SENTENZA N. 49
ANNO 2011
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
composta dai signori:
- Ugo DE
SIERVO Presidente
- Paolo MADDALENA
Giudice
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Giuseppe TESAURO "
-
- Giuseppe FRIGO "
- Alessandro CRISCUOLO "
- Paolo GROSSI "
- Giorgio LATTANZI "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità
costituzionale dell’art. 2, commi 1, lettera b), e 2, del decreto-legge 19 agosto 2003, n. 220 (Disposizioni
urgenti in materia di giustizia sportiva), convertito, con modificazioni, con
legge 17 ottobre 2003, n. 280, promosso dal Tribunale amministrativo regionale
del Lazio nel procedimento vertente tra Cirelli
Andrea e
Visti
gli atti di costituzione della FIP, del Comitato Olimpico Nazionale Italiano
(CONI) nonchè l’atto di intervento della Associazione
Sportiva Agorà e del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito
nell’udienza pubblica del 14 dicembre 2010 il Giudice relatore
uditi l’avvocato Luciano de Luca per l’Associazione
Sportiva Agorà, Guido Valori per la FIP, Alberto Angeletti
e Luigi Medugno per il CONI e l’avvocato dello Stato
Carlo Sica per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. – Nel corso di un
giudizio avente ad oggetto la impugnazione, proposta da persona tesserata, in
qualità di dirigente sportivo, presso la Federazione italiana pallacanestro
(FIP) della sanzione disciplinare della inibizione allo svolgimento di ogni
attività endofederale per la durata di anni 3 e mesi
4, irrogata nei suoi confronti con decisione della Camera di conciliazione e
arbitrato per lo sport del Comitato olimpico nazionale italiano (CONI), e di
numerosi altri atti ad essa prodromici, il Tribunale
amministrativo regionale del Lazio, con ordinanza depositata in data 11
febbraio
1.1. – Il giudice
rimettente, prima di illustrare i profili di rilevanza e di non manifesta
infondatezza della presente questione, riferisce ampiamente in merito alle
vicende del giudizio a quo, nei termini qui di seguito
riassunti.
Nel marzo del 2007 il
ricorrente in tale giudizio, team manager
della squadra di pallacanestro Benetton Treviso, fu deferito dal Procuratore
federale della FIP di fronte agli organi della giustizia federale in quanto, al
fine di consentire il tesseramento per la predetta compagine di un giocatore,
avrebbe confezionato un falso atto di risoluzione contrattuale relativo alla
posizione di altro giocatore della medesima squadra. Per tali fatti,
costituenti illecito sportivo, egli, oltre ad essere stato licenziato dalla
Benetton Treviso, veniva sanzionato dal giudice sportivo di primo grado con la
inibizione da qualsiasi attività federale per la durata di anni 2. Essendo
stato tale provvedimento impugnato, sia dalla FIP che dal tesserato, di fronte
alla Corte federale, questa, in accoglimento del gravame proposto dalla
Federazione, aggravava la sanzione irrogata protraendo la durata della
inibizione sino a complessivi anni 3 e mesi
A questo punto il
dirigente sportivo inibito, articolando tre motivi di censura (ampliati, in
seguito, con altri due motivi aggiunti), impugnava di fronte al TAR del Lazio
sia la decisione assunta in sede conciliativa che quelle prese nelle precedenti
fasi giustiziali nonché i provvedimenti con i quali egli era stato deferito
agli organi della giustizia sportiva. Impugnava, altresì, le disposizioni, di
natura statutaria e regolamentare, le quali, disciplinando le modalità di
funzionamento della giustizia sportiva, prevedono che i tesserati federali
debbano adire gli organi della suddetta giustizia nelle materia di cui all’art.
2 del decreto-legge n. 220 del 2003, comminando a loro volta, in caso di
violazione di tale dovere, ulteriori sanzioni disciplinari.
1.2. – Nel giudizio
di fronte al TAR, si costituivano la FIP ed il CONI eccependo ambedue, in via
preliminare, il difetto di giurisdizione del giudice adito, e il secondo,
sempre preliminarmente, la propria carenza di legittimazione passiva, là dove,
nel merito, ambedue sostenevano la infondatezza del ricorso.
1.3. – Dopo che il
ricorrente aveva depositato presso la segreteria del TAR copia della sentenza
del Tribunale di Bologna che lo aveva assolto dal reato di frode sportiva
usando la formula «perché il fatto non sussiste», il TAR, in data 28 gennaio
2010, tratteneva la causa per la decisione
2. – Il giudice a quo ritiene di dovere preliminarmente
esaminare l’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dalle parti
resistenti costituite, secondo le quali le sanzioni sportive sarebbero
impugnabili, ai sensi dell’art. 2, primo comma, lettera b), del decreto-legge n. 280 del 2003, solo di fronte agli organi
della giustizia sportiva.
A tale proposito,
rileva di avere più volte affermato la propria giurisdizione in materia di
sanzioni disciplinari sportive diverse da quelle tecniche – cioè da quelle
preordinate ad assicurare la regolarità della competizione e la rispondenza del
risultato ai valori sportivi in essa espressi – in considerazione del fatto che
il principio, espresso dal decreto-legge n. 220 del 2003, secondo il quale
l’ordinamento sportivo è disciplinato autonomamente da quello statale, trova
una espressa deroga in caso di rilevanza per quest’ultimo di situazioni
giuridiche, costituenti diritti soggettivi e interessi legittimi, connesse con
il primo. È il caso delle controversie che abbiano ad oggetto rapporti
giuridici patrimoniali fra società sportive ed atleti, devolute al giudice
ordinario, ovvero il caso di controversie relative ai provvedimenti del CONI o
delle Federazioni sportive, devolute al giudice amministrativo.
2.1. – Tale
impostazione è compendiata dal rimettente nel principio secondo il quale la
giustizia sportiva si occupa della applicazione delle regole sportive, quella
statale entra in gioco ove la controversia concerna la lesione di diritti
soggettivi o interessi legittimi.
In particolare, per
ciò che concerne la giurisdizione disciplinare, il TAR ha più volte affermato
che l’art. 2, comma 1, lettera b),
del decreto-legge n. 220 del 2003, il quale riserva al giudice sportivo le
questione relative a «comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e
l’irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni sportive», non opera là
dove la sanzione non si esaurisca nell’ambito sportivo, refluendo, invece,
anche nell’ordinamento dello Stato.
In applicazione di
tale tesi il TAR, prosegue l’ordinanza di rimessione, ha affermato la propria
giurisdizione in relazione a ricorsi proposti da dirigenti, società sportive e
giudici di gara in relazione alle note sanzioni disciplinari emesse dalla Corte
federale della Federazione italiana giuoco calcio al termine della stagione
calcistica 2005/2006, mentre la ha declinata in occasione della impugnazione
del provvedimento con il quale un arbitro di calcio non era stato iscritto nei
ruoli degli arbitri della Serie A e B in considerazione della asserita carenza
delle necessarie qualità tecniche.
2.2. – Tale
impostazione, ad avviso del rimettente, si fonda anche sulla necessità di dare
dell’art. 2, comma 1, lettera b), del
decreto-legge n. 220 del 2003 una lettura costituzionalmente orientata, in
accordo col principio, più volte espresso dal giudice delle leggi, secondo il
quale l’interprete deve, fra più letture possibili di una norma, privilegiare
quella idonea a fugare i dubbi di costituzionalità, dovendosi dichiarare la
illegittimità costituzionale di una disposizione legislativa solo là dove sia
impossibile dare di essa una interpretazione che preservi i valori
costituzionali ad essa sottesi.
Aggiunge il
rimettente che anche nel caso esaminato nel giudizio a quo vi erano argomenti che, alla luce della pregressa
giurisprudenza, consentivano di affermare che il legislatore, col decreto-legge
n. 220 del 2003 avesse voluto sì garantire il previo esperimento di tutti i
rimedi propri della giustizia sportiva, ma senza che ciò, una volta esauriti
quelli, escludesse, per le sanzioni rilevanti anche nell’ordinamento generale,
la possibilità di adire il giudice dello Stato.
2.3. – Tale «parabola
argomentativa» – riferisce sempre il rimettente TAR – però non è stata, di
recente, condivisa dal Consiglio di Stato che, partendo dal rilievo che
frequentemente i provvedimenti disciplinari adottati in ambito sportivo
incidono, almeno indirettamente, su situazioni giuridiche rilevanti per
l’ordinamento generale, si è interrogato se, in tali evenienze, debba prevalere
il valore della autonomia dell’ordinamento sportivo ovvero il diritto di azione
e di difesa in giudizio. Rispondendo a tale quesito, pur consapevole delle
perplessità di ordine costituzionale che ne potrebbero derivare, il Consiglio
di Stato ha ritenuto di dover privilegiare la prima delle due possibili
alternative, affermando che, visto il tenore letterale degli artt. 2 e 3 del
decreto-legge n. 220 del 2003, deve concludersi che il legislatore, nel
demandare alla giustizia sportiva la cognizione sui comportamenti rilevanti sul
piano disciplinare e sulle conseguenti sanzioni, non ha attribuito importanza
al fatto che queste ultime possano anche produrre effetti incidenti sul piano
morale o patrimoniale.
3. – Ritiene,
pertanto, il rimettente, tenuto conto del ricordato recente arresto del
Consiglio di Stato, di dovere aderire alla impostazione di quest’ultimo,
sollevando, però, questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1,
lettera b), e, in parte qua, anche del comma 2 del decreto-legge n. 220 del 2003,
convertito con modificazioni, con legge n. 280 del 2003, per contrasto con gli
artt. 24, 103 e 113 della Costituzione, nella parte in cui riserva al giudice
sportivo la competenza a decidere in via definitiva le controversie aventi ad
oggetto sanzioni disciplinari non tecniche inflitte ad atleti, tesserati,
associazioni e società sportive, sottraendole al giudice amministrativo, anche
se i loro effetti superano l’ambito dell’ordinamento sportivo, incidendo su
diritti ed interessi legittimi.
Riscontrata la rilevanza
della questione nel giudizio a quo,
atteso che l’esame della impugnazione del ricorrente postula la giurisdizione
del giudice adito, il rimettente, aderendo alla ricordata opzione ermeneutica
del Consiglio di Stato, volta a privilegiare il tenore letterale dell’art. 2
del citato decreto-legge n. 220 del
3.1. – Ritiene il
rimettente che la tesi ora seguita violi in primo luogo l’art. 24 della
Costituzione che garantisce il diritto, in ogni stato e grado del procedimento,
di agire in giudizio a tutela dei propri diritti ed interessi legittimi.
Violati sarebbero, altresì, gli artt. 103 e 113 della Costituzione, che
consentono l’impugnativa degli atti amministrativi di fronte agli organi della
giustizia amministrativa, non potendosi dubitare, proprio per la riserva di
giurisdizione contenuta nell’art. 3 del decreto-legge n. 220 del 2003, della
riconducibilità al genere degli atti amministrativi dei provvedimenti emessi
dal CONI e dalle Federazioni sportive.
Né la disciplina
censurata può ritenersi giustificata dalla esigenza di assicurare, in
considerazione della peculiarità degli interessi in gioco, una giustizia rapida
che l’ordinamento statuale non sarebbe in grado di assicurare, dato che lo
stesso legislatore del 2003, consapevole di ciò, ha esteso al contenzioso
sportivo la disciplina acceleratoria del processo
dettata per altre materie in cui è riscontrabile la medesima esigenza di
speditezza. Aggiunge il rimettente che, se ciò non fosse stato ritenuto
sufficiente, il legislatore, senza giungere a violare il diritto di difesa,
avrebbe potuto introdurre ulteriori strumenti di velocizzazione del processo.
Precisa il rimettente
che la illegittimità costituzionale non viene da lui ravvisata nella cosiddetta
pregiudiziale sportiva, che è, anzi, una logica conseguenza della autonomia
dell’ordinamento sportivo, ma nella preclusione del ricorso alla giurisdizione
ordinaria una volta esauriti i gradi di quella sportiva. Parimenti estraneo
alla problematica in esame è il caso della sanzione tecnica, irrogata nel corso
od in conseguenza della competizione sportiva: in tal caso, infatti, manca lo
stesso presupposto per poter invocare la tutela dell’art. 24 della
Costituzione, cioè la lesione di posizioni giuridiche rilevanti. Invero, alle
regole tecniche non può attribuirsi la valenza di norme di relazione da cui
scaturiscono diritti soggettivi e contrapposti obblighi per quanti operano
nell’ordinamento sportivo. Dovendosi altresì escludere che le decisioni assunte
dai giudici di gara abbiano valenza provvedimentale,
non è ravvisabile in capo ai destinatari di esse una posizione di interesse
legittimo. In definitiva sia la violazione delle regole tecniche proprie di una
disciplina sportiva che le sanzioni da essa derivanti appartengono
all’«irrilevante giuridico», per il quale la «giustiziabilità
può essere […] riservata agli organi della giustizia sportiva».
A tale approdo,
rileva il rimettente, era, peraltro, già pervenuto il giudice ordinario
allorché aveva affermato, sia pure anteriormente alla entrata in vigore del
decreto-legge n. 220 del 2003, che l’ordinamento generale, pur riconoscendo
l’autonomia di quello sportivo, per un verso pretende che le norme fondamentali
di questo si armonizzino con le proprie e per altro verso assicura la tutela
delle posizioni giuridiche che gravitano nella sua orbita, esulando da essa le
disposizioni, meramente tecniche, che l’ordinamento speciale ha elaborato ai
fini della acquisizione del risultato della competizione sportiva.
3.2. – Ritiene il TAR
del Lazio che tale caratteristica, cioè l’esaurire la loro efficacia
all’interno dell’ordinamento sportivo, non sia propria anche dei provvedimenti
con i quali sono inflitte sanzioni disciplinari per violazioni di regole non
tecniche, posto che queste, dirette a modificare in modo sostanziale, sebbene
non irreversibile, lo status
dell’affiliato, ridondano in danno della sua sfera giuridica rilevante per
l’ordinamento generale.
Né può invocarsi al
proposito l’autonomia dell’ordinamento sportivo, essendo giustificabile la
intangibilità di questo solo in quanto gli atti e le pronunce ad esso
riferibili esauriscano i loro effetti all’interno del medesimo.
Ciò non avviene ove
le valutazioni e gli apprezzamenti espressi investano con immediatezza i
diritti fondamentali del loro destinatario, influendo negativamente sulla sua
onorabilità, così come si verifica nel caso di specie, là dove il danno
sofferto dal ricorrente starebbe non tanto nella misura interdittiva
a lui applicata, quanto nel giudizio di riprovevolezza
morale che ad essa sottende.
3.3. – Pertanto il
TAR del Lazio ha sollevato, in relazione agli artt. 24, 103 e 113 della
Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 1,
lettera b), e, in parte qua, 2, del decreto-legge n. 220 del 2003, convertito, con
modificazioni, con legge n. 280 del 2003, nella parte in cui riserva al giudice
sportivo la cognizione sulle controversie relative alle sanzioni disciplinari
non tecniche inflitte ad atleti, tesserati associazioni e società sportive,
sottraendola al giudice amministrativo, anche là dove esse incidano su diritti
ed interessi legittimi che, per l’ordinamento generale, il rimettente TAR è
chiamato a tutelare.
4. – Si è costituito
in giudizio il CONI chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sia
dichiarata inammissibile ovvero, in subordine, infondata.
4.1. – Ad avviso
della difesa del CONI, l’ordinanza di rimessione presenta profili di
inammissibilità connessi alla mancata valutazione della natura della decisione,
oggetto di impugnazione di fronte al TAR, della Camera di conciliazione ed
arbitrato dello sport. Infatti, se tale decisione fosse qualificata come lodo
arbitrale rituale, tenuto conto della "compromettibilità”
degli interessi sostanziali coinvolti dalla decisione, resterebbe salva la
possibilità per il destinatario di essa di giovarsi delle forme di gravame
consentite dal codice di rito in relazione a siffatta tipologia di decisioni.
Prosegue la difesa
del CONI rilevando che il descritto difetto motivazionale della ordinanza di
rimessione neppure potrebbe essere ovviato dal riferimento, peraltro non
contenuto nella ordinanza del TAR del Lazio, all’indirizzo giurisprudenziale,
da tale parte definito "consolidato”, in base al quale le decisioni assunte in
seno alla Camera di conciliazione ed arbitrato dello sport, sebbene assunte nel
contraddittorio delle parti, avrebbero la natura di provvedimenti
amministrativi, sicché non sarebbe ad esse applicabile la normativa in tema di
impugnazione dei lodi arbitrali. Tale orientamento, infatti, è sorto in materia
di ricorsi avverso la mancata ammissione a campionati, e si fonda sulla non
suscettibilità degli interessi in tali casi coinvolti ad essere oggetto di
clausola compromissoria, dato che essi – stante il potere «pacificamente
pubblicistico» spiegato dal soggetto che ha denegato la ammissione – sarebbero
qualificabili sotto la specie degli interessi legittimi. Poiché tale vincolo
negativo non sussisterebbe in materia disciplinare, il ricordato orientamento
giurisprudenziale (a prescindere dai dubbi espressi sulla sua correttezza) non
sarebbe pertinente al caso in questione.
4.2. –
Nell’esaminare, a questo punto, la normativa concernente la giustiziabilità
delle sanzioni disciplinari irrogate in ambito sportivo, la suddetta difesa
osserva che la loro sottrazione alla cognizione della autorità giudiziaria
statuale concerne le sole sanzioni irrilevanti per l’ordinamento generale,
posto che la autonomia dell’ordinamento sportivo, sancita dal decreto-legge n.
220 del 2003, non è assoluta, ma, a mente del comma 2 dell’art. 1 del citato
decreto-legge, trova una deroga ogni qual volta la sanzione ha una attitudine
lesiva che trascende i limiti dell’ordinamento sportivo. Esemplificando, la
difesa dell’Ente sostiene che esulano dalla soglia di indifferenza connessa a
tale ordinamento le sanzioni che incidono direttamente sullo status di tesserato rescindendo il
legame associativo, come nel caso della radiazione, mentre sono comprese in
essa quelle da cui non può derivare alcuna lesione rilevante per l’ordinamento
generale (sanzioni pecuniarie, inibizione allo svolgimento di attività endofederale, penalizzazioni sportive). Emblematica
sarebbe, in tal senso, la stessa vicenda oggetto del giudizio a quo, posto che la inibizione inflitta
comporta solo il divieto di svolgere attività in ambito federale, senza
incidere sul rapporto di lavoro, unico rilevante sul piano generale, che lega
il dirigente alla società sportiva. Parimenti irrilevanti per l’ordinamento
generale sono le sanzioni pecuniarie, posto che le federazioni sportive per la
loro esazione non possono ricorrere a strumenti apprestati dell’ordinamento
statuale ma solo a quelli previsti da quello speciale.
Ritiene, infine, la
difesa del CONI che sarà, di volta in volta, compito dell’organo giudicante
valutare se i termini della controversia a lui devoluta siano tali da
coinvolgere direttamente posizioni giuridiche tutelate dall’ordinamento
generale, ritenendo solo in questo caso la propria giurisdizione, declinandola
nel caso opposto. Così intesa la disciplina contenuta nel decreto-legge n. 220
del 2003 non dà più adito a dubbi di legittimità costituzionale, risultando non
tutelate solo le posizioni giuridiche prive di rilevanza in ambito statuale.
Va tuttavia
precisato, prosegue la esponente difesa, che il coinvolgimento della posizione
giuridica rilevante deve essere diretto e non, come in passato sostenuto dal
TAR del Lazio, anche indiretto, atteso che questa opzione ermeneutica avrebbe
l’effetto di rendere "lettera morta” la riserva di giurisdizione disciplinare
in favore degli organi della giustizia sportiva posta dal legislatore, dato
che, come certamente non è sfuggito a quest’ultimo, ogni sanzione sportiva è di
per sé astrattamente idonea a determinare effetti riflessi proiettati anche al
di fuori dell’ordinamento sportivo.
Che le uniche
sanzioni disciplinari destinate a incidere direttamente su posizioni giuridiche
rilevanti per l’ordinamento generale siano quelle coinvolgenti lo status del destinatario è desumibile
anche dal fatto che, in sede di conversione in legge del decreto-legge n. 220
del 2003, il Parlamento eliminò dal comma 1 dell’art. 2 l’intera lettera c), la quale riservava all’autonomia
dell’ordinamento sportivo anche le questioni concernenti «l’ammissione e
l’affiliazione alle Federazioni sportive di società, associazioni sportive e di
singoli tesserati», restituendo, quindi, agli organi dello Stato le eventuali
controversie su di esse.
4.3. – Osserva,
conclusivamente, la difesa del CONI che, nel corso del giudizio a quo, la disciplina dei rimedi
giustiziali propri dell’ordinamento sportivo ha subito una sensibile revisione:
infatti, attraverso la sostituzione della Camera di conciliazione ed arbitrato
dello sport con il Tribunale nazionale di arbitrato per lo sport, si è inteso
accentuare sensibilmente i profili arbitrali di tale organo giudicante, dotato
espressamente di "competenza arbitrale” e le cui decisioni, definite "lodi” e
alle quali si perviene a seguito di un iter
procedurale ampiamente ricalcato su quello previsto dal codice di rito per i
giudizi arbitrali, sono, se assunte riguardo a controversie «rilevanti per
l’ordinamento giuridico dello Stato», suscettibili del mezzo di gravame di cui
all’art. 828 cod. proc. civ.
Privo, invece, di
siffatta connotazione arbitrale sarebbe, invece, l’altro organo ora previsto al
vertice della giustizia sportiva, l’Alta Corte di giustizia sportiva, che, in
quanto destinato a giudicare su materie sottratte ai poteri di disposizione
delle parti o in assenza di regolamentazione pattizia
e poiché munito di un’investitura di fonte regolamentare e formato da soggetti
non scelti dalle parti, deve essere considerato «depositario di funzioni
decisorie di natura amministrativa», tali, pertanto, da consentire la
qualificazione in termini di provvedimento amministrativo degli atti da essa
assunti, con le derivanti conseguenze in termini di regime impugnatorio.
Da tali novità ordinamentali la costituita difesa fa discendere la
inattualità della questione proposta dal TAR del Lazio ed il rischio che un suo
eventuale accoglimento renderebbe l’ordinamento sportivo privo della necessaria
riserva di giurisdizione riguardo alle sanzioni disciplinari che non producono
effetti esterni all’ordinamento stesso.
5. – Si è, altresì,
costituita in giudizio la FIP, la quale ha concluso nel senso della
inammissibilità della questione di legittimità costituzionale o, comunque,
della sua infondatezza.
5.1. – Quanto alla
inammissibilità, la difesa della FIP osserva che, in realtà, il dubbio di
legittimità costituzionale dedotto dal TAR non si alimenta tanto del tenore
testuale della disposizione censurata quanto deriva dalla interpretazione che
di essa ne è stata data dal Consiglio di Stato con la nota decisione n. 5782
del 2008, interpretazione, ricorda la esponente difesa, che lo stesso TAR aveva
in passato disatteso, ritenendo, invece, che ne fosse consentita un’altra che
facesse salva la giurisdizione statuale ogniqualvolta gli effetti che
discendono dalla sanzione disciplinare non esauriscano i loro effetti
all’interno dell’ordinamento sportivo ma li proiettino anche all’esterno di
esso.
Essendo chiaro che,
nel caso di specie, il rimettente avrebbe avuto tutti gli strumenti per
verificare l’ambito di efficacia della sanzione disciplinare irrogata al
ricorrente nel giudizio a quo, si
afferma la inammissibilità della questione, essendo stata questa sollevata non
tanto per dirimere un effettivo dubbio di costituzionalità, quanto per ottenere
l’avallo della Corte ad una determinata interpretazione normativa.
Ritiene, peraltro, la
difesa della FIP che nella fattispecie, avendo il ricorrente in sostanza
chiesto al TAR di pronunziarsi sulla sussistenza o meno dei presupposti
sostanziali per la irrogazione della sanzione disciplinare, sarebbe evidente il
tentativo di trasformare, attraverso la allegazione di effetti indiretti della
sanzione, il giudice statale in un giudice (del fatto) sportivo; ma proprio la
mancanza di una posizione giuridica tutelata nell’ordinamento generale viene a
giustificare, in questo caso, la declinatoria di giurisdizione.
5.2. – Prosegue la
Federazione osservando che, comunque, la questione, ove se ne riscontrasse la
rilevanza, sarebbe infondata. Infatti l’art. 2 del decreto-legge n. 220 del
2003 va letto congiuntamente all’art. 1 che, nel garantire la autonomia dell’ordinamento
sportivo, precisa che siffatta tutela si esplica in termini assoluti solo nelle
materie il cui rilievo è esclusivamente interno a tale ordinamento. Invece, là
dove entrano in gioco diritti ed interessi protetti dall’ordinamento generale,
la garanzia dell’ordinamento particolare cede di fronte a quelle apprestate ai
soggetti dall’ordinamento generale.
Non essendo sempre
possibile individuare le due diverse tipologie di interessi in gioco, il
legislatore ha ritenuto di selezionare due "blocchi di regole” che attengono in
maniera esclusiva all’ordinamento sportivo, non potendo questo sopravvivere se
non può, per un verso, autonomamente regolamentare la propria attività e non
ha, per altro verso, gli strumenti per ottenere, attraverso i procedimenti
disciplinari, il rispetto dei principi di lealtà sportiva.
In questo senso al
concetto di autonomia si ricollega quello della autodichia,
dovendo un ordinamento, legittimato ad emanare regole, essere in grado di
istituire organi che valutino le relative controversie. In tal senso il
legislatore statuale ha riservato alla esclusiva giurisdizione sportiva le
questioni di cui alle lettere a) e b) dell’art. 2 del decreto-legge n. 220
del 2003, ma tale esclusività non sarebbe assoluta, in quanto il giudice statuale
è comunque chiamato a conoscere, anche in questi casi, sui diritti e sugli
interessi protetti dallo Stato.
Dalla applicazione
dei criteri che precedono consegue la infondatezza del dubbio di legittimità
costituzionale dell’art. 2 del decreto-legge n. 220, atteso che la riserva di
giurisdizione nelle materie di cui alle lettere a) e b) del medesimo non
comporta la sottrazione allo Stato delle sue prerogative riguardanti le
posizioni giuridiche soggettive protette dall’ordinamento generale, in quanto
per queste ultime rimane salva la giurisdizione del giudice statale.
5.3. – La
problematica, in sostanza, consisterebbe nella delimitazione, rimessa
all’apprezzamento del giudice, del concetto di cosa sia "giuridicamente
rilevante”, così esulando dalla costituzionalità della norma ora in questione.
Ove sia rinvenibile tale rilevanza, sussisterebbe l’esigenza di tutela
giurisdizionale che legittima il ricorso al giudice statale, ove, invece, sia
richiesta la tutela di una posizione di mero fatto, difettando una vera e
propria domanda giudiziale, non vi può essere radicamento della giurisdizione
statale.
Applicando tali
principi all’ipotesi di sanzione disciplinare irrogata in ambito sportivo, se
la impugnazione di questa è solo finalizzata al riesame delle medesima
questione già decisa dal giudice sportivo, essa, senza che rilevino – per
quanto gravi possano essere – gli eventuali effetti indiretti del provvedimento
impugnato, è insindacabile dal giudice ordinario.
6. – E’ intervenuto
nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dalla Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la inammissibilità
della questione o, comunque, per la sua non fondatezza.
6.1. – Riguardo alla
inammissibilità, la difesa erariale osserva che il TAR rimettente ritiene che
la lesione subita dal ricorrente nel giudizio a quo è data dalle pregiudizievoli valutazioni personali contenute
negli atti impugnati, tali da fondare un giudizio negativo sulle qualità morali
dello stesso, Atteso, però, che nel giudizio a quo è solamente richiesto l’annullamento degli atti impugnati,
senza alcun profilo risarcitorio, mancherebbe nel caso di specie – o quantomeno
non ne è adeguatamente chiarita dal rimettente la sussistenza – quel riflesso
nell’ordinamento generale della sanzione sportiva che ne giustificherebbe il
sindacato da parte del giudice statale: di tal che la questione sarebbe
irrilevante nel giudizio a quo.
Essa sarebbe,
comunque, anche infondata. Il legislatore del 2003 si sarebbe, infatti, limitato
a precisare, riportandosi ad un consolidato orientamento precedentemente
formatosi sia in dottrina che in giurisprudenza, quali sono gli atti delle
"associazioni sportive” indifferenti per l’ordinamento statale e che, pertanto,
sfuggono alla giurisdizione di questo. Fra questi gli atti con i quali viene
sanzionato il comportamento del tesserato sul piano disciplinare.
Tale scelta
risponderebbe ad un generale criterio di ragionevolezza, rispettando
l’autonomia dell’associazionismo sportivo.
La diversa opinione
formulata dal rimettente, secondo la quale, ferma restando la distinzione fra
sanzioni tecniche e sanzioni ordinarie, sarebbero rilevanti per l’ordinamento
generale le sanzioni disciplinari ordinarie incidenti su di un interesse
patrimoniale o morale del destinatario di esse, sarebbe tale che travolgerebbe
anche la stessa distinzione, essendo evidente che anche da una sanzione tecnica
possono derivare rilevanti conseguenze sia di carattere patrimoniale che di
carattere morale.
Il criterio distintivo
deve, invece, costruirsi sul tipo di situazione soggettiva coinvolta,
risultando indifferente al diritto statuale quella che non giunga alla soglia
di diritto soggettivo o di interesse legittimo.
Data tale
indifferenza non vi sarebbe contrasto fra la norma censurata ed i parametri
costituzionali evocati.
Parametri che,
riguardo agli artt. 103 e 113 della Costituzione, appaiono altresì non
pertinenti alla fattispecie, atteso che i provvedimenti resi dalle Federazioni
sportive, organismi di diritto privato che nella materia giustiziale non
operano su delega del CONI, non sono sussumibili sotto la specie del
provvedimento amministrativo, sicché neppure sarebbero suscettibili di essere
annullati dal Tribunale rimettente.
7. – È, altresì,
intervenuta nel giudizio di legittimità costituzionale la Associazione sportiva
Agorà, la quale, in punto di fatto, riferisce di avere impugnato di fronte al
TAR del Lazio il provvedimento, reso nei suoi confronti dalla Camera di
conciliazione ed arbitrato per lo sport del CONI in data 24 dicembre 2004, con
il quale era stata confermata una sanzione disciplinare, consistente nella
squalifica dalle competizioni per la durata di un anno e 8 mesi, a lei inflitta
dalla Commissione d’appello della Federazione italiana wushu kung fu.
Avendo il TAR
rigettato la richiesta di sospensione cautelare del provvedimento impugnato,
argomentando, fra l’altro sulla base della dubbia ammissibilità del ricorso per
difetto di giurisdizione, la Agorà ha eccepito la illegittimità costituzionale
dell’art. 2, comma 1, lettere a) e b), del decreto-legge n. 220 del 2003.
Avendo, quindi, appreso che il medesimo TAR, in altro giudizio, ha sollevato la
questione di costituzionalità della norma citata mentre il giudizio che la vede
ricorrente è stato rinviato a data da destinarsi, la Agorà è intervenuta nel
presente giudizio, ritenendosi a ciò legittimata, anche sulla base di taluni
precedenti della Corte costituzionale, in quanto titolare di una posizione
qualificata rispetto alla definizione di esso – attese le conseguenze decisive
che la sua definizione avrà nell’ambito della controversia promossa di fronte
al TAR – tale da farle affermare la sussistenza di un "interesse diretto” ad
intervenire nel presente giudizio strettamente funzionale all’esercizio del
diritto di difesa all’interno di un processo pendente.
Riguardo al merito
della questione, la interveniente si associa ai dubbi sulla legittimità
costituzionale della disposizione censurata formulati dal rimettente,
osservando che detta disposizione suscita altresì dubbi in ordine alla sua
rispondenza al canone della ragionevolezza.
8. – Nell’imminenza
della udienza, la difesa della FIP ha depositato una memoria illustrativa, in
larga parte confermativa delle precedenti difese.
8.1. – Riguardo
all’intervento della Associazione sportiva Agorà, la difesa federale ne rileva
l’inammissibilità, in quanto spiegato da soggetto estraneo al giudizio a quo,
non titolare di una posizione sostanziale connessa in modo immediato e diretto
a quella dedotta nel giudizio principale.
La FIP insiste poi
per la inammissibilità dell’incidente di costituzionalità sollevato dal TAR del
Lazio, in quanto la questione difetterebbe del requisito della rilevanza.
Infatti, per un verso, essa avrebbe potuto essere risolta verificando se
l’oggetto della domanda proposta di fronte al rimettente fosse tra le questioni
cui l’ordinamento dello Stato attribuisce tutela e, per altro verso, è lo
stesso ricorrente, non avendo dedotto alcun atto lesivo di un proprio diritto
né avendo formulato alcuna domanda risarcitoria, a confinare la questione nel
"giuridicamente irrilevante”.
Precisa, tuttavia, la
FIP che la questione sarebbe, comunque, infondata. Ricordato che sin dal 2004
la Corte di cassazione ha individuato, con riferimento al contenzioso di
carattere sportivo, la categoria del "giuridicamente indifferente”, si osserva
come, con recentissima ordinanza delle Sezioni unite civili, la Corte
regolatrice sia tornata sull’argomento ribadendo che la sussistenza o meno di
una situazione astrattamente tutelabile non integra una questione di
giurisdizione ma attiene al merito della controversia, costituendo uno dei
presupposti della domanda giudiziale.
Nel caso di specie il
ricorrente, come detto, non ha dedotto la lesione di una situazione giuridica
protetta, lamentando solo la adozione del provvedimento disciplinare ai suoi
danni in assenza del necessario presupposto fattuale, costituito dalla
ricorrenza dell’illecito sportivo. Mancando, pertanto, ad avviso della difesa
della FIP, una posizione giuridica assunta come lesa, non sarebbe possibile
affermare
Tale conclusione, fra
l’altro, tradirebbe il senso del d.l. n. 220 del
Il TAR, viceversa,
prima di interrogarsi sulla esistenza della posizione tutelabile, si domanda se
vi è la sua giurisdizione. Anzi, precisa la FIP, il TAR individua solo una
posizione indirettamente tutelata per chiedersi se su di essa vi sia la
giurisdizione.
In tal modo, attesa
la diversa opinione già espressa dal Consiglio di Stato, il TAR, in realtà,
chiede alla Corte l’avallo alla sua interpretazione.
Peraltro, conclude la
memoria, ove si esaminino le deroghe al principio della autonomia
dell’ordinamento sportivo contenute nell’art. 1 del d.l. n. 220 del 2003 nonché
l’art. 3 del medesimo d.l., il quale assegna al TAR del Lazio la cognizione
sulle controversie, escluse quelle di natura patrimoniale, esulanti dalla
autonomia sportiva, risulterà chiaro che, là dove la vicenda, pur originata
all’interno dell’ordinamento sportivo, abbia ad oggetto la lesione di diritti o
interessi legittimi – lesione da verificare caso per caso – sarà assicurata la
tutela giurisdizionale statale.
Considerato in diritto
1. – Il Tribunale
amministrativo regionale del Lazio dubita, in riferimento agli artt. 24, 103 e
113 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 1,
lettera b), e 2, del decreto-legge 19
agosto 2003, n. 220 (Disposizioni urgenti in materia di giustizia sportiva),
convertito, con modificazioni, con legge 17 ottobre 2003, n. 280, nella parte
in cui riserva al solo giudice sportivo la competenza a decidere le
controversie aventi ad oggetto sanzioni disciplinari, diverse da quelle
tecniche, inflitte ad atleti, tesserati, associazioni e società sportive,
sottraendole al sindacato del giudice amministrativo, anche ove i loro effetti
superino l’ambito dell’ordinamento sportivo, incidendo su diritti soggettivi ed
interessi legittimi.
1.1. – Prima di ogni
altra considerazione giova premettere che il decreto-legge n. 220 del 2003 è
stato oggetto di talune modificazioni, ancorché non riguardanti le disposizioni
censurate, a seguito della entrata in vigore del decreto legislativo 2 luglio
2010, n. 104 (Attuazione dell’art. 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69,
recante delega al Governo per il riordino del processo amministrativo).
In particolare,
all’art. 3, comma 1, le parole «è devoluta alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo» sono state sostituite, dal comma 13 dell’art. 3
dell’allegato 4 del d.lgs. n. 104 del 2010, dalle parole «è disciplinata dal
codice del processo amministrativo»; mentre i successivi commi 2, 3 e 4 sono
stati abrogati dal numero 29 del comma 1 dell’art. 4 dell’allegato 4 del d.lgs.
n. 104 del 2010.
Tali modificazioni,
in realtà, non mutano la disciplina normativa in questione, posto che il codice
del processo amministrativo contiene disposizioni che, di fatto, riproducono quelle
modificate o abrogate, così lasciando in sostanza inalterato il complessivo
quadro normativo.
Esse, pertanto, non
incidono sul presente giudizio di legittimità costituzionale.
2. – Deve essere prioritariamente
esaminata la ammissibilità dell’intervento in giudizio spiegato dalla
Associazione sportiva Agorà. Esso, conformemente alla consolidata
giurisprudenza di questa Corte, deve essere dichiarato inammissibile.
3. – Stante la sua preliminarità, va a questo punto esaminata la eccezione di
inammissibilità della questione, per difetto di motivazione sulla sua
rilevanza, formulata dalla difesa del CONI con riferimento alla mancata
adeguata valutazione da parte del rimettente della natura del provvedimento
emesso dalla Camera di conciliazione e arbitrato per lo sport. Se, infatti,
questo fosse considerato un lodo arbitrale, data la soggezione di tali atti a
ipotesi tipizzate di motivi di impugnazione, secondo la disciplina all’uopo
dettata dal codice di rito civile, il ricorso di fronte al giudice a quo sarebbe inammissibile e, non
ricorrendo, secondo quanto riferito dal rimettente, alcuna delle ipotesi in
questione, la sollevata questione di legittimità costituzionale si paleserebbe
altresì irrilevante.
3.1. – L’eccezione
non è fondata.
È, infatti, evidente
che il giudice rimettente, sia pure per implicito, si è conformato
all’orientamento del tutto consolidato nella giurisprudenza amministrativa di
primo e di secondo grado, come testimoniato dalla ampia messe di precedenti
giurisprudenziali riscontrabili in argomento, secondo il quale, ancorché
adottate nel contraddittorio delle parti, le decisioni assunte dalla Camera di
conciliazione e arbitrato per lo sport (organismo, peraltro, oramai soppresso in
quanto sostituito in seno al CONI dal neo istituito Tribunale nazionale
arbitrale dello sport) hanno la natura di provvedimenti amministrativi, di
talché non è, in linea di principio, implausibile che
il giudice amministrativo affermi la sua giurisdizione (che è di natura
esclusiva) nei confronti di ogni tipo di decisione della Camera di
conciliazione ed arbitrato. Al riguardo, si deve sottolineare che questa Corte
ha più volte affermato che il difetto di giurisdizione per essere rilevabile
deve essere macroscopico (da ultimo, sent. n. 34 del
2010).
3.2. – Deve essere,
parimenti, disattesa la eccezione di inammissibilità formulata sulla base
dell’assunto secondo il quale il giudice rimettente più che esporre un reale
dubbio di costituzionalità ricerca, da parte di questa Corte, un improprio
avallo alla interpretazione da lui in passato seguita e, ora, sconfessata dal
giudice del gravame.
Invero il TAR del
Lazio, pur avendo riferito i profili della propria precedente posizione, si dà
carico del fatto che essa è stata motivatamente disattesa sia dal Consiglio di
giustizia amministrativa della Regione siciliana (sentenza n. 1048 del 2007),
sia dallo stesso Consiglio di Stato (sentenza n. 5782 del 2008), il quale, pur
ritenendola l’unica possibile, si pone peraltro in termini problematici
rispetto alla compatibilità costituzionale della propria interpretazione.
Pertanto, di fronte alla opposta tesi, argomentatamente
sostenuta dal giudice del gravame, che è, riguardo al caso, anche giudice di
ultima istanza di merito (la cui decisione non è più scalfibile neppure a
seguito di ricorso ex ultimo comma dell’art. 111 Cost. ove ricorra un’ipotesi
di carenza assoluta di giurisdizione), non restava al rimettente, proprio in
quanto aderiva all’interpretazione del Consiglio di Stato, che sollevare il
presente dubbio di costituzionalità, in tal senso portando a compimento l’iter esegetico lumeggiato dallo stesso
Consiglio di Stato.
4. – Venendo al
merito della questione, essa deve essere dichiarata non fondata, nei sensi di cui
in motivazione.
4.1. – Va,
innanzitutto, ricordato che il decreto-legge n. 220 del 2003 è stato emanato in
una situazione che fu espressamente definita dal relatore, durante i lavori
parlamentari che hanno portato alla approvazione della legge di conversione, un
«vero e proprio disastro incombente sul mondo del calcio». Con esso si è
affrontata una questione particolarmente delicata, vale a dire il rapporto tra
l’ordinamento statale e uno dei più significativi ordinamenti autonomi che
vengono a contatto con quello statale, cioè l’ordinamento sportivo.
La singolarità della
situazione e la connessa difficoltà di una actio finium regundorum
tra queste due realtà è individuabile già dall’impostazione iniziale del
decreto-legge il quale, nell’affermare che la normativa riconosce e favorisce
«l’autonomia dell’ordinamento sportivo nazionale», chiarisce che esso è
«articolazione dell’ordinamento sportivo internazionale facente capo al
Comitato Olimpico Internazionale». Si afferma cioè, reiterando concetti già espressi
in altri testi normativi (quali gli artt. 2 e 15 del d.lgs. 23 luglio 1999, n.
242, recante «Riordino del Comitato olimpico nazionale italiano – C.O.N.I., a
norma dell’articolo 11 della L. 15 marzo 1997, n. 59»), che questo ordinamento
autonomo costituisce l’articolazione italiana di un più ampio ordinamento
autonomo avente una dimensione internazionale e che esso risponde ad una
struttura organizzativa extrastatale riconosciuta dall’ordinamento della
Repubblica.
Anche prescindendo
dalla dimensione internazionale del fenomeno, deve sottolinearsi che
l’autonomia dell’ordinamento sportivo trova ampia tutela negli artt. 2 e 18
della Costituzione, dato che non può porsi in dubbio che le associazioni
sportive siano tra le più diffuse «formazioni sociali dove [l’uomo] svolge la
sua personalità» e che debba essere riconosciuto a tutti il diritto di
associarsi liberamente per finalità sportive.
4.2. – Per ciò che
concerne lo specifico esame delle disposizioni su cui verte la questione di
costituzionalità sollevata dal rimettente TAR, si osserva che al comma 1
dell’art. 2 del predetto decreto-legge è stato previsto, peraltro dando veste
normativa ad un già affermato orientamento giurisprudenziale, che è riservata
all’ordinamento sportivo la disciplina delle questioni concernenti, oltre che
l’osservanza e l’applicazione delle norme regolamentari, organizzative e
statutarie finalizzate a garantire il corretto svolgimento delle attività
sportive – cioè di quelle che sono comunemente note come "regole tecniche” – anche
«i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l’irrogazione ed
applicazione delle relative sanzioni disciplinari». Viene, altresì, precisato,
al successivo comma 2, che in siffatte materie i soggetti dell’ordinamento
sportivo (società, associazioni, affiliati e tesserati) hanno l’onere di adire
(si intende: ove vogliano censurare la applicazione delle predette sanzioni)
«gli organi di giustizia dell’ordinamento sportivo», secondo le previsioni
dell’ordinamento settoriale di appartenenza.
Al contenuto di tale
disposizione fa riferimento il successivo art. 3 del decreto-legge n. 220, il
quale, nel testo vigente al momento della proposizione della questione di
legittimità costituzionale, individua, in sostanza, una triplice forma di
tutela giustiziale. Una prima forma, limitata ai rapporti di carattere
patrimoniale tra società sportive, associazioni sportive, atleti (e tesserati),
è demandata alla cognizione del giudice ordinario. Una seconda, relativa ad
alcune delle questioni aventi ad oggetto le materie di cui all’art. 2, nella
quale, in linea di principio, la tutela, stante la irrilevanza per
l’ordinamento generale delle situazioni in ipotesi violate e dei rapporti che
da esse possano sorgere, non è apprestata da organi dello Stato ma da organismi
interni all’ordinamento stesso in cui le norme in questione sono state poste (e
nel cui solo ambito esse, infatti, godono di pacifica rilevanza), secondo uno
schema proprio della cosiddetta "giustizia associativa”.
4.2.1. – È opportuno
– prima di valutare la portata della terza forma di tutela, di carattere
residuale e rimessa al giudice amministrativo – soffermarsi sulla seconda,
interna all’ordinamento sportivo, perché si viene a lambire la questione di
costituzionalità avanzata dal rimettente. Quest’ultimo osserva che «la
giustizia sportiva costituisce lo strumento di tutela [definitivo] per le
ipotesi in cui si discute dell’applicazione delle regole sportive».
Più oltre, sempre
nell’ordinanza, si afferma che «tali sono, indiscutibilmente, le norme meramente
tecniche, e fra esse sicuramente rientrano quelle che l’ordinamento sportivo ha
elaborato ed elabora ai fini dell’acquisizione dei risultati delle competizioni
agonistiche».
Né può, in questi
casi, in cui, per la tutela della situazione di cui si lamenta la violazione, è
escluso un intervento della giurisdizione statale, invocarsi la violazione
dell’art. 24 Cost., dato che è proprio la situazione che si pretende lesa che
non assume la consistenza del diritto soggettivo o dell’interesse legittimo.
Infatti il rimettente osserva che «Alle regole tecniche che vengono in gioco
non può essere attribuita natura di norme di relazione dalle quali derivino
diritti soggettivi […] ma non sono configurabili neanche posizioni di interesse
legittimo».
Si tratta di conclusioni
coerenti con quelle cui la Corte regolatrice è pervenuta in due sentenze,
entrambe assunte, trattandosi di questioni attinenti alla giurisdizione, a
Sezioni Unite, la prima antecedente alla legge in esame (sentenza n. 4399 del
1989) e la seconda successiva alla sua entrata in vigore (sentenza n. 5775 del
2004). In quest’ultima, che ha una struttura argomentativa analoga alla prima,
si afferma che tali questioni «non hanno rilevanza nell’ordinamento giuridico
generale e le decisioni adottate in base [alle regole promananti
dall’associazionismo sportivo] sono collocate in un’area di non rilevanza per
l’ordinamento statale, senza che possano essere considerate come espressione di
potestà pubbliche ed essere considerate alla stregua di decisioni amministrative.
La generale irrilevanza per l’ordinamento statuale di tali norme e della loro
violazione conduce all’assenza della tutela giurisdizionale statale».
Se queste sono le
conclusioni cui è giunto il giudice della giurisdizione esaminando la questione
dal punto di vista sostanziale, cioè del grado di consistenza oggettiva che
tali situazioni vengono ad avere se valutate nell’ambito dell’ordinamento
generale, analoghe sono quelle cui il medesimo giudice giunge affrontando la
questione sotto l’aspetto processuale del diritto di agire in giudizio per la
loro eventuale tutela. Nella recente ordinanza n. 18052 dell’agosto 2010 le
Sezioni Unite ritengono inammissibile il regolamento preventivo di
giurisdizione concernente la possibilità di sottoporre al giudice statale una
controversia relativa al ridimensionamento degli iscritti nei ruoli dei
direttori di gara, altrimenti riservata all’autonomia dell’ordinamento
sportivo, in quanto «costituisce […] accertamento rimesso al giudice del merito
la configurabilità o meno di una situazione giuridicamente rilevante per
l’ordinamento statale e, come tale, tutelabile».
In altre parole, la
valutazione tra l’irrilevante giuridico, che non dà accesso alla giurisdizione
statale, e ciò che invece è per quest’ultima rilevante non può che essere
rimessa al giudice di merito, che assumerà le sue decisioni secondo quanto
prevede il diritto positivo.
Ciò, del resto, è
conforme ad un risalente insegnamento di questa Corte, la quale, già nella sentenza n. 87 del
1979, pronunciandosi con riferimento ad una questione relativa all’art.
2059 cod. civ., affermava la subordinazione logica del diritto di azione alla
sia pur astratta configurabilità di una posizione soggettiva sostanziale
giuridicamente rilevante.
4.3. – L’ulteriore
forma di tutela giustiziale ha il carattere dalla tendenziale residualità, in
quanto è relativa a tutto ciò che per un verso non concerne i rapporti
patrimoniali fra società, associazioni sportive, atleti (e tesserati) –
demandati, come si è detto, al giudice ordinario – e, per altro verso, pur scaturendo da atti del CONI e delle
Federazioni sportive, non rientra fra le materie che, ai sensi dell’art. 2 del
decreto-legge n. 220 del 2003, sono riservate – in quanto, come detto, non
idonee a far sorgere posizioni soggettive rilevanti per l’ordinamento generale,
ma solo per quello settoriale – all’esclusivo interesse degli organi della
giustizia sportiva. Si tratta cioè (per riprendere la originaria formulazione
legislativa) di «ogni altra controversia» che è «devoluta alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo».
Se si segue l’iter parlamentare del decreto-legge n.
220 del 2003, si constata che è lo stesso legislatore ad indicare alcune delle
«situazioni giuridiche soggettive connesse con l’ordinamento sportivo» per le
quali ritiene si verifichi il caso della «rilevanza per l’ordinamento della
Repubblica».
Al riguardo, è
sufficiente osservare che, secondo la primigenia versione del decreto-legge n.
220 del 2003, fra le materie che, essendo inserite al comma 1 dell’art. 2,
potevano considerarsi sottratte alla cognizione del giudice statale, erano
anche le questioni aventi ad oggetto l’ammissione e l’affiliazione alle
federazioni di società, associazioni o singoli tesserati nonché quelle relative
alla organizzazione e svolgimento delle attività agonistiche ed alla ammissione
ad esse di squadre ed atleti. La circostanza che, in sede di conversione del
decreto-legge, il legislatore abbia espunto le lettere c) e d) del comma 1
dell’art. 2, ove erano indicate le summenzionate materie, fa ritenere che su di
esse vi sia la competenza esclusiva del giudice amministrativo allorché siano
lesi diritti soggettivi od interessi legittimi.
Appare chiaro, anche
attraverso l’esame dei ricordati lavori preparatori della legge n. 280 del 2003
di conversione del decreto-legge n. 220, che siffatta modificazione, per
sottrazione, dell’originario testo normativo sia giustificata dalla
considerazione che la possibilità, o meno, di essere affiliati ad una
Federazione sportiva o tesserati presso di essa nonché la possibilità, o meno,
di essere ammessi a svolgere attività agonistica disputando le gare ed i
campionati organizzati dalle Federazioni sportive facenti capo al CONI – il
quale, a sua volta, è inserito, quale articolazione monopolistica nazionale,
all’interno del Comitato Olimpico Internazionale – non è situazione che possa
dirsi irrilevante per l’ordinamento giuridico generale e, come tale, non
meritevole di tutela da parte di questo. Ciò in quanto è attraverso siffatta
possibilità che trovano attuazione sia fondamentali diritti di libertà – fra
tutti, sia quello di svolgimento della propria personalità, sia quello di
associazione – che non meno significativi diritti connessi ai rapporti
patrimoniali – ove si tenga conto della rilevanza economica che ha assunto il
fenomeno sportivo, spesso praticato a livello professionistico ed organizzato
su base imprenditoriale – tutti oggetto di considerazione anche a livello
costituzionale.
L’intervento del
legislatore della conversione è, quindi, apparso coerente con quanto disposto
all’art. 1, comma 2, del decreto-legge n. 220 del 2003, là dove, in fine, viene
espressamente precisato che l’autonomia dell’ordinamento sportivo recede
allorché siano coinvolte situazioni giuridiche soggettive che, sebbene connesse
con quello, siano rilevanti per l’ordinamento giuridico della Repubblica.
4.4. – Si può
passare, ora, alla questione di costituzionalità sollevata dal TAR Lazio.
Quest’ultimo dubita della
più volte citata disposizione legislativa nella parte in cui riserverebbe al
solo giudice sportivo la competenza a decidere le controversie aventi ad
oggetto sanzioni disciplinari, diverse da quelle tecniche, inflitte ad atleti,
tesserati, associazioni e società sportive, sottraendole al sindacato del
giudice amministrativo. Chiarisce che i dubbi di costituzionalità «non
attengono alla previsione della c.d. pregiudiziale sportiva», dato che ritiene
che essa sia «corretta e logica conseguenza della riconosciuta autonomia
dell’ordinamento sportivo», ma «alla generale preclusione […] ad adire il
giudice statale una volta esauriti i gradi della giustizia sportiva».
Afferma, altresì, che
della disposizione sospettata di illegittimità costituzionale potrebbe darsi
(anzi, in passato è stata data) altra interpretazione, ma che una recente
pronuncia del Consiglio di Stato (Sez. VI, sent. n.
5782 del 25 novembre 2008), che ha fatto seguito ad altra analoga del Consiglio
di giustizia amministrativa della Regione siciliana (sent. n. 1048 dell’8
novembre 2007), gli impone di tralasciare la precedente interpretazione e di
adeguarsi a quella fatta propria dal giudice del gravame che, a suo giudizio,
presenta aspetti di contrasto con gli artt. 24, 103 e 113 Cost.
Deve, al riguardo, considerarsi che
anche se, come si è innanzi visto, il rimettente estende il giudizio agli artt.
103 e 113 della Costituzione, in realtà la censura non attiene ad aspetti
specifici relativi alle suddette disposizioni costituzionali, in quanto si
incentra su un unico profilo. Esso è chiaramente definito laddove il rimettente
afferma che dai parametri costituzionali di cui si invoca l’applicazione «si
evince che a nessuno può essere negata la tutela della propria sfera giuridica
dinanzi ad un giudice statale, ordinario o amministrativo che sia».
Anche più oltre nell’ordinanza si
sottolinea che il dubbio di costituzionalità sorge ove la normativa censurata
consente una «deroga al principio costituzionale del diritto ad ottenere la
tutela della propria posizione giuridica di diritto soggettivo o di interesse
legittimo dinanzi ad un giudice statale» e che il «limite del rispetto del
diritto di difesa […] finisce per essere irrimediabilmente leso proprio dalla
preclusione del ricorso al giudice statale».
Quindi, anche se nell’ordinanza si fa
riferimento ai sopracitati tre articoli della Costituzione, la censura ha un
carattere unitario, compendiabile nel dubbio che la normativa censurata
precluda «al giudice statale» (espressione più volte utilizzata) di conoscere
questioni che riguardino diritti soggettivi o interessi legittimi. La prospettazione della violazione anche degli artt. 103 e 113
Cost. viene formulata in quanto essi, a parere del giudice a quo, rappresentano il fondamento costituzionale delle funzioni
giurisdizionali del giudice amministrativo che il rimettente, ai sensi di
quanto dispone la normativa di cui deve fare applicazione, individua come il
"giudice naturale” delle suddette controversie. Peraltro, con la loro
evocazione, non si prospettano illegittimità costituzionali diverse da quelle
formulate con riferimento all’art. 24 Cost..
4.5. – Si deve,
preliminarmente, condividere l’assunto del rimettente, che richiama un costante
insegnamento di questa Corte, per cui «le leggi non si dichiarano
costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni
incostituzionali, ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali»
(ex multis:
sent. n. 403 del
2007, sent.
n. 356 del 1996, ord.
n. 85 del 2007).
Proprio in aderenza a
questo principio, si osserva che è la stessa sentenza del Consiglio di Stato,
dal rimettente ritenuta "diritto vivente”, a fornire, nel percorso
argomentativo seguito (ed a prescindere da quanto in precedenza affermato in
quella stessa sentenza), una chiave di lettura che fuga i dubbi di
costituzionalità.
Nella sentenza si
afferma, infatti, proprio con riferimento all’art. 1 del d.l. n. 220 del 2003
che «tali norme debbano essere interpretate, in un’ottica costituzionalmente
orientata, nel senso che laddove il provvedimento adottato dalle Federazioni
sportive o dal C.O.N.I. abbia incidenza anche su situazioni giuridiche
soggettive rilevanti per l’ordinamento giuridico statale, la domanda volta ad
ottenere non la caducazione dell’atto, ma il
conseguente risarcimento del danno, debba essere proposta innanzi al giudice
amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva, non operando alcuna riserva
a favore della giustizia sportiva, innanzi alla quale la pretesa risarcitoria
nemmeno può essere fatta valere». Si precisa, altresì, che «Il Giudice
amministrativo può, quindi, conoscere, nonostante la riserva a favore della
"giustizia sportiva”, delle sanzioni disciplinari inflitte a società,
associazioni ed atleti, in via incidentale e indiretta, al fine di pronunciarsi
sulla domanda risarcitoria proposta dal destinatario della sanzione».
Quindi, qualora la situazione
soggettiva abbia consistenza tale da assumere nell’ordinamento statale la
configurazione di diritto soggettivo o di interesse legittimo, in base al ritenuto
"diritto vivente” del giudice che, secondo la suddetta legge, ha la
giurisdizione esclusiva in materia, è riconosciuta la tutela risarcitoria.
In tali fattispecie deve, quindi,
ritenersi che la esplicita esclusione della diretta giurisdizione sugli atti
attraverso i quali sono state irrogate le sanzioni disciplinari – posta a
tutela dell’autonomia dell’ordinamento sportivo – non consente che sia altresì
esclusa la possibilità, per chi lamenti la lesione di una situazione soggettiva
giuridicamente rilevante, di agire in giudizio per ottenere il conseguente
risarcimento del danno.
È sicuramente una forma di tutela, per
equivalente, diversa rispetto a quella in via generale attribuita al giudice
amministrativo (ed infatti si verte in materia di giurisdizione esclusiva), ma
non può certo affermarsi che la mancanza di un giudizio di annullamento (che,
oltretutto, difficilmente potrebbe produrre effetti ripristinatori, dato che in
ogni caso interverrebbe dopo che sono stati esperiti tutti i rimedi interni alla
giustizia sportiva, e che costituirebbe comunque, in questi casi meno gravi,
una forma di intromissione non armonica rispetto all’affermato intendimento di
tutelare l’ordinamento sportivo) venga a violare quanto previsto dall’art. 24 Cost.. Nell’ambito di quella forma di tutela che può essere
definita come residuale viene, quindi, individuata, sulla base di una
argomentata interpretazione della normativa che disciplina la materia, una
diversificata modalità di tutela giurisdizionale.
È utile, al riguardo, sottolineare
quanto questa Corte ha già avuto modo di affermare nella sentenza n. 254 del
2002, quando ha esaminato una questione relativa all’esonero di
responsabilità che l’allora vigente normativa concedeva ai gestori del servizio
telegrafico, e cioè che «appartiene alla sfera della discrezionalità
legislativa apportare una deroga al diritto comune della responsabilità civile
che realizzi un ragionevole punto di equilibrio tra le esigenze proprie» dei
due portatori di interesse che si contrappongono.
Tra l’altro, le ipotesi di tutela
esclusivamente risarcitoria per equivalente non sono certo ignote
all’ordinamento. Infatti – ed il riferimento è pertinente in quanto si verte in
tema di giurisdizione esclusiva –, è proprio una disposizione del codice civile,
vale a dire l’art. 2058, richiamata dall’art. 30 del recente d.lgs. 2 luglio
2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69,
recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), a
prevedere il risarcimento in forma specifica come un’eventualità («qualora sia
in tutto o in parte possibile»), peraltro sempre sottoposta al potere
discrezionale del giudice («tuttavia il giudice può disporre che il
risarcimento avvenga solo per equivalente, se la reintegrazione in forma
specifica risulta eccessivamente onerosa per il debitore»).
In questo caso, secondo il "diritto
vivente” cui il rimettente fa riferimento, il legislatore ha operato un non
irragionevole bilanciamento che lo ha indotto, per i motivi già evidenziati, ad
escludere la possibilità dell’intervento giurisdizionale maggiormente incidente
sull’autonomia dell’ordinamento sportivo.
per
questi motivi
dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 1, lettera b), e 2, del decreto-legge 19 agosto 2003, n. 220 (Disposizioni
urgenti in materia di giustizia sportiva), convertito, con modificazioni, con
legge 17 ottobre 2003, n. 280, sollevata dal Tribunale amministrativo regionale
del Lazio, in riferimento agli artt. 24, 103 e 113 della Costituzione, con
l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, palazzo della Consulta, il 7
febbraio 2011.
F.to:
Depositata
in