SENTENZA N.
115
ANNO 2011
Commenti alla
decisione di
I. Matteo Carrer , Le
ordinanze dei sindaci e la scorciatoia della Corte, per gentile concessione
del Forum di Quaderni
Costituzionali
II. Stefania Parisi, Dimenticare
l'obiezione di Zagrebelsky? brevi note su legalità sostanziale e riserva
relativa nella sent. n. 115/2011, per gentile concessione del Forum
di Quaderni Costituzionali
III. Pasquale Cerbo,
Principio di legalità e «nuove ed inedite» fattispecie di illecito create dai
Sindaci, per gentile concessione
del Forum di Quaderni
Costituzionali
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME DEL
POPOLO ITALIANO
composta dai signori:
- Ugo DE
SIERVO Presidente
- Paolo MADDALENA Giudice
- Alfio FINOCCHIARO ”
- Alfonso QUARANTA ”
- Franco GALLO ”
- Luigi MAZZELLA ”
- Gaetano SILVESTRI ”
- Sabino CASSESE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art.
54, comma 4, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, come sostituito
dall’art. 6 del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia
di sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1,
della legge 24 luglio 2008, n. 125, promosso dal Tribunale amministrativo
regionale per il Veneto, nel procedimento vertente tra l’associazione «Razzismo
Stop» onlus e il Comune di Selvazzano
Dentro ed altri, con ordinanza del 22 marzo 2010, iscritta al n. 191 del
registro ordinanze 2010, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 26, prima serie speciale, dell’anno 2010.
Visti l’atto di costituzione della associazione «Razzismo
Stop» onlus, nonché l’atto di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 22 marzo 2011 il Giudice
relatore Gaetano Silvestri;
uditi gli avvocati Francesco Caffarelli per
l’associazione «Razzismo Stop» onlus
e l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei
ministri.
Ritenuto in
fatto
1. – Il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, con ordinanza
del 22 marzo
In particolare, la norma indicata sarebbe illegittima «nella parte in cui ha
inserito la congiunzione "anche” prima delle parole "contingibili e urgenti”».
Nel giudizio principale è censurato un provvedimento sindacale con il
quale si è fatto divieto di «accattonaggio» in vaste zone del territorio
comunale, prevedendo, per i trasgressori, una sanzione amministrativa
pecuniaria, con possibilità di pagamento in misura ridotta solo per le prime
due violazioni accertate. Oggetto del divieto, in particolare, è la richiesta
di denaro in luoghi pubblici, effettuata «anche» in forma petulante e molesta,
di talché il provvedimento sindacale si estende, secondo il rimettente, alle
forme di mendicità non «invasiva o molesta».
1.1. – Il giudizio a quo è stato
introdotto dal ricorso di una associazione onlus
denominata «Razzismo Stop», che ha dedotto molteplici vizi del provvedimento
impugnato. Tale provvedimento sarebbe stato deliberato, anzitutto, in
violazione del principio di proporzionalità, nonché dell’art. 54, comma 4, del
d.lgs. n. 267 del 2000 e dell’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove
norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai
documenti amministrativi). In particolare, non risulterebbe allegato e
documentato alcun grave pericolo per l’incolumità pubblica e la sicurezza
urbana, e non sussisterebbero quindi, nel caso concreto, le necessarie
condizioni di contingibilità e urgenza. L’atto impugnato sarebbe illegittimo
anche in forza della sua efficacia a tempo indeterminato, incompatibile,
appunto, con i limiti propri delle ordinanze contingibili e urgenti.
Farebbero inoltre difetto, nella specie, i requisiti di proporzionalità e
coerenza, posto che almeno il divieto di mendicità «non invasiva»
contrasterebbe con le «statuizioni» della sentenza della Corte
costituzionale n. 519 del 1995 (dichiarativa della parziale illegittimità
dell’art. 670 del codice penale) e con le indicazioni recate dal decreto
ministeriale 5 agosto 2008 (deliberato dal Ministro dell’interno a norma del
comma 4-bis dell’art. 54 del d.lgs.
n. 267 del 2000), che si riferiscono solo a forme di mendicità moleste, o
attuate mediante lo sfruttamento di minori o disabili.
La previsione della confisca del denaro versato in violazione del divieto,
a titolo di sanzione accessoria, avrebbe derogato alle norme del codice civile
in materia di donazione ed ai criteri di proporzionalità e pari trattamento.
Inoltre sarebbe illegittima, sempre secondo l’associazione ricorrente, la
deroga alle disposizioni ordinarie in materia di ammissione al pagamento in
misura ridotta per le infrazioni amministrative (art. 18 della legge 24
novembre 1981, n. 689, recante «Modifiche al sistema penale»).
1.2. – Il Comune interessato, secondo quanto riferito dal Tribunale
rimettente, si è costituito nel giudizio amministrativo, chiedendo fosse
dichiarata l’inammissibilità del ricorso. L’eccezione è stata respinta dal
giudice adito con provvedimento del 4 marzo 2010, mentre è stata accolta la
domanda, proposta dalla ricorrente, per una sospensione cautelare degli effetti
del provvedimento impugnato.
1.3. – Il giudice a quo osserva
preliminarmente, in punto di rilevanza della questione, che sussiste la
legittimazione al ricorso dell’associazione «Razzismo Stop», la quale risulta
da lungo tempo impegnata, anche nello specifico ambito territoriale, in azioni
mirate allo sviluppo dei diritti umani e civili, della solidarietà nei
confronti degli indigenti e della integrazione in favore degli stranieri. La
stessa associazione, inoltre, è iscritta all’elenco ed al registro previsti
rispettivamente dagli artt. 5 e 6 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215
(Attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le
persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica).
Il rimettente evidenzia, in particolare, che le associazioni iscritte in
un apposito elenco (approvato con decreto del Ministro del lavoro e delle
politiche sociali e del Ministro per le pari opportunità) sono legittimate ad
agire, anche in assenza di specifiche deleghe, nei casi di discriminazione
collettiva, qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le
persone offese dal comportamento discriminatorio. La ricorrente è poi iscritta
nel registro, istituito presso
La pertinenza del provvedimento impugnato al tema della discriminazione su
base razziale, nella prospettazione del rimettente, deriva dal chiaro rapporto
tra «accattonaggio», povertà ed esclusione sociale, e dal rischio elevato che
in tali condizioni si trovino persone nomadi o migranti, appartenenti a gruppi
etnici minoritari. D’altro canto – prosegue il Tribunale – la legge sanziona
anche la discriminazione esercitata in forma indiretta, e cioè i casi nei quali
«una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un
comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone di una
determinata razza od origine etnica in una posizione di particolare svantaggio
rispetto ad altre persone» (art. 2, comma 1, lettera b, del d.lgs. n. 215 del 2003). Esattamente quel che accadrebbe
nella specie, ove un divieto, pure formalmente riferibile alla generalità dei
dimoranti nel territorio comunale interessato, avrebbe assunto specifico e
particolare rilievo per gli appartenenti a minoranze etniche ed a gruppi di
migranti.
Ciò premesso, il rimettente valuta che sussistano l’interesse e la
legittimazione ad agire della onlus
«Razzismo Stop», posta l’integrazione, nel caso concreto, dei criteri elaborati
dalla stessa giurisprudenza amministrativa (posizione dell’ente quale stabile
punto di riferimento del gruppo portatore dell’interesse pregiudicato,
corrispondenza della tutela di detto interesse alle finalità annoverate nello
statuto della formazione, collegamento specifico e non occasionale con l’ambito
territoriale interessato dalla lesione denunciata).
La natura fondamentale del diritto eventualmente violato, e la previsione
ad opera della legge di una specifica azione civile contro gli atti
discriminatori (art. 44 del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, recante «Testo unico
delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla
condizione dello straniero»), non varrebbero ad escludere, sotto un diverso
profilo, l’ammissibilità del ricorso al giudice amministrativo. Questi può
infatti conoscere vizi dell’atto che risultino pertinenti alla lesione di
diritti fondamentali della persona (è citata, tra l’altro, la sentenza della
Corte costituzionale n. 140 del 2007). Al tempo stesso, la disponibilità di
un mezzo specifico di tutela contro i fatti di discriminazione non potrebbe
inibire il ricorso agli ordinari strumenti di garanzia nei confronti della
pubblica amministrazione.
1.4. – Il Tribunale amministrativo del Veneto osserva, sempre in punto di
rilevanza della questione, come le censure della ricorrente siano
prevalentemente costruite sulla carenza delle condizioni di contingibilità ed
urgenza per l’adozione del provvedimento impugnato. Il Comune resistente, dal
canto proprio, ha rivendicato la legittimazione del sindaco ad emettere
ordinanze ad efficacia non limitata nel tempo, evidenziando il contenuto
innovativo della disposizione applicata, che consente ormai l’adozione di
ordinanze «anche» contingibili e urgenti, e dunque non solo di provvedimenti
destinati a regolare situazioni transitorie od eccezionali.
Il giudice a quo ritiene che, in
ragione dell’attuale sua formulazione, la norma censurata conferisca
effettivamente al sindaco, in assenza di elementi utili a delimitarne la
discrezionalità, un potere normativo vasto e indeterminato, idoneo ad
esplicarsi in deroga alle norme di legge ed all’assetto vigente delle
competenze amministrative, semplicemente in forza del dichiarato orientamento a
fini di protezione della sicurezza urbana. Proprio tale potere sarebbe stato
esercitato nella specie, fuori da concrete condizioni di contingibilità e
urgenza, cosicché l’accoglimento della questione sollevata esplicherebbe sicuri
effetti sulla decisione del ricorso.
1.5. – A parere del rimettente la portata della norma oggetto di censura
non sarebbe suscettibile di un’interpretazione restrittiva, che valga a
recuperarne la compatibilità con i parametri costituzionali evocati.
Sarebbe inequivoco, in particolare, il significato letterale e logico che
alla norma deriva dall’inserimento della congiunzione «anche», tale appunto da
estendere la competenza sindacale a provvedimenti non contingibili e urgenti.
Detto inserimento non potrebbe d’altra parte definirsi casuale o «involontario»,
dato che deriva dall’approvazione di uno specifico emendamento del Governo nel
corso dei lavori parlamentari per la conversione del decreto-legge n. 92 del
2008.
La possibilità per il sindaco di adottare provvedimenti efficaci a tempo
indeterminato sull’intero territorio comunale conferirebbe alle «nuove»
ordinanze una marcata valenza normativa, indipendentemente dalla formale
persistenza dell’obbligo di motivazione, che la legge del resto esclude per gli
atti normativi e quelli a contenuto generale (è citato il comma 2 dell’art. 3
della legge n. 241 del 1990).
Non potrebbe d’altro canto condividersi l’orientamento restrittivo che,
muovendo dalla perdurante necessità di osservanza dei principi generali
dell’ordinamento, include tra detti principi quello della tipicità e della
conformità alla legge degli atti amministrativi, della riserva di legge e della
competenza. La soluzione, nella sua attitudine ad escludere ogni iniziativa extra ordinem del sindaco, «anche» per i
casi di contingibilità e urgenza, finirebbe col sopprimere una risorsa
tradizionale e indispensabile allo scopo di fronteggiare gravi pericoli che
incombano sulla sicurezza dei cittadini e non siano governabili mediante gli
strumenti ordinari.
Il rimettente ricorda come la stessa Corte, pronunciando sulla norma
concernente i poteri di ordinanza del prefetto (art. 2 del regio decreto 18
giugno 1931, n. 773, recante «Approvazione del testo unico delle leggi di
pubblica sicurezza»), abbia dapprima optato per una sentenza interpretativa di
rigetto, in base all’assunto che detta norma non conferisse il potere di
emanare provvedimenti ad efficacia illimitata nel tempo (sentenza n. 8 del
1956). Qualche anno dopo, tuttavia,
Il Tribunale assume che un fenomeno analogo segnerebbe le «nuove»
ordinanze sindacali, posto che numerosi provvedimenti sono stati deliberati, in
applicazione del comma 4 dell’art. 54, con il più vario oggetto, spesso
imponendo divieti od obblighi di tenere comportamenti significativi sul piano
religioso o su quello delle tradizioni etniche. Una «interpretazione
adeguatrice» risulterebbe quindi «impraticabile», a fronte di una realtà che
vede esercitare in modo incontrollato poteri di normazione, secondo le opzioni
politiche individuali dei sindaci, su materie inerenti ai diritti ed alle
libertà fondamentali.
1.6. – Nel merito, secondo il rimettente, la disposizione oggetto di
censura, interpretata come impone la presenza della congiunzione «anche» prima
delle parole «contingibili e urgenti», contrasterebbe con i principi
costituzionali di legalità, tipicità e delimitazione della discrezionalità,
enucleabili dagli artt. 23, 97, 70, 76, 77 e 117 Cost. (sono citate, quali
decisioni della Corte costituzionale che avrebbero «chiaramente sancito» il
rilievo costituzionale dei principi richiamati, le sentenze n. 8 del
1956, n. 26
del 1961, n.
4 del 1977 e n.
201 del 1987).
Contingibilità e urgenza, infatti, dovrebbero rappresentare «presupposto,
condizione e limite» per una disciplina che consenta il superamento, sia pure
nell’ambito dei principi generali dell’ordinamento, delle disposizioni vigenti
in rapporto ad una determinata materia, e che attribuisca un potere siffatto
«in capo ad un organo monocratico, in luogo di quello ordinariamente deputato».
Per tale ragione, le norme in materia di ordinanze dovrebbero assicurare
indefettibilmente il contenuto provvedimentale delle medesime, in rapporto
all’obbligo di motivazione e all’efficacia nel tempo.
Anche nel caso di provvedimenti a contenuto normativo – prosegue il
rimettente – non sarebbe consentita alcuna funzione innovativa del diritto
oggettivo, ma solo una funzione di deroga, in via eccezionale e provvisoria,
alle norme ordinarie. La disposizione censurata, invece, avrebbe disegnato una
vera e propria fonte normativa, libera nel contenuto ed equiparata alla legge,
così violando tutte le regole costituzionali che riservano alle assemblee
legislative il compito di emanare atti aventi forza e valore di legge (artt. 23
e 97, nonché artt. 70, 76, 77 e 117 Cost.).
1.7. – Il comma 4 dell’art. 54 del d.lgs. n. 267 del
L’art. 23 Cost., in particolare, stabilisce che le prestazioni personali e
patrimoniali sono imposte ai singoli in base alla legge. Tale riserva è solo
relativa, ma la giurisprudenza costituzionale avrebbe da tempo chiarito come
gli spazi discrezionali per la pubblica amministrazione non possano estendersi
all’oggetto della prestazione ed ai criteri per identificarla (sono citate le sentenze n. 4 del
1957 e n.
447 del 1988).
La norma censurata, invece, avrebbe attribuito un potere normativo
sganciato dai presupposti fattuali della contingibilità ed urgenza, dunque
tendenzialmente illimitato e capace di incidere sulla libertà dei singoli di
tenere ogni comportamento che non sia vietato dalla legge. Una indeterminatezza
non ridotta, nella prospettazione del rimettente, dal decreto ministeriale
adottato (il 5 agosto 2008) a norma del comma 4-bis dello stesso art. 54, dato che il provvedimento sarebbe a sua
volta generico, e privo di una chiara definizione del concetto di «sicurezza
urbana».
A conferma della situazione descritta varrebbe, ancora una volta, la
casistica dei provvedimenti assunti in applicazione della norma censurata: da
casi di sovrapposizione con norme penali (come per talune ordinanze che vietano
la vendita di alcolici a minori infrasedicenni o proibiscono la cessione di
stupefacenti) a casi nei quali vengono incise libertà fondamentali direttamente
garantite da precetti costituzionali. Assumerebbero particolare rilievo, in
tale prospettiva, l’art. 13 Cost. in materia di libertà personale, l’art. 16
Cost. sulla libertà di circolazione e soggiorno, l’art. 17 Cost. sulla libertà
di riunione, l’art. 41 Cost. in materia di iniziativa economica (è fatto a
questo proposito l’esempio di ordinanze che fissano limiti minimi di reddito,
ed obblighi di documentazione circa la fonte, per ottenere iscrizioni
anagrafiche). Anche la potestà legislativa riservata alle Regioni sarebbe
direttamente vulnerata (art. 117 Cost.).
1.8. – La possibilità, introdotta dalla norma censurata, che l’esercizio
di diritti fondamentali della persona venga diversamente regolato sulla
ristretta base territoriale dei singoli Comuni comporta, secondo il Tribunale
amministrativo del Veneto, un irragionevole frazionamento, ed un regime di
disuguaglianza incompatibile con l’art. 3 Cost. Sarebbero violati inoltre i
principi di unità ed indivisibilità della Repubblica (art. 5 Cost.), di
legalità (art. 97 Cost.), di riparto delle funzioni amministrative (art. 118
Cost.).
1.9. – A parere del rimettente la capacità «invasiva» che il comma 4 dell’art.
54 conferisce ai provvedimenti sindacali rispetto a materie riservate alle
attribuzioni consiliari (come ad esempio il regolamento di polizia urbana)
comporta un’irragionevole alterazione del riparto di competenze all’interno
della stessa organizzazione comunale. L’assunzione delle decisioni spettanti
all’assemblea, che rappresenta la generalità dei cittadini, da parte di un
organo monocratico che nella specie agisce quale ufficiale di Governo, «finisce
per contraddire» la necessità di pluralismo della quale sono espressione gli
artt. 2, 6, 8, 18, 21, 33, 39 e 49 Cost.
1.10. – Sarebbero violati infine, secondo il Tribunale, gli artt. 24 e 113
Cost., in ragione della vastità e della indeterminatezza dei poteri attribuiti
al sindaco, tali da rendere eccessivamente difficoltosa la possibilità di un
sindacato giurisdizionale effettivo delle singole fattispecie.
2. – Con atto depositato il 20 luglio 2010, è intervenuto nel giudizio il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato.
La difesa statale, dopo aver riassunto le questioni proposte dal
rimettente, chiede che le stesse siano dichiarate inammissibili o infondate.
2.1. – La norma censurata avrebbe potenziato gli strumenti a disposizione
del sindaco alla luce dell’esigenza di valorizzare il ruolo degli enti locali
anche in materia di sicurezza pubblica (è citata, in proposito, la relazione al
decreto-legge n. 92 del 2008).
Proprio dall’obbligo di motivazione, secondo l’Avvocatura generale,
dovrebbe desumersi l’erroneità dell’assunto che attribuisce la valenza di
provvedimento normativo alle nuove ordinanze. D’altro canto il dovere di
osservanza dei principi generali dell’ordinamento implicherebbe la necessaria
applicazione dei criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, inteso
quest’ultimo come elemento di coerenza interna del provvedimento sindacale e di
sua congruenza rispetto alla fattispecie da regolare.
Una ulteriore definizione dell’ambito applicativo della norma censurata è
poi intervenuta, secondo la difesa statale, ad opera del d.m. 5 agosto 2008,
cui la giurisprudenza amministrativa avrebbe già riconosciuto tale efficacia e
la capacità di contemperare esigenze locali e carattere unitario
dell’ordinamento. Il decreto in particolare, con le previsioni contenute nelle
lettere da a) ad e) dell’art. 2, avrebbe delimitato specifiche aree di intervento,
tutte riconducibili all’attività di prevenzione e repressione dei reati, di
competenza esclusiva dello Stato (è citata la sentenza della
Corte costituzionale n. 196 del 2009). Lo stesso decreto, inoltre,
prescriverebbe che l’azione amministrativa «si eserciti nel rispetto delle
leggi vigenti», ponendo quindi un ulteriore e più stringente limite, tale da
escludere la funzione normativa delle ordinanze, e da configurare le medesime
quali strumenti per concrete prescrizioni a tutela della vita associata.
L’indeterminatezza dei poteri attribuiti al sindaco sarebbe esclusa anche
in forza della necessaria interlocuzione preventiva con il prefetto, che
varrebbe ad assicurare l’efficace coordinamento tra competenze locali e
competenze statali, ulteriormente favorito dalle possibilità di intervento
sostitutivo e di convocazione della conferenza prevista dal comma 5 dello
stesso art. 54.
Tale ultima norma, in definitiva, avrebbe semplicemente perfezionato
l’inserimento dell’ente locale nel sistema nazionale della sicurezza pubblica,
senza alcuna violazione dei principi di legalità, tipicità e delimitazione
della discrezionalità.
3. – Con atto depositato il 15 giugno 2010, si è costituita nel giudizio
l’associazione onlus «Razzismo Stop»,
in persona del Presidente in carica, costituito allo scopo procuratore speciale
dall’assemblea dei soci.
Secondo la parte privata, la norma censurata dovrebbe essere dichiarata
costituzionalmente illegittima.
3.1. – Il comma 4 dell’art. 54 del d.lgs. n. 267 del
La giurisprudenza costituzionale avrebbe già chiarito – si osserva – che
solo situazioni straordinarie e temporanee possono legittimare l’assunzione di
poteri extra ordinem da parte delle
autorità amministrative. La norma censurata consentirebbe invece veri e propri
atti di normazione a carattere generale, come documentato dallo stesso caso di
specie (ove è stato introdotto a tempo indeterminato, mediante ordinanza
sindacale, un divieto di donazione). La legge non delimiterebbe, in
particolare, né l’oggetto né i margini discrezionali della potestà conferita al
sindaco, una volta reciso il legame con i presupposti fattuali della
contingibilità ed urgenza, ed una volta stabilito quale unico limite
contenutistico la necessaria osservanza dei principi generali dell’ordinamento
(senza che possano valere, in senso contrario, le generiche indicazioni
provenienti dal decreto ministeriale del 5 agosto 2008).
In questo contesto, oltre che i parametri espressivi del principio di
legalità (l’art. 23 e l’art. 97 Cost.), la parte costituita evoca il principio
di legalità sostanziale, argomentando come la riconosciuta possibilità di
introdurre precetti assistiti da una sanzione possa condurre ad arbitrarie
limitazioni delle libertà individuali (art. 3 Cost.).
3.2. – Al sindaco sarebbe stata riconosciuta addirittura, secondo
l’associazione «Razzismo Stop», la possibilità di sovrapporre proprie
arbitrarie prescrizioni alle norme penali e, comunque, alle regole di garanzia
dei diritti individuali. La norma censurata determinerebbe quindi una
violazione di competenze esclusive dello Stato, in contrasto con gli artt. 13,
16, 17 e 41 Cost., nonché (quanto alle competenze legislative regionali) con
l’art. 117 Cost. Non sono legittimi – si osserva – provvedimenti non
legislativi che conculchino libertà individuali, fino a disciplinare «a livello
condominiale» una variabile conformazione di obblighi e divieti.
Lo stesso inevitabile frazionamento delle fonti, con regole di
comportamento diverse su ristretta base territoriale, in violazione del
principio di pari garanzia delle libertà fondamentali, implicherebbe la pratica
impossibilità per i consociati di conoscere e rispettare le regole vigenti in
tutte le porzioni di territorio da loro attraversate. Di qui l’asserita
violazione del principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.), di «uguaglianza di
cui all’art. 2» Cost., di unità ed indivisibilità della Repubblica (art. 5
Cost.), di legalità (art. 97 Cost.), di riparto delle funzioni amministrative
(art. 118 Cost.).
3.3. – L’associazione costituita in giudizio riprende anche le
osservazioni del rimettente circa l’attrazione alla competenza sindacale di
scelte e provvedimenti che, per la loro natura normativa, dovrebbero essere
rimessi alla dialettica ed al pluralismo tipici dell’assemblea comunale
elettiva. Un’attrazione che, oltretutto, il sindaco esercita in quanto
ufficiale del Governo, sganciandosi finanche dal «mandato» che gli deriva in
esito alle elezioni municipali. Viene prospettata, di conseguenza, una
violazione degli artt. 2, 6, 8, 18, 21, 33, 39 e 49 Cost.
3.4. – Da ultimo, la parte privata prospetta una concomitante violazione
degli artt. 24 e 113 Cost., posto che vastità ed indeterminatezza dei poteri
conferiti al sindaco sarebbero tali da rendere eccessivamente difficoltoso
l’esercizio di un sindacato giurisdizionale effettivo delle singole
fattispecie.
4. – In data 22 febbraio 2011, la stessa associazione «Razzismo Stop» ha
depositato una memoria, insistendo affinché sia dichiarata l’illegittimità
costituzionale dell’art. 54, comma 4, del d.lgs. n. 267 del
La memoria ribadisce gli argomenti già proposti con l’atto di
costituzione. Si aggiunge che l’art. 54 del d.lgs. n. 267 del 2000 sarebbe
illegittimo anche nella parte in cui attribuisce al Ministro dell’interno il
potere di regolamentare l’ambito applicativo dei nuovi poteri sindacali, e
dunque una funzione normativa non conforme all’ordinamento costituzionale. Tra
l’altro, il decreto ministeriale 5 agosto 2008 avrebbe introdotto anche
disposizioni innovative rispetto alla stessa previsione censurata, così
palesando ulteriori profili di illegittimità.
La correttezza delle ordinanze extra
ordinem legittimate dalla novella del 2008 non sarebbe assicurata, secondo
la parte privata, né dalla troppo generica prescrizione del rispetto dei
principi generali dell’ordinamento, né dalla necessaria interlocuzione del
sindaco con il prefetto. Tale interlocuzione non integra un rapporto di
subordinazione gerarchica tra il primo ed il secondo, né una immedesimazione
organica tra il sindaco e l’Amministrazione dell’interno. Tanto che – si
osserva – la giurisprudenza riferisce al Comune, e non allo Stato, la
responsabilità risarcitoria per danni derivati da ordinanze contingibili e
urgenti (è citata la sentenza del Consiglio di Stato n. 4529 del 2010).
5. – In data 1° marzo 2011 il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha depositato
memoria, al fine di ribadire la richiesta d’una pronuncia di inammissibilità e,
comunque, di infondatezza delle questioni sollevate.
La difesa statale assume, nell’occasione, che la norma censurata, pur
nella versione scaturita dal recente intervento di riforma, avrebbe conservato
sostanzialmente l’impianto originario. In particolare, aumentando poteri già
tipicamente riconosciuti al sindaco quale ufficiale di Governo, la norma
avrebbe implementato gli strumenti di raccordo tra l’azione sindacale e
l’attività del prefetto, cui la legge attribuisce funzione di interlocuzione
preventiva, di sostituzione e di stimolo. Sarebbe dunque smentito l’assunto del
rimettente circa l’ampiezza e l’indeterminatezza dei provvedimenti oggi
consentiti al sindaco.
La norma censurata – si ammette – configura una nuova classe di
provvedimenti «ordinari», non condizionati dalla contingibilità e dall’urgenza.
Tali provvedimenti, tuttavia, sarebbero vincolati nel fine, dovrebbero
rispettare i «principi fondamentali» (espressi, secondo la memoria, dalle norme
costituzionali, sovranazionali e comunitarie), principi tra i quali sono
comprese la proporzionalità e la ragionevolezza, e infine richiederebbero
adeguata motivazione (dal che risulterebbe smentita la loro natura normativa).
La discrezionalità riconosciuta al sindaco sarebbe ulteriormente limitata, sempre
a parere del Presidente del Consiglio dei ministri, dalle definizioni e dalle
prescrizioni contenute nel decreto del Ministro dell’interno in data 5 agosto
2008.
La pertinenza della fonte alla materia della sicurezza pubblica, ribadita
dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 226 del
2010, varrebbe a documentare che i provvedimenti sindacali non servono «a
introdurre nuove discipline tendenzialmente generali, ma contengono le misure
concrete» volte ad assicurare «il risultato dell’effettivo rispetto delle norme
poste da altre fonti a tutela della vita associata». Non solo, quindi, sarebbe
confermata la compatibilità tra la norma censurata e la previsione
costituzionale di cui all’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., ma andrebbe «superato ogni dubbio di indeterminatezza»
della norma medesima.
Infine, e comunque, la piena sindacabilità delle ordinanze in sede
giurisdizionale, confermata dalla giurisprudenza già pronunciatasi in materia,
renderebbe inammissibili le questioni sollevate dal Tribunale amministrativo
veneto.
Considerato
in diritto
1. – Il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, con ordinanza
del 22 marzo
In particolare, la norma indicata sarebbe illegittima «nella parte in cui
ha inserito la congiunzione "anche” prima delle parole "contingibili e
urgenti”».
1.1. – La disposizione censurata violerebbe anzitutto, ed in particolare,
gli artt. 23, 70, 76, 77, 97 e 117 Cost., ove sono espressi i principi
costituzionali di legalità, tipicità e delimitazione della discrezionalità. In
base ai principi citati, una disciplina che consenta l’adozione di disposizioni
derogatorie alle norme vigenti in rapporto ad una determinata materia, e che
attribuisca un potere siffatto «in capo ad un organo monocratico, in luogo di
quello ordinariamente deputato», sarebbe legittima solo in quanto configuri una
situazione di contingibilità ed urgenza quale «presupposto, condizione e
limite» per l’esercizio del potere in questione.
Gli stessi parametri costituzionali sarebbero violati anche perché la
disposizione censurata, secondo il rimettente, istituisce una vera e propria
fonte normativa, libera nel contenuto ed equiparata alla legge (in quanto
idonea a derogare alla legge medesima), in contrasto con le regole
costituzionali che riservano alle assemblee legislative il compito di emanare
atti aventi forza e valore di legge.
Il Tribunale propone poi un’ulteriore questione con riferimento agli artt.
3, 23 e 97 Cost., che pongono la riserva di legge ed il principio di legalità
sostanziale in materia di sanzioni amministrative. Infatti la norma censurata,
rimuovendo i presupposti fattuali della contingibilità ed urgenza, avrebbe
conferito al sindaco un potere discrezionale e tendenzialmente illimitato di
conculcare la libertà dei singoli di tenere ogni comportamento che non sia
vietato dalla legge.
Ancora, il comma 4 dell’art. 54 del d.lgs. n. 267 del 2000 violerebbe gli
artt. 13, 16, 17 e 41 Cost., ciascuno dei quali espressivo di una riserva di
legge a tutela di diritti e libertà fondamentali della persona (in particolare,
la libertà personale, la libertà di soggiorno e circolazione, la libertà di
riunione, la libertà in materia di iniziativa economica), che la disposizione
censurata renderebbe suscettibili di compressione per effetto di provvedimenti
non aventi rango di legge.
Una censura ulteriore è proposta dal rimettente in relazione all’art. 117
Cost., perché il potere di normazione conferito dalla disposizione censurata
consentirebbe l’invasione degli ambiti di competenza legislativa regionale.
Ancora, la norma in oggetto sarebbe illegittima in ragione del suo
contrasto con gli artt. 2 e 3 Cost., poiché implica che la disciplina di
identici comportamenti – anche quando espressivi dell’esercizio di diritti
fondamentali, e dunque necessariamente garantiti in modo uniforme sull’intero
territorio nazionale – venga irragionevolmente differenziata in rapporto ad
ambiti territoriali frazionati (fino al limite rappresentato dal territorio
ripartito di tutti i Comuni italiani). L’indicato frazionamento, d’altra parte,
comporrebbe una lesione dei principi di unità ed indivisibilità della
Repubblica (art. 5 Cost.), di legalità (art. 97 Cost.), di riparto delle
funzioni amministrative (art. 118 Cost.).
Il Tribunale rimettente prospetta poi un’ulteriore violazione,
relativamente agli artt. 2, 6, 8, 18, 21, 33, 39 e 49 Cost., che pongono il
principio costituzionale del pluralismo, anche sotto il profilo culturale,
politico, religioso e scientifico: la norma censurata, infatti, conferirebbe
una potestà normativa, tendenzialmente libera se non nell’orientamento
finalistico, ad un organo monocratico che nella specie opera quale ufficiale di
Governo, derogando alle competenze ordinarie dell’assemblea comunale elettiva,
in materia tra l’altro di regolamento della polizia urbana.
Infine, con il comma 4 del d.lgs. n. 267 del 2000, si sarebbe determinata
una violazione degli artt. 24 e 113 Cost., in ragione della vastità ed
indeterminatezza dei poteri attribuiti al sindaco e della conseguente ampia
discrezionalità esercitabile dal sindaco medesimo, tale da rendere
eccessivamente difficoltosa la possibilità di un effettivo sindacato
giurisdizionale delle singole fattispecie.
2. – Preliminarmente, deve essere disattesa l’eccezione di inammissibilità
sollevata dalla difesa dello Stato, sulla scorta del rilievo che le ordinanze
oggetto del presente giudizio sarebbero pienamente sindacabili in sede
giurisdizionale, e che i vizi di legittimità costituzionale denunciati dal
rimettente costituirebbero in realtà vizi dell’atto amministrativo, i quali ben
potrebbero determinare, se accertati, l’annullamento o la disapplicazione delle
ordinanze stesse nelle sedi giudiziarie competenti.
Il giudice a quo ha adottato un
significato della disposizione censurata, in base al quale non sarebbe
rinvenibile, all’interno della stessa, una configurazione di limiti specifici,
che possano consentire al giudice adito di valutare in concreto la legittimità
degli atti impugnati.
Il rimettente è pervenuto a tale conclusione dopo aver esplicitamente
scartato possibili interpretazioni conformi a Costituzione, che pure sono state
proposte da una parte della dottrina. L’atto amministrativo impugnato si
presentava quindi, a parere del giudice rimettente, non in contrasto con l’art.
54, comma 4, del d.lgs. n. 267 del 2000 (nel nuovo testo introdotto nel 2008) e
pertanto il ricorso contro lo stesso avrebbe dovuto essere rigettato. Tuttavia
lo stesso giudice, dubitando della legittimità costituzionale della norma
legislativa che è posta a fondamento dell’atto, e denunciando una serie di
presunti vizi riscontrati, ha sollevato la questione oggetto del presente giudizio.
In definitiva, la rilevanza della questione nel processo principale è
motivata in modo plausibile.
3. – Nel merito, la questione è fondata.
3.1. – Occorre innanzitutto procedere ad una analisi dell’enunciato
normativo contenuto nella disposizione censurata.
Si deve notare, al riguardo, che nell’art. 54, comma 4, del d.lgs. n. 267
del 2000 è scritto: «Il sindaco, quale ufficiale del Governo, adotta con atto
motivato provvedimenti, anche contingibili e urgenti nel rispetto dei principi
generali dell’ordinamento, al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli
che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana».
Si può osservare agevolmente che la frase «anche contingibili e urgenti
nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento» è posta tra due virgole.
Si deve trarre da ciò la conclusione che il riferimento al rispetto dei soli
principi generali dell’ordinamento riguarda i provvedimenti contingibili e
urgenti e non anche le ordinanze sindacali di ordinaria amministrazione.
L’estensione anche a tali atti del regime giuridico proprio degli atti
contingibili e urgenti avrebbe richiesto una disposizione così formulata:
«adotta con atto motivato provvedimenti, anche contingibili e urgenti, nel
rispetto dei principi generali dell’ordinamento […]».
La dizione letterale della norma implica che non è consentito alle
ordinanze sindacali "ordinarie” – pur rivolte al fine di fronteggiare «gravi
pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana» – di
derogare a norme legislative vigenti, come invece è possibile nel caso di
provvedimenti che si fondino sul presupposto dell’urgenza e a condizione della
temporaneità dei loro effetti. Questa Corte ha infatti precisato, con
giurisprudenza costante e consolidata, che deroghe alla normativa primaria, da
parte delle autorità amministrative munite di potere di ordinanza, sono
consentite solo se «temporalmente delimitate» (ex plurimis, sentenze n. 127 del
1995, n. 418
del 1992, n.
32 del 1991, n.
617 del 1987, n.
8 del 1956) e, comunque, nei limiti della «concreta situazione di fatto che
si tratta di fronteggiare» (sentenza n. 4 del
1977).
Le ordinanze oggetto del presente scrutinio di legittimità costituzionale
non sono assimilabili a quelle contingibili e urgenti, già valutate nelle
pronunce appena richiamate. Esse consentono ai sindaci «di adottare
provvedimenti di ordinaria amministrazione a tutela di esigenze di incolumità
pubblica e sicurezza urbana» (sentenza n. 196 del
2009).
Sulla scorta del rilievo sopra illustrato, che cioè la norma censurata, se
correttamente interpretata, non conferisce ai sindaci alcun potere di emanare
ordinanze di ordinaria amministrazione in deroga a norme legislative o
regolamentari vigenti, si deve concludere che non sussistono i vizi di
legittimità che sono stati denunciati sulla base del contrario presupposto
interpretativo.
4. – Le considerazioni che precedono non esauriscono tuttavia l’intera
problematica della conformità a Costituzione della norma censurata.
Quest’ultima attribuisce ai sindaci il potere di emanare ordinanze di ordinaria
amministrazione, le quali, pur non potendo derogare a norme legislative o
regolamentari vigenti, si presentano come esercizio di una discrezionalità
praticamente senza alcun limite, se non quello finalistico, genericamente
identificato dal legislatore nell’esigenza «di prevenire e di eliminare gravi
pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana».
Questa Corte ha affermato, in più occasioni, l’imprescindibile necessità
che in ogni conferimento di poteri amministrativi venga osservato il principio
di legalità sostanziale, posto a base dello Stato di diritto. Tale principio
non consente «l’assoluta indeterminatezza» del potere conferito dalla legge ad
una autorità amministrativa, che produce l’effetto di attribuire, in pratica,
una «totale libertà» al soggetto od organo investito della funzione (sentenza n. 307 del
2003; in senso conforme, ex plurimis,
sentenze n. 32
del 2009 e n.
150 del 1982). Non è sufficiente che il potere sia finalizzato dalla legge
alla tutela di un bene o di un valore, ma è indispensabile che il suo esercizio
sia determinato nel contenuto e nelle modalità, in modo da mantenere
costantemente una, pur elastica, copertura legislativa dell’azione
amministrativa.
5. – Le ordinanze sindacali oggetto del presente giudizio incidono, per la
natura delle loro finalità (incolumità pubblica e sicurezza urbana) e per i
loro destinatari (le persone presenti in un dato territorio), sulla sfera
generale di libertà dei singoli e delle comunità amministrate, ponendo
prescrizioni di comportamento, divieti, obblighi di fare e di non fare, che,
pur indirizzati alla tutela di beni pubblici importanti, impongono comunque, in
maggiore o minore misura, restrizioni ai soggetti considerati.
La riserva di legge appena richiamata ha indubbiamente carattere relativo,
nel senso che lascia all’autorità amministrativa consistenti margini di
regolazione delle fattispecie in tutti gli ambiti non coperti dalle riserve di
legge assolute, poste a presidio dei diritti di libertà, contenute negli artt.
13 e seguenti della Costituzione. Il carattere relativo della riserva de qua non relega tuttavia la legge sullo sfondo, né può costituire
giustificazione sufficiente per un rapporto con gli atti amministrativi
concreti ridotto al mero richiamo formale ad un prescrizione normativa "in
bianco”, genericamente orientata ad un principio-valore, senza una
precisazione, anche non dettagliata, dei contenuti e modi dell’azione
amministrativa limitativa della sfera generale di libertà dei cittadini.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, costante sin dalle sue prime
pronunce, l’espressione «in base alla legge», contenuta nell’art. 23 Cost., si
deve interpretare «in relazione col fine della protezione della libertà e della
proprietà individuale, a cui si ispira tale fondamentale principio
costituzionale»; questo principio «implica che la legge che attribuisce ad un
ente il potere di imporre una prestazione non lasci all’arbitrio dell’ente
impositore la determinazione della prestazione» (sentenza n. 4 del
1957). Lo stesso orientamento è stato ribadito in tempi recenti, quando
È necessario ancora precisare che la formula utilizzata dall’art. 23 Cost.
«unifica nella previsione i due tipi di prestazioni "imposte”» e «conserva a
ciascuna di esse la sua autonomia», estendendosi naturalmente agli «obblighi
coattivi di fare» (sentenza n. 290 del
1987). Si deve aggiungere che l’imposizione coattiva di obblighi di non
fare rientra ugualmente nel concetto di "prestazione”, in quanto, imponendo
l’omissione di un comportamento altrimenti riconducibile alla sfera del
legalmente lecito, è anch’essa restrittiva della libertà dei cittadini,
suscettibile di essere incisa solo dalle determinazioni di un atto legislativo,
direttamente o indirettamente riconducibile al Parlamento, espressivo della
sovranità popolare.
6. – Nella materia in esame è intervenuto il decreto del Ministro
dell’interno 5 agosto 2008 (Incolumità pubblica e sicurezza urbana: definizione
e ambiti di applicazione). In tale atto amministrativo a carattere generale,
l’incolumità pubblica è definita, nell’art. 1, come «l’integrità fisica della
popolazione», mentre la sicurezza urbana è descritta come «un bene pubblico da
tutelare attraverso attività poste a difesa, nell’ambito delle comunità locali,
del rispetto delle norme che regolano la vita civile, per migliorare le
condizioni di vivibilità nei centri urbani, la convivenza civile e la coesione
sociale». L’art. 2 indica le situazioni e le condotte sulle quali il sindaco,
nell’esercizio del potere di ordinanza, può intervenire, «per prevenire e
contrastare» le stesse.
Il decreto ministeriale sopra citato può assolvere alla funzione di
indirizzare l’azione del sindaco, che, in quanto ufficiale del Governo, è
sottoposto ad un vincolo gerarchico nei confronti del Ministro dell’interno,
come è confermato peraltro dallo stesso art. 54, comma 4, secondo periodo, del
d.lgs. n. 267 del 2000, che impone al sindaco l’obbligo di comunicazione
preventiva al prefetto dei provvedimenti adottati «anche ai fini della
predisposizione degli strumenti ritenuti necessari alla loro attuazione». Ai
sensi dei commi 9 e 11 dello stesso articolo, il prefetto dispone anche di
poteri di vigilanza e sostitutivi nei confronti del sindaco, per verificare il
regolare svolgimento dei compiti a quest’ultimo affidati e per rimediare alla
sua eventuale inerzia.
La natura amministrativa del potere del Ministro, esercitato con il
decreto sopra citato, se assolve alla funzione di regolare i rapporti tra
autorità centrale e periferiche nella materia, non può soddisfare la riserva di
legge, in quanto si tratta di atto non idoneo a circoscrivere la
discrezionalità amministrativa nei rapporti con i cittadini. Il decreto,
infatti, si pone esso stesso come esercizio dell’indicata discrezionalità, che
viene pertanto limitata solo nei rapporti interni tra Ministro e sindaco, quale
ufficiale del Governo, senza trovare fondamento in un atto avente forza di
legge. Solo se le limitazioni e gli indirizzi contenuti nel citato decreto
ministeriale fossero stati inclusi in un atto di valore legislativo, questa
Corte avrebbe potuto valutare la loro idoneità a circoscrivere la
discrezionalità amministrativa dei sindaci. Nel caso di specie, al contrario,
le determinazioni definitorie, gli indirizzi e i campi di intervento non
potrebbero essere ritenuti limiti validi alla suddetta discrezionalità, senza
incorrere in un vizio logico di autoreferenzialità.
Si deve, in conclusione, ritenere che la norma censurata, nel prevedere un
potere di ordinanza dei sindaci, quali ufficiali del Governo, non limitato ai
casi contingibili e urgenti – pur non attribuendo agli stessi il potere di
derogare, in via ordinaria e temporalmente non definita, a norme primarie e
secondarie vigenti – viola la riserva di legge relativa, di cui all’art. 23
Cost., in quanto non prevede una qualunque delimitazione della discrezionalità
amministrativa in un ambito, quello della imposizione di comportamenti, che
rientra nella generale sfera di libertà dei consociati. Questi ultimi sono
tenuti, secondo un principio supremo dello Stato di diritto, a sottostare
soltanto agli obblighi di fare, di non fare o di dare previsti in via generale
dalla legge.
7. – Si deve rilevare altresì la violazione dell’art. 97 Cost., che
istituisce anch’esso una riserva di legge relativa, allo scopo di assicurare
l’imparzialità della pubblica amministrazione, la quale può soltanto dare
attuazione, anche con determinazioni normative ulteriori, a quanto in via
generale è previsto dalla legge. Tale limite è posto a garanzia dei cittadini,
che trovano protezione, rispetto a possibili discriminazioni, nel parametro legislativo,
la cui osservanza deve essere concretamente verificabile in sede di controllo
giurisdizionale. La stessa norma di legge che adempie alla riserva può essere a
sua volta assoggettata – a garanzia del principio di eguaglianza, che si
riflette nell’imparzialità della pubblica amministrazione – a scrutinio di
legittimità costituzionale.
La linea di continuità fin qui descritta è interrotta nel caso oggetto del
presente giudizio, poiché l’imparzialità dell’amministrazione non è garantita ab initio da una legge posta a
fondamento, formale e contenutistico, del potere sindacale di ordinanza.
L’assenza di limiti, che non siano genericamente finalistici, non consente
pertanto che l’imparzialità dell’agire amministrativo trovi, in via generale e
preventiva, fondamento effettivo, ancorché non dettagliato, nella legge.
Per le ragioni esposte, la norma censurata viola anche l’art. 97, primo
comma, della Costituzione.
8. – L’assenza di una valida base legislativa, riscontrabile nel potere
conferito ai sindaci dalla norma censurata, così come incide negativamente
sulla garanzia di imparzialità della pubblica amministrazione, a fortiori lede il principio di
eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, giacché gli stessi comportamenti
potrebbero essere ritenuti variamente leciti o illeciti, a seconda delle
numerose frazioni del territorio nazionale rappresentate dagli ambiti di
competenza dei sindaci. Non si tratta, in tali casi, di adattamenti o
modulazioni di precetti legislativi generali in vista di concrete situazioni
locali, ma di vere e proprie disparità di trattamento tra cittadini, incidenti
sulla loro sfera generale di libertà, che possono consistere in fattispecie
nuove ed inedite, liberamente configurabili dai sindaci, senza base
legislativa, come la prassi sinora realizzatasi ha ampiamente dimostrato.
Tale disparità di trattamento, se manca un punto di riferimento normativo
per valutarne la ragionevolezza, integra la violazione dell’art. 3, primo
comma, Cost., in quanto consente all’autorità amministrativa – nella specie
rappresentata dai sindaci – restrizioni diverse e variegate, frutto di
valutazioni molteplici, non riconducibili ad una matrice legislativa unitaria.
Un giudizio sul rispetto del principio generale di eguaglianza non è
possibile se le eventuali differenti discipline di comportamenti, uguali o
assimilabili, dei cittadini, contenute nelle più disparate ordinanze sindacali,
non siano valutabili alla luce di un comune parametro legislativo, che ponga le
regole ed alla cui stregua si possa verificare se le diversità di trattamento
giuridico siano giustificate dalla eterogeneità delle situazioni locali.
Per i motivi esposti, la norma censurata viola anche l’art. 3, primo
comma, della Costituzione.
9. – Si devono ritenere assorbite le altre censure di legittimità
costituzionale contenute nell’atto introduttivo del presente giudizio.
per questi motivi
dichiara l’illegittimità
costituzionale dell’art. 54, comma 4, del decreto legislativo 18 agosto 2000,
n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), come
sostituito dall’art. 6 del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti
in materia di sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1,
comma 1, della legge 24 luglio 2008, n. 125, nella parte in cui comprende la
locuzione «, anche» prima delle parole «contingibili e urgenti».
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 aprile
2011.
F.to:
Ugo DE SIERVO, Presidente
Gaetano SILVESTRI, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 7 aprile 2011.