SENTENZA N. 155
ANNO 2014
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta
dai signori:
- Gaetano SILVESTRI Presidente
- Luigi MAZZELLA Giudice
- Sabino CASSESE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
ha
pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità
costituzionale dell’art. 32, comma 4, lettera b), della legge
4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di
riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori
sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di
apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro
sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro),
promossi dal Tribunale ordinario di Roma con due ordinanze del 24 ottobre 2012,
iscritte ai numeri 301
e 302
del registro ordinanze 2012 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 3, prima serie speciale, dell’anno 2013.
Visti gli atti di costituzione di C.G. e di Poste
Italiane s.p.a., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nell’udienza pubblica del 15 aprile 2014 il Giudice
relatore Alessandro Criscuolo;
uditi gli avvocati Sergio Galleano
e Vincenzo de Michele per C.G., Giampiero Proia e
Luigi Fiorillo per Poste Italiane s.p.a. e l’avvocato
dello Stato Enrico De Giovanni per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Il Tribunale ordinario di Roma, in
funzione di giudice del lavoro, con ordinanza del 24 ottobre 2012 (r.o. n. 301 del 2012) ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della
Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 32, comma
4, lettera b), della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in
materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi,
aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di
incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché
misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di
controversie di lavoro), nella parte in cui prevede l’applicazione del termine
di decadenza di cui al riformato art. 6, primo comma, della legge
15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali) ai contratti
di lavoro a tempo determinato già conclusi alla data di entrata in vigore della
citata legge n. 183 del 2010 e con decorrenza dalla medesima data.
2.– Il rimettente, chiamato a
pronunciare su una causa promossa da C.I. nei confronti di Poste Italiane spa,
premette che, con ricorso depositato il 24 gennaio 2012, il ricorrente ha
chiesto che fosse accertata la nullità del termine finale di durata apposto al
contratto di lavoro stipulato con la detta società, ai sensi dell’art. 2, comma
1-bis, del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 (Attuazione della
direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato
concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES), come modificato dall’art. 1, comma
558, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del
bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2006), contratto
avente durata dal 9 luglio 2008 al 31 ottobre 2008, con inquadramento al
livello E, con mansioni di portalettere; la conversione del contratto in
rapporto di lavoro a tempo indeterminato fin dalla data di stipulazione; la
condanna della resistente alla riammissione in servizio del lavoratore e al
pagamento, anche a titolo risarcitorio, delle retribuzioni a far data dalla scadenza
del termine, oltre agli accessori di legge.
Il Tribunale, inoltre, riferisce che
Poste Italiane s.p.a., costituitasi in giudizio con memoria del 28 maggio 2012,
ha eccepito in via preliminare la decadenza dall’azione di nullità per mancata
impugnazione del contratto nel termine previsto dall’art. 32 della legge n. 183
del 2010 e la risoluzione del contratto stesso per mutuo consenso; nel merito,
la società ha contestato la fondatezza delle pretese azionate dal ricorrente,
chiedendone il rigetto.
Il giudicante espone che, all’udienza
del 12 giugno 2012, ritenuta la causa matura per la decisione, ha fissato
l’udienza di discussione anche sui «dubbi in merito alla legittimità
costituzionale della norma dell’art. 32, comma 4, lettera b), L. 183/2010 – nella
parte in cui prevede l’applicazione del termine di decadenza di cui al
riformato art. 6 della L. 604/1966 anche ai contratti a termine "già conclusi”
alla data di entrata in vigore della medesima legge – in relazione al disposto
dell’art. 3 della Costituzione».
Ciò premesso, il rimettente, dopo aver
riportato l’art. 32, comma 4, della legge n. 183 del 2010, nonché il richiamo,
in esso contenuto, all’art. 6 della legge n. 604 del 1966, rileva che, nel caso
di specie, benché il contratto stipulato tra le parti fosse cessato in data 31
ottobre 2008, cioè ben prima dell’entrata in vigore della normativa ora citata
(24 novembre 2010), il ricorrente aveva contestato per la prima volta la
legittimità dell’apposizione del termine di durata con lettera spedita il 25
ottobre 2011, quindi ben oltre la scadenza del termine decadenziale
introdotto dal menzionato art. 32.
Tuttavia, il rimettente dà atto che, ai
sensi del comma 1-bis, di detta norma, introdotto dall’art. 1, comma 2, della
legge 26 febbraio 2011, n. 10, intervenuta a convertire, con modificazioni, il
decreto-legge 29 dicembre 2010, n. 225 (Proroga di termini previsti da
disposizioni legislative e di interventi urgenti in materia tributaria e di
sostegno alle imprese e alle famiglie), «In sede di prima applicazione, le
disposizioni di cui all’articolo 6, primo comma, della legge 15 luglio 1966, n.
604, come modificato dal comma 1 del presente articolo, relative al termine di
sessanta giorni per l’impugnazione del licenziamento, acquistano efficacia a decorrere
dal 31 dicembre 2011».
Però il menzionato differimento del
termine al 31 dicembre 2011 sarebbe stato previsto quando lo stesso, decorrente
dal 24 novembre 2010 e della durata di sessanta giorni, era ormai
irrimediabilmente scaduto, con conseguente intangibilità di ogni fattispecie decadenziale medio tempore verificatasi. A conforto di
questa tesi sono richiamate alcune sentenze della Corte di cassazione e alcune
fattispecie nelle quali il legislatore, pur introducendo disposizioni di
sospensione o proroga di termini di prescrizione o di decadenza, lo avrebbe
fatto prima della scadenza dei termini stessi e mai dopo.
Comunque – prosegue il rimettente – che
si aderisca o meno all’opzione interpretativa in ordine alla applicabilità a
tutte le ipotesi indicate nel citato art. 32 del differimento dell’efficacia
del termine decadenziale di impugnazione introdotto
dalla legge n. 10 del 2011, nonché in merito alla non applicabilità dello
stesso a tutte le decadenze a tale data già maturate, non vi sarebbe ragione di
dubitare che, nel caso di specie, essendo cessato il contratto a termine in
data 31 ottobre 2008, ed avendo il ricorrente formalizzato la propria
impugnazione con lettera del 25 ottobre 2011, quest’ultimo sia incorso nella
decadenza contemplata dalla menzionata norma, come eccepito dalla parte
convenuta.
In questo quadro, «la previsione
dell’applicazione del citato termine decadenziale
d’impugnazione ai soli contratti di lavoro a tempo determinato "già conclusi” (rectius: cessati o scaduti) alla data di entrata in vigore
della L. 183/2010, e non anche a tutte le altre ipotesi previste dall’art. 32,
commi 3 e 4, della medesima legge e già verificatesi a quella stessa data»,
sarebbe in contrasto con i principi di parità di trattamento e di ragionevolezza
sanciti dall’art. 3 Cost.
Infatti, quanto al principio di
ragionevolezza, non vi sarebbe dubbio che il legislatore possa, nell’esercizio
della discrezionalità che gli è propria, disciplinare in maniera diversa
fattispecie differenti, quali sarebbero certamente, ai fini che ne occupano,
quelle: 1) relative alla scadenza del termine apposto al contratto di lavoro
(citata per ben quattro volte nell’art. 32, nella formulazione precedente alle
modifiche da ultimo introdotte dall’art. 1, comma 12, della legge 28 giugno
2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una
prospettiva di crescita), applicabile ratione temporis al caso di specie e, in particolare, al comma 3,
lettere a) e d), e al comma 4, lettere a) e b ); 2) concernenti il recesso del
committente nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche
nella modalità a progetto (comma 3, lettera b); 3) relative al trasferimento
del lavoratore, ai sensi dell’art. 2103 del codice civile (comma 3, lettera c);
4) attinenti alla cessione del contratto di lavoro, ai sensi dell’art. 2112
cod. civ. (comma 4, lettera c), nonché 5) aventi ad oggetto ogni altro caso in
cui, compresa l’ipotesi prevista dall’art. 27 del decreto legislativo 10
settembre 2003, n. 276 (Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e
mercato del lavoro), si chieda la costituzione o l’accertamento di un rapporto
di lavoro in capo ad un soggetto diverso dal titolare del contratto (comma 4,
lettera. d). Tuttavia, sarebbe del pari indubbio che, qualora sia lo stesso
legislatore a disciplinare in maniera identica fattispecie diverse in relazione
ad un determinato aspetto (qual è quello del termine d’impugnazione che in
questa sede interessa), debba farlo in maniera coerente e, per l’appunto, ragionevole
ed uguale per tutte.
Nel caso in esame, per non incorrere
nella violazione del principio di ragionevolezza, il legislatore avrebbe potuto
prevedere o che per tutte le ipotesi previste dall’art. 32, commi 3 e 4, il
termine di decadenza di 60 giorni si applicasse anche ai rapporti «già
conclusi» (nel caso dei contratti a termine, di collaborazione, di
somministrazione), o agli atti già compiuti (nel caso di trasferimento dei
lavoratori e di cessione dei contratti di lavoro) alla data di entrata in vigore
della legge, ovvero che, sempre per tutte le medesime ipotesi, il predetto
termine si applicasse soltanto ai rapporti non ancora conclusi o agli atti non
ancora compiuti a quella stessa data.
Prevedendo che soltanto per i contratti
di lavoro a tempo determinato il termine di decadenza si applichi anche ai
rapporti già conclusi alla data di entrata in vigore della legge, il
legislatore avrebbe introdotto anche una evidente disparità di trattamento tra
i lavoratori intenzionati a contestare in giudizio l’apposizione del termine a
tali contratti (costretti ad impugnarli nel termine di 60 giorni a far data dal
24 novembre 2010), e quelli intenzionati a promuovere analoga iniziativa
giudiziaria in relazione alle diverse ipotesi previste dallo stesso art. 32, commi
3 e 4, «già concluse» o comunque verificatesi alla medesima data (i quali
potranno continuare ad agire in giudizio senza dover rispettare alcun termine
di decadenza).
Tale disparità di trattamento, inoltre,
sarebbe evidente anche dal punto di vista datoriale, non ravvisandosi ragione
per tutelare in maniera differente, all’interno della medesima norma,
l’interesse dei datori di lavoro, che abbiano stipulato contratti a tempo
determinato, di conoscere, in tempi rapidi e certi, se e quanti dei propri ex
dipendenti abbiano intenzione di contestarne in giudizio la legittimità,
rispetto all’analogo interesse di quegli imprenditori che abbiano invece
stipulato contratti di collaborazione coordinata e continuativa, di
collaborazione a progetto o di somministrazione, ovvero che abbiano disposto il
trasferimento di un lavoratore da una unità produttiva ad un’altra, ovvero
ancora che abbiano ceduto un contratto di lavoro, di conoscere con altrettanta
rapidità e certezza l’esistenza di analoghe intenzioni impugnatorie
da parte dei propri ex collaboratori, dipendenti o ex dipendenti.
Non si potrebbe pervenire a conclusione
diversa valorizzando la circostanza (peraltro meramente fattuale e non
giuridica) che, ormai da anni, importanti realtà imprenditoriali italiane (e,
in particolare, Poste Italiane spa) abbiano fatto ampio ricorso all’assunzione
di lavoratori con contratti a tempo determinato, dando così vita ad un
"fenomeno sociale” di portata tale da legittimare una sorta di intervento
straordinario del legislatore, diretto a far emergere, una volta per tutte, il
contenzioso latente relativo a tale tipologia contrattuale. Al riguardo,
premesso che tutte le norme recanti limiti all’accesso del cittadino alla
giustizia (qual è quella in esame, che non soltanto introduce un termine di
decadenza dalla facoltà di agire in giudizio, ma ne prevede l’applicazione
anche alle fattispecie già verificatesi al momento dell’entrata in vigore della
legge) hanno natura eccezionale, sarebbe sufficiente porre in evidenza – sempre
sotto il profilo della parità di trattamento – sia la dubbia legittimità di un
intervento legislativo palesemente rivolto a favorire, in difetto di «motivi
imperiosi di carattere generale», la posizione di uno dei due contraenti (nella
specie, della parte datoriale), sia l’assoluta ingiustificabilità
dello stesso, considerata la posizione di quei lavoratori che, assunti con
contratti a tempo determinato da piccoli o medi imprenditori e non direttamente
coinvolti nel citato "fenomeno sociale”, si sono visti applicare anche alle
fattispecie già verificatesi (a differenza dei lavoratori assunti con le altre
tipologie contrattuali o destinatari degli altri provvedimenti datoriali
indicati nell’art. 32, commi 3 e 4), un termine decadenziale
mai esistito prima.
Alla luce di tali rilievi, la norma
censurata si porrebbe in contrasto con l’art. 3 Cost. e con i principi di
ragionevolezza e di parità di trattamento in essa sanciti.
In questo quadro, ad avviso del
Tribunale, la questione di legittimità costituzionale, così promossa, sarebbe
non manifestamente infondata e rilevante ai fini della decisione, perché,
qualora la norma in esame trovasse applicazione, nel caso di specie si dovrebbe
dichiarare la decadenza del ricorrente dalla facoltà di agire in giudizio per ottenere
l’accertamento della nullità del termine apposto al contratto di lavoro
stipulato con la società convenuta.
3.– Con atto depositato il 4 febbraio
2013 si è costituita la società Poste Italiane spa., chiedendo che la questione
di legittimità costituzionale sia dichiarata inammissibile o non fondata.
Quanto alla asserita irragionevolezza
della norma censurata, la società osserva che il rimettente porrebbe sul
medesimo piano fattispecie ed istituti del tutto diversi. In particolare, il
giudice a quo non riconoscerebbe la specificità delle fattispecie di
illegittima apposizione del termine al rapporto di impiego, che si
differenzierebbe in modo netto rispetto alle altre ipotesi di patologia del
negozio giuridico prese in considerazione dalla norma impugnata e che,
ragionevolmente, giustificherebbe l’operatività del regime decadenziale.
Infatti, diversamente dagli altri
istituti considerati dall’art. 32, commi 3 e 4, il giudizio in ordine alla
legittima apposizione del termine al rapporto d’impiego si sostanzierebbe in
un’azione di accertamento della nullità parziale di una clausola del contratto
di lavoro, nella quale sarebbe disciplinato il relativo termine, mentre la
detta azione sarebbe imprescrittibile. Pertanto, il legislatore del 2010, al
fine di garantire il principio del legittimo affidamento, avrebbe introdotto,
anche con riferimento al passato, un termine decadenziale
che permettesse di portare a definizione certa tutto il possibile contenzioso
in materia di contratti a tempo determinato, imponendo ai lavoratori,
effettivamente interessati all’accertamento della illegittimità dei termini
apposti ai rispettivi rapporti d’impiego, l’onere di procedere alla tempestiva
impugnazione – prima stragiudiziale poi giudiziale – entro i termini indicati
dalla norma impugnata. In tal modo, il legislatore avrebbe inteso
ragionevolmente sanzionare con una preclusione decadenziale
la relativa inerzia.
La difesa della società afferma che,
ponendosi in un’ottica sistematica, la previsione in esame risponderebbe alle
medesime finalità che hanno ispirato l’adozione del regime sanzionatorio
oggetto dei commi 5, 6 e 7, del medesimo art. 32 della legge n. 183 del 2010,
ritenute legittime da questa Corte con la sentenza n. 303 del
2011.
Ad avviso della resistente, la ricostruzione
– secondo la giurisprudenza maggioritaria – dell’illegittima apposizione del
termine al rapporto d’impiego, alla stregua di causa di nullità parziale del
contratto di lavoro, avrebbe ingenerato una "discutibile” prassi giudiziaria,
per cui un rilevante numero di lavoratori avrebbe proposto l’actio nullitatis a distanza di
molti anni dal momento della contestazione della illegittimità del termine e
dalla (normalmente coincidente) messa a disposizione del datore di lavoro delle
proprie prestazioni; sicché in sede giudiziaria la domanda avrebbe assunto come
petitum non tanto la conversione del contratto in
rapporto a tempo indeterminato, quanto il pagamento di tutte le retribuzioni
maturate dalla decorrenza della mora accipiendi
dell’imprenditore convenuto in giudizio e connesse alla ricostituzione del
rapporto d’impiego, realizzata posponendo ad libitum la data di presentazione
del ricorso giudiziale.
In tal modo si sarebbe realizzato un
effetto distorsivo della garanzia attribuita ai
lavoratori interessati fino all’entrata in vigore della normativa ora al vaglio
di questa Corte, in quanto gli stessi lavoratori avrebbero potuto contestare in
via stragiudiziale la legittimità del termine in epoca immediatamente
successiva alla cessazione degli effetti del contratto, per poi rivendicare in
sede giudiziaria, dopo anni di intenzionale inerzia, non tanto e non solo la
ricostituzione del rapporto, quanto il complesso di somme corrispondenti alle
retribuzioni, agli interessi legali e alla rivalutazione monetaria, maturati a
far data dalla messa a disposizione delle prestazioni al datore di lavoro. Tale
sistema avrebbe consentito «palesi forme di abuso del diritto», caratterizzate
da un illegittimo "sviamento” delle tutele apprestate dall’ordinamento, in quanto
l’entità della indennità risarcitoria, costituente l’effetto indiretto della
declaratoria di nullità del termine apposto al rapporto di lavoro, e, cioè, la
liquidazione di una indennità pari al complesso delle retribuzioni e degli
accessori di legge maturati dalla mora accipiendi
alla data della riammissione in servizio, «diveniva una variabile
arbitrariamente determinata dal lavoratore, che – fondandosi (indebitamente)
sull’imprescrittibilità dell’actio nullitatis – poteva intenzionalmente posporre l’avvio
dell’accertamento giurisdizionale in modo da incrementare le spettanze
derivanti dall’eventuale condanna dell’imprenditore».
Proprio al fine di contemperare gli
interessi dei lavoratori e quelli del datore di lavoro il legislatore avrebbe delineato,
da un lato, ai commi 5, 6 e 7 dell’art. 32 della legge n. 183 del 2010, un
regime che riconosce a favore del lavoratore – che abbia ottenuto il
riconoscimento della illegittimità del termine apposto al proprio rapporto
d’impiego – la declaratoria giudiziale di conversione a tempo indeterminato
dello stesso contratto e la previsione di una indennità onnicomprensiva
determinata, avuto riguardo ai criteri di cui all’art. 8 della legge n. 604 del
1966, entro un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima
retribuzione globale di fatto; per altro verso, con la disposizione oggetto di
scrutinio, il legislatore avrebbe introdotto un termine di decadenza del tutto
finalizzato a fornire certezza in ordine a tutte le fattispecie di contratti a tempo
determinato conclusesi anche a distanza di lustri o decenni dall’entrata in
vigore della norma scrutinata e che, in punto di diritto, stante il principio
dell’imprescrittibilità dell’azione di nullità relativa alla clausola con la
quale si è apposto il termine al rapporto d’impiego, sarebbero ancora
ipoteticamente suscettibili di accertamento positivo in sede giudiziale, con
evidente e irragionevole violazione dei principi di affidamento e di certezza
delle situazioni giuridiche consolidate, che la disposizione impugnata sarebbe
appunto finalizzata a preservare.
Alla luce di tali argomentazioni,
sarebbe errato affermare che la detta disposizione troverebbe come tertia comparationis i rapporti
ed atti cui fanno riferimento le altre norme di cui al comma 4 dell’art. 32
della legge n. 183 del 2010.
Infatti, si tratterebbe di fattispecie
che, sotto il profilo patologico, non godrebbero del rimedio dell’azione di
nullità dalla quale derivi una potenziale e perenne (e, nel caso in esame,
irragionevole) incertezza in ordine alla contestazione della legittimità del
rapporto, e che, sotto il profilo economico-sociale, non avrebbero
"registrato”, prima dell’entrata in vigore della legge, un’estensione in
termini di contenzioso con effetti "distorsivi”
simili a quello che, invece, avrebbe motivato l’adozione del regime processuale
e di tutela sostanziale oggetto, rispettivamente, del comma 4, lettera b) e dei
commi 5, 6 e 7, dell’art. 32 della legge citata.
Pertanto, ad avviso della difesa della
società, andrebbe affermata l’assoluta legittimità e ragionevolezza della norma
censurata e, di converso, l’inammissibilità e l’infondatezza della questione
oggetto del presente giudizio.
La questione sarebbe non fondata anche
con riguardo alla asserita disparità di trattamento.
Infatti, come affermato dallo stesso
rimettente, si tratterebbe di fattispecie diverse che il legislatore,
nell’esercizio della sua discrezionalità, può disciplinare in modo diverso.
Né tale difformità delle fattispecie –
già idonea a minare il fondamento stesso della prospettata questione di
legittimità costituzionale sollevata in riferimento all’art. 3 Cost. – può
essere superata dal rilievo che le stesse sarebbero sottoposte, in relazione ad
un determinato aspetto, cioè al termine d’impugnazione, ad una disciplina
identica, trattandosi di un profilo del tutto irrilevante per valutare
l’eventuale violazione del principio di uguaglianza.
Ad avviso di Poste Italiane s.p.a.,
«l’istituto della decadenza, così come quello della prescrizione, attenendo ad
un aspetto estraneo alla fattispecie giuridica sostanziale, essendo inerente al
diritto di azione, non vale a far venire meno la differenziazione sostanziale e
fattuale delle fattispecie alle quali detta decadenza è riferita».
Pertanto, la circostanza che il
legislatore abbia previsto, ai fini dell’esercizio dell’azione, un medesimo
termine di decadenza per tutte le fattispecie di cui all’art. 32, commi 3 e 4,
della legge n. 183 del 2010, non potrebbe valere a rendere omogenee fattispecie
che sono e restano sostanzialmente diverse.
Al riguardo, la società ricorda che –
come statuito dalla giurisprudenza di questa Corte – il principio di
uguaglianza sostanziale, di cui all’art. 3 Cost., comporta un generale divieto
di discriminazione rinvenibile soltanto qualora si trattino in maniera diversa
situazioni uguali sotto il profilo sostanziale, perché se situazioni uguali
esigono uguale disciplina, situazioni sostanzialmente diverse possono
richiedere discipline differenti.
Risulterebbe evidente, dunque, che nella
specie la diversità delle situazioni, considerate dai commi 3 e 4 dell’art. 32
della legge n. 183 del 2010, escluderebbe la configurabilità della denunziata
violazione del principio di uguaglianza, rientrando nell’alveo della
insindacabile discrezionalità legislativa la scelta di differenziare anche il
regime delle decadenze previsto dalla norma censurata. Ne conseguirebbe che la
difformità delle dette situazioni e della relativa disciplina ben potrebbe
giustificare, anche in relazione al regime della decadenza, l’adozione di
scelte diversificate, adottate previa discrezionale valutazione delle peculiari
esigenze protettive postulate da ciascuna fattispecie.
La società prosegue osservando che la
posizione rivestita dai lavoratori, intenzionati a contestare in giudizio
l’apposizione del termine al contratto, non sarebbe in alcun modo equiparabile
e/o confrontabile con la posizione di coloro che si trovino nelle altre
condizioni prese in considerazione dai commi 3 e 4 del citato art. 32 della
legge n. 183 del 2010.
Infatti, i lavoratori a termine
sarebbero destinatari di una complessa e articolata disciplina di dettaglio,
dettata ad hoc dal legislatore, che li porrebbe, sotto il profilo della
certezza dei rapporti giuridici, in una posizione peculiare e tale da
giustificare per essi la necessità di prevedere l’onere d’impugnare, a pena di
decadenza, il termine apposto anche ai contratti relativi ai rapporti già
conclusi. Al riguardo, l’esponente ricorda che l’azione diretta a far accertare
la nullità del termine apposto al contratto di lavoro è imprescrittibile.
Rispetto a detta situazione, l’esigenza di certezza dei rapporti giuridici –
perseguita dall’art. 32, commi 3 e 4, della citata legge n.183 del 2010 –
giustificherebbe ed imporrebbe l’applicazione di un termine di decadenza anche
in relazione ai rapporti già conclusi alla data di entrata in vigore della
legge stessa. E ciò soprattutto qualora si consideri che quest’ultima, soltanto
per l’ipotesi di illegittima apposizione del termine al contratto di lavoro, ha
normativamente previsto anche per i rapporti già conclusi, la conversione ex lege del rapporto a termine in rapporto a tempo
indeterminato, stabilendo una tutela risarcitoria predeterminata e disancorata
dai criteri civilistici di commisurazione e prova del danno risarcibile. Detta
disciplina renderebbe ancora più giustificata la previsione di un termine di
decadenza anche per i rapporti già conclusi, essendo diretta ad evitare
disparità di trattamento tra lavoratori assunti con contratto a termine, in tal
caso posti in situazioni sostanzialmente uguali, ancorando la diversità di
disciplina ad un dato meramente fattuale, costituito dalla circostanza che il
rapporto fosse o meno concluso alla data di entrata in vigore della legge n.
183 del 2010.
Inoltre, la società pone in evidenza
l’aspetto peculiare della disciplina propria del contratto di lavoro a tempo
determinato, costituito dalla possibilità, prevista in modo espresso dalla
legge, di prorogare e rinnovare le assunzioni a termine, pur nel limite massimo
di 36 mesi. Rispetto a tale situazione, risulterebbe essenziale l’esigenza di
assicurare, per tale fattispecie e non per le altre prese in esame dalla norma
censurata, la certezza dei rapporti giuridici pregressi. Pertanto, la
differenziazione del regime di decadenza tra la fattispecie del contratto a
termine e esigenze proprie del rapporto di lavoro a tempo determinato.
Né potrebbe essere assunto come valido tertium comparationis il regime
sanzionatorio previsto in caso di illegittima fornitura di lavoro temporaneo o
di somministrazione irregolare, in quanto l’art. 27, comma 1, del decreto
legislativo 10 settembre 2003, n. 276 (Attuazione delle deleghe in materia di
occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30),
nel prevedere la sola possibilità per il lavoratore di agire in giudizio al
fine di ottenere la costituzione di un rapporto alle dipendenze
dell’utilizzatore, escluderebbe che dalla irregolarità della somministrazione
derivi una presunzione iuris et
de iure, per cui in tale fattispecie debba essere comunque dichiarata la
sussistenza di un rapporto di lavoro con l’utilizzatore.
Ad avviso della società, dunque, la
conformità al principio di parità di trattamento della diversificazione della
disciplina in esame sarebbe insita nella difformità delle fattispecie, peraltro
riconosciuta dal rimettente, e nella insindacabile discrezionalità del
legislatore che, nel momento in cui ha previsto la sanzione della conversione,
ben poteva operare una peculiare e discrezionale valutazione circa
l’opportunità di una disciplina diversificata della decadenza.
In tale contesto, ad avviso di Poste
Italiane s.p.a., risulterebbe evidente come, a sostegno della illegittimità
costituzionale della norma, non potrebbe utilmente essere invocata una
disparità di trattamento «dal punto di vista datoriale».
La maggior tutela asseritamente
riconosciuta al datore di lavoro, che abbia stipulato contratti a termine,
rientrerebbe nella complessa disciplina di dettaglio dettata in materia di
assunzioni a tempo indeterminato e sarebbe "compensata” dalla doppia sanzione
(conversione più risarcimento comunque dovuto), normativamente prevista
soltanto a carico di tali datori di lavoro.
Inoltre, la pretesa violazione del
principio di uguaglianza non potrebbe nemmeno risiedere nel fatto che la norma
avrebbe costretto i lavoratori a termine ad impugnare entro 60 giorni anche i
contratti già conclusi, consentendo alle altre categorie di lavoratori «di
continuare ad agire in giudizio senza dover rispettare alcun termine decadenziale».
Al riguardo Poste Italiane s.p.a.
osserva come dalla normativa denunciata non derivi alcun vulnus per il diritto
dei lavoratori a termine di agire in giudizio per ottenere la declaratoria di
illegittimità del contratto, diritto comunque garantito venendo in rilievo non
già l’an, bensì il quomodo
dell’accesso alla tutela giurisdizionale (è richiamata la sentenza n. 500 del
1995).
Inoltre, l’adozione di mezzi
differenziati d’impugnazione non potrebbe porsi come illegittima
discriminazione, né impedirebbe la garanzia dell’azione in giudizio per
ottenere protezione dei propri diritti e interessi, «la quale non richiede
necessariamente l’uniformità degli strumenti a tal fine apprestati dal
legislatore» (sono richiamate le sentenze n. 500 del 1995
e n. 238 del
1994).
4.– Con atto depositato il 5 febbraio
2013, è intervenuto nel presente giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato,
chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o non fondata.
In punto di rilevanza, la difesa dello
Stato evidenzia come parte della giurisprudenza e della dottrina ritenga che il
comma 1-bis dell’art. 32 della legge n. 183 del 2010 (comma introdotto
dall’art. 1, comma 1, della legge n. 10 del 2011, che ha convertito il d.l. n.
225 del 2010) abbia durata retroattiva. Ne conseguirebbe che il differimento al
31 dicembre 2011 del termine di 60 giorni per l’impugnazione del licenziamento,
in detto comma 1-bis, varrebbe anche per tutte le fattispecie assoggettate ex
novo all’onere di impugnazione di cui all’art. 32, per le quali alla data di
entrata in vigore dello stesso comma 1-bis, ovvero al 26 febbraio 2011, il
termine d’impugnazione introdotto dall’art. 32 era già spirato. Aderendo a tale
opzione interpretativa del citato comma 1-bis, la questione risulterebbe
irrilevante, in quanto alla fattispecie dedotta in giudizio l’onere
d’impugnazione non si applicherebbe.
Nel merito, la questione sarebbe non
fondata.
Al riguardo, la difesa statale rileva
che il giudice rimettente avrebbe posto a confronto fattispecie diverse, sicché
rientrerebbe nel legittimo esercizio della discrezionalità legislativa la
scelta d’introdurre l’onere di impugnazione con effetti retroattivi soltanto
per la cessazione del contratto a termine.
Tale scelta del legislatore, ad avviso
della difesa dello Stato, sembrerebbe saldarsi con l’orientamento della
giurisprudenza di merito, anteriore all’entrata in vigore dell’art. 32 della
legge n. 183 del 2010, accolto anche da un orientamento minoritario della
giurisprudenza di legittimità, secondo il quale la mancata contestazione della
cessazione del rapporto a termine entro un tempo ragionevole si sarebbe dovuto
intendere come volontà del lavoratore di non contestare la legittimità del
termine finale apposto al contratto. Tale orientamento avrebbe suggerito, già
prima dell’entrata in vigore del citato art. 32, di attivarsi tempestivamente
al fine di contestare la legittimità del termine e avrebbe reso in qualche misura
diverse, al cospetto dell’introduzione per legge dell’onere d’impugnazione, la
posizione dei lavoratori a termine di fronte a quella di tutti gli altri.
Infine, la scelta del legislatore
avrebbe risposto all’esigenza di omogeneizzare il trattamento dei lavoratori
nel caso d’illegittima apposizione del termine: il nuovo trattamento,
introdotto dall’art. 32 della legge n. 183 del 2010, si applicherebbe a tutti i
contratti a termine, cioè sia a quelli alla data di entrata in vigore della
legge, sia a quelli in corso di esecuzione, sia, infine, a quelli instaurati
successivamente.
5.– Il Tribunale ordinario di Roma, in
funzione di giudice del lavoro, con ordinanza depositata il 24 ottobre 2012 (r.o. n. 302 del 2012) ha sollevato, in riferimento all’art.
3 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 32, comma 4, lettera
b), della legge n. 183 del 2010, nella parte in cui prevede l’applicazione del
termine di decadenza, stabilito dal riformato art. 6, primo comma, della legge
n. 604 del 1966, anche ai contratti di lavoro a tempo determinato già conclusi
alla data di entrata in vigore della citata legge e con decorrenza dalla
medesima data.
6.– Il rimettente, chiamato alla
trattazione di una causa promossa da C.G. nei confronti di Poste Italiane s.p.a.,
premette che, con ricorso depositato il 29 febbraio 2012, il ricorrente ha
chiesto che fosse accertata la nullità del termine finale di durata apposto al
contratto di lavoro stipulato, ai sensi dell’art. 2, comma 1-bis, del decreto
legislativo n. 368 del 2001, come modificato dall’art. 1, comma 558, della
legge n. 266 del 2005, con Poste Italiane spa, con durata dal 1° aprile 2009 al
30 giugno 2009; la conversione del contratto in rapporto di lavoro a tempo
indeterminato fin dalla data della stipulazione; la condanna della resistente
alla riammissione in servizio del lavoratore ed al pagamento, anche a titolo
risarcitorio, delle retribuzioni a far data dalla scadenza del termine, oltre
agli accessori di legge.
Il giudice a quo riferisce, inoltre, che
Poste Italiane spa, costituitasi in giudizio con memoria del 1° giugno 2012, ha
eccepito in via preliminare la decadenza dall’azione di nullità per mancata
impugnazione del contratto nel termine previsto dall’art. 32 della legge n. 183
del 2010 e la risoluzione del contratto per mutuo consenso; nel merito ha
contestato la fondatezza delle pretese, chiedendone il rigetto.
Il Tribunale osserva che, in data 12
giugno 2012, ha fissato l’udienza di discussione, anche sui dubbi in merito
alla legittimità costituzionale dell’art. 32, comma 4, lettera b), della legge
n. 183 del 2010 – nella parte in cui prevede l’applicazione del termine di
decadenza stabilito dal riformato art. 6 della legge n. 604 del 1966 anche ai
contratti a termine già conclusi alla data di entrata in vigore della medesima
legge – in relazione al disposto dell’art. 3 Cost.
Ciò premesso, il rimettente svolge le
medesime argomentazioni formulate nell’ordinanza di rimessione n. 301 del 2012.
In particolare, con riferimento alla
fattispecie oggetto del giudizio a quo, osserva che – a prescindere
dall’adesione o meno all’opzione interpretativa circa l’applicabilità a tutte
le ipotesi indicate nel citato art. 32 in ordine al differimento dell’efficacia
del termine di decadenza al 31 dicembre 2011, e circa la non applicabilità
dello stesso a tutte le decadenze a tale data già maturate – non vi sarebbe
ragione di dubitare che, nel caso di specie, essendo il contratto a termine
cessato il 30 giugno 2009, ed avendo il ricorrente formalizzato la propria
impugnazione con lettera del 9 novembre 2011, esso sia incorso nella decadenza
prevista dalla norma in esame, come eccepito dalla convenuta.
In questo quadro, la questione sarebbe
rilevante ai fini della decisione, in quanto, qualora si applicasse la norma
oggetto di scrutinio al caso di specie, non si potrebbe che dichiarare la
decadenza del ricorrente dal diritto di agire in giudizio per ottenere
l’accertamento della nullità del termine apposto al contratto di lavoro
stipulato con la società resistente.
7.– Con atto depositato il 5 febbraio
2013 si è costituita nel presente giudizio Poste Italiane spa, chiedendo che la
questione di legittimità costituzionale sia dichiarata inammissibile o non
fondata, alla luce delle stesse argomentazioni svolte nella memoria di
costituzione depositata nel giudizio originato dall’ordinanza di rimessione n.
301 del 2012.
8.– Con atto depositato il 5 febbraio
2013 è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che la
questione sia dichiarata inammissibile o non fondata, sulla base delle medesime
argomentazioni esposte nell’atto d’intervento nel giudizio di legittimità
costituzionale originato dall’ordinanza di rimessione n. 301 del 2012.
9.– Con atto depositato nella stessa
data si è costituito C.G., chiedendo alla Corte di dichiarare l’illegittimità
costituzionale dell’art. 32, comma 4, lettera b), della legge n. 183 del 2010.
Dopo aver riferito sulle circostanze
inerenti alla causa intrapresa con il ricorso depositato il 29 febbraio 2012 e
sulle domande con esso proposte, la parte privata ricorrente dà atto della
costituzione della convenuta società e, a sostegno delle ragioni dedotte a
fondamento dell’ordinanza di rimessione, osserva quanto segue.
In primo luogo, pone in rilievo la
palese discriminazione creata dalla disposizione in esame in relazione a
situazioni tra loro identiche, trattate in modo uguale dallo stesso
legislatore, il quale le avrebbe equiparate nel medesimo testo legislativo, per
quel che concerne «la necessità dell’esternalizzazione dell’opposizione del
lavoratore all’atto datoriale, giustificata dalla necessità della certezza dei
rapporti nella realtà economica». Si tratterebbe, dunque, di una norma
comportante indebite differenziazioni tra situazioni riconosciute come uguali,
ovvero delle assimilazioni indebite di situazioni diverse.
La difesa della parte privata prosegue
osservando che questa Corte avrebbe cercato di definire «i criteri in base ai
quali operare il giudizio di eguaglianza delle leggi»: correttezza della
classificazione effettuata dal legislatore in relazione ai soggetti
considerati; previsione di un trattamento omogeneo, ragionevolmente commisurato
alle caratteristiche essenziali della classe di persone cui quel trattamento è
riferito; proporzionalità del trattamento giuridico previsto rispetto alla
classificazione operata dal legislatore, tenendo conto del fine obiettivo
insito nella disciplina normativa considerata e che va esaminata in relazione
agli effetti pratici prodotti. Sulla scorta di tali generali principi sarebbe
evidente l’indebita differenziazione operata dalla legge n. 183 del 2010,
«laddove ritiene – ingiustificatamente – a fronte di situazioni ritenute nel
medesimo provvedimento legislativo tra loro analoghe, al punto di applicare una
disciplina identica, con riferimento alle decadenze disposte, di differenziare
l’applicazione della decadenza stessa anche ai rapporti in corso per una sola
di queste, senza che sia ravvisabile una seria ragione che giustifichi questa
scelta legislativa, oggettivamente punitiva per i soggetti che hanno stipulato
rapporti a termine».
Si tratterebbe, peraltro, di una
valutazione non limitata alla mera analisi strutturale del disposto della norma
dettata dall’art. 32 della legge n. 183 del 2010, ma estesa alla ratio del provvedimento legislativo.
Come già notato, esso avrebbe la
finalità di far emergere in breve tempo i possibili contenziosi in materia di
contratti di lavoro, «evitando che il tessuto dei rapporti socio-economici che
si susseguono nel mondo del lavoro sia esposto all’incertezza delle azioni
giudiziarie per un tempo indefinito, ritenuto incompatibile con il più rapido
avvicendarsi delle modifiche nel mondo del lavoro che ha caratterizzato
l’evoluzione socio economica degli ultimi decenni.
Tuttavia, tale finalità sussisterebbe
per tutti i tipi di rapporti sui quali è intervenuto il citato art. 32,
ovviamente disponendo che la nuova disciplina si applicasse ai rapporti che
andavano a costituirsi successivamente all’entrata in vigore della legge.
Soltanto per i contratti a termine – e senza giustificazione alcuna – il
legislatore avrebbe disposto che la decadenza si applicasse anche ai rapporti
in corso e, soprattutto, a quelli già conclusi, con l’effetto di penalizzare
una specifica categoria, cioè i lavoratori assunti a termine.
Né potrebbe assumere rilievo, come bene
ricorda il rimettente, la circostanza (peraltro, avente natura fattuale e non
giuridica) relativa al massiccio contenzioso riguardante l’altra parte in
causa, vale a dire Poste Italiane spa.
Questa Corte, nella sentenza n. 303 del
2011, avrebbe affermato che il legislatore, con la legge n. 183 del 2010,
avrebbe operato sul piano generale e astratto delle fonti e che la "innovativa
disciplina”, di cui si tratta, avente carattere generale, non favorirebbe
«selettivamente lo Stato o altro ente pubblico», del resto neppur figuranti tra
i destinatari delle disposizioni censurate.
Ne deriverebbe che la disciplina
applicativa della decadenza ai rapporti a termine già conclusi, diversamente da
tutte le altre fattispecie regolate temporalmente per il futuro quanto
all’obbligo d’impugnazione, non avrebbe alcuna ragione specifica legata al
particolare settore di cui si tratta, «con la inevitabile valutazione di
contrarietà alla disciplina di cui all’art. 3 Cost., per violazione del
principio di uguaglianza».
Il pregiudizio per la parte lavoratrice
sarebbe ancora più grave, con maggiore disparità di trattamento, qualora si
consideri che, sempre secondo questa Corte, la conversione del contratto di
lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato costituisce la
protezione più intensa che possa essere riconosciuta ad un lavoratore precario.
Detta protezione ricorrerebbe anche
nelle diverse fattispecie sulle quali interviene la norma in esame, accomunate
dalla stessa disciplina, perché anche per gli interinali sarebbe prevista la
possibilità di agire allo scopo di ottenere la costituzione di un rapporto di
lavoro a tempo indeterminato con l’utilizzatore (ex art. 27, comma 1, della
legge n. 276 del 2003), così come per i collaboratori coordinati e continuativi
(i cosiddetti co.co.co.) la declaratoria di
subordinazione del rapporto di lavoro in essere con il committente
comporterebbe la costituzione del rapporto stesso, con ogni obbligo
conseguente.
Analoghe considerazioni andrebbero
svolte per le restanti ipotesi regolate dall’art. 32, perché anche alle altre
fattispecie, accomunate alle decadenze stabilite dalla norma qui in esame, si
applicherebbero i principi generali, sicché alla nullità del trasferimento ai
sensi dell’art. 2103 cod. civ., o alla cessione del contratto ai sensi
dell’art. 2112 cod. civ. seguirebbe la possibilità per il giudice del
ripristino dello status quo ante.
Pertanto, la decisione del legislatore
di applicare la decadenza, attraverso l’obbligo d’impugnazione, dei contratti
già conclusi soltanto per i lavoratori impiegati con contratto a tempo
indeterminato, a differenza delle altre fattispecie in cui la nuova disciplina decadenziale si applica solo per il futuro, renderebbe ancora
più stridente la denunciata disparità di trattamento.
Senza contare il grave danno che ne
deriverebbe per le parti lavoratrici, avuto riguardo al consistente numero di
contratti a termine stipulati dalla parte datoriale in causa, che
rischierebbero di essere resi inoppugnabili da parte di una vasta schiera di
lavoratori precari, nella gran parte dei casi non in condizioni di accedere a
corrette informazioni circa gli effetti della intervenuta decadenza; e, ancora,
senza contare le situazioni di timore della perdita di future occasioni di
lavoro, ancorché precario, che l’avvento della crisi economica ha spesso reso
l’unica possibilità di accedere ad una fonte di guadagno.
Infine, la parte privata C.G. riporta
quanto affermato da questa Corte nella sentenza n. 303 del
2011, in relazione al carattere eterogeneo delle situazioni giuridiche ivi
considerate. Richiamata la ratio legis
dell’art. 32, per quanto concerne l’introduzione, a carico del lavoratore, di
un termine per l’impugnazione dell’atto datoriale lesivo, o per l’opposizione
ad esso (necessità di certezza nei rapporti socio economici), C.G. ribadisce
l’eguaglianza delle dette situazioni che, semmai, si differenzierebbero negli
effetti dell’inadempimento, nel senso che, per le più gravi, rimarrebbe il
precedente regime risarcitorio, nella sostanza integrale, del danno subito dal
lavoratore, mentre per quella ritenuta più lieve il legislatore avrebbe optato
per una tecnica risarcitoria di tipo forfetario ed onnicomprensivo, come
esposto nella citata sentenza n. 303 del
2011.
La decisione di disciplinare e di
imporre l’impugnazione entro il termine breve introdotto dalla legge, anche e
per i soli rapporti a termine già conclusi, non potrebbe certo rinvenirsi nella
ritenuta maggiore "tenuità” della fattispecie costituita dalla illegittima
apposizione del termine, essendo anzi quest’ultima caratteristica un ulteriore
elemento di stridente irrazionalità della norma.
10.– In prossimità dell’udienza di
discussione Poste Italiane spa, C.G. ed il Presidente del Consiglio dei
ministri hanno depositato memorie con le quali hanno ulteriormente argomentato
a sostegno delle rispettive tesi.
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale ordinario di Roma, in funzione
di giudice del lavoro, con ordinanza del 24 ottobre 2012 (r.o.
n. 301 del 2012) ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione,
questione di legittimità costituzionale dell’art. 32, comma 4, lettera b),
della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori
usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di
ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione,
di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro
sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di
lavoro), nella parte in cui prevede l’applicazione del termine di decadenza di
cui al riformato art. 6, primo comma, della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme
sui licenziamenti individuali) ai contratti di lavoro a tempo determinato già
conclusi alla data di entrata in vigore della citata legge n. 183 del 2010 e
con decorrenza dalla medesima data.
Il rimettente, chiamato a pronunciare su
una causa promossa da C.I. nei confronti di Poste Italiane s.p.a., premette
che, con ricorso depositato il 24 gennaio 2012, il ricorrente ha chiesto che
fosse accertata la nullità del termine finale di durata apposto al contratto di
lavoro stipulato con la detta società, ai sensi dell’art. 2, comma 1-bis, del
decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 (Attuazione della direttiva
1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso
dall’UNICE, dal CEEP e dal CES), come modificato dall’art. 1, comma 558, della
legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio
annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2006), contratto avente
durata dal 9 luglio 2008 al 31 ottobre 2008, con inquadramento al livello E,
con mansioni di portalettere; la conversione del contratto in rapporto di
lavoro a tempo indeterminato fin dalla data di stipulazione; la condanna della
resistente alla riammissione in servizio del lavoratore e al pagamento, anche a
titolo risarcitorio, delle retribuzioni a far data dalla scadenza del termine,
oltre agli accessori di legge.
Il Tribunale, inoltre, riferisce che la
società, costituitasi in giudizio, ha eccepito la decadenza del lavoratore
dall’azione di nullità per mancata impugnazione del contratto nel termine previsto
dall’art. 32 della legge n. 183 del 2010 e la risoluzione dello stesso per
mutuo consenso; aggiunge che, nel merito, la detta società ha contestato la
fondatezza delle pretese azionate dal ricorrente, chiedendone il rigetto.
Nel giudizio di legittimità
costituzionale, con atto depositato il 5 febbraio 2013, è intervenuto il
Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che la questione sia
dichiarata inammissibile o non fondata.
Con atto depositato il 4 febbraio 2013
si è costituita Poste Italiane spa, rassegnando conclusioni analoghe a quelle
assunte dall’interveniente.
2.– Il Tribunale ordinario di Roma, in
funzione di giudice del lavoro, con ordinanza del pari depositata il 24 ottobre
2012 (r.o. n. 302 del 2012), ha sollevato, in
riferimento all’art. 3 Cost., questione di legittimità costituzionale dello
stesso art. 32, comma 4, lettera b), della legge n. 183 del 2010, formulando
censure identiche a quelle contenute nella prima ordinanza.
Il giudice a quo, chiamato a pronunciare
in una causa promossa da C.G. nei confronti di Poste Italiane spa, osserva che
il detto C.G. ha agito in giudizio, con ricorso depositato il 29 febbraio 2012,
chiedendo che si accertasse la nullità del termine finale di durata, apposto al
contratto di lavoro stipulato con la menzionata società, ai sensi dell’art. 2,
comma 1-bis, del d.lgs. n. 368 del 2001, come modificato dall’art. 1, comma
558, della legge n. 266 del 2005. (per il periodo 1º aprile 2009 – 30 giugno
2009). Il ricorrente ha chiesto anche la conversione del contratto in rapporto
di lavoro a tempo indeterminato fin dalla data della stipula e la condanna
della resistente a riammettere il lavoratore in servizio, nonché al pagamento,
a titolo risarcitorio, delle retribuzioni a far data dalla scadenza del termine,
oltre agli accessori di legge.
Il rimettente riferisce che, nel
giudizio così instaurato, si è costituita Poste Italiane spa, eccependo, in via
preliminare, la decadenza del lavoratore dall’azione di nullità per mancata
impugnazione del contratto nel termine previsto dall’art. 32 della legge n. 183
del 2010 e la risoluzione dello stesso per mutuo consenso; nel merito, ha
contestato la fondatezza delle pretese, chiedendone il rigetto.
Nel giudizio di legittimità
costituzionale è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, con atto
depositato il 5 febbraio 2013, chiedendo che la questione sia dichiarata
inammissibile o non fondata.
Si è costituita, altresì, Poste Italiane
spa, formulando analoghe conclusioni.
Infine, si è costituito il signor C.G.,
chiedendo che questa Corte dichiari l’illegittimità costituzionale della norma
censurata.
2.1.– Il rimettente solleva questione di
legittimità costituzionale dell’art. 32, comma 4, lettera b), della legge n.
183 del 2010, nella parte in cui prevede l’applicazione del termine di
decadenza di 60 giorni, stabilito dal riformato art. 6, primo comma, della
legge n. 604 del 1966, ai contratti di lavoro a tempo determinato già conclusi
(recte: cessati o scaduti) alla data di entrata in
vigore della legge ora menzionata, in riferimento all’art. 3 Cost.
In particolare, il parametro
costituzionale sarebbe violato sotto il profilo del principio di
ragionevolezza, in quanto, prevedendo soltanto per i contratti di lavoro a
termine "già conclusi” alla data di entrata in vigore della legge n. 183 del
2010 il termine di decadenza di 60 giorni, e non anche per le altre ipotesi
contemplate dall’art. 32, commi 3 e 4, della legge medesima, "già verificatesi”
a tale data, il legislatore avrebbe disciplinato «in maniera identica
fattispecie diverse in relazione ad un determinato aspetto (quale è quello, che
in questa sede interessa, del termine di impugnazione)», il che dovrebbe esser
fatto «in maniera intrinsecamente coerente e, per l’appunto, ragionevole ed
uguale per tutte».
Lo stesso parametro sarebbe, altresì,
violato in relazione al principio di uguaglianza, in quanto la norma censurata
introdurrebbe una evidente disparità di trattamento: a) tra lavoratori
intenzionati a contestare in giudizio l’apposizione del termine ai propri
contratti – costretti ad impugnarli nel termine di 60 giorni a far data dal 24
novembre 2010 – e lavoratori intenzionati a promuovere un’analoga iniziativa
giudiziaria in relazione alle diverse ipotesi contemplate dal citato art. 32,
commi 3 e 4, già concluse o comunque verificatesi alla medesima data di entrata
in vigore della legge, i quali potrebbero continuare ad agire in giudizio senza
dover rispettare alcun termine di decadenza; b) tra datori di lavoro, perché
tutelerebbe in modo differente l’interesse di tali soggetti, che abbiano
stipulato contratti a tempo determinato, di conoscere in tempi rapidi e certi
se e quanti dei propri ex dipendenti abbiano l’intenzione di contestarne in
giudizio la legittimità e l’analogo interesse di quei datori che abbiano,
invece, stipulato contratti di collaborazione coordinata e continuativa, di
collaborazione a progetto o di somministrazione, ovvero che abbiano disposto il
trasferimento di un lavoratore da una unità produttiva a un’altra, o che abbiano
ceduto un contratto di lavoro, di conoscere con altrettante rapidità e certezza
l’esistenza di analoghe intenzioni impugnatorie da
parte dei propri ex collaboratori o ex dipendenti; c) tra datori di lavoro e
lavoratori, in quanto favorirebbe, in assenza di «motivi imperiosi di carattere
generale», la posizione di uno dei due contraenti, nella specie della parte
datoriale.
3.– Le due ordinanze di rimessione
censurano la stessa norma, in riferimento al medesimo parametro e con
argomentazioni nella sostanza identiche. Pertanto, i due giudizi di legittimità
costituzionale, con esse promossi, devono essere riuniti per essere decisi con
unica sentenza.
4.– Va premesso che la legge 28 giugno
2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una
prospettiva di crescita) ha apportato alcune modifiche all’art. 32 della legge
n. 183 del 2010. In particolare, l’art. 1, comma 11, lettera a) della detta
legge n. 92 del 2012 ha sostituito la lettera a) del comma 3 del citato art. 32
nei seguenti termini:
«a) ai licenziamenti che presuppongono
la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro
ovvero alla nullità del termine apposto al contratto di lavoro, ai sensi degli
articoli 1, 2 e 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, e
successive modificazioni. Laddove si faccia questione della nullità del termine
apposto al contratto, il termine di cui al primo comma del predetto art. 6, che
decorre dalla cessazione del medesimo contratto, è fissato in centoventi giorni,
mentre il termine di cui al primo periodo del secondo comma del medesimo
articolo 6 è fissato in centottanta giorni;
b) La lettera d) è abrogata».
L’art. 1, comma 12, della legge n. 92
del 2012, poi, stabilisce che «Le disposizioni di cui al comma 3, lettera a),
dell’articolo 32 della legge 4 novembre 2010, n. 183, come sostituito dal comma
11 del presente articolo, si applicano in relazione alle cessazioni di
contratti a tempo determinato verificatesi a decorrere dal 1° gennaio 2013».
È agevole constatare che, la norma
impugnata (art. 32, comma 4, lettera b della legge n. 183 del 2010) non è
sostanzialmente incisa dalle menzionate modifiche normative, né queste assumono
rilevanza rispetto al tenore delle censure formulate dal rimettente. Pertanto,
la questione di legittimità costituzionale in esame può essere scrutinata in
riferimento al comma 4, lettera b), del citato art. 32, nel testo modificato
dalla legge n. 92 del 2012 (sentenze n. 219 del 2013,
n. 193 e n. 30 del 2012).
5.– Sempre in premessa, si deve
ricordare che, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme
sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale),
quest’ultima, «quando accoglie una istanza o un ricorso relativo a questione di
legittimità costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge,
dichiara, "nei limiti dell’impugnazione”, quali sono le disposizioni
legislative illegittime». Il perimetro dello scrutinio di legittimità
costituzionale, dunque, è definito per l’appunto da tali limiti, che si
evidenziano sulla base dei parametri evocati dall’ordinanza di rimessione.
Nel caso di specie, il parametro
costituzionale, in riferimento al quale la questione è stata promossa, è l’art.
3 Cost. Pertanto, l’indagine deve essere condotta con riguardo esclusivo a
detta norma, che individua il thema decidendum, alla luce delle censure svolte nell’ordinanza
di rimessione.
6.– Il Presidente del Consiglio dei
ministri, intervenuto nei giudizi di legittimità costituzionale, ha eccepito
l’inammissibilità della questione per difetto di rilevanza, osservando che
«parte della giurisprudenza e della dottrina ritiene, diversamente da quanto
opina il giudice a quo, che il comma 1-bis dell’articolo 32 (introdotto
dall’articolo 1, comma 1, della legge 26 febbraio 2011, n. 10, di conversione
del decreto legge 29 dicembre 2010 n. 225), che recita "1-bis. In sede di prima
applicazione, le disposizioni di cui all’articolo 6, primo comma, della legge
15 luglio 1966, n. 604, come modificato dal comma 1 del presente articolo,
relative al termine di sessanta giorni per l’impugnazione del licenziamento,
acquistano efficacia a decorrere dal 31 dicembre 2011”, abbia portata
retroattiva.
Con la conseguenza che il differimento
varrebbe anche per tutte quelle fattispecie assoggettate ex novo all’onere di
impugnazione dall’articolo 32 (licenziamenti, recessi, trasferimenti, ecc.),
per le quali, alla data di entrata in vigore del comma 1-bis (26 febbraio
2011), il termine di impugnazione introdotto dall’art. 32 fosse già spirato».
La difesa dello Stato aggiunge che,
aderendo a questa interpretazione del comma 1-bis, la questione di legittimità
costituzionale in esame risulterebbe irrilevante, in quanto l’onere
d’impugnazione non sarebbe applicabile alla fattispecie dedotta in giudizio.
6.1–- Anche la parte privata C.G. (ma
sotto tutt’altra prospettiva), nella memoria depositata il 24 marzo 2014, ha
eccepito, in via principale, l’inammissibilità della questione, in applicazione
dello ius superveniens,
costituito dalla sentenza
della Corte di giustizia dell’Unione europea, emessa il 12 dicembre 2013 nella
causa C-361/12 (Carratù contro Poste Italiane spa)
, concludendo, in via subordinata, per la fondatezza. Ad avviso della parte
suddetta, la citata sentenza avrebbe risolto la questione sollevata dal
Tribunale di Roma, rendendola per l’appunto inammissibile, «in quanto la
equiparazione della tutela assicurata ai lavoratori a tempo determinato
rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato comparabili rende direttamente
inapplicabile anche la disposizione sottoposta al vaglio di costituzionalità, a
prescindere dallo slittamento o meno al 31 dicembre 2011 e della sua concreta
applicabilità anche ai contratti a tempo determinato della entrata in vigore
del doppio termine decadenziale di impugnativa».
Orbene, la tesi della parte privata
C.G., qui riassunta, non può essere condivisa.
In primo luogo, essa introduce un tema
estraneo all’ordinanza di rimessione, ponendosi, quindi, in contrasto con la costante
giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale sono inammissibili le
deduzioni delle parti private volte ad estendere il thema decidendum fissato negli atti di
promovimento (ex plurimis:
sentenze n. 275
del 2013, n.
271 del 2011, n.
236 del 2009, n.
86 del 2008, n.
244 del 2005). Peraltro, pur volendo prescindere da tale profilo, si deve
considerare che la norma qui censurata è l’art. 32, comma 4, lettera b), della
legge n. 183 del 2010, nella parte in cui prevede l’applicazione del termine di
decadenza, di cui al riformato art. 6, primo comma, della legge n. 604 del 1966
anche ai contratti di lavoro a tempo determinato già conclusi alla data di
entrata in vigore della citata legge e con decorrenza dalla data medesima. La menzionata
sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea non ha adottato
alcuna pronuncia, neppure indiretta o implicita, in ordine alla norma ora
indicata. Infatti, le sue statuizioni sono le seguenti: 1) La clausola 4, punto
1, dell’accordo-quadro sul lavoro a tempo determinato, inserito in allegato
alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa
all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, deve
essere interpretata nel senso che può essere fatta valere direttamente nei
confronti di un ente pubblico, quale Poste Italiane spa; 2) la clausola 4,
punto 1, del medesimo accordo-quadro sul lavoro a tempo determinato deve essere
interpretata nel senso che la nozione di "condizioni di lavoro” include
l’indennità che un datore di lavoro è tenuto a versare ad un lavoratore, a
causa dell’illecita apposizione di un termine al contratto di lavoro; 3)
sebbene il menzionato accordo-quadro non osti a che gli Stati membri
introducano un trattamento più favorevole rispetto a quello previsto dall’accordo
stesso per i lavoratori a tempo determinato, la clausola 4, punto 1, di detto
accordo-quadro deve essere interpretata nel senso che non impone di trattare in
maniera identica l’indennità corrisposta in caso di illecita apposizione di un
termine ad un contratto di lavoro e quella versata in caso di illecita
interruzione di un contratto di lavoro a tempo indeterminato.
Come si vede, si tratta di pronunzie non
incidenti sul tema qui in discussione, sicché non potrebbero essere invocate a
sostegno di una presunta inammissibilità della questione di legittimità
costituzionale.
Quanto all’eccezione sollevata dalla
difesa dello Stato, si deve osservare che il rimettente ha tenuto conto del
comma 1-bis del citato art. 32, ne ha esaminato l’ambito applicativo dando atto
delle diverse opinioni giurisprudenziali e dottrinali formatesi al riguardo, ha
ritenuto che il differimento dell’efficacia del termine di decadenza,
differimento da tale disposizione previsto, fosse stato introdotto quando ormai
il termine stesso, decorrente dal 24 novembre 2010 e avente la durata di
sessanta giorni, era scaduto, con conseguente intangibilità di ogni fattispecie
di decadenza medio tempore verificatasi, stante il principio generale di non
prorogabilità dei termini dopo la loro scadenza, ed è pervenuto alla
conclusione che le parti ricorrenti fossero incorse nella decadenza stabilita
dalla norma in esame, che, quindi, avrebbe dovuto trovare applicazione nella
fattispecie.
Pertanto, si deve ritenere che il
giudice a quo abbia motivato in modo non implausibile
sulla rilevanza della questione.
Detta valutazione deve, infatti, tenere
conto anche della non uniformità di indirizzi giurisprudenziali formatisi in
ordine all’ambito di operatività del comma 1-bis dell’art. 32 della legge n.
183 del 2010 (ex plurimis:
sentenze n. 275
del 2013, n.
280 del 2012, n.
115 del 2011, n.
140 del 2009).
In definitiva, entrambe le eccezioni di
inammissibilità devono essere respinte.
7.– Nel merito, la questione di
legittimità costituzionale non è fondata.
Il comma 4 dell’art. 32 della legge
n.183 del 2010 così stabilisce (per la parte che qui interessa): «Le
disposizioni di cui all’articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, come
modificato dal comma 1 del presente articolo, si applicano anche: a) […]; b) ai
contratti di lavoro a termine, stipulati anche in applicazione di disposizioni
di legge previgenti al decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, e già
conclusi alla data di entrata in vigore della presente legge, con decorrenza
dalla medesima data di entrata in vigore della presente legge; c) […]; d) […]».
A sua volta, l’art. 32, comma 1, della
legge n. 183 del 2010, così dispone: «1. Il primo e il secondo comma
dell’articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, sono sostituiti dai seguenti:
«Il licenziamento deve essere impugnato
a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua
comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch’essa in forma
scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche
extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche
attraverso l’intervento dell’organizzazione sindacale diretto ad impugnare il
licenziamento stesso.
L’impugnazione è inefficace se non è
seguita, entro il successivo termine di duecentosettanta giorni, dal deposito
del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o
dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di
conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilità di produrre nuovi
documenti formatisi dopo il deposito del ricorso. Qualora la conciliazione o
l’arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l’accordo necessario
al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena
di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo».
In questo quadro normativo, il thema decidendum, alla luce delle
censure svolte, concerne in via esclusiva le modalità con le quali il
legislatore ha disciplinato la previsione del termine di decadenza, di cui
all’art. 6 della legge n. 604 del 1966, non anche la stessa previsione di detto
termine o la congruità del medesimo. Infatti, il rimettente ritiene che la
scelta del legislatore, compiuta attraverso la norma impugnata, consistente
nell’avere previsto il termine di decadenza di sessanta giorni per contestare
la legittimità del termine apposto al contratto di lavoro, anche quando si
tratti di contratti già conclusi (essendo ormai maturato il termine finale),
sarebbe irragionevole perché non stabilita anche per altre forme contrattuali o
atti datoriali, come: 1) il recesso del committente nei rapporti di
collaborazione coordinata e continuativa, anche nelle modalità a progetto di
cui all’art. 409, numero 3), del codice di procedura civile; 2) il trasferimento
del lavoratore, ai sensi dell’art. 2103 del codice civile, con termine
decorrente dalla data di ricezione della comunicazione di trasferimento; 3) la
cessione del contratto di lavoro ai sensi dell’art. 2112 cod. civ., cioè in
caso di trasferimento d’azienda; 4) ogni altro caso in cui, compresa l’ipotesi
prevista dall’art. 27 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276
(Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di
cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30), cioè l’ipotesi di somministrazione di
lavoro irregolare, si chieda la costituzione o l’accertamento di un rapporto di
lavoro in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto.
Il rimettente non dubita «che il
legislatore ben possa, nell’esercizio della discrezionalità che gli è propria,
disciplinare in maniera diversa fattispecie diverse», quali sono quelle ora
indicate rispetto alla norma censurata. Tuttavia, del pari non si potrebbe
porre in dubbio che, «nel caso sia però lo stesso legislatore a disciplinare in
maniera identica fattispecie diverse in relazione ad un determinato aspetto
(quale è quello che in questa sede interessa del termine di impugnazione),
debba necessariamente farlo in maniera intrinsecamente coerente e, per
l’appunto, ragionevole ed uguale per tutte».
Ad avviso del giudicante il legislatore,
per non incorrere in violazione del principio di ragionevolezza, avrebbe potuto
prevedere o che per tutte le ipotesi dettate dall’art. 32, commi 3 e 4, il
termine di decadenza di 60 giorni si applicasse anche ai rapporti "già
conclusi” o agli atti già compiuti alla data di entrata in vigore della legge,
oppure che, sempre per tutte le ipotesi enunciate, il predetto termine si
applicasse soltanto ai rapporti "non ancora conclusi”, oppure agli atti non
ancora compiuti a quella stessa data.
Questa tesi non può essere condivisa.
Si deve premettere che questa Corte, con
giurisprudenza costante, ha affermato il principio secondo cui, in tema di
disciplina del processo e di conformazione degli istituti processuali, il
legislatore dispone di ampia discrezionalità, con il solo limite della
manifesta irragionevolezza (ex plurimis: sentenze n. 10 del 2013,
n. 17 del 2011,
n. 82 e 50 del 2010, n. 221 del 2008).
L’indagine da compiere, dunque, postula necessariamente tale verifica, che in
realtà il rimettente non ha compiuto.
Orbene, il nuovo regime introdotto
dall’art. 32 della legge n. 183 del 2010 si applica, nel suo complesso, a tutti
i contratti a termine, cioè a quelli già scaduti alla data di entrata in vigore
della legge, a quelli in corso di esecuzione e a quelli instaurati
successivamente. La ratio di tale disciplina si
rinviene in una pluralità di esigenze: quella di garantire la speditezza dei
processi mediante l’introduzione di termini di decadenza in precedenza non
previsti; quella di contrastare la prassi di azioni giudiziarie proposte anche
a distanza di tempo assai rilevante dalla scadenza del termine apposto al
contratto (va notato, al riguardo, che la controversia circa il carattere – legittimo
o illegittimo – dell’apposizione del termine si risolve in una azione di
accertamento della nullità parziale di una clausola del contratto, come tale
imprescrittibile: art. 1422 cod. civ.); quella di pervenire ad una riduzione
del contenzioso giudiziario nella materia in questione.
Sussistono, dunque, profili concreti che
impongono di ritenere non irragionevoli le scelte compiute dal legislatore.
L’applicazione retroattiva del più
rigoroso e gravoso regime della decadenza alla sola categoria dei contratti a
termine già conclusi prima della entrata in vigore della legge n. 183 del 2010,
lasciando immutato per il passato il più favorevole regime previsto per le
altre ipotesi disciplinate dalla norma, non si pone in contrasto con il
principio di ragionevolezza.
Essa, del resto, trova conforto anche
nella natura peculiare della fattispecie regolata dalla norma oggetto di
censura, certamente diversa, per ammissione dello stesso rimettente, dalle
altre ipotesi menzionate nell’ordinanza di rimessione ed assistita dal
carattere imprescrittibile che consente di procrastinare sine die la definizione del rapporto.
7.1.– Considerazioni almeno in parte
analoghe possono valere anche per superare le censure concernenti l’asserita
disparità di trattamento derivante dalla normativa impugnata.
Al riguardo, si deve ricordare
l’orientamento della giurisprudenza di questa Corte, secondo cui la violazione
del principio di uguaglianza sussiste qualora situazioni sostanzialmente
identiche siano disciplinate in modo ingiustificatamente diverso e non quando
alla diversità di disciplina corrispondano situazioni non assimilabili (ex plurimis: sentenza n. 108
del 2006, n.
340 e n. 136
del 2004). Le fattispecie poste a confronto, come affermato dallo stesso
giudice rimettente, sono diverse, né possono essere rese omogenee dalla
previsione di un identico termine di decadenza, il quale ha come precipua
finalità l’accelerazione dei tempi del processo.
Sul punto questa Corte si è già
pronunciata, osservando: «Quanto alle ulteriori disparità di trattamento […],
esse risentono dell’obiettiva eterogeneità delle situazioni. Ed infatti, il
contratto di lavoro subordinato con una clausola viziata (quella, appunto,
appositiva del termine) non può essere assimilato ad altre figure illecite come
quella, obiettivamente più grave, dell’utilizzazione fraudolenta della
collaborazione continuativa e coordinata. Difforme è, altresì, la situazione
cui dà luogo la cessione illegittima del rapporto di lavoro, laddove, nelle
more del giudizio volto ad accertarla, il rapporto corre con il cessionario e
la garanzia retributiva rimane assicurata. Altro ancora, infine, è la
somministrazione irregolare di manodopera, quando un imprenditore fornisce
personale ad un altro al di fuori delle ipotesi consentite dalla legge» (sentenza n. 303 del
2011, punto 3.3.3 del Considerato in diritto).
Conclusivamente, le differenti
conseguenze, censurate dal rimettente e derivanti dalla applicazione della
norma censurata con riferimento alla posizione dei lavoratori e dei datori di
lavoro, secondo le previsioni dell’art. 32 della legge n. 183 del 2010, non
integrano il denunciato contrasto con l’art. 3 Cost.
Pertanto, la questione di legittimità
costituzionale, sollevata dalle ordinanze di rimessione indicate in epigrafe,
deve essere dichiarata non fondata.
per
questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara non fondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 32, comma 4, lettera b), della legge 4 novembre 2010, n.
183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di
enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi
per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione
femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di
lavoro pubblico e di controversie di lavoro), sollevata, in riferimento
all’art. 3 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Roma, in funzione di
giudice del lavoro, con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della
Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 maggio 2014.
F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Alessandro CRISCUOLO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 4 giugno
2014.