SENTENZA N.199
ANNO 2003
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Riccardo CHIEPPA, Presidente
- Gustavo ZAGREBELSKY
- Valerio ONIDA
- Carlo MEZZANOTTE
- Fernanda CONTRI
- Guido NEPPI MODONA
- Piero Alberto CAPOTOSTI
- Franco BILE
- Giovanni Maria FLICK
- Francesco AMIRANTE
- Ugo DE SIERVO
- Romano VACCARELLA
- Alfio FINOCCHIARO
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 64, commi 1, 2 e 3, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), promosso con ordinanza del 17 luglio 2002 dal Tribunale di Genova nel procedimento civile vertente tra Bracuto Maria Rita e il Comune di Genova, iscritta al n. 446 del registro ordinanze del 2002 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 40, prima serie speciale, dell’anno 2002.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 26 marzo 2003 il Giudice relatore Romano Vaccarella.
Ritenuto in fatto
1.- Con ordinanza del 17 luglio 2002 il Tribunale di Genova, sezione lavoro, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 64, commi 1, 2 e 3, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), in riferimento, quanto ai primi due commi, agli articoli 3, 24, 39, 76, 101, 102 e 111 e, quanto al terzo, agli articoli 3, 76 e 111 della Costituzione.
Espone il rimettente che il giudizio de quo è stato introdotto da Maria Rita Bracuto nei confronti del Comune di Genova con ricorso volto ad ottenere il riconoscimento del suo diritto alla progressione economica, previo accertamento della nullità, per contrasto con il contratto collettivo di comparto, della clausola di quello decentrato che esclude dalla relativa valutazione i dipendenti con anzianità di servizio inferiore a due anni.
Il rimettente, premesse diffuse argomentazioni sulla delicatezza del nodo interpretativo dal quale dipende l’accoglimento o la reiezione della domanda attrice, rileva che tale questione, concernendo la portata di un contratto sottoscritto dall’agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN), fa scattare il complesso meccanismo delineato nei commi 1, 2 e 3 dell’art. 64 del d.lgs. n. 165 del 2001: in base a tali norme il giudice, enucleata la questione, deve darne comunicazione all’ARAN e rinviare la trattazione della causa a non prima di centoventi giorni. Spetta poi all’ARAN convocare le organizzazioni sindacali stipulanti per una eventuale interpretazione autentica della clausola o delle clausole in contestazione o, se del caso, per una loro modifica. Peraltro, l’interpretazione autentica o la modifica, una volta intervenute, sono tout court applicabili anche al processo in corso, in quanto il secondo comma dell’art. 64 del d.lgs. n. 165 del 2001 dispone che "all’accordo sull’interpretazione autentica o sulla modifica della clausola si applicano le disposizioni dell’art. 49", norma che, a sua volta, recita: "l’eventuale accordo… sostituisce la clausola in questione sin dall’inizio della vigenza del contratto".
Rileva anche il giudice a quo che il contratto collettivo si configura, almeno nel settore dell’impiego presso la pubblica amministrazione, quale fonte di diritto oggettivo, posto che, tra l’altro, contiene norme generali ed astratte; è efficace erga omnes; è soggetto a pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale e conseguentemente all’operatività del principio iura novit curia, nonché, in caso di contrasto con altri contratti collettivi, al principio gerarchico, ex art. 40 del d.lgs. n. 165 del 2001, quale criterio di soluzione dei conflitti tra fonti operanti a livelli diversi; non è derogabile né in peggio, né in meglio e si applica automaticamente al posto delle clausole difformi del contratto individuale; la violazione o falsa applicazione delle norme in esso contenute costituisce, ai sensi dell’art. 63, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, motivo di ricorso per cassazione.
Ciò posto, ritiene il rimettente che i primi due commi dell’art. 64, laddove impongono al giudice il temporaneo arresto del giudizio, violino: gli artt. 101, 102 e 111 Cost., configurando l’interferenza di un potere normativo in un processo in corso, al punto che la decisione, almeno su un profilo della controversia, viene trasferita dalla sede giudiziaria ad altra sede e condizionata a un intervento che sarà espressione di discrezionalità normativa o, se si preferisce, di autonomia negoziale, ma non di uno ius dicere; l’art. 3 Cost., perché, in contrasto con il criterio di fondo ispiratore della disciplina del pubblico impiego – volto alla omogeneizzazione del trattamento sostanziale e processuale del lavoro dipendente nel settore pubblico e in quello privato –, riservano alle controversie promosse dai dipendenti della pubblica amministrazione una regolamentazione diversa da quella dettata per altre categorie di lavoratori; l’art. 24 Cost., atteso che privano di fatto la parte della facoltà di avvalersi della tutela cautelare, per la manifesta incompatibilità del meccanismo delineato nelle norme impugnate, vuoi con le esigenze di celerità, proprie dei mezzi d’urgenza, vuoi con una valutazione positiva del fumus boni iuris; gli artt. 24 e 111 Cost. – da riguardarsi a questi fini in connessione tra loro e con l’art. 6 della Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali – per essere il lavoratore del tutto escluso dal tavolo delle trattative sindacali, sul quale in definitiva si gioca l’esito della controversia, in violazione del principio della "parità delle armi" delle parti nel processo; l’art. 39 Cost., atteso che mentre la pubblica amministrazione può far valere le proprie ragioni anche attraverso l’ARAN, che la rappresenta e nei cui confronti essa esercita un potere di indirizzo, tale possibilità è preclusa al singolo lavoratore, il quale del resto ben potrebbe non essere iscritto ad alcun sindacato o essere portatore di un interesse in contrasto con quello collettivo; l’art. 76 Cost., per eccesso di delega, in quanto l’art. 64 - che è norma di legge delegata - senza alcuna specifica autorizzazione da parte del delegante innova la disciplina del processo civile, introducendo un’ipotesi di arresto, sia pure temporaneo, del processo.
Rilevato inoltre che la caducazione di questa parte della norma impugnata imporrebbe al giudice di applicare tout court il terzo comma dell’art. 64, osserva il rimettente che anche tale disposizione è in contrasto con l’art. 76, perché, imponendo al giudice di emettere una sentenza non definitiva su un determinato profilo della controversia, introduce, ancora una volta, una rilevante modifica della preesistente disciplina processuale, senza una delega sufficientemente specifica; con l’art. 3 Cost., sia alla stregua delle considerazioni già svolte in ordine ai primi due commi dell’art. 64, sia per la manifesta irragionevolezza del sistema delineato; con l’art. 111 Cost., atteso che il processo, per essere equo, va definito entro un termine ragionevole, laddove la disposizione censurata impone un enorme spreco di attività giurisdizionale.
2.1.- Il Presidente del Consiglio dei ministri, costituitosi a mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato, eccepisce l’inammissibilità o comunque la manifesta infondatezza del dubbio di costituzionalità.
Ricordato preliminarmente che il Tribunale di Genova ripropone una questione già sollevata in altra occasione e dichiarata inammissibile dalla Corte costituzionale con ordinanza n. 233 del 2002, per difetto di adeguata motivazione sul problema interpretativo concernente la norma del contratto collettivo che in quel caso veniva in rilievo, sostiene che l’incidente dovrebbe avere lo stesso esito di quello precedente.
Evidenzia, poi, l’insussistenza del lamentato contrasto delle norme censurate con gli artt. 24 e 111 Cost., sia perchè il mezzo predisposto dal legislatore comporta solo un breve differimento del processo, sia in quanto esso presuppone un testo contrattuale oscuro al punto che "l’eventuale accordo mai potrebbe essere accusato di produrre effetti ablatori di diritti già acquistati dalle parti del rapporto", sia, infine, (con riferimento alle argomentazioni svolte in punto di incompatibilità della disciplina impugnata con i rimedi di urgenza) perché alcuna domanda cautelare risulta attivata nel giudizio a quo.
Sostiene, inoltre, che proprio la ratio sottesa al riconoscimento alle norme pattizie del regime proprio degli atti normativi – ratio connessa al rilievo della speciale posizione del datore di lavoro nel momento della loro applicazione - spunta la fondatezza della denunzia di disparità di trattamento, rispetto al diverso regime processuale vigente per gli atti di autonomia collettiva del settore privato, perché dà conto della sostanziale disomogeneità delle situazioni poste a raffronto, come ritenuto anche dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 10974 del 2000.
In ordine alla seconda questione di costituzionalità, inerente al terzo comma dell’art. 64 del d.lgs. n. 165 del 2001, l’Avvocatura evidenzia l’assoluta ragionevolezza della disciplina impugnata e la sua congruenza rispetto alla divisata finalità di evitare sprechi di attività processuale.
2.2.- Il Presidente del Consiglio dei ministri ha, successivamente, depositato memoria nella quale ha ulteriormente illustrato le ragioni addotte a sostegno delle sopra riferite conclusioni.
Considerato in diritto
1.- Il Tribunale di Genova dubita della legittimità costituzionale dell’art. 64, commi 1, 2 e 3, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche) in riferimento, quanto ai primi due commi, agli artt. 3, 24, 39, 76, 101, 102 e 111 Cost. e, quanto al terzo comma, in riferimento agli artt. 3, 76 e 111 Cost.
2.- Le questioni sollevate sono in parte inammissibili ed in parte infondate.
2.1.- Premesso che il rimettente espone di aver sollevato la questione di legittimità costituzionale non appena sorto "un delicato problema di interpretazione" relativamente al contratto di comparto, deve essere, in primo luogo, valutata la rilevanza nel giudizio a quo della questione posta, in riferimento agli artt. 101, 102 e 111 Cost., relativamente alla idoneità dell’accordo – raggiunto dall’ARAN e dalle organizzazioni sindacali stipulanti il contratto collettivo circa l’interpretazione autentica o la modifica della clausola controversa – ad incidere sulla controversia già insorta davanti al giudice, imponendosi con efficacia retroattiva al giudice stesso e, quindi, "configurandosi come interferenza di un potere normativo in un processo in corso".
Il rimettente, inoltre, censura - in relazione al combinato disposto degli artt. 24 e 111, commi primo e secondo, Cost. (questi ultimi trasposizione – osserva il rimettente – dei principi sulla "parità delle armi" di cui all’art. 6 della Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali) – l’art. 64, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, in quanto il pubblico dipendente "non dispone più… di una sede in cui far valere il proprio punto di vista, mentre la controparte attraverso l’ARAN, che è un rappresentante della P.A., può far valere le proprie ragioni nella sede delle trattative sindacali, sede che… viene, sia pure in via eventuale, a sostituire quella processuale".
La norma censurata, ancora, confliggerebbe con l’art. 39 Cost., laddove il principio della libertà sindacale (comma primo) comporterebbe "la facoltà per il singolo di prospettare, in ordine ai prodotti della contrattazione collettiva, le proprie esigenze, il proprio punto di vista, e di manifestare il proprio dissenso"; facoltà della quale sarebbe "spogliato persino in sede giurisdizionale". Violati sarebbero altresì i commi secondo, terzo e quarto dell’art. 39 Cost., in quanto l’accordo di cui all’art. 64, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001 potrebbe intervenire, con efficacia erga omnes, con le organizzazioni sindacali firmatarie del contratto da interpretare o modificare, "a prescindere dalla loro attuale rappresentatività", e, quindi, con violazione del principio di maggioranza al quale, viceversa, si ispira (in relazione alla stipula di contratti collettivi efficaci erga omnes) l’art. 43 del d.lgs. n. 165 del 2001.
E’ del tutto evidente il carattere meramente ipotetico, e con ciò stesso l’irrilevanza, delle questioni fin qui esposte, non essendosi certamente verificata nel giudizio a quo - per non essere stata rimessa all’ARAN, ex art. 64, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, la questione interpretativa e per non essere stata, quindi, nemmeno avviata la procedura eventualmente idonea a sfociare in un accordo - la paventata "situazione caratterizzata da una commistione fra il piano normativo e quello giudiziario" ed il conseguente (asserito) trasferimento della "decisione… dalla sede del processo in corso… ad altra sede"; così come non si è in concreto verificata la situazione suscettibile di dar luogo agli ulteriori, pretesi contrasti con i precetti costituzionali.
2.2.- Gli altri profili della questione di legittimità costituzionale, in quanto investono la disciplina del procedimento quale segue al sorgere della questione interpretativa, sono ammissibili – essendo rilevante il modus procedendi, in sé considerato, al quale il giudice è tenuto ad uniformarsi, quando sorga una questione interpretativa –, ma, come si è detto, essi sono infondati per le considerazioni che seguono.
3.- L’art. 64, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001 viene censurato, in riferimento all’art. 3 Cost., per l’ingiustificata disparità della disciplina processuale applicabile al pubblico dipendente rispetto al lavoratore privato; disparità che si concreterebbe in un trattamento deteriore per il pubblico dipendente, nonostante la riforma del pubblico impiego tendesse alla "omogeneizzazione della disciplina sostanziale e processuale" di tutto il lavoro dipendente, pubblico e privato.
La censura è priva di fondamento.
Premesso che di tendenziale "omogeneizzazione" può parlarsi solo con riguardo alla disciplina sostanziale (art. 11, comma 4, lettera a, legge 15 marzo 1997, n. 59), laddove per quella processuale la citata legge delega si limitava a prevedere la devoluzione delle controversie al giudice ordinario (art. 11, comma 4, lettera g), è evidente che – come questa Corte ha più volte statuito (da ultimo, con sentenza n. 82 del 2003) – non può parlarsi di una totale identità di situazioni che renderebbe irrazionale ogni diversità di disciplina processuale.
Le peculiarità del contratto collettivo nel pubblico impiego, sulle quali ampiamente il rimettente indugia – "efficace erga omnes", "funzionale all’interesse pubblico di cui all’art. 97 Cost.", inderogabile sia in pejus che in melius, oggetto di diretto sindacato da parte della Corte di cassazione per violazione o falsa applicazione (art. 63, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001) – rendono evidente l’impossibilità di ritenere a priori irrazionali le peculiarità della disciplina del processo in cui quel contratto collettivo – ben diverso da quelli cosiddetti di diritto privato – deve essere applicato.
Quelle peculiarità sarebbero, pertanto, sindacabili da questa Corte non già in sé e per ciò solo che segnano differenziazioni di disciplina, ma solo se irragionevoli; il che, con la censura in esame, non è in alcun modo dedotto.
4.- L’art. 64, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001 viene censurato, in riferimento all’art. 24 Cost., perché "la sua macchinosità", con l’arresto del processo per 120 giorni, lo renderebbe incompatibile con la tutela cautelare.
Anche tale censura è destituita di fondamento.
La tesi secondo la quale al giudice, in quanto vincolato ad investire della questione interpretativa l’ARAN, sarebbe inibito di valutare – se richiesto di una misura cautelare – il fumus boni juris appare non solo intesa ad ignorare il dovere del giudice di interpretare le norme in senso, finché possibile, conforme alla Costituzione, ma anche palesemente errata, atteso che la natura sommaria della valutazione è ben compatibile con una (anteriore, coeva o successiva) rimessione della questione interpretativa all’ARAN ai fini della (successiva) decisione di merito; senza dire che il vigente art. 412-bis del codice di procedura civile (introdotto dal medesimo provvedimento – d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80 – trasfuso nel d.lgs. n. 165 del 2001) prospetta un’ipotesi in cui un istituto di generale applicazione in ogni controversia di lavoro (il tentativo obbligatorio di conciliazione) si arresta in presenza di un’istanza cautelare, prevalendo – sulle altre perseguite dal legislatore - le esigenze proprie della tutela cautelare.
5.- Altrettanto infondato è il dubbio di costituzionalità sollevato, in riferimento all’art. 76 Cost., per avere il legislatore delegato – autorizzato ad introdurre "misure organizzative e processuali anche di carattere generale atte a prevenire disfunzioni dovute al sovraccarico del contenzioso" (art. 11, comma 4, lettera g), legge n. 59 del 1997) – "innovato la disciplina del processo civile, introducendo, come si è visto, un’ipotesi di arresto, sia pure temporaneo, del processo stesso". Analogo dubbio – che merita, pertanto, di essere esaminato congiuntamente – solleva il rimettente con riguardo alla norma (art. 64, comma 3) che impone al giudice, ove non intervenga l’accordo tra l’ARAN e le organizzazioni sindacali, di "emettere una sentenza non definitiva su un determinato profilo della controversia, privandolo di ogni valutazione discrezionale sull’opportunità di rinviare ogni decisione al definitivo", laddove – in assenza di una specifica prescrizione della legge delega – andrebbe "restituita al giudice ogni valutazione discrezionale in merito all’opportunità di emettere allo stato una sentenza non definitiva, o di rinviare ogni decisione a seguito dell’ulteriore trattazione del processo".
Questa Corte ha costantemente affermato che il giudizio di conformità della norma delegata alla norma delegante si esplica attraverso il confronto tra gli esiti di due processi ermeneutici paralleli, tenendo conto delle finalità che, attraverso i principi ed i criteri enunciati, la legge delega si prefigge con il complessivo contesto delle norme da essa poste e tenendo altresì conto che le norme delegate vanno interpretate nel significato compatibile con quei principi e criteri (sentenze n. 425 del 2000; n. 15 del 1999), in quanto "la delega legislativa non fa venir meno ogni discrezionalità del legislatore delegato, che risulta più o meno ampia a seconda del grado di specificità dei principi e criteri fissati nella legge delega" (ordinanza n. 490 del 2000); sicché, "per valutare di volta in volta se il legislatore delegato abbia ecceduto tali – più o meno ampi – margini di discrezionalità, occorre individuare la ratio della delega, per verificare se la norma delegata sia ad essa rispondente" (sentenza n. 163 del 2000).
Alla luce di questi principi vanno considerate le "innovazioni processuali" attraverso le quali il legislatore delegato ha realizzato le "misure organizzative e processuali anche di carattere generale atte a prevenire disfunzioni dovute al sovraccarico del contenzioso", affidategli dalla legge delega: disfunzioni temute quale effetto, da un lato, della devoluzione del contenzioso non più ad un ristretto numero di giudici di legittimità (TAR) bensì ad un elevato numero di giudici di merito (Tribunali) e, dall’altro lato, quale conseguente effetto delle possibili, divergenti interpretazioni del contratto collettivo.
Proprio la peculiare natura – quale sopra (n. 3) si è illustrata – del contratto collettivo disciplinato dal d.lgs. n. 165 del 2001 rende evidente l’esigenza, avvertita dal legislatore delegante anche per i riflessi sui valori protetti dall’art. 97 Cost., di meccanismi idonei ad evitare il rischio di una "polverizzazione" delle decisioni che, nel concreto, avrebbe vanificato la perseguita uniformità dell’applicazione del contratto collettivo; meccanismi di natura preventiva che, attesa la rilevanza fondamentale delle esigenze considerate dalla legge delega, il legislatore delegato ben poteva (ed anzi era tenuto ad) individuare. Invero, questa Corte ha statuito che la disposizione di cui all’art. 76 Cost. "non osta all’emanazione di norme che rappresentino un coerente sviluppo e, se del caso, anche un completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante; va escluso, infatti, che le funzioni del legislatore delegato siano limitate ad una mera "scansione linguistica" delle previsioni dettate dal delegante, essendo consentito al primo di valutare le situazioni giuridiche da regolamentare e di effettuare le conseguenti scelte, nella fisiologica attività di "riempimento" che lega i due livelli normativi, rispettivamente, della legge di delegazione e di quella delegata" (così, sentenza n. 308 del 2002; conformi: sentenze n. 198 del 1998, n. 117 del 1997, n. 4 del 1992).
Inteso, come deve essere, nel complessivo contesto delle norme poste dalla legge delega, il principio da questa fissato in subiecta materia del tutto adeguamente è stato tradotto, dal legislatore delegato, in una disciplina che, in presenza di una (ovviamente, "seria") questione interpretativa, fa della controversia individuale l’occasione per pervenire ad una definitiva, perché potenzialmente generale, soluzione della questione e, quindi, alla rimozione erga omnes della situazione di incertezza posta in evidenza dalla controversia.
Disciplina che, del tutto razionalmente, affida tale risultato ora alla contrattazione collettiva ora, in difetto dell’efficace funzionamento del primo strumento, ad un meccanismo puramente processuale (sentenza non definitiva) teso a provocare (anche attraverso la pluralità dei legittimati al ricorso) l’intervento della Corte di cassazione con una pronuncia che, senza ledere il principio della soggezione del giudice alla legge, tendenzialmente vincola tutti i giudici, contestualmente o in futuro investiti della medesima questione.
Checché si pensi della opportunità della scelta del legislatore delegato, il meccanismo è certamente in sintonia con lo scopo perseguito dalla legge delega e con il generale contesto normativo che quello scopo ha suggerito; e deve, pertanto, escludersi che il legislatore delegato abbia ecceduto rispetto alla delega.
6.- E’ del tutto ovvio, per quanto si è appena detto, che un meccanismo inteso ad utilizzare la controversia individuale quale occasione per diradare, in termini generali e potenzialmente definitivi, ogni incertezza sull’interpretazione ed applicazione del contratto collettivo possa in qualche misura "sacrificare" l’interesse del singolo lavoratore dedotto nel giudizio individuale: sacrificio consistente sia nella "pausa" di 120 giorni concessi all’ARAN ed alle organizzazioni sindacali per pervenire ad un accordo sulla clausola controversa, sia nella previsione che, in difetto di accordo, il giudice si astenga, comunque, dal decidere nel merito la controversia, ma provveda a risolvere la sola questione interpretativa con sentenza non definitiva, ricorribile per cassazione.
Premesso e ribadito che siffatto meccanismo (e conseguente "sacrificio" per il singolo) opera soltanto in presenza di una "seria" questione interpretativa (e, può aggiungersi, sempre che la domanda sia concludente e non sussistano eccezioni, di rito e di merito, che ne impongano l’immediato rigetto), appaiono destituite di fondamento le censure di illegittimità costituzionale sollevate in riferimento agli artt. 3 e 111 Cost.
Esclusa in radice l’irragionevolezza del meccanismo (e, quindi, anche del diverso trattamento rispetto al lavoratore privato), è del pari da respingere la tesi secondo la quale vi sarebbe "uno spreco di attività giurisdizionale" e una "non ragionevole, e quindi iniqua, durata del processo": che la singola controversia possa subire un iter più lungo di quello (che sarebbe stato) normale è indubbio, ma appartiene altrettanto indubbiamente alla discrezionalità del legislatore optare per una soluzione che, a fronte di un modesto sacrificio del singolo, sia idonea a produrre in termini di certezza (e, quindi, tra l’altro, di prevenzione di imponenti contenziosi e di più agevole definizione di altre controversie pendenti) rilevanti vantaggi di carattere generale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 64, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), sollevate, in riferimento agli articoli 101, 102, 111, 24 e 39 della Costituzione, dal Tribunale di Genova con l’ordinanza in epigrafe;
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 64, commi 1, 2, 3, del medesimo decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, sollevate, in riferimento agli articoli 3, 24, 76, 111 della Costituzione, dal Tribunale di Genova con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 maggio 2003.
Riccardo CHIEPPA, Presidente
Romano VACCARELLA, Redattore
Depositata in Cancelleria il 5 giugno 2003.