi, risulta chiara la fondatezza delle censure svolte
dai giudici rimettenti.
La
legge-delega aveva conferito, sul punto, al legislatore delegato il potere di
provvedere soltanto ad un coordinamento «formale» relativo a disposizioni
«vigenti». L’istituto previsto e disciplinato dalla norma impugnata, viceversa,
è connotato da numerosi aspetti di novità, rispetto sia alla disciplina
espropriativa oggetto delle disposizioni espressamente contemplate dalla
legge-delega, sia agli istituti di matrice prevalentemente giurisprudenziale.
In
primo luogo, non è dato ravvisare nelle leggi indicate nel citato allegato I,
alla legge n. 59 del 1997, alcuna norma che potesse giustificare un intervento
della pubblica amministrazione, in via di sanatoria, sulle procedure ablatorie
previste.
Inoltre,
neppure può farsi riferimento al contesto degli orientamenti giurisprudenziali
sopra richiamati, in quanto più profili della cosiddetta «acquisizione
sanante», così come disciplinata dalla norma censurata, eccedono con tutta
evidenza dagli istituti della occupazione appropriativa
e della occupazione usurpativa, così come delineati da quegli orientamenti.
Il
citato art. 43, infatti, ha anzitutto assimilato le due figure, introducendo la
possibilità per l’amministrazione e per chi utilizza il bene di chiedere al
giudice amministrativo, in ogni caso e senza limiti di tempo, la condanna al
risarcimento in luogo della restituzione. Peraltro, esso estende tale
disciplina anche alle servitù, rispetto alle quali la giurisprudenza aveva
escluso l’applicabilità della cosiddetta occupazione appropriativa,
trattandosi di fattispecie non applicabile all’acquisto di un diritto reale in re
aliena, in quanto difetta la non emendabile trasformazione del suolo in una
componente essenziale dell’opera pubblica.
Infine,
la norma censurata differisce il prodursi dell’effetto traslativo al momento
dell’atto di acquisizione.
Si
tratta di elementi di sicuro rilievo e qualificanti, i quali dimostrano che la
norma in esame non solo è marcatamente innovativa rispetto al contesto
normativo positivo di cui era consentito un mero riordino, ma neppure è
coerente con quegli orientamenti di giurisprudenza che, in via interpretativa,
erano riusciti a porre un certo rimedio ad alcune gravi patologie emerse nel
corso dei procedimenti espropriativi. Siffatto carattere della norma impugnata
trova conferma significativa nella circostanza che, secondo la giurisprudenza
di legittimità, in materia di occupazione di urgenza, la sopravvenienza di un
provvedimento amministrativo non poteva avere un’efficacia sanante retroattiva,
determinata da scelte discrezionali dell’ente pubblico o dai suoi poteri
autoritativi. Nel regime risultante dalla norma impugnata, invece, si prevede
un generalizzato potere di sanatoria, attribuito alla stessa amministrazione
che ha commesso l'illecito, a dispetto di un giudicato che dispone il ristoro
in forma specifica del diritto di proprietà violato.
Il
legislatore delegato, in definitiva, non poteva innovare del tutto ed al di
fuori di ogni vincolo alla propria discrezionalità esplicitamente individuato
dalla legge-delega. Questa Corte ha in proposito affermato, infatti, che, per
quanta ampiezza possa riconoscersi al potere di riempimento del legislatore
delegato, «il libero apprezzamento» del medesimo «non può mai assurgere a
principio od a criterio direttivo, in quanto agli antipodi di una legislazione
vincolata, quale è, per definizione, la legislazione su delega» (sentenze n. 340 del 2007
e n. 68 del 1991).
In
contrario, non giova dedurre, come sostenuto dall’Avvocatura dello Stato, che
il legislatore delegato abbia inteso tenere conto delle censure mosse dalla
giurisprudenza di Strasburgo alla pratica delle espropriazioni «indirette».
Indipendentemente
sia da ogni considerazione relativa al fatto che ciò non era contemplato nei
principi e criteri direttivi di cui al più volte citato art. 7 della legge n.
50 del 1999, sia dal legittimo dubbio quanto alla idoneità della scelta
realizzata con la norma di garantire il rispetto dei principi della CEDU, che
in questa sede non è possibile sciogliere, quella prefigurata costituisce
soltanto una delle molteplici soluzioni possibili. Il legislatore avrebbe potuto conseguire tale obiettivo e
disciplinare in modi diversi la materia, ed anche espungere del tutto la
possibilità di acquisto connesso esclusivamente a fatti occupatori, garantendo
la restituzione del bene al privato, in analogia con altri ordinamenti europei.
E neppure è mancato qualche rilievo in questo senso della Corte di Strasburgo,
la quale, infatti, sia pure incidentalmente, ha precisato che l’espropriazione
indiretta si pone in violazione del principio di legalità, perché non è in
grado di assicurare un sufficiente grado di certezza e permette
all’amministrazione di utilizzare a proprio vantaggio una situazione di fatto
derivante da «azioni illegali», e ciò sia allorchè
essa costituisca conseguenza di un’interpretazione giurisprudenziale, sia allorchè derivi da una legge – con espresso riferimento
all’articolo 43 del t.u. qui censurato –, in quanto tale forma di espropriazione
non può comunque costituire un’alternativa ad un’espropriazione adottata
secondo «buona e debita forma» (Causa
Sciarrotta ed altri c. Italia – Terza Sezione –
sentenza 12 gennaio 2006 – ricorso n. 14793/02).
Anche
considerando la giurisprudenza di Strasburgo, pertanto, non è affatto sicuro
che la mera trasposizione in legge di un istituto, in astratto suscettibile di
perpetuare le stesse negative conseguenze dell’espropriazione indiretta, sia
sufficiente di per sé a risolvere il grave
vulnus al principio di legalità.
Alla
stregua dei rilievi svolti, va dichiarata l’illegittimità costituzionale
dell’intero art. 43 del d.P.R. n. 327 del 2001,
poiché la disciplina inerente all’acquisizione del diritto di servitù, di cui
al comma 6 bis, appare strettamente
ed inscindibilmente connessa con gli altri commi, sia per espresso rinvio alle
norme fatte oggetto di censura, sia perché ne presuppone l’applicazione e ne
disciplina ulteriori sviluppi applicativi (cfr. sentenza n. 18 del
2009).
9.–
La pronuncia di illegittimità costituzionale con riferimento all’art. 76 Cost.,
determina l’assorbimento delle questioni poste con riferimento agli artt. 3,
24, 42, 97, 113 e 117, primo comma, Cost.
PER QUESTI MOTIVI
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 43 del
decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico
delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per
pubblica utilità).
Così deciso in Roma,
nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 ottobre 2010.
F.to:
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in