CONSULTA ONLINE
SENTENZA N. 307
ANNO 2003
Commento alla decisione di
Quirino Camerlengo
Il
nuovo assetto costituzionale delle funzioni legislative tra equilibri
intangibili e legalità sostanziale
per gentile concessione del Forum
di Quaderni costituzionali
REPUBBLICA ITALIANA
In
nome del Popolo italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
-
Riccardo CHIEPPA, Presidente
-
Gustavo ZAGREBELSKY
-
Valerio ONIDA
-
Carlo MEZZANOTTE
-
Fernanda CONTRI
-
Guido NEPPI MODONA
-
Piero Alberto CAPOTOSTI
-
Annibale MARINI
-
Franco BILE
-
Giovanni Maria FLICK
-
Ugo DE SIERVO
-
Romano VACCARELLA
-
Paolo MADDALENA
-
Alfio FINOCCHIARO
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di
legittimità costituzionale degli articoli 3, commi 3, 4 e 6, e 7, comma 3,
della legge della Regione Marche 13 novembre 2001, n. 25 (Disciplina regionale
in materia di impianti fissi di radiocomunicazione al fine della tutela
ambientale e sanitaria della popolazione); degli articoli 1, comma 2, 2, commi
1, 2 e 3, 3, 7 e 8 della legge della Regione Campania 24 novembre 2001, n. 13
(Prevenzione dei danni derivanti dai campi elettromagnetici generati da
elettrodotti); degli articoli 3, comma 1, lettera m, 4, comma 1, e 10, commi 1 e 2, della legge della Regione Puglia
8 marzo 2002, n. 5 (Norme transitorie per la tutela dall’inquinamento
elettromagnetico prodotto da sistemi di telecomunicazioni e radiotelevisioni
operanti nell’intervallo di frequenza fra 0 Hz e 300 GHz); e degli articoli 1,
commi 1 e 2, 2, 4, comma 1, lettera b,
5, comma 1, lettera c, e comma 2, 12,
comma 1, 13 e 16 della legge della Regione Umbria 14 giugno 2002, n. 9 (Tutela
sanitaria e ambientale dall’esposizione ai campi elettrici, magnetici ed
elettromagnetici), promossi con ricorsi del Presidente del Consiglio dei
ministri notificati il 17 e il 25 gennaio, il 10 maggio e il 23 agosto 2002,
depositati in cancelleria il 26 e il 31 gennaio, il 16 maggio e il 2 settembre
2002 ed iscritti, rispettivamente, ai numeri 4, 5, 35 e 52 del registro ricorsi
2002.
Visti gli atti di costituzione
delle Regioni Marche, Campania, Puglia e Umbria nonché gli atti di intervento
della Wind Telecomunicazioni s.p.a., dell’ENEL s.p.a., dell’ENEL Distribuzione
s.p.a., della TERNA–Trasmissione Elettricità Rete Nazionale s.p.a., del Gestore
della Rete di Trasmissione Nazionale s.p.a., del Comune di Lacco Ameno e della
Vodafone Omnitel s.p.a.;
udito nell’udienza pubblica del
25 marzo 2002 il Giudice relatore Valerio Onida;
uditi gli avvocati dello Stato
Ivo M. Braguglia e Glauco Nori per il Presidente del Consiglio dei ministri,
gli avvocati Stefano Grassi per la Regione Marche, Giovanni Tarantini per la Regione Umbria,
Vincenzo Cocozza per la
Regione Campania, Sergio Panunzio per la Regione Puglia,
Beniamino Caravita di Toritto per la Wind Telecomunicazioni
s.p.a., Giuseppe de Vergottini per l’ENEL s.p.a., per l’ENEL Distribuzione
s.p.a. e per la TERNA–Trasmissione
Elettricità Rete Nazionale s.p.a., Marcello Clarich per il Gestore della Rete
di Trasmissione Nazionale s.p.a., Lorenzo Bruno Molinaro per il Comune di Lacco
Ameno, Marco Sica e Mario Libertini per la Vodafone Omnitel
s.p.a.
Ritenuto
in fatto
1. – Con ricorso dell’11 gennaio 2002, depositato in cancelleria il 26
gennaio 2002 (registro ricorsi n. 4 del 2002), il Presidente del Consiglio dei
ministri ha sollevato questione di legittimità costituzionale della legge della
Regione Marche 13 novembre 2001, n. 25 (Disciplina regionale in materia di
impianti fissi di radiocomunicazione al fine della tutela ambientale e
sanitaria della popolazione), ed "in particolare” delle seguenti disposizioni:
dell’art. 3, commi 3 e 4, in
riferimento agli articoli 117, commi secondo, lettera s, e terzo (tutela della salute e ordinamento della comunicazione),
della Costituzione, ed in relazione agli artt. 1, comma 6, lettera a, numero 2, e 2, comma 6, della legge
31 luglio 1997, n. 249 (Istituzione dell'Autorità per le garanzie nelle
comunicazioni e norme sui sistemi delle telecomunicazioni e radiotelevisivo),
all’art. 2, comma 1, del decreto legge 23 gennaio 2001, n. 5 (Disposizioni
urgenti per il differimento di termini in materia di trasmissioni
radiotelevisive analogiche e digitali, nonché per il risanamento di impianti
radiotelevisivi), convertito, con modificazioni, nella legge 20 marzo 2001, n.
66, e all’art. 2-bis, comma 2, del
decreto legge 1° maggio 1997, n. 115 (Disposizioni urgenti per il recepimento
della direttiva 96/2/CE sulle comunicazioni mobili e personali), convertito,
con modificazioni, nella legge 1° luglio 1997, n. 189; dell’art. 3, comma 6, in riferimento all’art.
117, terzo comma (tutela della salute) della Costituzione, ed in relazione
all’art. 4, comma 1, lettera a, della
legge 22 febbraio 2001, n. 36 (Legge quadro sulla protezione dalle esposizioni
a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici); e dell’art. 7, comma 3, in riferimento all’art.
117, terzo comma (ordinamento della comunicazione), della Costituzione, ed in
relazione allo stesso art. 4, comma 1, lettera a, della legge n. 36 del 2001.
Il ricorrente, dopo avere notato che dal titolo della legge regionale n.
25 del 2001 e dal suo art. 1 risulta espressamente che la disciplina dettata
dalla Regione Marche riguarda gli impianti fissi di radiocomunicazione "al fine
della tutela ambientale e sanitaria della popolazione”, osserva, in linea
generale, che lo Stato ha legislazione esclusiva nella materia della tutela
ambientale (art. 117, secondo comma, lettera s, della Costituzione, nel testo novellato dalla legge
costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), mentre costituiscono materie di legislazione
concorrente (art. 117, terzo comma) la tutela della salute e l'ordinamento
della comunicazione, con conseguente potestà legislativa esclusiva dello Stato
nella determinazione dei principi fondamentali. Ciò premesso, alcune
disposizioni della legge regionale impugnata apparirebbero invasive della
competenza legislativa statale.
In particolare, l’art. 3, comma 3, della legge regionale, che prevede che
l'installazione degli impianti fissi di radiocomunicazione di cui al precedente
art. 2 venga sottoposta "ad opportune procedure di valutazione di impatto
ambientale ...”, e il comma 4 dello stesso art. 3, che prevede che la Giunta regionale adotti le
disposizioni di attuazione, eccederebbero dalle competenze regionali, in quanto
la predisposizione dei piani di assegnazione delle frequenze e l'individuazione
dei siti per l'ubicazione degli impianti, per quanto riguarda gli impianti di
radiodiffusione, sarebbero riservate allo Stato dagli artt. 1, comma 6, lettera
a, numero 2, e 2, comma 6, della
legge 31 luglio 1997, n. 249, nonché dall'art. 2, comma 1, del decreto legge 23
gennaio 2001, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 marzo 2001,
n. 66: tutte norme statali dettate o a tutela dell'ambiente, ovvero costituenti
principi fondamentali (stante il carattere fortemente unitario della materia)
in materia di tutela della salute e di ordinamento della comunicazione.
Ancora, per ciò che riguarda gli impianti fissi di telefonia mobile,
l'art. 2-bis, comma 2, del decreto legge
1° maggio 1997, n. 115, aggiunto dalla legge di conversione 1° luglio 1997, n. 189, ha previsto che la
"installazione di infrastrutture dovrà essere sottoposta ad opportune procedure
di valutazione di impatto ambientale”, ma non ha individuato, direttamente od
indirettamente, né le competenze, né i criteri di carattere generale e le
procedure. Sicché, almeno al momento, la competenza resterebbe riservata allo
Stato, in funzione della tutela dell'ambiente, e, di conseguenza, il richiamo
al citato art. 2-bis, contenuto
nell'art. 3, comma 3, della legge regionale impugnata, non sarebbe rilevante
per attribuire la competenza alla Regione. D'altro canto, per l'installazione
delle infrastrutture in questione non sarebbero applicabili le disposizioni
statali generali sulla valutazione di impatto ambientale.
Ancora, la disposizione di cui all'art. 3, comma 6, della legge regionale
impugnata, che prevede, sia pure in via transitoria, un valore limite di campo
elettrico per la progettazione, la realizzazione e la modifica degli impianti
di cui si tratta, invaderebbe l'attribuzione riservata allo Stato dalla
disposizione di cui all'art. 4, lettera a,
della legge n. 36 del 2001, che costituisce principio fondamentale in materia
di tutela della salute "in considerazione del preminente interesse nazionale
alla definizione di criteri unitari e di normative omogenee in relazione alle
finalità indicate nell'art. 1”
della stessa legge.
Infine, l'art. 7, comma 3, della legge regionale impugnata, che demanda
alla Giunta regionale di adottare un valore di distanza minima, da determinate
aree ed edifici, nell'installazione degli impianti di cui al precedente art. 2,
introdurrebbe un parametro, quello della distanza, diverso da quelli di
attenzione, la cui determinazione è riservata allo Stato dall'art. 4, comma 1,
lettera a, della legge quadro n. 36
del 2001. Il solo parametro della distanza sarebbe inadeguato, dovendosi invece
tenere conto delle caratteristiche rilevanti delle stazioni trasmittenti
(altezza dal suolo, potenza irradiata, sistema radiante), nonché del livello
massimo di campo ammissibile nelle aree abitate.
2. – Si è costituita nel giudizio
davanti alla Corte la
Regione Marche, chiedendo che il ricorso venga dichiarato infondato.
Come
risulterebbe dall’insieme della disciplina legislativa dettata dalla legge
regionale impugnata, essa Regione avrebbe infatti esercitato la propria
competenza legislativa concorrente nelle materie della tutela della salute,
nonché del governo del territorio. La legge regionale, infatti, si limiterebbe
a disciplinare, in modo peraltro completo ed esaustivo, l’installazione degli
impianti fissi di radiocomunicazione, per consentirne una localizzazione in
grado di rispettare sia un corretto assetto del territorio sia il rispetto dei
principi fondamentali e delle esigenze ineludibili di tutela della salute dei
cittadini. Sotto questo profilo, la difesa regionale richiama, ritenendola
valida anche nel contesto del nuovo Titolo V della parte II della Costituzione,
la giurisprudenza di questa Corte secondo cui la Regione, come ente
rappresentativo della molteplicità degli interessi legati alla dimensione
territoriale, non potrebbe non reputarsi titolare anche del potere di verifica
della compatibilità degli interventi che, attuati dai vari soggetti, comportano
effetti sul territorio. E sarebbe questa indubbiamente la prospettiva nella
quale si collocherebbe la legge denunciata, che rimarrebbe nell’ambito delle
competenze regionali, pur comportando l’imposizione di distanze superiori a
quelle richieste per il rispetto dei limiti massimi di esposizione ai campi
elettrico e magnetico, quali stabiliti dallo Stato nell’esercizio delle
attribuzioni ad esso riservate. La circostanza che la legge regionale abbia tra
le proprie finalità anche quella della tutela ambientale non implicherebbe in
alcun modo l’invasione della competenza statale in materia di tutela
dell’ambiente. Tale materia potrebbe essere individuata nella disciplina
direttamente finalizzata alla tutela degli equilibri ecologici (stato dei
fattori ambientali – aria, acqua, suolo, ecc. – e tutela di questi dagli
inquinamenti, protezione della natura, salvaguardia e gestione razionale delle
risorse naturali, ecc.) e potrebbe in qualche modo coincidere con quelle che
sono le norme statali dirette alla "salvaguardia, tutela e miglioramento della
qualità dell’ambiente” nonché alla "utilizzazione accorta e razionale delle
risorse naturali” e alla promozione sul piano internazionale delle misure
destinate a risolvere i problemi dell’ambiente (secondo la definizione che di
tali obiettivi fornisce l’art. 174 par. 1 del Trattato della Comunità Europea).
Ma l’ambiente non sarebbe soltanto una materia: esso costituirebbe, per
giurisprudenza costante di questa stessa Corte costituzionale (ed oggi tanto più
dopo l’espressa menzione della tutela dell’ambiente nella lettera s dell’art. 117, comma secondo, della
Costituzione), un valore costituzionale, e dunque, come tale, sarebbe un
obiettivo perseguibile e da perseguire da parte di tutti i livelli territoriali
di governo. In altri termini, sarebbe pacifico che, nell’esercizio delle
competenze in materia di legislazione concorrente o esclusivamente affidata
alla legislazione delle Regioni, queste possano e debbano perseguire finalità
di tutela ambientale. E ciò in applicazione del fondamentale principio di
"integrazione” di cui all’art. 6 del Trattato comunitario, che sarebbe stato
applicato dalla Regione Marche con la legge impugnata, la quale sarebbe
espressamente diretta ad attuare i principi fissati in materia di tutela
dell’ambiente sia dalla legge quadro statale n. 36 del 2001 sia dal decreto
ministeriale 10 settembre 1998, n. 381.
Con
specifico riferimento alle norme di cui il ricorso contesta la legittimità
costituzionale, la difesa regionale osserva quanto segue.
Quanto
alla prima censura, la previsione della attivazione di procedure di valutazione
di impatto ambientale definite nelle loro modalità di attuazione con atto della
Giunta regionale sarebbe pienamente coerente con i principi fondamentali vigenti
in materia. Infatti, l’art. 2-bis,
comma 2, del decreto legge n. 115 del 1997, come convertito dalla legge n. 189
del 1997, prevede l’obbligo di sottoporre ad opportune procedure di valutazione
di impatto ambientale la installazione di infrastrutture quali quelle oggetto
della disciplina dettata dalla legge regionale impugnata. Sarebbe pacifico che
lo Stato potrà dettare principi fondamentali in materia, al fine di garantire
criteri uniformi per la installazione di queste infrastrutture; ma, in assenza
di una esplicita e puntuale definizione di tali principi, non vi sarebbero
dubbi che le Regioni possano (e debbano, per dare attuazione ai principi
costituzionali in materia di tutela della salute e ai valori connessi con la
tutela dell’ambiente) dettare norme in grado di consentire quella corretta
valutazione degli effetti diretti ed indiretti sui singoli fattori ambientali e
sul loro reciproco equilibrio. La valutazione di impatto ambientale sarebbe
infatti una procedura, le cui finalità sono definite dalle direttive
comunitarie 85/337/CEE e 97/11/CE, la cui attuazione costituisce una forma
concreta di gestione, nel rispetto del diritto alla salute e della tutela
dell’ambiente, dei poteri decisori relativi ad attività suscettibili di
rilevante impatto ambientale. L’attivazione della procedura di valutazione di
impatto ambientale costituirebbe quindi un preciso obbligo derivante da
direttive comunitarie, e si inquadrerebbe comunque come uno strumento
essenziale di gestione e governo del territorio, per tutti i poteri pubblici
che possano autorizzare attività in grado di produrre effetti sull’ambiente, la
cui disciplina deve essere dettata sia a livello legislativo statale sia – in
assenza dell’intervento della legge statale – a livello legislativo regionale.
Del resto, l’attuale disciplina legislativa, che definisce l’assetto delle
competenze amministrative in questo settore, riserverebbe allo Stato la
competenza a definire le procedure di valutazione di impatto ambientale solo
con riferimento alle opere indicate nell’art. 71 del d.lgs. 112 del 1998: non
si potrebbe quindi negare, in attesa dell’ulteriore eventuale nuova definizione
legislativa delle relative competenze, la competenza regionale a disciplinare
legislativamente questo tipo di procedura.
Quanto
alla censura relativa all’art. 3, comma 6, della legge regionale, essa non
sarebbe fondata, per la considerazione che – come pure ammette lo stesso
ricorrente – l’obiettivo di qualità definito da tale norma (valori di campo
elettrico non superiori a tre Volt/metro, in corrispondenza di edifici adibiti
a permanenza non inferiore a 4 ore) viene definito ed imposto solo "fino
all’adozione dei decreti e regolamenti previsti dall’art. 4 della legge
36/2001”. Non vi sarebbe quindi invasione della competenza statale, che potrà
essere regolarmente esercitata, mediante l’emanazione delle norme regolamentari
e dei provvedimenti espressamente previsti dal citato art. 4 della legge n. 36
del 2001. Ma sarebbe altrettanto evidente che, nell’attesa delle norme che
debbono essere dettate a livello centrale (ed il termine relativo è già
abbondantemente scaduto), le Regioni abbiano piena competenza a disciplinare e
definire gli obiettivi di qualità in attuazione degli stessi principi fissati
dal legislatore statale nella legge quadro n. 36 del 2001. Ciò anche in
relazione alla circostanza che tali obiettivi di qualità sono dettati in
funzione della tutela della salute, e quindi la disciplina regionale
costituisce esercizio di competenza concorrente, sicuramente esplicabile in attesa
di una precisazione di ulteriori principi fondamentali da parte dello Stato.
Quanto
alla terza censura, la difesa regionale afferma che anche l’introduzione del
valore di distanza minima, indicato dall’art. 7, comma 3, della legge
regionale, costituirebbe corretto esercizio della competenza legislativa
concorrente della Regione in materia di governo del territorio e di tutela
della salute. Né si potrebbe ritenere che la determinazione di tale parametro
sia necessariamente riservata allo Stato, trattandosi di un parametro che, con
ogni evidenza, attiene anche e soprattutto al governo del territorio. Si
tratterebbe, inoltre, di un parametro che viene, in relazione a tali specifiche
finalità, stabilito dalla Regione, e che sarebbe da ritenere ulteriore rispetto
a quelli che lo Stato potrà definire in applicazione delle previsioni dell’art.
4, comma 1, lettera a, della legge n.
36 del 2001.
3. – Con ricorso del 21 gennaio
2002, depositato in cancelleria il 31 gennaio 2002 (reg. ric. n. 5 del 2002),
il Presidente del Consiglio dei ministri ha sollevato questione di legittimità
costituzionale delle seguenti disposizioni della legge della Regione Campania
24 novembre 2001, n. 13 (Prevenzione dei danni derivanti dai campi
elettromagnetici generati da elettrodotti): dell’art. 1, comma 2, in relazione all’art. 117,
secondo comma, lettera s, della
Costituzione; dell’art. 2, commi 1, 2 e 3, in riferimento all’art. 117, terzo comma
(tutela della salute e produzione, trasporto e distribuzione nazionale
dell'energia), della Costituzione ed in relazione agli artt. 4, comma 1,
lettera h, e 5, comma 1, della legge
22 febbraio 2001, n. 36; dell’art. 3, in riferimento all’art. 117, terzo comma
(tutela della salute e produzione, trasporto e distribuzione nazionale
dell'energia), della Costituzione ed in relazione agli artt. 4, comma 1,
lettera d, e 9, della stessa legge n.
36 del 2001; dell’art. 7, in
riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s, della Costituzione, anche in relazione all’art. 15 della stessa
legge n. 36 del 2001; e dell’art. 8,
in riferimento all’art. 117, commi secondo, lettera s, e terzo (tutela della salute e
produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia), della
Costituzione ed in riferimento all’art. 16 della stessa legge n. 36 del 2001.
La legge regionale impugnata
investirebbe, secondo la difesa statale, le materie della tutela della salute e
della produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia, che sono di
legislazione concorrente ai sensi dell'art. 117, terzo comma, della
Costituzione, ed anche la materia della tutela dell'ambiente che, ai sensi
dell'art. 117, secondo comma, lettera s,
della Costituzione, è di legislazione esclusiva dello Stato. La legge quadro 22
febbraio 2001, n. 36, sulla protezione dalle esposizioni a campi elettrici,
magnetici ed elettromagnetici, avrebbe posto la disciplina integrale ed
esclusiva rivolta alla tutela dell'ambiente ed i principi fondamentali per le
altre materie, ai quali la legislazione regionale si deve attenere. La legge
regionale impugnata in parte avrebbe invaso la sfera statale di legislazione
esclusiva ed in parte non avrebbe osservato i principi della legislazione
statale.
Quanto all’art. 1, comma 2, della
legge regionale, l’Avvocatura afferma che l’art. 5, comma 1, della legge
statale n. 36 del 2001, "al fine di tutelare l'ambiente”, ha disciplinato le
competenze ed il procedimento per la localizzazione dei tracciati e per la
progettazione, la costruzione e la modifica di elettrodotti e di impianti per
telefonia mobile e radiodiffusione, mentre in questa materia la Regione non avrebbe
potestà legislativa.
Quanto all’art. 2, commi 1, 2, 3,
della legge regionale, secondo la difesa statale nell'art. 4, comma 1, lettera h, e nell'art. 5, comma 1, della legge
statale n. 36 del 2001 si troverebbe la normativa di principio sui parametri
per le fasce di rispetto per gli elettrodotti, mentre le norme impugnate
avrebbero fissato direttamente il valore limite di induzione magnetica (comma
3), attribuendo ai Comuni la disciplina dell'ampiezza dei corridoi ed alla
Regione il potere di direttiva, senza nessun raccordo con i parametri
desumibili dalla normativa statale, come se la materia rientrasse nella
legislazione esclusiva della Regione.
Nell’art. 3, invece, la legge
regionale disciplinerebbe la materia del risanamento degli elettrodotti
riservando alla Regione l'approvazione degli appositi piani, anche in questo
caso non tenendo conto di quanto dispone l'art. 4, comma 2 [recte: 1], lettera d, della legge statale n. 36 del 2001,
che avrebbe riservato allo Stato i "criteri di elaborazione dei piani di
risanamento” anche con riferimento "alle modalità di coordinamento delle
attività riguardanti più regioni”, e la norma regionale, non adeguandosi alla
disciplina statale di principio, si sarebbe sottratta ad ogni possibilità di
coordinamento. La legge regionale non avrebbe nemmeno tenuto conto del termine
fissato dall'art. 9 della legge statale per assicurare la necessaria uniformità
di tutela sull'intero territorio nazionale anche dal punto di vista temporale.
Quanto all’art. 7 della legge
regionale, l’Avvocatura sostiene che l'art. 15, comma 4, della legge statale,
nell'esercizio della competenza esclusiva a tutela dell'ambiente, avrebbe
previsto un apposito sistema sanzionatorio, assicurando così anche la
uniformità degli interventi repressivi in tutte le Regioni, in modo da evitare
che tra di esse possa instaurarsi una sorta di concorrenza sanzionatoria: ma
l'art. 7 della legge regionale avrebbe disciplinato un sistema del tutto
autonomo senza tenere conto della normativa statale.
Infine, quanto all’art. 8, la
normativa transitoria ivi prevista si sovrapporrebbe a quella fissata dall'art.
16 della legge statale senza alcun coordinamento. Del resto, secondo la difesa
erariale, una disciplina transitoria era indispensabile a tutela dell'ambiente
nell'esercizio della legislazione statale esclusiva, e principi generali
sarebbero necessari anche per la disciplina transitoria, che investe il periodo
in cui gli impianti preesistenti possono costituire pericolo non controllabile
per la salute.
4. – Ha
depositato memoria di costituzione e difesa la Regione Campania,
chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile e infondato.
Riservandosi
di dimostrare in una successiva memoria la legittimità della disciplina
regionale, la Regione
espone sinteticamente le ragioni che dovrebbero portare a ritenere ammissibile
la propria costituzione in giudizio, nonostante sia avvenuta oltre il termine
previsto dall’art. 23, terzo comma, delle Norme integrative per i giudizi
davanti alla Corte costituzionale. In primo luogo, il termine per la
costituzione delle parti in giudizio sarebbe contenuto nelle norme integrative
con una formulazione nella quale, diversamente da quanto disposto in generale
dalla legge per il deposito del ricorso, viene adoperata l’espressione "può” e
non "deve”. In secondo luogo, nell’ipotesi di costituzione tardiva
dell’amministrazione regionale non potrebbero invocarsi le ragioni che la Corte da tempo richiama per
escludere l’applicabilità della sospensione dei termini processuali e per
caratterizzare come perentori i termini, ragioni riferite alla necessità di
definire il giudizio in modo celere e certo. In terzo luogo, l’analogia con
quanto si verifica nel processo amministrativo, ove il termine per la
costituzione in giudizio non è ritenuto perentorio, sarebbe rafforzata dal
rinvio che l’art. 22, primo comma, della legge n. 87 del 1953 effettua alle
norme del regolamento di procedura del Consiglio di Stato in sede
giurisdizionale. Inoltre, in assenza di una formula letterale cogente, dovrebbe
ritenersi preminente il generale interesse pubblico di un ente politico ad
esporre tutto quanto è necessario per fornire al giudice delle leggi gli
elementi utili alla piena valutazione della scelta compiuta dal legislatore
regionale, tenendo anche presente che nel caso di specie la Regione, ai fini della
scelta di costituirsi in giudizio, ha dovuto assumere tutti gli elementi di
conoscenza ulteriore per cogliere la portata della complessa riforma costituzionale
da poco intervenuta. Infine, la diversa modulazione dei termini e delle
modalità per la proposizione del ricorso fissata dalla nuova disciplina
costituzionale imporrebbe una riflessione sulla portata e sulla qualificazione
delle precedenti regole disciplinanti il processo, attesa la sua incidenza
sulla posizione delle parti e sulla complessiva logica processuale.
4.1 – In
una successiva memoria la
Regione ha illustrato ulteriormente le ragioni che possono
militare per la non perentorietà dei termini di costituzione in giudizio,
ripercorrendo la giurisprudenza costituzionale sul tema, dalla quale
emergerebbero, da una parte, la stretta correlazione della peculiarità della
normativa processuale con l’interesse pubblico di diritto obiettivo alla sollecita
definizione soprattutto di rapporti pubblici e, dall’altra, l’assenza di una
puntuale motivazione sulla perentorietà o meno dei termini di costituzione in
giudizio.
Nel merito,
la Regione
sostiene che la materia oggetto della legge regionale non rientra nell’ambito
della potestà esclusiva dello Stato, ma investe piuttosto una pluralità di
competenze legislative che si vanno inestricabilmente a collegare. La finalità
specifica sarebbe infatti l’esigenza di tutelare in modo efficace la salute dei
cittadini, e ciò si conseguirebbe attraverso una disciplina legislativa
afferente alla predisposizione di strumenti urbanistici (di competenza
esclusiva regionale ovvero connessa, al più, alla materia "governo del
territorio”) e alle procedure di risanamento industriale (materia anch’essa non
presente negli elenchi relativi alla potestà esclusiva statale); in ogni caso,
la legge regionale non si caratterizzerebbe come volta a tutelare quel bene –
l’equilibrio ecologico, costituito dalla protezione della fauna, delle risorse
ambientali e del paesaggio – che sottenderebbe l’endiadi utilizzata dal
legislatore costituzionale ("tutela dell’ambiente e dell’ecosistema”) per
definire la competenza statale. E, ancora, anche ove si ritenesse che
l’intervento legislativo regionale si trovi ad interferire con la "materia”
ambientale, la Regione
dovrebbe considerarsi legittimata ad esercitare le proprie competenze in
materia di governo del territorio e di tutela della salute, nel rispetto dei
principi e delle esigenze unitarie desumibili dalla legge statale, ai quali la
normativa regionale sarebbe appunto conforme.
4.2. – Nel
giudizio nei confronti della legge della Regione Campania (reg. ric. n. 5 del
2002) ha depositato atto di intervento il Gestore della Rete di Trasmissione
Nazionale s.p.a., chiedendo l’accoglimento delle conclusioni formulate nel
ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri. Quanto alla ammissibilità
dell’intervento, si sostiene che il corretto esercizio delle funzioni
legislative di Stato e Regioni e il rispetto da parte di queste ultime dei
principi fondamentali dettati dallo Stato e dei vincoli derivanti
dall’ordinamento comunitario sarebbero essenziali affinché il Gestore della
rete possa svolgere regolarmente le funzioni ad esso assegnate dal d.lgs. 16
marzo 1999, n. 79, recante "Attuazione della direttiva 96/92/CE recante norme
comuni per il mercato interno dell'energia elettrica”, e dai successivi decreti
del Ministero dell’industria 21 gennaio e 17 luglio 2000.
4.3. – Nel
medesimo giudizio hanno in seguito depositato un unico atto di intervento le
seguenti società: ENEL s.p.a., ENEL Distribuzione s.p.a. e TERNA – Trasmissione
Elettricità Rete Nazionale s.p.a., chiedendo anch’esse l’accoglimento delle
conclusioni formulate nel ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri.
L’interesse delle società all’intervento sarebbe qualificato dalla necessità di
assicurare uniformità di modalità di realizzazione della rete di trasmissione
nazionale, di cui TERNA è proprietaria per il 95%, e di quella di distribuzione
di energia, di cui ENEL Distribuzione è concessionaria: entrambe società
detenute da ENEL s.p.a.
4.4. – Nel
giudizio promosso nei confronti della legge della Regione Campania hanno
depositato unico atto di intervento "ad
opponendum” il Comune di Lacco Ameno, nella persona del Sindaco, nonché
quest’ultimo quale Ufficiale di Governo. Essi, assumendo che l’esito del
presente giudizio è destinato ad incidere su proprie posizioni giuridiche, che
trovano adeguata tutela nella perdurante vigenza della legge impugnata – il
riferimento è ad un giudizio amministrativo promosso in relazione
all’inibizione, da esso Comune disposta, dell’attivazione di un impianto di
trasformazione, annesso ad un elettrodotto, realizzato dall’Enel nel centro
abitato – hanno concluso per l’infondatezza della questione sollevata.
5. – Con
ricorso del 9 maggio 2002, notificato il 10 maggio 2002 (reg. ric. n. 35 del
2002), il Presidente del Consiglio dei ministri ha sollevato questioni di
legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 1, lettera m; 4, comma 1; 10, commi 1 e 2, della legge della Regione Puglia 8
marzo 2002, n. 5 (Norme transitorie per la tutela dall’inquinamento
elettromagnetico prodotto da sistemi di telecomunicazioni e radiotelevisivi
operanti nell’intervallo di frequenza fra 0 Hz e 300 GHz), in riferimento
all’art. 117, secondo comma, lettera s,
e 117, terzo comma (tutela della salute e ordinamento della comunicazione)
della Costituzione, e in relazione agli artt. 4, comma 2; 5, comma 1; e 8,
comma 1, della legge 22 febbraio 2001, n. 36.
Il
ricorrente osserva innanzitutto in linea generale che la legge impugnata ha la
finalità, come emerge dall’art. 1, di assicurare "la tutela dell’ambiente
dall’inquinamento elettromagnetico connesso al funzionamento e all’esercizio
degli impianti per telecomunicazione e radiotelevisivi”, e che essa sarebbe
quindi invasiva della competenza statale, poiché lo Stato ha legislazione
esclusiva nella materia della tutela ambientale, mentre costituiscono materie
di legislazione concorrente quelle della tutela della salute e dell’ordinamento
della comunicazione, con conseguente potestà legislativa dello Stato nella
determinazione dei principi fondamentali.
Quanto alle
disposizioni dell’art. 3, comma 1, lettera m,
della legge regionale impugnata, che definisce le "aree sensibili”, e dell’art.
4, comma 1, secondo cui la
Regione "detta i criteri generali per la localizzazione degli
impianti, nonché i criteri inerenti l’identificazione delle ‘aree sensibili’ e
la relativa perimetrazione”, esse eccederebbero le competenze regionali,
contrastando con il principio introdotto dall’art. 8, comma 1, della legge
statale n. 36 del 2001, il quale prescrive che le competenze regionali si
esercitano "nel rispetto dei limiti di esposizione, dei valori di attenzione e
degli obiettivi di qualità nonché dei criteri e delle modalità fissati dallo
Stato”.
Quanto
all’art. 10, comma 1, della legge regionale, che vieta "l’installazione di
sistemi radianti relativi agli impianti di emittenza radiotelevisiva e di
stazioni radio base per telefonia mobile su ospedali, case di cura e di riposo,
scuole e asili nido”, esso conterrebbe un divieto assoluto, eccedente rispetto
al parametro richiamato in via transitoria dall’art. 16 della legge quadro
statale n. 36 del 2001, e quindi rispetto all’art. 4 del d.m. 10 settembre
1998, n. 381, che assume come unico parametro il valore di campo
elettromagnetico.
In ordine
all’art. 10, comma 2, della legge regionale impugnata, che vieta la
localizzazione degli impianti di cui all’art. 2, comma 1, nelle aree vincolate
ai sensi del d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490, nelle aree classificate di
interesse storico-architettonico, nelle aree di pregio storico, culturale e
testimoniale, nonché nei parchi ed aree protette, esso invaderebbe, in primo
luogo, la competenza esclusiva statale in materia ambientale, e contrasterebbe
con l’art. 5, comma 1, della legge quadro n. 36 del 2001, che riserva ad
apposito regolamento, di competenza statale, l’adozione di misure specifiche
finalizzate alla tutela dell’ambiente e del paesaggio.
6. – La Regione Puglia ha
depositato, oltre il termine previsto dall’art. 23, terzo comma, delle Norme
integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, atto di
costituzione e deduzioni, chiedendo di respingere il ricorso del Presidente del
Consiglio siccome inammissibile e infondato.
Riservandosi
di svolgere in una successiva memoria più ampie deduzioni difensive, la Regione nota comunque che
le censure mosse alla legge regionale muovono da una concezione errata della
competenza dello Stato relativa alla "tutela dell’ambiente”, la quale non
sarebbe tanto una materia riservata, quanto piuttosto un valore
costituzionalmente protetto che non esclude la competenza delle Regioni;
mentre, se fosse intesa come mostra di intenderla il Governo, essa finirebbe
per svuotare di contenuto e significato gran parte delle competenze regionali
concorrenti o residuali-esclusive.
6.1. – Ha
depositato atto di intervento la Wind Telecomunicazioni
s.p.a., in qualità di concessionaria per l’installazione e l’esercizio di
impianti di telecomunicazioni per l’espletamento del servizio pubblico
radiomobile di comunicazione con il sistema GSM, chiedendo l’accoglimento delle
conclusioni rassegnate dalla Presidenza del Consiglio dei ministri.
7. – Con
ricorso del 13 agosto 2002, notificato il 23 agosto 2002 (reg. ric. n. 52 del
2002), il Presidente del Consiglio dei Ministri ha sollevato questioni di
legittimità costituzionale degli articoli 1, commi 1 e 2; 2; 4, comma 1,
lettera b; 5, commi 1, lettera c, e 2; 12, comma 1; 13 e 16 della legge
della Regione Umbria 14 giugno 2002, n. 9 (Tutela sanitaria e ambientale
dall’esposizione ai campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici), in
riferimento agli articoli 3, 117, secondo comma, lettere e (tutela della concorrenza) e s
(tutela dell’ambiente), e 117, terzo comma (tutela della salute) della
Costituzione, ed in relazione agli artt. 4, commi 1 e 2; 5, comma 1; 8, comma
1; e 9, commi 3 e 6, della legge 22 febbraio 2001, n. 36, e all’art. 1, comma
4, del d.P.R. 12 aprile 1996 (Atto di indirizzo e coordinamento per
l'attuazione dell'art. 40, comma 1, della legge 22 febbraio 1994, n. 146,
concernente disposizioni in materia di valutazione di impatto ambientale).
La difesa
statale premette che, poiché la legge regionale indica tra le sue finalità,
all’art. 1, comma 1, anche la salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio, essa
sarebbe illegittima in quanto contrastante con l’attribuzione della tutela
dell’ambiente alla legislazione esclusiva dello Stato, qualunque sia la nozione
di ambiente che si voglia seguire.
Quanto
all’art. 1, comma 2, della legge regionale impugnata, l’Avvocatura dello Stato
premette che la Regione
deve agire nel rispetto dei principi fondamentali comunque risultanti dalla
legislazione statale già in vigore, e dunque di quelli desumibili dalla legge
quadro 22 febbraio 2001, n. 36 sulla protezione dalle esposizioni a campi
elettrici, magnetici ed elettromagnetici. L’art. 5, comma 1, della legge
statale riserva allo Stato la determinazione delle "misure specifiche relative
alle caratteristiche tecniche degli impianti e alla localizzazione dei
tracciati per la progettazione, la costruzione e la modifica di elettrodotti e
di impianti per telefonia mobile e radiodiffusione”, oltre che "le particolari
misure atte ad evitare danni ai valori ambientali e paesaggistici”, e lo scopo
dichiarato della norma è quello di tutelare "l’ambiente e il paesaggio”. La
disposizione impugnata, invece, riserva ad una futura disciplina regionale "la
localizzazione, la costruzione, la modificazione ed il risanamento degli
impianti”.
Secondo la
difesa statale, una volta accertato che la materia rientra nella competenza
esclusiva dello Stato, va escluso che la disciplina introdotta dalla legge
statale possa essere messa nel nulla da quella regionale successiva.
Se poi si
ritenesse che la disciplina regionale sia volta alla tutela della salute,
occorrerebbe verificare se le norme statali richiamate abbiano o meno natura di
principi fondamentali ai sensi dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione.
E tale indagine, a sua volta, sarebbe condizionata alla verifica se sia o non
ragionevole che il livello di protezione contro le radiazioni elettromagnetiche
in Umbria sia diverso (maggiore o minore non importerebbe) di quello previsto,
ad esempio, in Piemonte o in Puglia. La risposta positiva, secondo
l’Avvocatura, potrebbe basarsi soltanto su una accertata diversità biologica
degli abitanti delle Regioni interessate o su una situazione ambientale che
neutralizzi in tutto o in parte gli effetti dannosi delle radiazioni: ipotesi
entrambe smentite dalle attuali acquisizioni scientifiche.
Di qui la
conferma che tra i principi fondamentali rimessi allo Stato ci sono anche
quelli che assicurano la realizzazione del principio di uguaglianza quando,
naturalmente, operante. E non a caso nell’art. 4, comma 1, della legge statale
sarebbe stata posta per prima, tra le funzioni dello Stato, quella di tutelare
"il preminente interesse nazionale alla definizione di criteri unitari e
normative omogenee in relazione alle finalità di cui all’articolo 1”.
Quanto
all’art. 2 della legge regionale impugnata, che richiede ai gestori e ai
concessionari la dimostrazione della indispensabilità degli impianti, non
prevista dalla legge statale, in vista di una successiva verifica da parte
della Regione, la difesa statale premette che l’art. 8 della legge quadro,
sempre in considerazione del principio di eguaglianza, ha fissato le competenze
delle Regioni, individuandole nelle materie nelle quali una differenziazione
territoriale delle discipline risulta ragionevole.
Nel caso,
quella svolta dai gestori e dai concessionari sarebbe attività di impresa, e la
indispensabilità degli impianti sarebbe valutazione attinente alla gestione,
sulla quale la Regione
non potrebbe avere competenza; inoltre, l’eventuale giudizio negativo dato
nella Regione Umbria potrebbe creare difficoltà operative per il gestore,
alterando le condizioni del mercato e così sconfinando nella sfera della
concorrenza la cui tutela è attribuita alla legislazione esclusiva dello Stato.
Anche in
ordine all’art. 4, comma 1, lettera b,
della legge regionale impugnata, che attribuisce ai Comuni poteri vari per il
risanamento degli impianti esistenti, in relazione al principio di eguaglianza
non sarebbe giustificabile una differenza di discipline, articolata addirittura
per territori comunali.
Per le
medesime ragioni sarebbe incostituzionale anche l’art. 5, comma 1, lettera c, della legge regionale impugnata, con
il quale la Regione
riserva a se stessa il potere di elaborare piani di risanamento.
L’art. 5,
comma 2, della legge impugnata, che attribuisce alla Regione un potere di
proposta, si sovrapporrebbe alla disciplina contenuta nell’art. 9, commi 3 e 6,
della legge quadro statale, secondo cui competente è il Ministero
dell’ambiente, sentiti le Regioni e i Comuni interessati. Attribuendosi un
potere di proposta, la Regione
porrebbe dei limiti ai poteri deliberativi statali, salvo che la norma non vada
interpretata nel senso che la proposta costituisce in questo caso solo un
sollecitazione per il Ministero, che potrà deliberare un piano del tutto
diverso da quello proposto.
Quanto
all’art. 12, comma 1, della legge regionale impugnata, che richiede la
valutazione d’impatto ambientale in violazione dell’art. 4, comma 1, del d.P.R.
14 aprile 1996, in
relazione all’allegato B, n. 7, lettera z
(valutazione non richiesta nemmeno dalla direttiva 87/117 CE), esso violerebbe
il principio della parità di trattamento, incidente anche sotto il profilo
della concorrenza.
In ordine
all’art. 13 della legge regionale impugnata, che rimette alla Giunta regionale
la disciplina, oltre che dei procedimenti amministrativi, anche dei criteri
preordinati alla localizzazione ed al risanamento degli impianti, la difesa
statale afferma che la illegittimità costituzionale sarebbe evidente con
riguardo ai criteri, che sarebbero addirittura rimessi alla sede amministrativa
senza la fissazione di limiti o orientamenti legislativi, e che, con riguardo
al procedimento, la norma violerebbe l’art. 9 della legge quadro statale.
Quanto
all’art. 16 della legge regionale impugnata, che prevede che una apposita
disciplina transitoria sia posta con regolamento, esso sarebbe illegittimo,
poiché la disciplina transitoria è stata posta dall’art. 16 della legge quadro
statale.
8. – Si è
costituita in giudizio la
Regione Umbria, chiedendo che la Corte respinga il ricorso
dichiarando manifestamente non fondate le questioni sollevate dal Presidente
del Consiglio.
La difesa regionale riassume
dapprima l’intera vicenda relativa alla legge impugnata. L’originario disegno
di legge, predisposto nel vigore del testo costituzionale previgente, era stato
rinviato dal Governo con nota del 23 giugno 2001, prot. n. 01/439, nella quale venivano
formulati cinque rilievi. Il Consiglio regionale, aderendo alle valutazioni
svolte dalla II Commissione consiliare, aveva poi riapprovato con modificazioni
il testo, adeguandosi integralmente a due rilievi e parzialmente ad altri due.
Il Governo aveva quindi presentato ricorso in via principale di fronte alla
Corte, censurando alcune disposizioni della delibera regionale.
Poiché tuttavia nelle more del
giudizio è entrata in vigore la riforma del titolo V della parte II della
Costituzione, il giudizio davanti alla Corte è stato definito con ordinanza di
improcedibilità n. 182 del 2002.
Successivamente, il testo della
delibera legislativa regionale è stato approvato nuovamente, senza
modificazioni, dal Consiglio regionale, e poi impugnato dal Governo nei termini
sopra esposti.
Ritenendo che la prima censura del
ricorso governativo si appunti anche
sull’art. 1, comma 1, della legge regionale impugnata, la difesa regionale
sostiene che l’approccio del Governo, secondo cui lo scopo dichiarato della
legge sarebbe quello di tutelare l’ambiente e il paesaggio, è fondato su una
interpretazione formalistica e nominalistica della materia oggetto della legge
regionale e della legge statale. Chiarisce quindi che la finalità preminente
della legge regionale, peraltro espressamente indicata nello stesso art. 1,
comma 1, è quella di tutelare la salute della popolazione dagli effetti della
esposizione ai campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici; e considera
inoltre che la conservazione di un ambiente salubre costituisce espressione del
diritto fondamentale alla salute riconosciuto ai cittadini dall’art. 32 della
Costituzione, la cui tutela è ora attribuita alla competenza concorrente della
Regione.
Quanto alla censura relativa
all’art. 1, comma 2, della legge impugnata, la difesa regionale sostiene che
dal confronto di questa norma con quella contenuta nell’art. 5, comma 1, della
legge quadro statale n. 36 del 2001 emergerebbe che il potere normativo dello
Stato, destinato ad assicurare profili di tutela ambientale, e quello della
Regione sarebbero diretti a soddisfare finalità diverse. In particolare,
sarebbe manifestamente estranea alla disciplina statale la considerazione
puntuale di qualunque profilo attinente alla tutela della salute. Paradossale
sarebbe quindi il timore del Governo che disposizioni regionali dettate
nell’esercizio della potestà legislativa concorrente possano prevalere su
quelle dettate dallo Stato in materia di competenza esclusiva.
Quanto alla censura proposta in via
subordinata all’art. 1, comma 2, e a quelle rivolte contro gli artt. 4, comma
1, lettera b, e 5, comma 1, lettera c, della legge impugnata, relative alla
necessità di rispettare il principio di eguaglianza e di ragionevolezza, esse
sarebbero "del tutto infondate, anzi aberranti, ponendosi al di fuori sia del
sistema costituzionale delle competenze e dei meccanismi che presiedono
all’esercizio del potere legislativo regionale concorrente, sia delle più
consolidate applicazioni del principio di uguaglianza”.
Inoltre, erronea sarebbe la
qualificazione dell’art. 5, comma 1, quale norma di principio, essendo tale
norma esclusivamente destinata a fissare una competenza statale, la cui
riconducibilità alla legislazione esclusiva dello Stato andrebbe peraltro
puntualmente dimostrata e non data semplicemente per presupposta.
Ancora, le censure del Governo si
fonderebbero su una interpretazione del principio di uguaglianza rigida e
formalistica, che verrebbe a impedire alle Regioni di intervenire a tutela
della salute dei propri cittadini offrendo più elevati standard di protezione rispetto a quelli essenziali che vanno
garantiti su tutto il territorio nazionale. Anzi, a causa dell’incertezza circa
la pericolosità delle emissioni di cui si discute e dell’imponderabilità, allo
stato delle attuali conoscenze scientifiche, delle conseguenze sulla salute
della collettività, la legge regionale impugnata costituirebbe un intervento
all’avanguardia, in coerenza con i principi sanciti dall’art. 152 del Trattato
CE, che impongono l’eliminazione delle fonti di pericolo per la salute umana.
Quanto alla censura sull’art. 2
della legge impugnata, la difesa regionale sostiene che con l’introduzione del
principio di giustificazione la
Regione non avrebbe fatto altro che riaffermare il valore
primario della tutela della salute che, nel bilanciamento operato dal
legislatore regionale con il diritto di impresa, avrebbe condotto alla
previsione non certo di un limite all’esercizio dell’attività imprenditoriale,
ma di un criterio ragionevole e strumentale ad una migliore ponderazione
comparativa degli interessi coinvolti da parte dell’amministrazione competente,
in stretta applicazione del principio di proporzionalità. La disposizione,
infatti, mirerebbe ad una maggiore responsabilizzazione dell’imprenditore, a
sollecitare una sua più fattiva collaborazione in vista della tutela di un bene
primario quale quello della salute, e a prevenire o ridurre pericolose manovre
speculative.
Né il legislatore regionale avrebbe
invaso la competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela della
concorrenza: così ritenendo, infatti, si giungerebbe ad una sistematica
erosione delle competenze della Regione in rilevanti settori
economico-produttivi.
Anche la censura relativa all’art.
5, comma 2, della legge impugnata non sarebbe fondata, in quanto il potere
sostitutivo attribuito alla Regione, in caso di mancata presentazione della
proposta da parte dei gestori del piano di risanamento per gli elettrodotti con
tensione superiore a 150kv, integra la previsione statale e non incide sul
potere attribuito al Ministro dell’ambiente, di concerto con gli altri Ministri
competenti, di approvare il piano medesimo.
In ordine alla censura relativa
all’art. 12, comma 1, della legge impugnata, la difesa regionale fa notare che
l’art. 2-bis del decreto legge 1
maggio 1997, n. 115, convertito nella legge 1 luglio 1997, n. 189, prevede che
la installazione di infrastrutture relative alla telefonia mobile "dovrà essere
sottoposta ad opportune procedure di valutazione di impatto ambientale”. In
ogni caso, la procedura di v.i.a. di cui si discute apparterrebbe al potere
legislativo concorrente regionale, inerendo alla tutela della salute, alla
valorizzazione dei beni ambientali e culturali e, soprattutto, al governo del
territorio. Inoltre, la scelta del legislatore regionale umbro di sottoporre a
valutazione di impatto ambientale la installazione di impianti di telefonia
mobile, in casi determinati da individuarsi successivamente con regolamento
della Giunta, rientrerebbe nell’ambito della sua potestà legislativa e sarebbe
ragionevole esercizio di discrezionalità politica, non censurabile in sede di
controllo di costituzionalità.
Quanto alle censure svolte nei
confronti dell’art. 13, la
Regione resistente ne denuncia la genericità, e nota come nel
nuovo disegno costituzionale delle funzioni degli organi regionali il potere
regolamentare dell’esecutivo abbia assunto un rilievo determinante e una
ampiezza tale da non potersi configurare soltanto come potere di mera
esecuzione delle leggi regionali.
Inconferente sarebbe inoltre il
rilievo circa il contrasto della disposizione regionale impugnata con l’art. 9,
commi 3 e 6, della legge quadro n. 36 del 2001, commi che disciplinano nelle
loro linee generali le sole procedure concernenti i piani di risanamento degli
elettrodotti con tensione superiore a 150 kv
(e gli effetti del mancato risanamento degli stessi), delle stazioni e
dei sistemi radioelettrici, degli impianti per telefonia mobile e degli
impianti per radiodiffusione, conseguenti all’inerzia o all’inadempienza dei
gestori. In ogni caso, anche a voler applicare le disposizioni statali, queste
risultano palesemente insufficienti a disciplinare i concreti aspetti
procedimentali che meglio debbono essere precisati nell’interesse degli
imprenditori coinvolti.
L’ultima censura, relativa all’art.
16 della legge regionale impugnata, sarebbe infine "incomprensibile”, visto che
il legislatore regionale si è soltanto preoccupato di colmare, in via
transitoria, l’eventuale vuoto normativo nella fase precedente all’emanazione
dei decreti di cui all’art. 4 della legge quadro statale: tanto che la
normativa regolamentare prevista in capo alla Giunta regionale è destinata a
rimanere in vigore "in via transitoria fino all’approvazione” dei citati
decreti, e non a sostituire o a sovrapporsi a questi ultimi.
9. –
Nell’imminenza dell’udienza originariamente fissata per il 19 novembre 2002,
nel giudizio promosso nei confronti della legge della Regione Marche (reg. ric.
n. 4 del 2002) ha depositato memoria il Presidente del Consiglio, insistendo
nelle conclusioni di cui all’atto introduttivo.
Quanto alla
prima censura, osserva la difesa erariale, la Regione non potrebbe
prevedere una procedura di valutazione di impatto ambientale in relazione alle
infrastrutture di telecomunicazione, nonostante il disposto dell’art. 2-bis del decreto legge n. 115 del 1997, in quanto anche la
mera ripetizione in legge regionale di norma materialmente appartenente alla
competenza esclusiva dello Stato sarebbe costituzionalmente illegittima.
Inoltre, per le infrastrutture di telecomunicazione, non sarebbe vero che
l’attivazione della procedura di valutazione di impatto ambientale costituisca
un preciso obbligo derivante da direttive comunitarie, in quanto negli allegati
I e II della direttiva n. 85/337/CEE gli impianti di telecomunicazione non sono
mai menzionati.
Quanto alla
seconda censura, l’Avvocatura afferma che anche in mancanza dei decreti
previsti dall’art. 4 della legge quadro esiste una disciplina statale dei
valori-limite, e che essa costituisce disciplina di principio che, nella
materia "tutela della salute”, spetta solo allo Stato.
La difesa
erariale ricorda quindi che secondo l’art. 4, commi 2 e 3, del d.m. n. 381 del 1998, in corrispondenza di
edifici adibiti a permanenze non inferiori a quattro ore non devono essere
superati – con riferimento agli impianti di telefonia – il valore di 6 V/m per
il campo elettrico: valore che sarebbe superiore a quello stabilito dalla legge
regionale impugnata. Del medesimo decreto ministeriale, di particolare
importanza sarebbe poi l’art. 4, comma 3, in relazione al quale la giurisprudenza
amministrativa avrebbe chiarito che l’attribuzione alle Regioni e alle Province
autonome di competenze relative al raggiungimento di eventuali obiettivi di
qualità non appare giustificare l’introduzione di limiti ulteriori o diversi
rispetto a quelli stabiliti nel decreto, e ciò in quanto il perseguimento
dell’anzidetta finalità risulta delimitato dall’esigenza di garantire il
rispetto dei limiti dell’art. 3 e dei valori di cui all’art. 4, comma 2, del
decreto. Insomma, in nessuna fonte statale si troverebbe un’autorizzazione alle
Regioni ad introdurre, a tutela della salute, limiti ulteriori e più severi, o
basati su criteri diversi, rispetto a quanto previsto nelle fonti statali, ed
in particolare nella legge n. 36 del 2001, che conterrebbe appunto le norme e i
principi fondamentali statali in tema di protezione della salute
dall’inquinamento elettromagnetico.
I principi
enunciati da tale legge risulterebbero chiarissimi. Come prevede l’art. 3,
comma 1, lettera d, gli obiettivi di
qualità sarebbero di due tipi: da una parte i criteri localizzativi, gli standard urbanistici, le prescrizioni e le
incentivazioni per l’utilizzo delle migliori tecnologie disponibili, che hanno
a che vedere con le competenze regionali, ai sensi dell’art. 8, comma 1,
lettera e, della legge; dall’altra, i
valori di campo elettrico, magnetico ed elettromagnetico, che apparterrebbero
invece all’esclusiva competenza statale, come sottolinea l’art. 4, comma 1,
lettera a, della legge. In questo
senso, si ridimensionerebbe l’interpretazione da dare alla sentenza n. 382 del
1999, secondo cui sarebbero consentiti interventi normativi regionali in
materia di obiettivi di qualità di tipo urbanistico, ma non normative regionali
più severe in tema di valori di campo, in quanto la tutela del bene "salute”
non potrebbe essere che unitaria su tutto il territorio nazionale.
Quanto alla
terza censura, tra i principi fondamentali in materia di governo del territorio
e di tutela della salute rientrerebbe la determinazione di tetti massimi di
radiofrequenza, e quindi anche il divieto di installazione basato sul rispetto
di distanze minime da obiettivi cosiddetti sensibili. Inoltre, l’art. 4 del
decreto ministeriale n. 381 del 1998 individuerebbe il livello di esposizione
al campo elettromagnetico quale unico parametro per garantire la tutela della
popolazione dagli effetti dell’esposizione; e, infine, la previsione di un
divieto fondato sul rispetto di determinate distanze non sarebbe idonea, alla
luce dei parametri determinati dallo Stato, a garantire la finalità di tutela della
salute e, anzi, il parametro della distanza sarebbe inadeguato e irragionevole,
giacché non consentirebbe di tenere conto delle caratteristiche realmente
rilevanti delle stazioni trasmittenti (altezza dal suolo, potenza irradiata,
sistema radiante). E il fatto che il parametro sia "ulteriore” rispetto a
quelli dettati dal decreto ministeriale n. 381 del 1998, come ricorda la Regione, da una parte
sarebbe motivo della sua illegittimità, perché le Regioni non possono stabilire
parametri ulteriori se intendono rispettare i principi fondamentali dettati
dallo Stato, dall’altro non lo renderebbe, per ciò solo, adeguato e ragionevole
in vista della tutela del bene salute.
9.1. – Nell’imminenza dell’udienza
del 19 novembre 2002 ha
depositato memoria la
Regione Umbria, resistente nel giudizio rubricato al n. 52
del registro ricorsi del 2002, insistendo affinché la Corte voglia dichiarare
manifestamente infondate le questioni sollevate.
In particolare, la Regione rileva che il
ragionamento condotto dall’Avvocatura in relazione all’art. 3 della
Costituzione potrebbe ritenersi corretto solo qualora si riconoscesse allo
Stato una potestà esclusiva in materia di tutela dell’ambiente; ma la
disposizione dell’art. 117, secondo comma, lettera s, sarebbe invece una clausola di carattere generale diretta ad
assicurare allo Stato la tutela di interessi primari, unitari e indivisibili,
che confermerebbe la nozione di ambiente come "valore” già delineata dalla
giurisprudenza costituzionale nel vigore del testo costituzionale originario.
La difesa regionale ricorda poi
che, per effetto della riforma costituzionale, sarebbe venuto meno proprio il
limite dell’interesse nazionale, quale argine della potestà legislativa
concorrente della Regione, per cui non sarebbe pertinente il richiamo all’art.
4, comma 1, della legge quadro statale, che pone tra le funzioni dello Stato la
tutela del "preminente interesse nazionale alla definizione di criteri unitari
e normative omogenee”.
Quanto alla censura sull’art. 2
della legge regionale impugnata, svolta in relazione alla riserva allo Stato
della materia della tutela della concorrenza, essa sarebbe apodittica e carente
di motivazione. L’interpretazione di questa materia, che si configurerebbe come
trasversale rispetto a rilevanti settori e materie ricadenti nella competenza
concorrente o esclusiva della Regione, dovrebbe essere restrittiva, poiché,
diversamente opinando, si giungerebbe a sottrarre completamente alla Regione il
potere di curare interessi essenziali dei propri cittadini in ordine al
godimento di diritti fondamentali mediante la conformazione di procedimenti e
provvedimenti affidati per lo più alla legislazione esclusiva regionale.
10. – In prossimità dell’udienza, nel giudizio promosso nei confronti della
legge della Regione Marche (reg. ric. n. 4 del 2002) ha depositato una seconda
memoria il Presidente del Consiglio dei ministri, insistendo nelle conclusioni
formulate.
La difesa erariale si sofferma in particolare sulla incidenza, sulla
normativa regionale denunciata, del d.lgs. 4 settembre 2002, n. 198
(Disposizioni volte ad accelerare la realizzazione delle infrastrutture di
telecomunicazioni strategiche per la modernizzazione e lo sviluppo del Paese, a
norma dell’art. 2, comma 2, della legge 21 dicembre 2001, n. 443), il quale –
così l’art. 1, comma 1 – "detta principi fondamentali in materia di
installazione e modifica delle categorie di infrastrutture di
telecomunicazioni, considerate strategiche ai sensi dell’art. 1, comma 1, della
legge 21 dicembre 2001, n. 443”.
La prima censura, avente ad oggetto l’art. 3, commi 3 e 4, della legge
regionale, che sottopone l’installazione di impianti fissi di
radiocomunicazione a procedure di valutazione di impatto ambientale, era
fondata sulla esistenza del principio, posto dalla legislazione statale
all’art. 2-bis della legge n. 189 del
1997, che appunto prevedeva la sottoposizione a procedure di valutazione di
impatto ambientale delle installazioni di infrastrutture per gli impianti fissi
di telefonia mobile. Tale ultima disposizione sarebbe stata ora abrogata
dall’art. 12, comma 4, del d.lgs. n. 198 del 2002. Si sarebbe soddisfatto, in
questo modo, l’interesse nazionale unitario e strategico alla realizzazione
celere delle infrastrutture di telecomunicazione, sulla base della
constatazione che nel procedimento previsto per tali realizzazioni esistono già
sufficienti valutazioni e controlli, che consentono di non aggravare il
procedimento con la valutazione d’impatto ambientale. Ne conseguirebbe, nella
fattispecie, l’abrogazione delle dette norme regionali, per effetto del
disposto dell’art. 10, primo comma, della legge 10 febbraio 1953, n. 62, e, in
ogni caso, la presenza nella legislazione statale di un principio fondamentale
secondo il quale nelle procedure che riguardano l’installazione di tali
impianti le regioni non possono introdurre anche la procedura di v.i.a.
Quanto alla
censura, svolta con il terzo motivo del ricorso, nei confronti dell’art. 7,
comma 3, della legge della Regione Marche n. 25 del 2001, che demanda alla
Giunta regionale di adottare un valore di distanza minima, da determinate aree
ed edifici, nell’installazione di detti impianti, censura fondata sulla norma
di principio dettata dall’art. 4, comma 1, lettera a, della legge quadro n. 36 del 2001, rileva la difesa erariale che
l’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 198 del 20002, costituente anch’esso principio
fondamentale, dispone che le infrastrutture di telecomunicazione per impianti
radioelettrici, ad esclusione di torri e tralicci relativi alle reti di
televisione digitale terrestre, "sono compatibili con qualsiasi destinazione
urbanistica, e sono realizzabili in ogni parte del territorio comunale, anche
in deroga agli strumenti urbanistici e ad ogni altra disposizione di legge e di
regolamento”. Tale norma avrebbe abrogato l’art. 7, comma 3, della legge
regionale impugnata.
Quanto alla
terza disposizione regionale impugnata, l’art. 3, comma 5, rileva la difesa
erariale che l’art. 4 del d.lgs. n. 198 del 2002 avrebbe confermato "i valori
di attenzione e gli obiettivi di qualità, stabiliti uniformemente a livello
nazionale in relazione al disposto della legge 22 febbraio 2001, n. 36, e
relativi provvedimenti di attuazione”.
11. – In
prossimità dell’udienza, già fissata per il 19 novembre 2002, ha depositato
memoria la Regione
Marche, insistendo nel senso dell’infondatezza delle
questioni sollevate.
La Regione premette che la
legge n. 25 del 2001 impugnata ha inteso muoversi "nel segno dell’attuazione
della legge quadro” n. 36 del 2001 ed in sintonia con essa, al fine della
tutela ambientale e sanitaria della popolazione, collocandosi in un contesto
comunitario e nazionale ispirato all’introduzione di misure di cautela nei
confronti del nuovo fenomeno dell’inquinamento da campi elettromagnetici, predisponendo
misure che necessariamente devono trovare disciplina adeguata in tutti i
livelli di governo coinvolti.
In ordine
alle finalità di tutela ambientale perseguite dalla legge regionale, accanto a
quelle della tutela della salute, della tutela e sicurezza del lavoro, governo
del territorio, nonché ordinamento della comunicazione, la Regione nega sia
ravvisabile alcuna invasione della competenza statale in materia, alla luce
delle nozioni di ambiente come "valore costituzionale” e obiettivo trasversale
fornita dalla sentenza
n. 382 del 1999, della interpretazione della "materia” tutela dell’ambiente
e dell’ecosistema di cui al nuovo art. 117, secondo comma, lettera s, della Costituzione data dalla sentenza n. 407 del
2002, dell’art. 6 del Trattato CE, e del principio di integrazione come
ribadito nell’art. 37 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE.
Dopo aver
richiamato decisioni di giudici amministrativi in tema di superamento di
distanze minime fissate da leggi regionali, la Regione si chiede se,
accogliendo una diversa interpretazione della "tutela dell’ambiente” – intesa
come "equilibrio ecologico”, riferita alla specifica disciplina orientata a
definire e garantire, in modo diretto e immediato, determinati equilibri
ecologici –, sia ravvisabile nella legge impugnata violazione della competenza
legislativa statale. La risposta, sul punto, è negativa, non avendo la legge ad
oggetto direttamente l’inquinamento dell’ambiente da campi elettromagnetici, ma
incidendo su di esso solo in misura parziale e in via immediata e indiretta.
Del resto, prosegue la Regione,
come si evince anche dalla legge quadro, la stessa disciplina del cosiddetto
inquinamento elettromagnetico persegue innanzitutto e soprattutto finalità di
tutela sanitaria della popolazione e dei lavoratori.
Passando
all’esame delle specifiche norme di cui il ricorrente contesta la legittimità
costituzionale, osserva la
Regione che, in ordine all’art. 3, commi 3 e 4, della legge
regionale n. 25 del 2001, per quel che riguarda gli impianti di
radiodiffusione, il principio leso è individuato dall’Avvocatura nella
competenza statale per l’assegnazione delle frequenze e l’individuazione dei
siti per l’ubicazione degli impianti, ai sensi degli artt. 1 e 2 della legge n.
249 del 1997 e dell’art. 2 del decreto legge n. 5 del 2001.
In
proposito, la Regione
osserva che "principi fondamentali” sono "i nuclei essenziali del contenuto
normativo che quelle disposizioni esprimono per i principi enunciati e da esse
desumibili” (così la sentenza n. 482 del 1985 e anche la sentenza n. 192 del
1987), sicché non possono essere considerate tali le norme, come quelle
citate, prive di una propria e diretta portata prescrittiva, che si limitano ad
attribuire una competenza normativa. Ciò sarebbe ancora più vero alla luce del
"limite della Costituzione”, posto dal nuovo testo dell’art. 117, primo comma,
della Costituzione, tanto alle leggi regionali che a quelle statali, in quanto
si affermerebbe così che, traendo l’autonomia legislativa di tutti gli "enti
territoriali” maggiori e minori – e quindi lo Stato e le Regioni, "ordinamenti
parziali” in seno all’ordinamento generale della Repubblica (art. 114 della
Costituzione) – il suo fondamento diretto dalla Carta costituzionale, a nessuno
di essi sarebbe consentito di porre dei limiti diversi e ulteriori rispetto a
quelli previsti dalla stessa.
Quanto alla
previsione regionale di sottoporre le opere da eseguire a valutazioni di
impatto ambientale, in assenza di principi fondamentali in materia, alle
Regioni non sarebbe precluso di dettare norme dirette a consentire una corretta
rappresentazione degli effetti diretti e indiretti sui singoli fattori
ambientali e sulle loro reciproche interazioni; né si rinverrebbero principi
fondamentali che consentano alle Regioni di sottoporre a procedure di v.i.a.
solo gli oggetti espressamente individuati dallo Stato, come sarebbe confermato
da talune leggi regionali (è citata la legge della Regione Friuli-Venezia
Giulia 7 settembre 1990, n. 43, artt. 5, 8 e 9), sussistendo una sensibile
differenza tra attività normativa diretta a disciplinare i procedimenti di
v.i.a. (in ipotesi, rientrante nella competenza legislativa esclusiva dello
Stato), e l’attività normativa diretta a stabilirne la semplice applicabilità
agli oggetti più svariati, che rimarrebbe nella disponibilità delle Regioni, ove
riconducibile ad oggetti compresi nella loro competenza legislativa concorrente
o residuale.
Per gli
impianti fissi di telefonia mobile, invece, il principio fondamentale che lo
Stato assume violato sarebbe quello contenuto nell’art. 2-bis, comma 2, del decreto legge n. 115 del 1997 – oggi abrogato, si
assume, dal d.lgs. n. 198 del 2002 – secondo il quale "l’installazione di
infrastrutture dovrà essere sottoposta ad opportune valutazioni di impatto
ambientale”. Ma rispetto ad esso la disposizione regionale avrebbe carattere
meramente "ripetitivo”. Il potere regolamentare in proposito attribuito alla
Giunta dal comma 4 dello stesso art. 3 della legge regionale sarebbe
finalizzato a stabilire le norme esecutive e attuative per la sottoposizione a
v.i.a. degli impianti in oggetto, sicché la conformità a Costituzione della
norma andrebbe valutata in relazione al riparto fra Stato e Regioni del potere
regolamentare. Quand’anche si volesse considerare la disciplina delle procedure
di v.i.a. come riconducibile alla materia "tutela dell’ambiente”, il combinato
disposto del secondo comma, lettera s,
e del sesto comma dell’art. 117 della Costituzione stabilirebbe, in questa
materia, l’esclusione della potestà legislativa regionale, ma non l’esclusione
assoluta della potestà delle Regioni di emanare norme sub-legislative, potendo
lo Stato, nelle materie di legislazione esclusiva, delegare il potere
regolamentare alle Regioni. Ciò sarebbe avvenuto in forza del d.P.R. 12 aprile
1996, che all’art. 1, comma 2, affida alle Regioni ed alle Province autonome la
disciplina dei contenuti e delle procedure di valutazione d’impatto ambientale,
ovvero l’armonizzazione delle disposizioni vigenti con quelle contenute
nell’atto di indirizzo.
Passando
alla censura rivolta all’art. 3, comma 6, della legge regionale, la difesa
della Regione Marche osserva che il valore limite di campo elettrico di 3
volt/metro, in corrispondenza di edifici adibiti a permanenza non inferiore a
quattro ore, fissato dalla legge impugnata, è destinato espressamente a
permanere "fino all’adozione dei decreti e regolamenti previsti dall’art. 4
della legge n. 36 del 2001”.
I valori limite rappresenterebbero, per espressa previsione della legge
impugnata, "obiettivi di qualità”, ispirati al principio della "massima sicurezza
tecnologicamente possibile” (già contenuto embrionalmente nell’art. 2087 del
codice civile), e costituenti pertanto un criterio di valutazione non statico
ma dinamico, che impone l’aggiornamento delle cautele prevenzionali in
relazione ai continui progressi tecnico-scientifici. Secondo quanto previsto
dall’art. 16 della legge n. 36 del 2001, fino all’entrata in vigore del
d.P.C.m. che dovrà stabilire gli obiettivi di qualità, si applicano i valori
limite definiti dai decreti 23 aprile 1992, 28 settembre 1995 e 10 settembre
1998, n. 381, i quali, per loro stessa natura, necessitano di un aggiornamento
in considerazione delle progressive acquisizioni delle scienze teoriche e
applicate. A tale aggiornamento, nell’inerzia del legislatore statale, sarebbe
chiamata a provvedere la
Regione, ancorché con una normativa che può risultare
provvisoria e pertanto cedevole rispetto al futuro intervento statale. Sulla
legittimità costituzionale di una disciplina regionale che introduca misure di
tutela più rigorose di quelle previste dallo Stato, vengono richiamate le sentenze n. 382 del
1999 e n.
407 del 2002.
L’ultima
disposizione impugnata, l’art. 7, comma 3, che introduce il parametro della
"distanza minima” – dal perimetro esterno di alcuni edifici destinati ad
ospitare la permanenza prolungata di persone –, ulteriore rispetto ai parametri
di attenzione di cui all’art. 4 della legge quadro, non pregiudicherebbe né
limiterebbe affatto la competenza statale (peraltro ancora non esercitata) per
la determinazione dei parametri di attenzione, costituendo una tipica modalità
di attuazione concreta del principio secondo cui alla Regione non è impedita
l’adozione di misure di tutela più rigorose, purché ciò avvenga negli ambiti
materiali che la
Costituzione affida alla legislazione regionale e purché non
siano vanificati gli obiettivi di protezione perseguiti dal livello di governo
statale o i limiti che quest’ultimo abbia specificamente individuato.
Tale
parametro costituirebbe un indice strettamente connesso con materie di sicura
competenza regionale: non solo la "tutela della salute” e la "tutela e
sicurezza del lavoro”, ma soprattutto il "governo del territorio” e le materie
dell’ "urbanistica” e dell’ "edilizia” (materie queste due ultime non
menzionate nel terzo comma dell’art. 117 e come tali affidate alla competenza
legislativa c.d. "residuale” delle Regioni).
La legge
impugnata ha infatti come scopo quello di disciplinare un fenomeno che non ha
solo riflessi ambientali e di sicurezza e salute, ma anche un impatto di grande
rilievo sul territorio, con la conseguente necessità di una rigorosa disciplina
edilizia.
La
previsione di fasce di rispetto in relazione a determinate aree ed edifici,
quale disciplinata dall’art. 7, comma 3, costituirebbe una tipica disciplina
urbanistica ed edilizia, che correttamente la legge regionale affida, nel
dettaglio, a norme regolamentari della Giunta regionale (art. 7, comma 3) ed
agli strumenti di pianificazione urbanistica comunali (art. 7, comma 4).
La Regione si sofferma infine
sulla entrata in vigore del d.lgs. 4 settembre 2002, n. 198, osservando che
esso non farebbe cessare la materia del contendere, riferendosi esclusivamente
alle infrastrutture di telecomunicazione considerate strategiche ai sensi
dell’art. 1, comma 1, della legge 21 dicembre 2001, n. 443, e, a tutt’oggi, non
ancora specificamente individuate. La legge regionale resterebbe quindi
sicuramente in vigore, sia per quanto riguarda tutti gli impianti fissi di
radiocomunicazione diversi da quelli disciplinati dal d.lgs. n. 198, sia per
questi ultimi, fino a quando non siano individuati secondo la procedura
speciale indicata dalla c.d. "legge obiettivo”. Il d.lgs. n. 198 del 2002, poi,
si presenterebbe come attuativo dei principi e delle norme relative alle
emissioni elettromagnetiche di cui alla legge 22 febbraio 2001, n. 36, e
relativi provvedimenti di attuazione (lettera d dell’art. 1 del citato decreto n. 198), sicché la legge della
Regione Marche rimarrebbe in vigore, in quanto attuativa della legge statale n.
36 del 2001.
12. – In
prossimità dell’udienza ha depositato un’unica memoria illustrativa il
Presidente del Consiglio dei ministri in relazione ai giudizi promossi nei
confronti della legge della Regione Campania n. 13 del 2001 (reg. ric. n. 5 del
2002) e della legge della Regione Umbria n. 9 del 2002 (reg. ric. n. 52 del
2002).
Nella prima
parte di essa l’Avvocatura svolge difese di carattere generale, mentre nella
seconda sviluppa le censure alle singole disposizioni delle due leggi
impugnate.
In
relazione alle finalità di "salvaguardia dell’ambiente dall’inquinamento
elettromagnetico” e di "salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio”, enunciate,
rispettivamente, dalla legge campana e dalla legge umbra accanto a quella della
"tutela della salute della popolazione”, sulla scorta dei rilievi svolti dalla sentenza n. 407 del
2002 sulla "trasversalità” della materia e sulla configurazione
dell’ambiente come valore, osserva l’Avvocatura che allo Stato spettano le
discipline che debbono essere uniformi sull’intero territorio nazionale, e che
occorre distinguere, settore per settore, se la esigenza della uniformità
precluda interventi legislativi regionali, ovvero, ferma la riserva allo Stato
della tutela minima da assicurare inderogabilmente su tutto il territorio, sia
possibile per la Regione,
esercitando la sua competenza legislativa in materie diverse, aumentare i
livelli di tutela senza pregiudicare la tutela uniforme apprestata per l’intero
territorio nazionale dalla legge statale.
Premesso
che la tutela disposta dallo Stato in materia di inquinamento elettromagnetico
è conforme ai dati provenienti dalla ricerca scientifica, acquisiti anche in
sede comunitaria (viene richiamata, in tema di "norme tecniche”, la sentenza n. 61 del
1997), osserva la difesa erariale che la legislazione ambientale
interferisce, oltre che con la tutela della salute, con la materia della tutela
della concorrenza, riservata allo Stato dall’art. 117, secondo comma, lettera e, della Costituzione, e che al Governo
compete, a norma dell’art. 95 della Costituzione, "la politica generale”, nelle
cui linee, specie in questo periodo, sono comprese la politica economica –
implicante la fissazione di criteri di compatibilità con l’ambiente per rendere
l’obiettivo di sollecitare l’aumento delle risorse nazionali sostenibile – e quella dell’occupazione
– diretta all’incremento di quest’ultima dove la disoccupazione è più
preoccupante.
Tanto la
sostenibilità dello sviluppo economico che l’incremento della occupazione richiederebbero
politiche programmate e coordinate sull’intero territorio nazionale, che
rendono incompatibile una normazione differenziata Regione per Regione su
iniziativa di queste ultime, se non nei limiti in cui sia compatibile con le
politiche statali. Ogni misura contro l’inquinamento ambientale, per la sua
natura necessariamente restrittiva, determinerebbe costi aggiuntivi per le
imprese. "Una diversa graduazione in ogni Regione verrebbe a creare una sorta
di competizione ambientale, rendendo più appetibile l’insediamento laddove le
misure risultano meno gravose. Attraverso, dunque, la tutela della salute al di
sopra dei limiti di sicurezza, fissati dalla legislazione dello Stato a tutela
dell’ambiente, si finirebbe con lo scoraggiare gli investimenti produttivi
pregiudicando anche l’occupazione, mettendo in dubbio la realizzazione degli
obiettivi della politica governativa”.
Se ne
avrebbe una conferma nel fatto che le iniziative rivolte ad una più incisiva
tutela ambientale sarebbero "spesso contrastate dalle rappresentanze sindacali
che vi vedono un ostacolo serio all’incremento della produzione e, quindi,
dell’occupazione”.
Nello
stesso tempo si finirebbe con l’incidere anche sulla concorrenza, poiché chi
scegliesse per il suo insediamento una zona più tutelata si troverebbe in
posizione di partenza svantaggiata dal punto di vista competitivo.
Pertanto,
la legge regionale, da una parte non può mai ridurre il livello di tutela
dell’ambiente, determinato dallo Stato nell’esercizio della sua legislazione
esclusiva; dall’altra, non può elevare quel livello quando l’interesse
perseguito dallo Stato esclude che si possano avere discipline differenziate
Regione per Regione, tenendo anche conto delle esigenze delle politiche
generali, anche esse riservate allo Stato.
Tali
parametri normativi, osserva l’Avvocatura, non fatti valere nei ricorsi,
vengono richiamati solo come canoni interpretativi della legislazione statale
in materia di ambiente e dei principi fondamentali sulla tutela della salute.
Richiamata
la raccomandazione comunitaria in materia del 12 luglio 1999, i cui "limiti di
esposizione raccomandati si basano solo su effetti accertati” (considerando 10), osserva la difesa
erariale che ogni diverso limite sarebbe fondato su valutazioni legate alla
sensibilità locale, non sostenuta da dati scientifici, e che dovendosi basare
le disposizioni degli Stati membri su un quadro normativo concordato, per
garantire una protezione uniforme in tutta la comunità, quest’ultima
presupporrebbe l’uniformità nazionale, compresa nella materia dei rapporti con
l’UE, attribuita dall’art. 117, secondo comma, lettera e, della Costituzione alla competenza esclusiva dello Stato. E
poiché la raccomandazione rende comunitariamente legittime le norme conformi e
viene richiamata come fonte di cognizione e di conferma dei dati scientifici
più aggiornati acquisiti in materia, tenuto conto delle indicazioni
comunitarie, lo Stato, salvo che nelle zone per le quali fossero riscontrabili
esigenze ambientali differenziate, non potrebbe introdurre misure non omogenee
su tutto il territorio nazionale, incorrendo, in difetto di ragioni
giustificative, nella violazione dell’art. 3 e del principio di ragionevolezza
("nel settore imprenditoriale la normativa della concorrenza ha come obiettivo di
tutelare la uguaglianza delle imprese dal punto di vista competitivo”) e
dell’art. 117, secondo comma, lettera a,
della Costituzione.
Né verrebbe
in questo modo pregiudicata la competenza regionale in materia di tutela della
salute, in quanto i relativi interventi non potrebbero essere fondati su
valutazioni di pura discrezionalità politica, ma "sulla verifica delle
conoscenze scientifiche e delle evidenze sperimentali acquisite” (sentenza n. 282 del
2002).
Pertanto,
rispetto ai limiti (limiti di esposizione, valori di attenzione) fissati dalla
normativa statale, "interventi più incisivi della Regione, privi di
giustificazione scientifica come sono, possono fondarsi solo su di una scelta politica,
che interferendo anche sulla politica economica, sulla politica
dell’occupazione e sulla concorrenza, pregiudicherebbero gli obiettivi della
politica nazionale in queste materie”.
Se ci si
orientasse in senso contrario, prosegue l’Avvocatura, verrebbero neutralizzati
gli strumenti governativi di politica economica, cosicché i poteri, e di
conseguenza le responsabilità, in materia di sviluppo e di occupazione
andrebbero ripartiti tra Stato e Regioni "addirittura con una posizione
prevalente di queste ultime che, attraverso l’esercizio della loro legislazione
concorrente od esclusiva, potrebbero impedire il raggiungimento degli obiettivi
che si propone la legislazione statale”.
La natura
di valutazioni "di pura discrezionalità politica” alla base delle diverse
discipline regionali in materia troverebbe conferma nell’atto di costituzione
della Regione Umbria (reg. ric. n. 52 del 2002), la quale, definendo il suo
intervento "all’avanguardia ", ha riconosciuto che la normativa regionale non
ha base scientifica, asserendo che "proprio l’incertezza circa la pericolosità
delle emissioni elettriche, magnetiche ed elettromagnetiche e l’imponderabilità
delle gravissime conseguenze cui la popolazione, in un regime che non consenta
limitazioni al riguardo, potrebbe essere esposta, rende ragionevoli le
previsioni del legislatore umbro, che, in attesa di una seria e concorde
valutazione della comunità scientifica in proposito, si attiene a prudenti
canoni di prevenzione”.
Se le
diverse leggi regionali introducessero discipline tra loro diverse, la salute
sarebbe non una nozione fondata sulla scienza medica, ma una nozione politica,
con rilevanti effetti di ordine pratico. Osserva, infatti, la difesa dello
Stato che "la rete di trasmissione dell’energia elettrica è unica e connessa
con le altre reti europee. Anche ad ammettere che la sua gestione restasse
tecnicamente affidabile, essa comporterebbe costi estremamente elevati con
incidenza sui prezzi, che, per ragioni di parità di trattamento, dovrebbero
essere diversi da Regione a Regione, in base agli aggravi dei costi provocati
dalle legislazioni rispettive”.
Sulla base
di tali rilievi di carattere generale, osserva l’Avvocatura che sono
sicuramente illegittime le norme regionali rivolte espressamente alla tutela dell’ambiente, come gli artt. 1 di
entrambe le leggi impugnate, là dove enunciano che per tale finalità viene
disciplinata la localizzazione degli elettrodotti, e, conseguentemente gli
artt. 2 e 3 della legge campana n. 13 del 2001, e l’art. 2 della legge umbra.
In ordine
alle singole disposizioni della legge della Regione Campania, la difesa
erariale osserva quanto segue.
Quanto
all’art. 2, non sarebbe coerente con
quello fissato dalla legislazione statale il valore limite della induzione
magnetica, stabilito in 0,2 micro-Tesla, "misurata al ricettore” in prossimità
degli insediamenti e località indicate, non essendo posti limiti alla distanza
o alla potenzialità delle emittenti. A norma dell’art. 3, comma 1, lettera b, i limiti di esposizione sono infatti
fissati "in quanto valori di campo”, come valore prodotto dalla fonte nello
spazio circostante "che non deve essere superato in alcuna condizione di
esposizione della popolazione e dei lavoratori”, e non come valore misurato al
ricettore, vale a dire presso chi ne riceve gli effetti (viene richiamata la
nozione di "campo elettrico” fornita dall’all. A del decreto ministeriale
dell’ambiente 10 settembre 1998, n. 381).
L’adozione
di un siffatto criterio non soddisferebbe il preminente "interesse nazionale
alla definizione di criteri unitari e di normative omogenee” postulato
dall’art. 4 della legge n. 36 del 2001 per il perseguimento della finalità
fissata dall’art. 1, utilizzando per la fissazione dei valori uno strumento, il
decreto del Presidente del Consiglio dei ministri (art. 4, comma 2, lettera a), che consente, in linea con la
raccomandazione comunitaria richiamata ("il quadro dovrebbe essere riesaminato
e valutato regolarmente alla luce delle nuove conoscenze e degli sviluppi nel
settore tecnologico”), l’aggiornamento in tempi brevi, prevedendo, peraltro,
l’intesa in sede di conferenza unificata ed il parere delle commissioni
parlamentari. Principio fondamentale, precisa quindi il ricorrente, è che la
disciplina sia uniforme su tutto il territorio nazionale e, per essere tale,
che sia fissata dallo Stato.
Nella
specie, la misurazione al ricettore prevista dalla Regione Campania può portare
alla riduzione delle tutele previste per l’ambiente dalla legislazione statale,
consentendo valori di campo anche superiori.
Ma la norma
sarebbe, altresì, illegittima per non aver rispettato i principi fondamentali
desumibili dalla legislazione preesistente, espressamente individuati, per il
regime transitorio, dall’art. 16 della legge quadro, nel d.m. appena citato e
nel d.P.C.m. 23 aprile 1992, dei quali l’Avvocatura illustra il fondamento
scientifico, confrontandolo con quello della norma regionale.
Vengono
altresì spiegate le conseguenze, in termini economici, del risanamento degli
impianti con spesa a carico dei proprietari degli elettrodotti, e l’incidenza
sulle tariffe derivanti da mutamenti del quadro normativo, con eventuali
problemi, in caso di normative diverse nelle varie Regioni, in ordine al
livello dei prezzi dell’energia.
Osserva
infatti il Presidente del Consiglio che l’art. 3, comma 10, della legge 16
marzo 1999, n. 79, prevede che "per l’accesso e l’uso della rete di
trasmissione nazionale è dovuto al gestore un corrispettivo determinato
indipendentemente dalla localizzazione geografica degli impianti di produzione
e dei clienti finali e, comunque, sulla base di criteri non discriminatori. La
misura del corrispettivo è determinata dall’Autorità per l’energia elettrica”.
Pertanto, "se fosse consentita una normativa a pelle di leopardo, ci si
troverebbe di fronte a questa alternativa: i consumatori di energia elettrica
(sarebbero questi i soggetti economicamente incisi), essendo unica la tariffa,
pur risiedendo in una Regione dove opera il livello di protezione previsto
dalla normativa statale o, comunque, un livello superiore a quello di altre
Regioni, dovrebbero subire l’onere di un livello, ad esempio, di 0,2
micro-Tesla, disposto da altre Regioni a tutela dei propri residenti, anche in
mancanza di giustificazioni scientifiche: non è difficile prevedere che insorgerebbero
dubbi sulla legittimità costituzionale di un tale regime di corrispettivi. La
seconda soluzione sarebbe la previsione di corrispettivi variabili Regione per
Regione, in ragione di costi subiti per l’adeguamento degli elettrodotti alle
discipline rispettive, dandosi luogo ad un sistema di prezzi anche esso a
macchia di leopardo, per cui non sarebbe più possibile parlare di un mercato
nazionale”.
L’art. 3, nel regolare il risanamento degli
impianti di distribuzione dell’energia elettrica, violerebbe il principio
fondamentale posto dall’art. 4, comma 1, lettera d, della legge quadro, che riserva allo Stato la determinazione
"dei criteri di elaborazione dei piani di risanamento di cui all’art. 9”, la cui unicità è diretta a
rendere i piani omogenei in vista del "coordinamento delle attività riguardanti
più Regioni”.
Se un
sistema a rete debba o non essere uniforme su tutto il territorio nazionale,
infatti, sarebbe una valutazione di principio, che non può essere sottratta
allo Stato, la cui competenza precipua è appunto la tutela degli interessi
unitari.
La norma
impugnata, senza tenere in considerazione l’art. 9, comma 2, della legge
statale che attribuisce alle Regioni la redazione dei piani "su proposta dei
soggetti gestori e sentiti i Comuni interessati”, avrebbe attribuito ai Comuni,
attraverso l’adeguamento della pianificazione urbanistica, la competenza ad
individuare gli elettrodotti in esercizio che non rientrano nelle condizioni di
cui al comma 3 dell’articolo 2, e che per questo sono oggetto di interventi
prioritari di risanamento, imponendo, poi, alle imprese distributrici la
predisposizione del piano di risanamento "con le modalità e i tempi degli
interventi da realizzare”, senza alcun richiamo ai criteri fissati dallo Stato,
e, infine, riservando a sé l’approvazione finale, attribuendosi così una
autonomia piena, svincolata da ogni possibilità di coordinamento nazionale
attraverso l’osservanza dei criteri di elaborazione riservati allo Stato.
L’art. 7, nel prevedere sanzioni a carico di chi
superi i limiti di campo, non terrebbe conto del fatto che il potere
sanzionatorio non può competere a un soggetto diverso dal titolare del potere
tutelato, e cioè, dallo Stato.
L’art. 8, nel dettare una disciplina transitoria
– diversa da quella fissata dall’art. 16 della legge quadro – in attesa della
formulazione dei nuovi principi generali per la legislazione concorrente
regionale, non terrebbe conto che ciò non può che competere, evidentemente,
allo Stato.
Quanto alla
legge della Regione Umbria n. 9 del 2002, la difesa erariale, richiamate le
argomentazioni già svolte in ordine alla legge campana, in particolare si
sofferma sull’art. 1, che riserva alla futura disciplina regionale "la
localizzazione, la costruzione, la modificazione ed il risanamento degli
impianti”, in contrasto con l’art. 5 della legge quadro, che le riserva allo
Stato, anche al fine di assicurare l’uguaglianza dei residenti nelle varie
Regioni rispetto ai livelli di protezione da radiazioni elettromagnetiche,
realizzando così il principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 della
Costituzione. L’art. 2 della legge impugnata richiede ai gestori ed ai
concessionari degli impianti la dimostrazione delle "ragioni obiettive della
indispensabilità degli impianti”, non prevista dall’art. 8 della legge quadro,
e sconfina così nella sfera della concorrenza, la cui tutela è attribuita alla
legislazione esclusiva dello Stato dall’art. 117, comma 2, lettera e, della Costituzione. Gli artt. 4,
comma 1, lettera b, e 5 fissano una
specifica disciplina regionale per il risanamento degli impianti, che sarebbe
illegittima per le ragioni esposte, in contrasto con l’art. 9 della legge
quadro. L’art. 12, comma 2, richiede valutazioni di impatto ambientale, le cui
procedure non possono essere che di competenza statale, regolate da criteri
unitari. Del pari, i "criteri preordinati alla localizzazione ed al
risanamento”, che l’art. 13 della legge impugnata rimette alla Giunta
regionale, non possono essere che unitari su tutto il territorio nazionale.
12.1. – In
prossimità dell’udienza pubblica, fissata, a seguito di rinvio, al 25 marzo 2003, ha depositato
ulteriore memoria riferita, come la precedente, ad entrambi i ricorsi, il
Presidente del Consiglio dei ministri, soffermandosi in particolare sulle
implicazioni comunitarie delle questioni sollevate.
La difesa
erariale ricorda che tra i compiti della Comunità il Trattato pone la garanzia
di un elevato livello di protezione dell’ambiente, da mettere in relazione con
lo sviluppo sostenibile (artt. 2 e 6), mentre tra i principi di tutela in
materia di ambiente pone il principio di precauzione, il quale, considerato il
suo carattere elastico, incontra limiti a tutela di altri interessi, ugualmente
rilevanti, che non possono essere sacrificati senza giustificazione.
Ciò
comporterebbe che ogni misura di tutela vada presa e modificata successivamente
in base alle acquisizioni scientifiche disponibili.
Tra i
principi cui le Regioni, in materia di tutela della salute, dovevano attenersi
vanno ricondotte le prescrizioni, fondate sulle acquisizioni tecniche
disponibili, rispetto alle quali sono stati applicati criteri uniformi di
precauzione.
Viene
definita la portata della raccomandazione CE intervenuta in materia e la natura
del vincolo da essa posto, anche alle Regioni.
13. – In
prossimità dell’udienza fissata per il 25 marzo 2003, il Comune di Lacco Ameno
ed il suo Sindaco, quale Ufficiale di Governo, che avevano spiegato intervento
nel giudizio mosso nei confronti della legge campana (reg. ric. n. 5 del 2002),
hanno depositato una memoria illustrativa.
13.1. – Ha
altresì depositato memoria in prossimità dell’udienza nel medesimo giudizio
(reg. ric. n. 5 del 2002) il Gestore della Rete di Trasmissione Nazionale
s.p.a. che, insistendo nelle richieste già avanzate, illustra, in particolare,
il d.lgs. 16 marzo 1999, n. 79, recante "Attuazione della direttiva 96/92 CE
recante norme comuni per il mercato interno dell’energia elettrica”.
14. – In
prossimità dell’udienza, nel giudizio promosso nei confronti della legge
pugliese (reg. ric. n. 35 del 2002), ha depositato memoria il ricorrente
Presidente del Consiglio dei ministri, che, insistendo nelle conclusioni già
rassegnate, ha soprattutto ricordato l’entrata in vigore del d.lgs. n. 198 del
2002 e la sua incidenza nel giudizio in corso, svolgendo considerazioni
analoghe a quelle già formulate nel giudizio promosso nei confronti della legge
della Regione Marche (reg. ric. n. 4 del 2002).
15. – Ha
depositato una prima memoria la Regione Puglia, insistendo per il rigetto della
questione.
Con una
successiva memoria la
Regione Puglia, insistendo nell’infondatezza delle questioni,
ha escluso possa incidere sull’esame di esse da parte della Corte il d.lgs. n.
198 del 2002, sopravvenuto nel corso del giudizio promosso in via d’azione, nel
quale il parametro di costituzionalità è costituito dalle norme vigenti al
momento della proposizione del ricorso (sentenze n. 376
e n. 422 del
2002
).
15.1. – Nel
giudizio promosso nei confronti della legge della Regione Puglia (reg. ric. n.
35 del 2002), ha depositato memoria la Wind Telecomunicazioni s.p.a., gestore
di telecomunicazioni in quanto titolare di licenza per il servizio di telefonia
mobile GSM e di licenza UMTS, e come tale tenuta a garantire l’espletamento del
servizio mediante una adeguata rete infrastrutturale sull’intero territorio
nazionale. Assumendo, dunque, che dalle sorti del presente giudizio potrebbero
discendere conseguenze dirette e immediatamente incidenti sulla sua sfera
giuridica, la Wind insiste nel chiedere che le questioni sollevate siano dichiarate
fondate.
16. – Ha
depositato atto di intervento ad
adiuvandum nel giudizio avente ad oggetto la legge della Regione Umbria
(reg. ric. n. 52 del 2002), e successivamente ampia memoria illustrativa, la
s.p.a. Vodafone Omnitel, titolare di licenza per l’installazione e l’esercizio
di reti da radiotelefonia mobile nei sistemi GSM, DCS e UMTS, concludendo per
l’accoglimento della questione sollevata nei confronti della legge regionale n.
9 del 2002.
16.1. – Ha
depositato nuova memoria, in prossimità dell’udienza del 25 marzo 2003, la
Regione Umbria, eccependo anzitutto la tardività dell’intervento della Vodafone
Omnitel s.p.a., perché depositato oltre i venti giorni dal deposito del ricorso
introduttivo.
Nel
riportarsi alle deduzioni formulate ed alle conclusioni già rassegnate, la
Regione in particolare contesta che la politica dell’occupazione e la politica
economica, assunte nelle difese del Presidente del Consiglio alla base
dell’esigenza di uniformità perseguita dalla legge quadro, siano "materie”,
essendo, invece, "politiche”, perseguibili, nell’ambito delle diverse sfere di
competenza, tanto nell’esercizio della politica statale che di quella
regionale.
Sarebbe
altrimenti violato l’art. 5 della Costituzione, nonché l’intero titolo V, alla
cui fonte si pone l’autonomia politica delle Regioni e degli enti locali.
La Regione
osserva poi che una disciplina uniforme per l’intero territorio nazionale non
può essere sinonimo di identità, implicando le nozioni di livello minimo di
tutela e di standard una certa
elasticità nonché possibilità di scostamento.
Quanto al
difettoso fondamento scientifico della normativa regionale ed alla asserita
violazione della competenza statale in materia di rapporto dello Stato con
l’Unione europea di cui all’art. 117, secondo comma, lettera a, della Costituzione, osserva che tale
competenza fa riferimento alla relazione di tipo rappresentativo ed
internazionale ed alle sole responsabilità statali, essendo invece regolati
dall’art. 117, quinto comma, i rapporti tra le Regioni e l’Unione europea. In
ordine alla raccomandazione comunitaria richiamata, sottolinea poi la richiesta
agli Stati membri di un "atteggiamento di precauzione” che implicherebbe la non
esclusione della possibilità di danni ulteriori rispetto a quelli
scientificamente accertati al momento dell’adozione della stessa
raccomandazione, il che troverebbe conferma nello studio, commissionato al
Parlamento europeo, sugli effetti fisiologici ed ambientali delle radiazioni
elettromagnetiche non ionizzanti, che suggerisce canoni rigorosissimi circa
l’uso dei telefoni mobili in particolare da parte dei bambini. La natura probabilistica
delle conoscenze in materia, poi, sarebbe ammessa implicitamente dalla stessa
Avvocatura generale.
Quanto alla
paventata incidenza di una legislazione non uniforme in materia sui costi
sostenuti dai gestori e, di conseguenza, sulle tariffe, secondo la Regione non
potrebbe costituire elemento idoneo a determinare la rinuncia ad una più alta
tutela della salute, trattandosi di valori che trovano una diversa tutela a
livello costituzionale.
16.3. – La
Vodafone Omnitel s.p.a. ha depositato nuova memoria illustrativa in prossimità
dell’udienza del 25 marzo 2003, concludendo per l’accoglimento della questione.
Considerato
in diritto
1. – Con
quattro distinti ricorsi il Presidente del Consiglio ha impugnato diverse disposizioni
di quattro leggi regionali: si tratta, precisamente, della legge regionale
delle Marche 13 novembre 2001, n. 25, recante "Disciplina regionale in materia
di impianti fissi di radiocomunicazione al fine della tutela ambientale e
sanitaria della popolazione” (ricorso iscritto al n. 4 del registro dei ricorsi
del 2002); della legge regionale della Campania 24 novembre 2001, n. 13,
recante "Prevenzione dei danni derivanti dai campi elettromagnetici generati da
elettrodotti” (ricorso iscritto al n. 5 del registro dei ricorsi del 2002);
della legge regionale della Puglia 8 marzo 2002, n. 5, recante "Norme
transitorie per la tutela dall’inquinamento elettromagnetico prodotto da
sistemi di telecomunicazioni e radiotelevisivi operanti nell’intervallo di frequenza
fra 0 Hz e 300 GHz” (ricorso iscritto al n. 35 del registro dei ricorsi del
2002); e della legge regionale dell’Umbria 14 giugno 2002, n. 9, recante
"Tutela sanitaria e ambientale dall’esposizione ai campi elettrici, magnetici
ed elettromagnetici” (ricorso iscritto al n. 52 del registro dei ricorsi del
2002). Secondo il ricorrente le disposizioni impugnate fuoriescono dall’ambito
della competenza regionale o violano i principi fondamentali stabiliti dalle
leggi dello Stato.
2. – Attesa
l’oggettiva comunanza della materia trattata nei ricorsi (tutte le leggi
impugnate riguardano la tutela dal cosiddetto "elettrosmog”, cioè
dall’inquinamento elettromagnetico prodotto da impianti fissi di
telecomunicazione o radiotelevisivi e di trasporto di energia, benché due leggi
– Marche e Puglia – concernano solo gli impianti di telecomunicazione o
radiotelevisivi, una – Campania – solo gli elettrodotti, e una – Umbria – entrambi
i tipi di impianti), è opportuno riunire i giudizi perché siano decisi con
unica pronunzia.
3. – Devono
essere preliminarmente dichiarate inammissibili la costituzione della Regione
Campania nel giudizio introdotto col ricorso iscritto al n. 5 del registro dei
ricorsi del 2002 e quella della Regione Puglia nel giudizio rubricato col n. 35
del registro dei ricorsi del 2002, avvenute entrambe oltre il termine
prescritto dall’articolo 23, terzo comma, delle Norme integrative per i giudizi
davanti alla Corte costituzionale.
La Regione
Campania argomenta l’ammissibilità della costituzione tardiva. Tuttavia la
Corte non ritiene di discostarsi dalla propria giurisprudenza consolidata
(cfr., tra le molte, sentenze n. 71 del 1982 e n. 417 del 2000), che considera perentori
i termini previsti per la costituzione delle parti nei giudizi in via
principale.
4. – Devono
altresì essere dichiarati inammissibili gli interventi spiegati, nel giudizio
avverso la legge della Regione Campania (reg. ric. n. 5 del 2002), dal Gestore
della Rete di Trasmissione Nazionale s.p.a., dalle società ENEL s.p.a., ENEL
Distribuzione s.p.a., TERNA–Trasmissione Elettricità Rete Nazionale s.p.a., e
dal Comune di Lacco Ameno, nella persona del Sindaco, nonché da quest’ultimo
quale Ufficiale di Governo; nel giudizio avverso la legge regionale della
Puglia (reg. ric. n. 35 del 2002), dalla Società Wind Telecomunicazioni s.p.a.;
e, nel giudizio avverso la legge regionale dell’Umbria (reg. ric. n. 52 del
2002), dalla s.p.a. Vodafone Omnitel.
Si tratta di
un Comune e, negli altri casi, di soggetti imprenditoriali interessati alla
disciplina recata dalle leggi impugnate; ma, in conformità alla costante
giurisprudenza di questa Corte (cfr. da ultimo sentenze n. 35 del 1995 e n. 382 del 1999), è inammissibile
l’intervento, nei giudizi promossi in via principale nei confronti di leggi
regionali o statali, di soggetti diversi da quelli titolari delle potestà
legislative della cui delimitazione si discute, ancorché destinatari attuali o
potenziali delle discipline normative recate dalle leggi impugnate.
5. – Tutte le
leggi regionali impugnate sono state emanate nel vigore del nuovo titolo V
della parte seconda della Costituzione, come risultante dalla legge
costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, e fanno seguito altresì alla legge
statale 22 febbraio 2001, n. 36 ("Legge quadro sulla protezione dalle
esposizioni a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici”: d’ora in poi
indicata come legge quadro).
Quanto alle
censure sollevate nei ricorsi, è opportuno anzitutto sgomberare il campo da un
assunto di carattere generale, che il ricorrente sostiene, in modo più
esplicito nel ricorso contro la legge dell’Umbria, invocando la competenza
legislativa esclusiva attribuita allo Stato dall’art. 117, secondo comma,
lettera s, della Costituzione, in
tema di "tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”, per
escludere qualsiasi competenza delle Regioni a legiferare in vista di finalità
di tutela dell’ambiente.
Tale assunto
non è fondato. Questa Corte ha già chiarito che la "tutela dell’ambiente”, più
che una "materia” in senso stretto, rappresenta un compito nell’esercizio del
quale lo Stato conserva il potere di dettare standard di protezione uniformi validi in tutte le Regioni e non
derogabili da queste; e che ciò non esclude affatto la possibilità che leggi
regionali, emanate nell’esercizio della potestà concorrente di cui all’art.
117, terzo comma, della Costituzione, o di quella "residuale” di cui all’art.
117, quarto comma, possano assumere fra i propri scopi anche finalità di tutela
ambientale (cfr. sentenze n. 407 del 2002 e n. 222 del 2003).
Nel caso
delle discipline regionali impugnate, esse attengono essenzialmente agli ambiti
materiali – richiamati del resto anche dal ricorrente – della "tutela della
salute”, minacciata dall’inquinamento elettromagnetico, dell’"ordinamento della
comunicazione” (per quanto riguarda gli impianti di telecomunicazione o
radiotelevisivi), della "produzione, trasporto e distribuzione nazionale
dell’energia” (per quanto riguarda gli elettrodotti), oltre che, più in
generale, del "governo del territorio” (che comprende, in linea di principio,
tutto ciò che attiene all’uso del territorio e alla localizzazione di impianti
o attività): tutti ambiti rientranti nella sfera della potestà legislativa "concorrente”
delle Regioni a statuto ordinario, ai sensi dell’art. 117, terzo comma, della
Costituzione, e pertanto caratterizzati dal vincolo al rispetto dei (soli)
principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato.
6. – Assume
dunque essenziale rilievo la disciplina di principio stabilita dalla legge
quadro, ai fini di verificare se le Regioni, nel deliberare le leggi impugnate,
si siano attenute ai limiti fissati per l’esercizio della loro potestà
legislativa.
Tale legge,
che si applica a tutti gli impianti che possono comportare l’esposizione a
campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici con frequenze comprese tra 0 Hz
e 300 GHz, e in particolare sia agli elettrodotti, sia agli impianti
radioelettrici (art. 2, comma 1), stabilisce distintamente le funzioni
spettanti allo Stato (artt. 4 e 5) e le competenze delle Regioni e degli enti
locali (art. 8), e disciplina specificamente i piani di risanamento (art. 9), i
controlli (art. 14), le sanzioni (art. 15) e il regime transitorio applicabile
in attesa dell’emanazione del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri
sulle soglie di esposizione per la popolazione, previsto dall’art. 4, comma 2
(art. 16: cfr. oggi d.P.C.m. 8 luglio 2003).
In
particolare, nel sistema della legge, gli standard
di protezione dall’inquinamento elettromagnetico si distinguono (art. 3) in
"limiti di esposizione”, definiti come valori di campo elettrico, magnetico ed
elettromagnetico che non devono essere superati in alcuna condizione di
esposizione della popolazione e dei lavoratori per assicurare la tutela della
salute; "valori di attenzione”, intesi come valori di campo da non superare, a
titolo di cautela rispetto ai possibili effetti a lungo termine, negli ambienti
abitativi e scolastici e nei luoghi adibiti a permanenze prolungate; e
"obiettivi di qualità”. Questi ultimi sono distinti in due categorie, di cui
una consiste ancora in valori di campo definiti "ai fini della progressiva
minimizzazione dell’esposizione” (art. 3, comma 1, lettera d, n. 2), l’altra invece – del tutto eterogenea – consiste nei
"criteri localizzativi, (…) standard
urbanistici, (…) prescrizioni e (…) incentivazioni per l’utilizzo delle
migliori tecnologie disponibili” (art. 3, comma 1, lettera d, n. 1).
La legge
attribuisce allo Stato la determinazione dei limiti di esposizione, dei valori
di attenzione e degli obiettivi di qualità del primo dei due tipi indicati,
cioè dei valori di campo definiti ai fini della ulteriore progressiva
"minimizzazione” dell’esposizione (art. 4, comma 1, lettera a), mentre attribuisce alla competenza
delle Regioni la indicazione degli obiettivi di qualità del secondo dei tipi
indicati, consistenti in criteri localizzativi, standard urbanistici, prescrizioni e incentivazioni (art. 3, comma
1, lettera d, n. 1, e art. 8, comma
1, lettera e).
Al di là
della discutibile terminologia, la logica della legge è quella di affidare allo
Stato la fissazione delle "soglie” di esposizione, graduate nel modo che si è
detto, alle Regioni la disciplina dell’uso del territorio in funzione della
localizzazione degli impianti, cioè le ulteriori misure e prescrizioni dirette
a ridurre il più possibile l’impatto negativo degli impianti sul territorio
(anche se poi alcune scelte localizzative sono a loro volta riservate allo
Stato: è il caso dei tracciati degli elettrodotti con tensione superiore a 150
kV: art. 4, comma 1, lettera g),
oltre che la disciplina dei procedimenti autorizzativi (cfr. art. 8, comma 1,
lettera c): ciò, in coerenza con il
ruolo riconosciuto alle Regioni per quanto attiene al governo e all’uso del
loro territorio.
E’ vero che
la stessa legge prevede poi l’emanazione di un regolamento statale destinato a
contenere anche misure relative alla localizzazione degli impianti e altre
misure dirette ad "evitare danni ai valori ambientali e paesaggistici” e a
tutelare gli "interessi storici, artistici, architettonici, archeologici,
paesaggistici e ambientali”, nonché una disciplina dei "principi” relativi ai
procedimenti autorizzativi (art. 5 e art. 8, comma 1, lettera a). Ma, a prescindere da ogni
considerazione circa la sorte che potrà riservarsi a tale potestà regolamentare
a seguito della entrata in vigore del nuovo art. 117, sesto comma, della
Costituzione, che limita la potestà regolamentare dello Stato alle sole materie
di competenza statale esclusiva, la circostanza che il regolamento previsto non
è stato emanato, in assenza inoltre di qualsiasi disciplina legislativa
transitoria su questi temi, rende superflua ogni ulteriore disamina in
argomento, restando fermo che le leggi regionali impugnate devono essere
valutate in relazione alla loro conformità o meno ai soli principi fondamentali
contenuti nella legge quadro.
7. – L’esame
di alcune delle censure proposte nei ricorsi presuppone che si risponda
all’interrogativo se i valori–soglia (limiti di esposizione, valori di
attenzione, obiettivi di qualità definiti come valori di campo), la cui
fissazione è rimessa allo Stato, possano essere modificati dalla Regione,
fissando valori–soglia più bassi, o regole più rigorose o tempi più ravvicinati
per la loro adozione.
La risposta
richiede che si chiarisca la ratio di
tale fissazione. Se essa consistesse esclusivamente nella tutela della salute
dai rischi dell’inquinamento elettromagnetico, potrebbe invero essere lecito
considerare ammissibile un intervento delle Regioni che stabilisse limiti più
rigorosi rispetto a quelli fissati dallo Stato, in coerenza con il principio,
proprio anche del diritto comunitario, che ammette deroghe alla disciplina comune,
in specifici territori, con effetti di maggiore protezione dei valori tutelati
(cfr. sentenze n. 382 del 1999 e n. 407 del 2002).
Ma in realtà,
nella specie, la fissazione di valori–soglia risponde ad una ratio più complessa e articolata. Da un
lato, infatti, si tratta effettivamente di proteggere la salute della
popolazione dagli effetti negativi delle emissioni elettromagnetiche (e da
questo punto di vista la determinazione delle soglie deve risultare fondata
sulle conoscenze scientifiche ed essere tale da non pregiudicare il valore
protetto); dall’altro, si tratta di consentire, anche attraverso la fissazione
di soglie diverse in relazione ai tipi di esposizione, ma uniformi sul
territorio nazionale, e la graduazione nel tempo degli obiettivi di qualità
espressi come valori di campo, la realizzazione degli impianti e delle reti
rispondenti a rilevanti interessi nazionali, sottesi alle competenze
concorrenti di cui all’art. 117, terzo comma, della Costituzione, come quelli
che fanno capo alla distribuzione dell’energia e allo sviluppo dei sistemi di
telecomunicazione. Tali interessi, ancorché non resi espliciti nel dettato
della legge quadro in esame, sono indubbiamente sottesi alla considerazione del
"preminente interesse nazionale alla definizione di criteri unitari e di
normative omogenee” che, secondo l’art. 4, comma 1, lettera a, della legge quadro, fonda
l’attribuzione allo Stato della funzione di determinare detti valori–soglia. In
sostanza, la fissazione a livello nazionale dei valori–soglia, non derogabili
dalle Regioni nemmeno in senso più restrittivo, rappresenta il punto di
equilibrio fra le esigenze contrapposte di evitare al massimo l’impatto delle
emissioni elettromagnetiche, e di realizzare impianti necessari al paese, nella
logica per cui la competenza delle Regioni in materia di trasporto dell’energia
e di ordinamento della comunicazione è di tipo concorrente, vincolata ai
principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato.
Tutt’altro
discorso è a farsi circa le discipline localizzative e territoriali. A questo
proposito è logico che riprenda pieno vigore l’autonoma capacità delle Regioni
e degli enti locali di regolare l’uso del proprio territorio, purché,
ovviamente, criteri localizzativi e standard
urbanistici rispettino le esigenze della pianificazione nazionale degli
impianti e non siano, nel merito, tali da impedire od ostacolare
ingiustificatamente l’insediamento degli stessi.
8. – Alla luce
di queste premesse possono ora essere esaminate le specifiche censure mosse nei
ricorsi alle disposizioni delle leggi regionali impugnate.
L’art. 3,
comma 3, della legge della Regione Marche prevede che l’installazione degli
impianti sia sottoposta "ad opportune procedure di valutazione di impatto
ambientale così come previsto dall’articolo 2–bis della legge 1° luglio 1997, n. 189”. Il successivo comma 4
demanda ad un atto della Giunta la determinazione delle modalità di attuazione.
Le due disposizioni sono impugnate dal Presidente del Consiglio sul presupposto
che esse eccedano la competenza regionale, poiché la competenza resterebbe
riservata allo Stato in funzione della tutela dell’ambiente.
La questione
è infondata per quanto riguarda il comma 3: infatti la sottoposizione a
valutazione di impatto ambientale della installazione degli impianti in
questione, anche a prescindere dalla previsione analoga contenuta nella legge
statale (poi abrogata dall’art. 12 del d. lgs. n. 198 del 2002, a sua volta
però caducato dalla sentenza n. 303 del 2003 di questa Corte),
afferisce alla disciplina dell’uso del territorio, e non contrasta con alcun
principio fondamentale della legislazione statale.
Non vale in
contrario il richiamo agli articoli 1, comma 6, lettera a, n. 2, e 2, comma 6, della legge 31 luglio 1997, n. 249, e
all’art. 2, comma 1, del decreto legge 23 gennaio 2001, n. 5, convertito con la
legge 20 marzo 2001, n. 66, che si riferiscono alla elaborazione dei piani di
assegnazione delle frequenze da parte dell’Autorità per le garanzie nelle
comunicazioni. Tali piani comportano bensì la necessità di prevedere in via
generale l’ubicazione degli impianti sul territorio, ma non esauriscono le
decisioni di concreta localizzazione degli stessi, che restano nella sfera
della competenza regionale e locale, come confermano sia l’art. 8, comma 1,
lettera a, della legge quadro, sia,
per la fase transitoria, l’art. 2, commi 1 e 1–bis, del decreto legge n. 5 del 2001.
9. – Fondata
è invece la questione relativamente al comma 4, per l’assoluta indeterminatezza
del potere demandato alla Giunta. Una procedura di valutazione di impatto può
di fatto tradursi in un ostacolo ingiustificato alla realizzazione di impianti
che sono oggetto di una programmazione nazionale, a seconda del modo in cui
venga disciplinata e degli effetti attribuiti alle determinazioni assunte
nell’ambito della stessa. La totale libertà attribuita alla Giunta nel dettare
tale disciplina, senza l’indicazione di alcun criterio da parte della legge,
viola il principio di legalità sostanziale, oltre che consentire l’emanazione
di discipline regionali eccedenti l’ambito dei poteri della Regione o
contrastanti con i principi fondamentali desumibili dalla legislazione statale:
e determina pertanto l’illegittimità costituzionale della disposizione
impugnata.
10. – L’art.
3, comma 6, della legge marchigiana impone, sia pure in via transitoria, e cioè
fino all’adozione "dei decreti e regolamenti previsti dall’articolo 4” della
legge statale n. 36 del 2001, che la progettazione, la realizzazione e la
modifica degli impianti siano attuate in modo da ottenere "quale obiettivo di
qualità”, in corrispondenza di edifici adibiti a permanenze non inferiori a
quattro ore, valori di campo elettrico non superiori a 3 Volt/metro.
Il ricorrente
censura tale disposizione in quanto essa invaderebbe l’attribuzione, riservata
allo Stato dall’art. 4, comma 1, lettera a,
della legge n. 36 del 2001, di determinare i limiti di esposizione, i valori di
attenzione e gli obiettivi di qualità in termini di valori di campo.
La questione
è fondata.
Come si è detto,
la legge quadro distingue nettamente fra gli "obiettivi di qualità” in termini
di valori di campo, ai fini della "progressiva minimizzazione dell’esposizione”
– definiti dallo Stato – e gli "obiettivi di qualità” in termini di criteri
localizzativi, standard urbanistici,
prescrizioni e incentivazioni per l’utilizzo delle migliori tecnologie
disponibili, indicati dalle leggi regionali. Nel caso della disposizione
impugnata, si tratta all’evidenza di un obiettivo del primo tipo, la cui
definizione è rimessa allo Stato: onde essa eccede l’ambito della competenza
regionale.
11. – L’art.
7, comma 3, della legge delle Marche stabilisce che con atto della Giunta
regionale sono determinate le distanze minime, da rispettare nell’installazione
degli impianti, dal perimetro esterno di edifici "destinati ad abitazioni, a
luoghi di lavoro o ad attività diverse da quelle specificamente connesse
all’esercizio degli impianti stessi”, di ospedali, case di cura e di riposo,
edifici adibiti al culto, scuole ed asili nido, nonché di immobili vincolati ai
sensi della legislazione sui beni storico–artistici o individuati come edifici
di pregio storico–architettonico, di parchi pubblici, parchi gioco, aree verdi
attrezzate ed impianti sportivi.
Il Presidente
del Consiglio censura tale disposizione in quanto essa introduce un parametro,
quello della distanza, diverso da quelli "di attenzione” la cui determinazione
è riservata allo Stato ai sensi dell’art. 4, comma 1, lettera a, della legge quadro.
La questione
è fondata.
La totale
libertà attribuita alla Giunta ai fini della determinazione delle distanze
minime, e la genericità ed eterogeneità delle categorie di aree e di edifici
rispetto a cui il vincolo di distanza minima viene previsto, configurano non
già un quadro di prescrizioni o standard
urbanistici, bensì un potere amministrativo in contrasto con il principio di
legalità sostanziale e tale da poter pregiudicare l’interesse, protetto dalla
legislazione nazionale, alla realizzazione delle reti di telecomunicazione. La
norma impugnata eccede pertanto i limiti della competenza regionale.
12. – Della
legge regionale della Campania è impugnato in primo luogo l’art. 1, comma 2, in
cui si enuncia che "per i fini di cui al comma 1” – vale a dire per la tutela
della salute e per la salvaguardia dell’ambiente dall’inquinamento
elettromagnetico – la legge "detta norme per la localizzazione degli
elettrodotti”.
Secondo il
ricorrente, il rinvio a finalità di "tutela dell’ambiente” violerebbe la
competenza esclusiva dello Stato in questa materia.
La generica
censura è infondata per le ragioni già esposte sopra, al n. 5.
13. – L’art.
2 della stessa legge stabilisce che i Comuni devono indicare nei loro strumenti
urbanistici gli elettrodotti esistenti e i corridoi aerei o interrati per la
localizzazione delle linee elettriche di voltaggio superiore a 30.000 volt
(comma 1); che l’ampiezza dei corridoi è definita "con direttiva della Regione”
(comma 2); che gli strumenti urbanistici devono assicurare il rispetto di un
valore limite di induzione magnetica difforme da quello definito dallo Stato,
in prossimità di edifici adibiti a permanenze prolungate (comma 3).
Dette norme
sono censurate per contrasto con i principi della legge statale.
La questione
è infondata relativamente al comma 1, che si limita a prevedere la indicazione
obbligatoria negli strumenti urbanistici degli elettrodotti e dei corridoi per
la loro localizzazione (che dovrà, evidentemente, essere conforme alla
specifica normativa e alla pianificazione statale), nonché relativamente al
comma 2, che si limita a prevedere una direttiva regionale sull’ampiezza dei
corridoi, che è altra cosa rispetto alla definizione di vincoli nelle fasce di
rispetto.
14. – E’
invece fondata, per le ragioni esposte sopra al n. 7, la questione
relativamente al comma 3 dell’art. 2, che introduce un valore limite di
induzione magnetica in prossimità di determinati edifici ed aree, il quale si
sovrappone ai limiti di esposizione fissati dallo Stato [cfr. art. 4 del
d.P.C.m. 23 aprile 1992, recante "Limiti massimi di esposizione ai campi
elettrico e magnetico generati alla frequenza industriale nominale (50 Hz)
negli ambienti abitativi e nell’ambiente esterno”, richiamato in via
transitoria dall’art. 16 della legge quadro].
15. – L’art.
3 della legge regionale della Campania stabilisce, al comma 1, che i Comuni,
con le procedure previste per la localizzazione delle opere pubbliche, adeguano
la pianificazione urbanistica individuando gli elettrodotti in esercizio che
non rispettano il valore limite di induzione magnetica di cui all’art. 2, comma
3, e che sono oggetto di interventi prioritari di risanamento; al comma 2, che
le imprese distributrici di energia elettrica con elettrodotti di tensione fino
a 150 kV presentano alla Regione un piano di risanamento con le modalità e i
tempi degli interventi da realizzare, piano che è approvato, ai sensi del comma
3, dalla Regione sentiti il Comune interessato e l’Agenzia regionale per la
protezione dell’ambiente; infine il comma 4 prevede che "per le finalità di cui
al comma 1” le imprese distributrici di energia elettrica per le reti di
tensione superiore a 150 kV attivano la procedura di risanamento con le
modalità previste dal d.P.C.m. 23 aprile 1992 (erroneamente indicato con la
data del 23 aprile 1993).
Il ricorrente
censura tutta la disposizione perché non avrebbe tenuto conto della riserva
allo Stato della competenza a stabilire i criteri di elaborazione dei piani di
risanamento, anche con riferimento alle modalità di coordinamento delle
attività riguardanti più Regioni.
La questione
è fondata per quanto riguarda il comma 1, che fa riferimento ai valori-limite
di cui all’art. 2, comma 3, in conseguenza della illegittimità di quest’ultimo;
nonché, per le stesse ragioni, per quanto riguarda il rinvio alle finalità del
comma 1 contenuto nel comma 4 dello stesso art. 2.
16. – Non è
invece fondata la medesima questione per quanto riguarda i commi 2 e 3, che
fanno riferimento alla competenza alla approvazione dei piani di risanamento
degli elettrodotti di tensione fino a 150 kV, competenza riconosciuta alla
Regione dall’art. 9, comma 3, secondo periodo, della legge quadro. Né può
sostenersi che la Regione debba attendere la statuizione da parte dello Stato
dei criteri di elaborazione e delle modalità di coordinamento interregionale
dei piani (ai sensi dell’art. 4, comma 1, lettera d, della legge quadro), che non condizionano, anche ai sensi del
citato art. 9 della legge statale, la predisposizione dei piani, ma semmai,
eventualmente, ne potranno comportare l’adeguamento una volta che lo Stato
abbia provveduto.
Parimenti non
fondata è la questione con riguardo al comma 4, escluso l’inciso iniziale: per gli
elettrodotti di tensione superiore a 150 kV si fa infatti rinvio alle procedure
stabilite dall’atto statale (sia pure erroneamente indicato quanto alla data).
17. – E’
censurato anche l’art. 7 della legge della Regione Campania, che stabilisce le
sanzioni per il superamento dei limiti fissati dalla stessa legge e per la
mancata presentazione dei piani di risanamento. Il ricorrente lamenta che sia
fissato un regime sanzionatorio autonomo senza tener conto di quello previsto
dall’art. 15 della legge quadro.
La questione
è fondata.
La competenza
a disciplinare le sanzioni per il superamento dei valori–limite non può che
seguire la competenza a fissare gli stessi valori, e quindi nella specie spetta
allo Stato (cfr. infatti l’art. 15 della legge quadro). Quanto agli effetti
della mancata presentazione dei piani di risanamento, o del mancato rispetto
delle prescrizioni dei piani, provvede l’art. 9 della legge quadro, ai cui
sensi la Regione è abilitata a sostituirsi ai gestori adottando il piano per
gli elettrodotti minori (comma 3, terzo periodo), mentre il mancato risanamento
comporta, a titolo di sanzione, che non si riconosca al gestore inadempiente il
canone per l’utilizzo della linea non risanata, nonché la disattivazione
temporanea degli impianti, con provvedimento del Ministro per gli elettrodotti maggiori,
della Regione per quelli minori (comma 6).
La disciplina
impugnata è dunque costituzionalmente illegittima in quanto si sovrappone a
quella statale recata dalla legge quadro.
18. – Infine
il ricorrente impugna l’art. 8 della legge campana, che impone l’adeguamento
degli elettrodotti già autorizzati ma non ancora in esercizio al valore–limite
di induzione magnetica fissato dall’art. 2, comma 3, disponendo la sospensione
della autorizzazione fino alla pronuncia della Regione: secondo il Presidente
del Consiglio la normativa transitoria della legge regionale si sovrapporrebbe
a quella recata dall’art. 16 della legge quadro.
La questione
è fondata, in conseguenza del riconoscimento della illegittimità costituzionale
del richiamato art. 2, comma 3.
19. – La
prima disposizione impugnata della legge della Regione Puglia è l’art. 3, comma
1, lettera m, che definisce "aree
sensibili” le "aree per le quali le amministrazioni comunali, su
regolamentazione regionale, possono prescrivere localizzazioni alternative
degli impianti, in considerazione della particolare densità abitativa, della
presenza di infrastrutture e/o servizi a elevata intensità d’uso, nonché dello
specifico interesse storico–architettonico e paesaggistico–ambientale”. Il successivo
art. 4, comma 1, stabilisce che la Regione, "nel rispetto dei limiti previsti
dal d.m. n. 381/1998” (contenente la disciplina, cui rimanda, in via
transitoria, l’art. 16 della legge quadro, sui limiti di esposizione, le misure
di cautela e gli obiettivi di qualità relativamente ai sistemi fissi delle
telecomunicazioni e radiotelevisivi), e "tenendo conto degli strumenti della
pianificazione territoriale, paesaggistica e ambientale, a livello regionale e
locale”, "detta i criteri generali per la localizzazione degli impianti, nonché
i criteri inerenti l’identificazione delle ‘aree sensibili’ e la relativa
perimetrazione”.
Secondo il ricorrente,
tale disciplina eccederebbe dalla competenza regionale: definendo le "aree
sensibili” e prevedendo i criteri per la loro identificazione e perimetrazione,
introdurrebbe nozioni estranee alla legislazione statale di principio e si
porrebbe in contrasto con essa.
La questione
non è fondata.
Le "aree
sensibili” sono definite dalla legge regionale con riguardo a situazioni e
interessi (tutela della popolazione nelle aree densamente abitate o
frequentate, interesse storico–artistico o paesistico dell’area) di cui la
Regione ha certamente titolo per occuparsi in sede di regolazione dell’uso del
proprio territorio. Soprattutto, poi, la definizione e la perimetrazione di
tali aree, nel sistema della legge regionale, hanno l’unico scopo di fondare la
previsione di "localizzazioni alternative”, cioè un tipo di misura che, fermo
restando il necessario rispetto dei vincoli della programmazione nazionale
delle reti e della pianificazione del territorio, rientra appieno nella
competenza regionale in tema di governo del territorio, e specificamente nella
competenza regionale, riconosciuta dalla legge quadro (art. 8, comma 1, lettera
a), per la "individuazione dei siti
di trasmissione e degli impianti per telefonia mobile, degli impianti
radioelettrici e degli impianti per radiodiffusione”. Essa non prelude dunque
alla fissazione di valori–soglia diversi e contrastanti con quelli fissati
dallo Stato, ma attiene e può attenere solo alla indicazione di obiettivi di
qualità non consistenti in valori di campo, ma in criteri di localizzazione, standard urbanistici, prescrizioni e
incentivazioni all’utilizzo della miglior tecnologia disponibile, o alla cura
dell’interesse regionale e locale all’uso più congruo del territorio, sia pure
nel quadro dei vincoli che derivano dalla pianificazione nazionale delle reti e
dai relativi parametri tecnici, nonché dai valori–soglia stabiliti dallo Stato.
20. – E’ poi
impugnato l’art. 10, comma 1, della legge pugliese, ai cui sensi è vietata
l’installazione di sistemi radianti relativi agli impianti di emittenza
radiotelevisiva e di stazioni radio base per telefonia mobile su "ospedali,
case di cura e di riposo, scuole e asili nido”. Secondo il ricorrente tale
divieto assoluto avrebbe un contenuto diverso ed eccedente rispetto all’unico
parametro del valore di campo elettromagnetico prescritto dal d.m. n. 381 del
1998, cui rinvia la norma transitoria dell’art. 16 della legge quadro.
La questione
è infondata. Il divieto in questione, riferito a specifici edifici, non eccede
l’ambito di un "criterio di localizzazione”, in negativo, degli impianti, e
dunque l’ambito degli "obiettivi di qualità” consistenti in criteri
localizzativi, la cui definizione è rimessa alle Regioni dall’art. 3, comma 1,
lettera d, e dall’art. 8, comma 1,
lettera e, della legge quadro; né di per sé è suscettibile di
pregiudicare la realizzazione delle reti.
21. – Diversa
è la conclusione quanto all’art. 10, comma 2, della stessa legge, che estende
il divieto di localizzazione degli impianti alle aree vincolate ai sensi della
legge statale sui beni culturali e ambientali, alle aree classificate di
interesse storico–architettonico, alle aree "di pregio storico, culturale e
testimoniale”, e alle fasce di rispetto, perimetrate secondo una delibera della
Giunta regionale, degli immobili "protetti” di cui al comma 1 (ospedali, case
di cura e di riposo, scuole e asili nido): disposizione al cui proposito il
ricorrente rileva che essa invaderebbe la competenza esclusiva dello Stato in
materia ambientale e contrasterebbe con l’art. 5 della legge quadro, che
riserverebbe ad un regolamento statale l’adozione di misure specifiche
finalizzate alla tutela dell’ambiente e del paesaggio.
Tale
questione è fondata. In questo caso infatti l’ampiezza e la eterogeneità delle
categorie di aree contemplate, l’indeterminatezza di alcune definizioni (come
quella di aree "di pregio … testimoniale”) e la assoluta discrezionalità
attribuita alla Giunta nel perimetrare le fasce di rispetto relative agli
immobili di cui al comma 1, fanno del divieto legislativo – analogamente a
quanto si è osservato sopra, al n. 11, a proposito di una simile disposizione
della legge delle Marche – un vincolo in grado, nella sua assolutezza, di
pregiudicare l’interesse, protetto dalla legislazione nazionale, alla
realizzazione delle reti di telecomunicazione, nonché lesivo, per ciò che
attiene alla determinazione delle fasce di rispetto, del principio di legalità
sostanziale.
22. – Della
legge regionale umbra è impugnato anzitutto l’art. 1, comma 1, perché,
nell’enunciare le finalità della legge, afferma che le sue norme sono dettate,
oltre che "a tutela della salute e della popolazione dagli effetti della
esposizione ai campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici”, anche "a
salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio”: la tutela dell’ambiente sarebbe
infatti attribuita alla legislazione esclusiva dello Stato.
La questione
è infondata per le ragioni già esposte sopra al n. 5.
23. – E’
impugnato anche il comma 2 dell’art. 1, ai cui sensi "i fini di cui al comma 1
sono conseguiti disciplinando la localizzazione, la costruzione, la
modificazione ed il risanamento degli impianti che producono” le emissioni in
questione, nonché "mediante l’individuazione, in coerenza con le previsioni
contenute nella legge n. 36/2001, di adeguati limiti di esposizione”.
Secondo il
ricorrente l’art. 5, comma 1, della legge quadro riserverebbe allo Stato le
"misure specifiche relative alle caratteristiche tecniche degli impianti e alla
localizzazione dei tracciati per la progettazione, la costruzione e la modifica
degli elettrodotti e di impianti per telefonia mobile e radiodiffusione”, e "le
particolari misure atte ad evitare danni ai valori ambientali e paesaggistici”:
onde si sarebbe nel campo della legislazione esclusiva dello Stato per la
tutela dell’ambiente. Sempre secondo il ricorrente, anche se la legge regionale
si definisce volta alla tutela sanitaria, non sarebbe ammissibile che la
legislazione concorrente regionale prevalga su quella esclusiva dello Stato. In
ogni caso, pur se si ritenesse ammissibile una legislazione regionale
concorrente, nella specie, fra i principi fondamentali da osservare vi
sarebbero quelli che assicurano la realizzazione del principio di uguaglianza,
che sarebbe violato se si ammettesse una tutela differenziata per Regioni
attraverso un livello di protezione contro le radiazioni elettromagnetiche
diverso (e sia pure maggiore) per una Regione rispetto ad altre.
La questione
è infondata con riguardo alla prima parte della disposizione, per le ragioni
già esposte sopra, al n. 5. Del resto, che vi possa e vi debba essere una
disciplina regionale della localizzazione, della costruzione, della
modificazione e del risanamento degli impianti risulta espressamente dalla stessa
legge quadro, che attribuisce alle Regioni competenza, fra l’altro, in tema di
localizzazione degli impianti (art. 8, comma 1, lettere a e b), di rilascio delle
autorizzazioni alla installazione degli impianti (art. 8, comma 1, lettera c), di adozione o approvazione di piani
di risanamento (art. 9).
24. – La
questione è invece fondata con riguardo alla seconda parte della disposizione,
che si riferisce alla individuazione (sia pure "in coerenza” con le previsioni
della legge quadro: ma non è chiaro come si misurerebbe tale coerenza) di
"adeguati limiti di esposizione”.
Non può
condividersi l’assunto del ricorrente, secondo cui di per sé una
differenziazione in melius dei
livelli di tutela sanitaria sarebbe in contrasto con il principio di
eguaglianza: in linea di principio possono infatti, come si è detto, ammettersi
interventi regionali di maggiore tutela. Ma, per le ragioni esposte sopra, al
n. 7, i limiti di esposizione in materia di inquinamento elettromagnetico,
fissati dallo Stato, debbono ritenersi inderogabili dalle Regioni anche in melius, esprimendo essi (ove se ne
postuli l’adeguatezza in assoluto a proteggere la salute, ciò che, nella
specie, non è oggetto di contestazione) il punto di equilibrio fra l’esigenza
di tutela della salute e dell’ambiente e quella di consentire la realizzazione
di impianti di interesse nazionale.
L’art. 1,
comma 2, della legge umbra è dunque costituzionalmente illegittimo
limitatamente alla parte in cui prevede l’individuazione da parte della Regione
di limiti di esposizione.
25. – E’
impugnato l’art. 2 della legge, che, sotto la rubrica "Principio di
giustificazione”, stabilisce che nella pianificazione della localizzazione di
nuovi impianti e in sede di rilascio delle autorizzazioni i gestori e i concessionari
(salvo che per gli "impianti di competenza del Piano di assegnazione delle
frequenze di cui alla legge 31 luglio 1997, n. 249”) sono "tenuti a dimostrare
le ragioni obiettive della indispensabilità degli impianti stessi ai fini
dell’operatività del servizio”. Ad avviso del ricorrente non si potrebbero
attribuire alla Regioni valutazioni – come quelle sulla indispensabilità degli
impianti – che atterrebbero alla responsabilità dei gestori, senza alterare le
condizioni del mercato concorrenziale, così sconfinando anche nell’ambito della
competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela della concorrenza (art.
117, secondo comma, lettera e, della
Costituzione).
La questione
è fondata, non perché possa ritenersi tale disciplina attinente alla "tutela
della concorrenza” di competenza statale (trattandosi qui solo del rapporto
pubblicistico fra gestore ed ente pubblico cui spettano i poteri di
pianificazione, autorizzazione e vigilanza), ma perché richiedere una
condizione ulteriore di tenore generico, come la dimostrazione della
"indispensabilità” dell’impianto ai fini della operatività del servizio,
significa attribuire all’amministrazione autorizzante un largo e indeterminato
potere discrezionale che può finire per configurarsi come arbitrio. Il che non
toglie, naturalmente, che il rilascio delle autorizzazioni debba rispondere
anche a criteri di funzionalità delle reti e dei servizi, trattandosi comunque
di impianti che gravano con un impatto negativo sull’ambiente in termini di
emissioni oltre che in termini di "consumo” o alterazione di risorse
territoriali e ambientali.
26. – L’art.
4, comma 1, lettera b, della legge dell’Umbria prevede che in
determinate aree definite "sensibili”, individuate dai Comuni d’intesa con le
Province in riferimento a zone ad alta densità abitativa o caratterizzate dalla
presenza di strutture di tipo assistenziale, sanitario o educativo, le
amministrazioni comunali "possono prescrivere modifiche, adeguamenti o la
delocalizzazione di elettrodotti con tensione nominale superiore a venti kV e
di impianti radioelettrici”, esistenti o di nuova realizzazione, "al fine di
garantire la massima tutela ambientale dell’area stessa”.
Il ricorrente
censura la disposizione in quanto in materia di risanamento una differenza di
discipline fra diversi territori non sarebbe ammissibile, perché non
assicurerebbe il rispetto del principio di eguaglianza.
La questione
è infondata.
Mentre è
improprio, per le ragioni già viste, invocare il principio di eguaglianza,
l’attribuzione ai Comuni di poteri limitati in ordine alla localizzazione e
alle caratteristiche degli impianti nelle aree "sensibili” non eccede i poteri
del legislatore regionale in relazione agli "obiettivi di qualità” che la
Regione può legittimamente indicare ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera d, n. 1, e all’art. 8, comma 1, lettera e, della legge quadro. In particolare,
l’ultima delle disposizioni citate attribuisce espressamente alla competenza
delle Regioni la "individuazione degli strumenti e delle azioni per il
raggiungimento degli obiettivi di qualità” consistenti, ai sensi della prima
delle citate disposizioni, in criteri localizzativi, standard urbanistici, prescrizioni e incentivazioni per l’utilizzo
delle migliori tecnologie disponibili.
27. – L’art.
5, comma 1, lettera c, della legge prevede
che la Giunta regionale con proprio regolamento "fissa i criteri per
l’elaborazione e l’attuazione dei piani di risanamento degli impianti
radioelettrici, di telefonia mobile e di radiodiffusione”.
Il ricorrente
censura la disposizione affermando la inammissibilità di una differenziazione
per Regioni della disciplina in materia di risanamento.
Anche questa
questione è infondata. Premesso che non è contestata – né in questo caso né a
proposito di altre analoghe disposizioni pure impugnate nei presenti giudizi –
la legittimità del ricorso allo strumento regolamentare né la competenza della
Giunta ad adottarlo, basta qui osservare che l’art. 9, comma 1, della legge
quadro espressamente attribuisce alla Regione il compito di adottare i piani di
risanamento per gli impianti radioelettrici, senza nemmeno prevedere in
proposito – come invece prevede per gli elettrodotti l’art. 4, comma 1, lettera
d, e comma 4, della stessa legge –
criteri statali di elaborazione dei piani.
28. – Il
comma 2 dello stesso art. 5 prevede che la Giunta regionale, sentite le Province,
proponga al Ministero dell’ambiente il piano di risanamento degli elettrodotti
con tensione superiore a 150 kv "in caso di inerzia o inadempienza dei
gestori”.
Il Presidente
del Consiglio sostiene, da un lato, che si tratterebbe di materia di esclusiva
competenza statale, dall’altro che, attribuendosi un potere di proposta dei
piani, la Regione porrebbe dei limiti ai poteri deliberativi dello Stato,
"salvo che la norma non vada interpretata nel senso che la proposta in questo
caso costituisce solo una sollecitazione per il Ministero che potrà deliberare
un piano del tutto diverso da quello proposto”.
La questione è
infondata.
L’art. 9,
comma 3, primo periodo, della legge quadro prevede che per gli elettrodotti in
questione la proposta di piano sia presentata dai gestori al Ministero
dell’ambiente, nulla disponendosi per il caso di mancata presentazione (salve
le sanzioni previste dal comma 6 per l’ipotesi di mancato risanamento dovuto a
inerzia o inadempimento di coloro che hanno la disponibilità
dell’elettrodotto). La disposizione regionale contestata non avoca alla Regione
il potere di approvare i piani, espressamente riservato al Ministero, ma si
limita a prevedere che la Regione possa proporre al Ministero stesso il piano
se il gestore omette di farlo. Resta evidentemente salvo il potere del Ministero
di approvare il piano, o di non approvarlo (e di procedere alla elaborazione in
proprio di un piano alternativo), ovvero di introdurvi "modifiche, integrazioni
e prescrizioni”, ai sensi del citato art. 9, comma 3, primo periodo, senza che
la proposta regionale risulti dunque vincolante per il Ministero medesimo.
Onde la
previsione regionale si riduce alla introduzione di un rimedio all’inerzia dei
gestori, attraverso una facoltà di proposta rispetto alla quale l’organo
centrale conserva tutta la propria libertà di determinazione.
29. – E’
impugnato altresì l’art. 12, comma 1, della legge umbra, che dispone la sottoposizione
degli impianti di telefonia mobile alla procedura di verifica prevista
dall’art. 4 della legge regionale 9 aprile 1998, n. 11 (Norme in materia di
impatto ambientale) – attraverso cui la Giunta regionale dichiara la necessità
di sottoporre il progetto alla procedura di valutazione di impatto ambientale
ovvero la esclusione dello stesso da tale procedura dettando eventuali
prescrizioni –, ovvero alla procedura di valutazione di impatto ambientale
disciplinata dall’art. 5 della stessa legge regionale n. 11 del 1998, nei casi
previsti dal regolamento regionale.
Secondo il
ricorrente sarebbe violata la normativa statale e comunitaria in materia di
valutazione d’impatto ambientale, e andrebbe assicurata la parità di
trattamento che inciderebbe anche sotto il profilo della concorrenza.
La questione
è fondata.
La
disposizione impugnata rimette alla Giunta, senza indicazione alcuna di criteri
(cfr. art. 5, comma 1, lettera f, cui
fa rinvio l’art. 12, comma 1, della legge impugnata), la determinazione dei
casi in cui è imposta la valutazione di impatto ambientale; e anche fuori di
tali casi prevede che sia la Giunta, nell’ambito della procedura cosiddetta di
"verifica”, a stabilire se il progetto debba essere sottoposto alla procedura
di valutazione.
L’art. 4,
comma 2, della legge regionale n. 11 del 1998, cui fa rinvio la disposizione
denunciata, coordinato con l’art. 3, comma 3, della stessa legge, demanda alla
Giunta la dichiarazione della necessità di sottoporre a valutazione d’impatto
progetti rientranti in categorie contemplate dalla normativa statale di cui al
d.P.R. 12 aprile 1996 (Atto di indirizzo e coordinamento per l’attuazione
dell’art. 40, comma 1, della legge 22 febbraio 1994, n. 146, concernente
disposizioni in materia di valutazione di impatto ambientale), che prevede
appunto, all’art. 1, comma 6, e all’art. 10, una procedura di verifica ad opera
dell’autorità competente per i progetti elencati nell’allegato B non ricadenti
nell’ambito di aree naturali protette, sulla base di elementi indicati
nell’allegato D dello stesso decreto. Ma, nel caso degli impianti qui in
discussione, che non sono contemplati dalla normativa statale citata, nessun
criterio è dato ricavare, dalla legislazione regionale richiamata, in ordine al
contenuto della verifica prevista e alla scelta demandata alla Giunta.
Onde, in
definitiva, la legge attribuisce alla Giunta la possibilità di imporre
discrezionalmente, senza base in criteri legislativi ragionevolmente delimitati
e dunque in violazione del principio di legalità sostanziale, una procedura –
come quella di valutazione di impatto ambientale – che può tradursi in un
ostacolo effettivo alla realizzazione di reti e impianti di interesse
nazionale. Per questa ragione la disposizione impugnata è costituzionalmente
illegittima.
30. – L’art.
13 della legge dell’Umbria stabilisce che "le modalità, i criteri ed i procedimenti
amministrativi preordinati alla localizzazione, al risanamento ed al rilascio
di autorizzazione per la realizzazione e la modifica degli impianti sono
definiti dalla Giunta regionale, nel rispetto delle norme in materia di
procedimento amministrativo e del d.P.R. 20 ottobre 1998, n. 447 e successive
modificazioni ed integrazioni”.
Il ricorrente
ritiene che la illegittimità costituzionale di tale disposizione consegua a
quella delle altre norme impugnate in quanto "una volta esclusa la competenza
regionale, cade anche la disciplina del procedimento, che dà per presupposta
quella competenza”. Lamenta inoltre che la legge regionale rimetta alla Giunta
regionale la disciplina, oltre che dei procedimenti, dei criteri per la
localizzazione e il risanamento degli impianti, senza la fissazione di "limiti
o orientamenti legislativi”. Circa poi il procedimento, sarebbe violato l’art.
9 della legge quadro.
La questione
è fondata.
Non può
condividersi, per le ragioni già viste, l’assunto secondo cui la materia
esulerebbe dalla competenza regionale; e nessuno specifico contrasto è dato di
rilevare con l’art. 9 della legge quadro in tema di piani di risanamento. Resta
però il fatto che la disposizione impugnata configura una totale
discrezionalità della Giunta, non delimitata da alcuna determinazione
legislativa, non solo per la definizione dei procedimenti (in relazione ai
quali soltanto vale, peraltro, il richiamo alle norme generali sul procedimento
amministrativo e alle norme statali in materia, fra l’altro, di procedimenti di
autorizzazione per la realizzazione di impianti produttivi, contenute nel
d.P.R. 20 ottobre 1998, n. 447), ma anche per la definizione dei "criteri”
preordinati alla localizzazione, al risanamento e all’autorizzazione degli
impianti. Tale discrezionalità, nella sua assolutezza, viola il principio di
legalità sostanziale e non è compatibile con l’esigenza di non ostacolare
ingiustificatamente la realizzazione degli impianti.
31. – Infine il
Presidente del Consiglio impugna l’art. 16 della legge dell’Umbria, ai cui
sensi "la Giunta regionale con norme regolamentari definisce”, "in via
transitoria fino all’approvazione dei decreti di cui all’articolo 4 della legge
n. 36/2001, le disposizioni di prima applicazione della presente legge, idonee
a conseguire le finalità di cui all’articolo 1”.
Il ricorrente
osserva che la disposizione contrasta con l’art. 16 della legge quadro, che ha
posto la disciplina transitoria.
La questione
è fondata.
Ancorché la
norma regionale impugnata non precisi in che cosa possano consistere le
"disposizioni di prima applicazione” cui si riferisce, essa oggettivamente
assume la portata di consentire una disciplina, sia pure transitoria, anche e
specificamente della materia dei valori–soglia, spettante alla competenza
statale: come emerge dal richiamo all’attesa dell’emanazione dei decreti
previsti dall’art. 4 della legge quadro, diretti, fra l’altro, a stabilire
(comma 2) i limiti di esposizione, i valori di attenzione e gli obiettivi di
qualità di competenza statale, nonché dal generico richiamo alla idoneità a
"conseguire le finalità” della legge. Il regime transitorio è invece definito
dalla legge quadro, all’art. 16, con il richiamo dei preesistenti atti statali
che fissano i valori–soglia in tema di esposizione all’inquinamento
elettromagnetico; e la Regione non può, nemmeno nella fase transitoria,
sostituire proprie determinazioni a quelle dettate dallo Stato.
riuniti i
giudizi,
a) dichiara inammissibili gli interventi
spiegati, nel giudizio introdotto con il ricorso iscritto al n. 5 del registro
ricorsi 2002, dal Gestore della Rete di Trasmissione Nazionale s.p.a., dalle
società ENEL s.p.a., ENEL Distribuzione s.p.a., TERNA–Trasmissione Elettricità
Rete Nazionale s.p.a., e dal Comune di Lacco Ameno; nel giudizio introdotto con
il ricorso iscritto al n. 35 del registro ricorsi 2002, dalla Società Wind
Telecomunicazioni s.p.a.; e, nel giudizio introdotto con il ricorso iscritto al
n. 52 del registro ricorsi 2002, dalla Vodafone Omnitel s.p.a.;
b) dichiara l’illegittimità costituzionale
degli articoli 3, commi 4 e 6, e 7, comma 3, della legge regionale delle Marche
13 novembre 2001, n. 25 (Disciplina regionale in materia di impianti fissi di
radiocomunicazione al fine della tutela ambientale e sanitaria della
popolazione);
c) dichiara non fondata la questione di
legittimità costituzionale dell’articolo 3, comma 3, della predetta legge
regionale delle Marche n. 25 del 2001, sollevata, in riferimento all’articolo
117, secondo comma, lettera s, e
terzo comma, della Costituzione, e in relazione agli articoli 1, comma 6,
lettera a, numero 2, e 2, comma 6,
della legge 31 luglio 1997, n. 249, e all’articolo 2, comma 1, del decreto
legge 23 gennaio 2001, n. 5, convertito con legge 20 marzo 2001, n. 66, col
ricorso iscritto al n. 4 del registro dei ricorsi del 2002;
d) dichiara l’illegittimità costituzionale
degli articoli 2, comma 3, 3, comma 1, 7 e 8 della legge regionale della
Campania 24 novembre 2001, n. 13 (Prevenzione dei danni derivanti dai campi
elettromagnetici generati da elettrodotti);
e) dichiara l’illegittimità costituzionale
dell’articolo 3, comma 4, della predetta legge regionale della Campania n. 13
del 2001 limitatamente alle parole "Per le finalità di cui al comma 1”;
f) dichiara non fondate le questioni di
legittimità costituzionale degli articoli 1, comma 2, 2, commi 1 e 2, e 3, commi
2, 3 e 4 (salvo quanto disposto nel precedente capo e), della predetta legge regionale della Campania, sollevate, in
riferimento all’articolo 117, secondo comma, lettera s, e terzo comma, della Costituzione, e in relazione alla legge 22
febbraio 2001, n. 36, col ricorso iscritto al n. 5 del registro dei ricorsi del
2002;
g) dichiara l’illegittimità costituzionale
dell’articolo 10, comma 2, della legge regionale della Puglia 8 marzo 2002, n.
5 (Norme transitorie per la tutela dall’inquinamento elettromagnetico prodotto
da sistemi di telecomunicazioni e radiotelevisivi operanti nell’intervallo di
frequenza fra 0 Hz e 300 GHz);
h) dichiara non fondate le questioni di
legittimità costituzionale degli articoli 3, comma 1, lettera m, 4, comma 1, e 10, comma 1, della
predetta legge regionale della Puglia n. 5 del 2002, sollevate, in riferimento
agli articoli 117, secondo comma, lettera s,
e terzo comma, della Costituzione, e in relazione alla legge 22 febbraio 2001,
n. 36, col ricorso iscritto al n. 35 del registro dei ricorsi del 2002;
i) dichiara l’illegittimità costituzionale
dell’articolo 1, comma 2, della legge regionale dell’Umbria 14 giugno 2002, n.
9 (Tutela sanitaria e ambientale dall’esposizione ai campi elettrici, magnetici
ed elettromagnetici), limitatamente alle parole "nonché mediante l’individuazione,
in coerenza con le previsioni contenute nella legge n. 36/2001, di adeguati
limiti di esposizione”;
l) dichiara l’illegittimità costituzionale
degli articoli 2, 12, comma 1, 13 e 16 della predetta legge regionale
dell’Umbria n. 9 del 2002;
m) dichiara non fondate le questioni di
legittimità costituzionale degli articoli 1, comma 1, 4, comma 1, lettera b, 5, comma 1, lettera c, e comma 2, della predetta legge
regionale dell’Umbria n. 9 del 2002, sollevate, in riferimento agli articoli 3
e 117, secondo comma, lettere e e s, e terzo comma, della Costituzione, e
in relazione alla legge 22 febbraio 2001, n. 36, col ricorso iscritto al n. 52
del registro dei ricorsi del 2002.
Così deciso
in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta,
l'1 ottobre 2003.
Riccardo
CHIEPPA, Presidente
Valerio
ONIDA, Redattore
Depositata in
Cancelleria il 7 ottobre 2003.