SENTENZA N. 98
ANNO 2008
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco BILE Presidente
- Giovanni Maria FLICK Giudice
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 26, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40 (Modifiche al codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica e di arbitrato, a norma dell’articolo 1, comma 2, della legge 14 maggio 2005, n. 80), promossi con ordinanze dell’8 marzo 2007 dalla Corte d’appello di Brescia nel procedimento civile vertente tra Savio Domenico e la Provincia di Brescia e del 16 novembre 2006 dal Tribunale di Reggio Emilia nel procedimento civile vertente tra il Comune di Reggio Emilia e Tedone Michele ed altra, iscritte ai nn. 571 e 748 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 34 e 44, prima serie speciale, dell’anno 2007.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 12 marzo 2008 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro.
Ritenuto in fatto
1. – Il Tribunale ordinario di Reggio Emilia (r.o. n. 748 del 2007) e la Corte d’appello di Brescia (r.o. n. 571 del 2007), con ordinanze del 16 novembre 2006 e dell’8 marzo 2007, hanno sollevato, in riferimento agli artt. 76 e 77, primo comma, della Costituzione (la seconda ordinanza soltanto con riguardo al primo di detti parametri) ed in relazione all’art. 1 della legge 14 maggio 2005, n. 80 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 14 marzo 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale. Deleghe al Governo per la modifica del codice di procedura civile in materia di processo di cassazione e di arbitrato nonché per la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali), questione di legittimità costituzionale dell’art. 26, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40 (Modifiche al codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica e di arbitrato, a norma dell’articolo 1, comma 2, della legge 14 maggio 2005, n. 80), che ha abrogato l’ultimo comma dell’art. 23 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), rendendo appellabile la sentenza che decide l’opposizione avverso il provvedimento che irroga una sanzione amministrativa, prima soltanto ricorribile per cassazione.
2. – Il Tribunale di Reggio Emilia premette che il giudizio principale ha ad oggetto l’appello avverso una sentenza emessa dal Giudice di pace di detta città, che ha deciso l’opposizione ad un’ordinanza-ingiunzione, di irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria.
Il rimettente espone che la norma censurata, applicabile nel giudizio principale ratione temporis, ha abrogato l’ultimo comma dell’art. 23 della legge n. 689 del 1981, rendendo in tal modo impugnabile con l’appello la sentenza che decide l’opposizione all’ordinanza-ingiunzione, di irrogazione di una sanzione amministrativa.
A suo avviso, la norma violerebbe gli artt. 76 e 77, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1, commi 2 e 3, della legge n. 80 del 2005, in quanto la delega oggetto di quest’ultima disposizione concerneva esclusivamente l’introduzione di modificazioni al codice di procedura civile ed al processo di cassazione, non all’art. 23 della legge n. 689 del 1981.
Inoltre, il citato art. 1, comma 3, lettera a), aveva conferito al Governo il potere di modificare il processo di legittimità e di prevedere «la non ricorribilità immediata delle sentenze che decidono di questioni insorte senza definire il giudizio», ipotesi differente da quella disciplinata dalla norma censurata.
2.1. – L’ordinanza di rimessione della Corte d’appello di Brescia espone che nel giudizio principale è stata impugnata una sentenza del Tribunale di Brescia, avente ad oggetto l’opposizione ad un’ordinanza-ingiunzione, di irrogazione di una sanzione amministrativa.
Secondo il giudice a quo, l’appello è ammissibile proprio in virtù della norma censurata che, tuttavia, si porrebbe in contrasto con l’art. 76 Cost., in quanto la delega dell’art. 1, commi 2 e 3, della legge n. 80 del 2005 non avrebbe permesso di modificare la disciplina del regime di impugnazione delle sentenze rese all’esito del giudizio di cui all’art. 23 della legge n. 689 del 1981.
A suo avviso, la previsione di una nuova fase di merito non sarebbe neppure strumentale rispetto all’obiettivo della legge-delega, di garantire l’efficienza della funzione nomofilattica.
Le sentenze in esame sono, infatti, pronunciate all’esito di un giudizio di carattere “demolitorio”, deciderebbero della legittimità di un provvedimento amministrativo e della sussistenza di un illecito ed avrebbero un contenuto tipico, tale da definire il giudizio.
Secondo il giudice a quo, la previsione dell’appellabilità di dette sentenze realizzerebbe una irragionevole duplicazione della prima fase di merito, quindi l’assenza nella legge-delega dell’espresso riferimento alle medesime sarebbe stata giustificata dall’esigenza di salvaguardare «una logica di sistema». Inoltre, l’art. 1, comma 4, della legge n. 80 del 2005, disponendo che il legislatore delegato avrebbe potuto «revisionare la formulazione letterale […] delle altre norme processuali civili vigenti non direttamente investite dai principi di delega», neanche legittimerebbe la norma censurata.
L’art. 26 del d.lgs. n. 40 del 2006 non sarebbe, infine, in armonia con le altre disposizioni contenute in questo atto normativo, concernenti il processo di legittimità e dirette a realizzare modifiche che neppure indirettamente investono una norma la quale, per le sentenze in esame, prevedeva una forma esclusiva di controllo di legalità, mediante una eccezione rispetto al principio stabilito dall’art. 339, primo comma, del codice di procedura civile, coerente con la specificità della materia e con la natura dell’accertamento oggetto del relativo giudizio. Pertanto, l’eventuale ambiguità della lettera dell’art. 1, comma 4, della legge n. 80 del 2005, poiché ai sensi dell’art. 76 Cost. la delega deve avere oggetto definito, non potrebbe comunque fondare una norma di contenuto non pertinente con la «materia delegata».
3. – In entrambi i giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo, con separati atti, di contenuto sostanzialmente coincidente, che la questione sia dichiarata non fondata.
Secondo la difesa erariale, la norma censurata sarebbe coerente con i princípi generali della legge-delega, in quanto diretta a rafforzare la funzione nomofilattica. L’attribuzione al giudice di pace di larga parte dei giudizi in materia di sanzioni amministrative aveva, infatti, comportato un incremento del numero dei ricorsi per cassazione, mirando le parti ad ottenere un sindacato indiretto sul merito della controversia, in contrasto con la funzione nomofilattica e con l’effetto di gravare la Corte suprema di cassazione di un numero di giudizi tale da pregiudicare l’efficiente svolgimento di detta funzione.
Questo obiettivo dovrebbe essere apprezzato anche alla luce dell’art. 1, comma 2, della legge-delega il quale, stabilendo che il Governo, con il decreto delegato, avrebbe dovuto provvedere «a realizzare il necessario coordinamento con le altre disposizioni vigenti», renderebbe chiara l’esigenza di evitare il persistere di situazioni pregiudizievoli al corretto svolgimento della funzione nomofilattica, che ha reso imprescindibile la modifica realizzata dalla norma censurata.
Considerato in diritto
1. – Le questioni sollevate dal Tribunale ordinario di Reggio Emilia e dalla Corte d’appello di Brescia investono l’art. 26, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40 (Modifiche al codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica e di arbitrato, a norma dell’articolo 1, comma 2, della legge 14 maggio 2005, n. 80), che ha abrogato l’ultimo comma dell’art. 23 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), rendendo appellabile la sentenza che decide l’opposizione avverso il provvedimento che irroga una sanzione amministrativa, prima soltanto ricorribile per cassazione.
Secondo entrambi i rimettenti, la norma censurata, prevedendo la proponibilità dell’appello avverso sentenze prima impugnabili soltanto con ricorso per cassazione, violerebbe l’art. 76 della Cosituzione, nonché, ad avviso del Tribunale ordinario di Reggio Emilia, l’art. 77, primo comma, Cost., in quanto la delega oggetto dell’art. 1 della legge 14 maggio 2005, n. 80 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 14 marzo 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale. Deleghe al Governo per la modifica del codice di procedura civile in materia di processo di cassazione e di arbitrato nonché per la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali), concerneva esclusivamente l’introduzione di modificazioni al codice di procedura civile ed al processo di cassazione, non all’art. 23 della legge n. 689 del 1981.
Il primo dei due giudici a quibus deduce, inoltre, che neanche l’art. 1, comma 3, lettera a), della legge n. 80 del 2005, attribuendo al legislatore delegato il potere di stabilire la «non ricorribilità immediata delle sentenze che decidono di questioni insorte senza definire il giudizio», legittimerebbe la modifica della disciplina dell’impugnazione delle sentenze oggetto del citato art. 23.
Secondo la Corte d’appello di Brescia, la previsione di una nuova fase di merito neppure sarebbe strumentale rispetto all’obiettivo della legge-delega, di garantire l’efficienza della funzione nomofilattica.
Le sentenze oggetto del citato art. 23 sarebbero, infatti, pronunciate all’esito di un giudizio di carattere “demolitorio”, deciderebbero della legittimità di un provvedimento amministrativo e della sussistenza di un illecito ed avrebbero un contenuto tipico, tale da definire il giudizio. La mancanza nella legge-delega di un espresso riferimento a dette pronunce sarebbe stata giustificata dall’esigenza di garantire «una logica di sistema», in coerenza con la specificità della materia e con la natura dell’accertamento oggetto del relativo giudizio che, in passato, avevano appunto indotto ad escluderne l’appellabilità. Pertanto, l’eventuale ambiguità della lettera dell’art. 1, comma 4, della legge n. 80 del 2005 e l’attribuzione al legislatore delegato del potere di «revisionare la formulazione letterale […] delle altre norme processuali civili vigenti non direttamente investite dai principi di delega» neanche costituirebbero idonea base giuridica di una norma di contenuto non pertinente con la «materia delegata».
2. – I giudizi, avendo ad oggetto la stessa norma, censurata in riferimento a parametri costituzionali in parte coincidenti, sotto profili e con argomentazioni sostanzialmente analoghe, devono essere riuniti e decisi con un’unica sentenza.
3. – Le questioni non sono fondate.
3.1. – Il controllo della conformità della norma delegata alla norma delegante, secondo la giurisprudenza di questa Corte, richiede un confronto tra gli esiti di due processi ermeneutici paralleli: l’uno, relativo alla norma che determina l’oggetto, i princípi e i criteri direttivi della delega; l’altro, relativo alla norma delegata, da interpretare nel significato compatibile con questi ultimi (tra le più recenti, sentenze n. 340, n. 170 e n. 50 del 2007).
Relativamente al primo di essi, va ribadito che il contenuto della delega deve essere identificato tenendo conto del complessivo contesto normativo nel quale si inseriscono la legge-delega ed i relativi princípi e criteri direttivi, nonché delle finalità che la ispirano, verificando, nel silenzio del legislatore delegante sullo specifico tema, che le scelte del legislatore delegato non siano in contrasto con gli indirizzi generali della medesima (sentenze n. 341 del 2007; n. 426 del 2006; n. 285 del 2006).
I princípi posti dal legislatore delegante costituiscono poi non solo base e limite delle norme delegate, ma anche strumenti per l’interpretazione della loro portata; e tali disposizioni devono essere lette, fintanto che sia possibile, nel significato compatibile con detti princípi (sentenza n. 96 del 2001), i quali, a loro volta, vanno interpretati alla luce della ratio della legge delega (sentenze n. 413 del 2002; n. 307 del 2002; n. 290 del 2001). Peraltro, come questa Corte ha anche affermato, la varietà delle materie riguardo alle quali si può ricorrere alla delega legislativa comporta che neppure è possibile enucleare una nozione rigida valevole per tutte le ipotesi di "principi e criteri direttivi", quindi «il Parlamento, approvando una legge di delegazione, non è certo tenuto a rispettare regole metodologicamente rigorose» (sentenze n. 340 del 2007; n. 250 del 1991).
Relativamente al secondo dei suindicati processi ermeneutici, va confermato l’orientamento di questa Corte, secondo il quale la delega legislativa non esclude ogni discrezionalità del legislatore delegato, che può essere più o meno ampia, in relazione al grado di specificità dei criteri fissati nella legge delega (ordinanze n. 213 del 2005; n. 490 del 2000). Pertanto, per valutare se il legislatore abbia ecceduto tali – più o meno ampi – margini di discrezionalità, occorre individuare la ratio della delega, per verificare se la norma delegata sia con questa coerente (sentenze n. 199 del 2003; n. 503 del 2003). L’art. 76 Cost. non osta, infatti, all’emanazione di norme che rappresentino un coerente sviluppo e, se del caso, un completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante, poiché deve escludersi che la funzione del legislatore delegato sia limitata ad una mera scansione linguistica delle previsioni stabilite dal primo; dunque, nell’attuazione della delega è possibile valutare le situazioni giuridiche da regolamentare ed effettuare le conseguenti scelte, nella fisiologica attività di riempimento che lega i due livelli normativi (sentenze n. 163 del 2000; n. 198 del 1998; ordinanza n. 213 del 2005).
3.2. – Posti siffatti princípi, occorre osservare che la delega dell’art. 1 della legge n. 80 del 2005 ha avuto ad oggetto l’emanazione di un decreto legislativo «recante modificazioni al codice di procedura civile», con il quale il Governo avrebbe dovuto provvedere anche a «realizzare il necessario coordinamento con le altre disposizioni vigenti» (comma 2), nell’osservanza, tra gli altri, dei seguenti princípi e criteri direttivi: «disciplinare il processo di cassazione in funzione nomofilattica» (comma 3, lettera a); «revisionare la formulazione letterale e la collocazione degli articoli del vigente codice e delle altre norme processuali civili vigenti non direttamente investiti dai princípi di delega» (comma 4).
La corretta interpretazione di dette norme deve tenere conto del complessivo contesto esistente alla data della loro emanazione, caratterizzato, tra l’altro, dalla presentazione, nella stessa legislatura, di un disegno di legge (n. 4578/C, presentato il 19 dicembre 2003), che aveva quale obiettivo espresso quello di «recuperare la dimensione nomofilattica» della Corte suprema di cassazione, «schiacciata da un carico di ricorsi eccessivo», la cui rivitalizzazione richiedeva appunto una riduzione del novero delle sentenze non appellabili, quindi immediatamente ricorribili per cassazione.
La configurazione dell’appello come «filtro» al ricorso per cassazione, l’esigenza e l’auspicio della sua introduzione, costituivano, peraltro, alla data di approvazione della legge delega, un obiettivo largamente condiviso, al punto che, all’esito di un dibattito ultradecennale sulla Corte suprema di cassazione, l’espressione «disciplina del processo in funzione nomofilattica», nell’accezione comune ed in quella tecnico-giuridica, ha finito con l’assumere il significato anche di rafforzamento di detta funzione.
Di questo contesto, dà conto anche la Relazione ministeriale allo schema di decreto-delegato, correttamente esplicitando sul punto che «il recupero e la valorizzazione della funzione nomofilattica della Corte – che costituisce il principio orientatore della delega – […] non può non passare attraverso una razionalizzazione delle attività della Corte e delle ipotesi di intervento della stessa attualmente contemplate dall’ordinamento», e cioè anche attraverso un riduzione dei casi di inappellabilità delle sentenze, «al fine di evitare che il giudizio di diritto, e dunque l’esercizio della funzione nomofilattica, vengano inquinati da impropri elementi di fatto, riversati sulla Corte proprio a causa dell’assenza del filtro intermedio».
Lo scopo di disciplinare il processo di legittimità in funzione nomofilattica, alla luce del significato assunto da tale espressione, di rafforzamento di detta funzione, costituisce pertanto una direttiva ermeneutica che deve presiedere all’interpretazione del contenuto della delega e che rende chiara la facoltà del legislatore delegato di ridurre i casi di immediata ricorribilità per cassazione delle sentenze, mediante l’introduzione dell’appello quale «filtro». Alla luce di questa direttiva, la norma che ha attribuito al legislatore delegato il potere di «revisionare la formulazione letterale […] delle altre norme processuali civili vigenti non direttamente investite dai principi di delega» (art. 1, comma 4, della legge n. 80 del 2005) neppure può essere riferita soltanto ad interventi di mero carattere lessicale e sintattico, risultando invece espressiva della facoltà di introdurre modifiche anche a norme non collocate nel codice di rito civile se, come è accaduto per la disposizione censurata, siano coerenti con la finalità della legge-delega.
Le considerazioni che, secondo la consolidata giurisprudenza della Corte suprema di cassazione, il giudizio di opposizione a sanzione amministrativa è strutturato come giudizio di accertamento sul fondamento della pretesa sanzionatoria; che il sindacato svolto in sede di legittimità, in relazione ai soli vizi denunciabili con il ricorso per cassazione, è più limitato, comunque diverso, rispetto a quello possibile al giudice del merito nella fase di gravame; e che l’ordinamento prevedeva già casi di impugnabilità con l’appello delle sentenze che decidono un’opposizione a sanzione amministrativa (in materia di previdenza ed assistenza obbligatorie, ai sensi dell’art. 35 della legge n. 689 del 1981), rendono infine palese l’impossibilità di invocare una asserita «logica di sistema» a conforto di una interpretazione restrittiva della legge-delega.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 26, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40 (Modifiche al codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica e di arbitrato, a norma dell’articolo 1, comma 2, della legge 14 maggio 2005, n. 80), sollevate, in riferimento agli artt. 76 e 77, primo comma, della Costituzione ed in relazione all’art. 1 della legge 14 maggio 2005, n. 80 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 14 marzo 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale. Deleghe al Governo per la modifica del codice di procedura civile in materia di processo di cassazione e di arbitrato nonché per la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali), dal Tribunale ordinario di Reggio Emilia e dalla Corte d’appello di Brescia, con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 2 aprile 2008.
F.to:
Franco BILE, Presidente
Giuseppe TESAURO, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l'11 aprile 2008.