SENTENZA N.
162
ANNO 2014
Commenti alla
decisione di
I. Andrea Morrone, Ubi scientia
ibi iura, in questa Studi, 2014 ,
II. Giusi
Sorrenti, Gli effetti
del garantismo competitivo: come il
sindacato di legittimità costituzionale è tornato al suo giudice naturale (a
margine di Corte cost., sent. n. 162/2014), in questa Rivista, Studi, 2014
III. Antonio Ruggeri,
La
Consulta apre all'eterologa ma chiude, dopo averlo preannunziato, al
"dialogo" con la Corte Edu, per g.c.
del Forum di Quaderni costituzionali
IV. Vincenzo Tigano, La
dichiarazione di illegittimità costituzionale del divieto di fecondazione
eterologa: i nuovi confini del diritto a procreare in un contesto di perdurante
garantismo per i futuri interessi del nascituro, per g.d.
di Diritto Penale Contemporaneo
V. Simone Penasa, Nuove
dimensioni della ragionevolezza? La ragionevolezza scientifica come parametro
della discrezionalità legislativa in ambito medico-scientifico, per g.c.
del Forum di Quaderni
costituzionali
VI. Giacomo
D’Amico, La
Corte e il peccato di Ulisse nella sentenza n. 162 del 2014, per g.c. del Forum
di Quaderni costituzionali
VII. Federico
Girelli, Bastano
le garanzie interne per dichiarare l’incostituzionalità del divieto di
fecondazione eterologa, per g.c.
di Ordine
internazionale e diritti umani
VIII. Francesca
Perrini, La legge
40/2004: la sentenza n. 162/2014 della Corte costituzionale e i principali
orientamenti della Corte europea dei diritti dell’uomo, per g.c. di Ordine
internazionale e diritti umani
IX. Lorenza Violini, La Corte e l’eterologa: i diritti enunciati e
gli argomenti addotti a sostegno della decisione, per g.c. della Rivista AIC
X. Vincenzo Baldini, Diritto
alla genitorialità e sua concretizzazione attraverso la la
PMA di tipo eterologo (ad una prima lettura di Corte cost.,
sent. n. 162/2014), per g.c. di Diritti
fondamentali
XI. Antonello Ciervo, Una
questione privata (e di diritto interno). La Consulta dichiara incostituzionale
il divieto di accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita di
tipo eterologo, per g.c. di https://diritti-cedu.unipg.it/
XII. Paolo
Veronesi, La
legge sulla procreazione assistita perde un altro "pilastro”: illegittimo il
divieto assoluto di fecondazione eterologa, per g.c. del Forum
di Quaderni costituzionali
XIII. Antonio D'Aloia, Quel
che resta della legge 40, per g.c. di Rivista di BioDiritto
XIV. Marilisa
D'Amico, L’incostituzionalità
del divieto assoluto della c.d. fecondazione eterologa, per g.c. di Rivista di BioDiritto
XV. Ilaria Rivera,
Quando
il desiderio di avere un figlio diventa un diritto: il caso della legge n. 40
del 2004 e della sua (recente) incostituzionalità, per g.c.
di Rivista di BioDiritto
XVI. Chiara Tripodina, Il
"diritto” a procreare artificialmente in Italia: una storia emblematica, tra
legislatore, giudici e Corti, per g.c. di Rivista di BioDiritto
XVII. Stefano
Agosta, L’anabasi
(tra alterne fortune) della fecondazione eterologa a dieci anni dalla l. n.
40/2004, per g.c. di Rivista di BioDiritto
XVIII. Giacomo
Capizzi, Questioni
vecchie e nuove su status filiationis e PMA. Breve cronistroria, per g.c. di Rivista di BioDiritto
XIX. Marina Casini
e Carlo Casini, Il
dibattito sulla PMA eterologa all’indomani della sentenza costituzionale n. 162
del 2014. In particolare: il diritto a conoscere le proprie origini e
l’"adozione per la nascita”, per g.c. di Rivista di BioDiritto
XX. Bartolo
Salone, Figli
su commissione: profili civilistici della maternità surrogata in Italia dopo la
legge 40/2004, per g.c. di Rivista di BioDiritto
XXI. Maurizio
Città, Mamma,
ho perso la cicogna! (Dialogo intorno all’inesistente diritto contro
l’esistenza), per g.c. di Rivista di BioDiritto
XXII. Cristina Dalla Villa, Brevi
riflessioni in tema di procreazione medicalmente assistita a partire dalla
sentenza n. 162 del 2014 della Corte costituzionale, per g.c. di Stato, Chiese e pluralismo confessionale
XXIII. Angela Musumeci, "La
fine è nota” Osservazioni a prima lettura alla sentenza n. 162 del 2014 della Corte
costituzionale sul divieto di fecondazione eterologa, per g.c. dell’Osservatorio AIC
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME DEL
POPOLO ITALIANO
composta dai
signori:
-
- Luigi
MAZZELLA Giudice
-
-
-
- Giuseppe
FRIGO ”
- Alessandro
CRISCUOLO ”
- Paolo
GROSSI ”
- Giorgio
LATTANZI ”
- Aldo
CAROSI ”
- Marta
CARTABIA ”
- Sergio
MATTARELLA ”
- Mario Rosario
MORELLI ”
- Giancarlo
CORAGGIO ”
- Giuliano
AMATO ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità
costituzionale degli artt. 4, comma 3, 9, commi 1 e 3, e 12, comma 1, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione
medicalmente assistita), promossi dal Tribunale
ordinario di Milano con ordinanza dell’8 aprile 2013, dal Tribunale
ordinario di Firenze con ordinanza del 29 marzo 2013 e dal Tribunale
ordinario di Catania con ordinanza del 13 aprile 2013,
rispettivamente iscritte ai nn. 135, 213 e 240 del registro ordinanze 2013 e
pubblicate nella
Visti gli atti di costituzione di P.E. ed altro, di
C.P. ed altro, di V.A. e della società cooperativa UMR–Unità di Medicina della
Riproduzione, nonchè gli atti di intervento della Associazione Luca Coscioni
per la libertà di ricerca scientifica ed altri, della Associazione
Vox–Osservatorio italiano sui diritti e del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nell’udienza pubblica dell’8 aprile 2014 il
Giudice relatore
uditi gli avvocati Filomena Gallo e Gianni Baldini
per l’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica ed
altri, Marilisa D’Amico,
Ritenuto in
fatto
1.– Il Tribunale ordinario di Milano, il
Tribunale ordinario di Firenze ed il Tribunale ordinario di Catania, con
ordinanze dell’8 aprile, del 29 marzo e del 13 aprile 2013, hanno sollevato, in
riferimento agli artt. 3 Cost. (tutte le ordinanze), 2, 31 e 32 Cost. (la prima e la terza ordinanza), nonché (la prima
ordinanza) agli artt. 29 e 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma
il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n.
848 (d’ora in avanti: CEDU),
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 3, della legge 19
febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita)
(tutte le ordinanze) e degli artt. 9, commi 1 e 3, limitatamente alle parole
«in violazione del divieto di cui all’articolo 4, comma 3», e 12, comma 1, di
detta legge (la prima e la terza ordinanza).
2.– Il Tribunale ordinario di Milano
premette che nel giudizio principale due coniugi hanno proposto reclamo ex art. 669-terdecies del codice di procedura civile chiedendo, in riforma
dell’ordinanza pronunciata dal giudice di prima istanza, che sia ordinato in via
d’urgenza ad un medico chirurgo al quale si erano rivolti, di eseguire in loro
favore, secondo le metodiche della procreazione medicalmente assistita (di
seguito: PMA) la fecondazione di tipo eterologo, mediante donazione di gamete
maschile, a causa dell’infertilità assoluta, dovuta ad azoospermia completa, da
cui risulta affetto il coniuge maschio.
Il rimettente deduce che, con ordinanza
del 2 febbraio
2.1.– Il giudice a quo svolge ampie argomentazioni per sostenere che quest’ultima sentenza permetterebbe di ritenere che il divieto in esame
si pone in contrasto con gli artt. 8 e 14 della CEDU. A suo avviso, «devono,
dunque, essere integralmente riproposti i principi illustrati e le
argomentazioni dispiegate a sostegno della questione di legittimità
costituzionale già sollevata», in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost.
ed in relazione agli artt. 8 e 14 della CEDU.
2.2.– Secondo il rimettente, il quale
implicitamente, ma chiaramente, deduce la sussistenza dei requisiti di cui
all’art. 5 della legge n. 40 del 2004, le disposizioni censurate si porrebbero,
altresì, in contrasto con gli artt. 2, 29 e 31 Cost., poiché violerebbero il
diritto fondamentale alla piena realizzazione della vita privata familiare ed
il diritto di autodeterminazione delle coppie colpite da sterilità o
infertilità irreversibile. L’art. 2 Cost. garantisce, infatti, anche il diritto
alla formazione di una famiglia, riconosciuto dall’art. 29 Cost., mentre il
successivo art. 30, stabilendo la giusta e doverosa tutela dei figli, reca un
«passaggio che presuppone – riconoscendolo – e tutela la finalità procreativa
del matrimonio». I concetti di famiglia e genitorialità dovrebbero essere,
inoltre, identificati tenendo conto dell’evoluzione dell’ordinamento e del
principio in virtù del quale «la Costituzione non giustifica una concezione
della famiglia nemica delle persone e dei loro diritti» (sentenza n. 494 del 2002).
Il concepimento mediante pratiche di PMA
non violerebbe il diritto del concepito al riconoscimento formale e sostanziale
di un proprio status filiationis, «elemento
costitutivo dell’identità personale», congruamente tutelato anche in caso di
fecondazione eterologa, in considerazione dell’assunzione dei pertinenti
obblighi da parte dei genitori biologici e non genetici. La citata sentenza della
Grande Camera della Corte di Strasburgo avrebbe, inoltre, confermato la riconducibilità del
diritto in esame all’art. 8 della CEDU e, in definitiva, il diritto di identità
e di autodeterminazione della coppia in ordine alla propria genitorialità
sarebbe leso dal divieto di accesso ad un certo tipo di fecondazione anche
quando, come nella specie, essa sia indispensabile.
2.3.– Le norme in esame violerebbero
anche gli artt. 3 e 31 Cost., dato che i principi di non discriminazione e
ragionevolezza rendono ammissibile la fissazione di determinati limiti ai
diritti, ma vietano di stabilire una diversità di trattamento di situazioni
identiche o omologhe, in difetto di ragionevoli giustificazioni.
La formazione di una famiglia, che
include la scelta di avere figli, costituirebbe un diritto fondamentale della
coppia, rispondente ad un interesse pubblico riconosciuto e tutelato dagli art.
2, 29 e 31 Cost. Obiettivo della legge n. 40 del 2004 sarebbe «quello di
favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o
dall’infertilità della coppia mediante il ricorso alla procreazione
medicalmente assistita». In considerazione di tale finalità, il divieto
stabilito dal citato art. 4, comma 3, recherebbe vulnus a detti parametri, perché discriminatorio ed irragionevole,
in quanto per esso sono «trattate in modo opposto coppie con limiti di
procreazione, risultando differenziate solo in virtù del tipo di patologia che
affligge l’uno o l’altro dei componenti della coppia». Nonostante sussistano
elementi di diversità tra fecondazione omologa ed eterologa, «l’esame comparato
delle due situazioni evidenzia comunque nel confronto tra le condizioni delle
due categorie di coppie infertili una loro sostanziale sovrapponibilità, pur in
assenza di coincidenza di tutti gli elementi di fatto». In particolare,
«all’identico limite (infertilità e sterilità di coppia) dovrebbe corrispondere
la comune possibilità di accedere alla migliore tecnica medico-scientifica
utile per superare il problema, da individuarsi in relazione alla causa
patologica accertata». L’elemento non comune (costituito dalla specificità
della patologia) non sarebbe sufficiente ad escludere l’eguaglianza delle
situazioni, sotto il profilo giuridico, e sarebbe palese la «natura
discriminatoria del divieto totale di fecondazione eterologa […], [che non
costituirebbe] l’unico mezzo, e nemmeno il più ragionevole, per rispondere alla
tutela dei concorrenti diritti, potenzialmente confliggenti con il
riconoscimento del diritto di accedere alle pratiche di PMA eterologa».
Secondo il giudice a quo, nel nostro ordinamento vi sono istituti che, ammettendo «la
frattura tra genitorialità genetica e genitorialità legittima, quali
l’adozione», conforterebbero la legittimità di rapporti parentali che
prescindono da una relazione biologica genitoriale.
2.4.– Le norme censurate violerebbero,
inoltre, gli artt. 3 e 32 Cost., poiché il divieto dalle stesse posto «rischia
di non tutelare l’integrità fisica e psichica delle coppie in cui uno dei due
componenti non presenta gameti idonei a concepire un embrione». Ad avviso del
rimettente, le tecniche di PMA costituirebbero rimedi terapeutici «sia in
relazione ai beni che ne risultano implicati, sia perché consistono in un
trattamento da eseguirsi sotto diretto controllo medico, finalizzato a superare
una causa patologica comportante un difetto di funzionalità dell’apparato
riproduttivo di uno dei coniugi (o conviventi) che impedisce la procreazione,
rimuovendo, nel contempo, le sofferenze psicologiche connesse alla difficoltà
di realizzazione della scelta genitoriale». La scienza medica consente, poi, di
eseguire tecniche di fecondazione in vivo
e in vitro di tipo eterologo, con
utilizzo di gameti sia maschili, sia femminili, provenienti da un donatore
terzo rispetto alla coppia. Vertendosi in materia di pratica terapeutica, «la
regola di fondo» dovrebbe essere «l’autonomia e la responsabilità del medico
che, con il consenso del paziente, opera le necessarie scelte professionali» (sentenza n. 151 del 2009), mentre le disposizioni in esame vieterebbero, non
ragionevolmente, l’espansione della genitorialità, in presenza di cause
ostative superabili sulla scorta delle nuove metodiche mediche.
3.– Il Tribunale ordinario di Firenze
espone che nel giudizio principale, introdotto con ricorso ai sensi dell’art.
700 cod. proc. civ., una coppia di coniugi ha chiesto che sia accertato il
diritto di essi istanti a: a) ricorrere alle metodiche di procreazione
medicalmente assistita di tipo eterologo; b) utilizzare il materiale genetico
di terzo donatore anonimo acquisito direttamente dalla coppia ovvero dal centro
secondo quanto previsto dai decreti legislativi 6 novembre 2007, n. 191
(Attuazione della direttiva 2004/23/CE sulla definizione delle norme di qualità
e di sicurezza per la donazione, l’approvvigionamento, il controllo, la
lavorazione, la conservazione, lo stoccaggio e la distribuzione di tessuti e
cellule umani), e 25 gennaio 2010, n. 16 (Attuazione delle direttive 2006/17/CE
e 2006/86/CE, che attuano la direttiva 2004/23/CE per quanto riguarda le
prescrizioni tecniche per la donazione, l’approvvigionamento e il controllo di
tessuti e cellule umani, nonché per quanto riguarda le prescrizioni in tema di
rintracciabilità, la notifica di reazioni ed eventi avversi gravi e determinate
prescrizioni tecniche per la codifica, la lavorazione, la conservazione, lo
stoccaggio e la distribuzione di tessuti e cellule umani), «per la fecondazione
degli ovociti della sig.ra B.». I ricorrenti hanno dedotto di essere sposati
dal 2004 e di non essere riusciti a concepire un figlio per vie naturali, a
causa della assoluta sterilità del marito, provata dalla documentazione medica
prodotta, e di avere vanamente tentato all’estero, per tre anni, la
fecondazione eterologa, sia in vivo
sia in vitro, affrontando notevoli
sacrifici economici ed un elevato stress psico-fisico, provocato
dall’invasività dei relativi trattamenti.
Il rimettente deduce che, con ordinanza
del 6 settembre
3.1.– Posta questa premessa, il giudice a quo puntualizza che i ricorrenti
versano nella condizione prevista dagli artt. 1, comma 2, e 4, comma 1, della
legge n. 40 del
3.2.– Il giudice a quo, dopo avere motivato in ordine alla manifesta infondatezza
dell’eccezione di illegittimità costituzionale proposta in riferimento all’art.
117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 della CEDU, sostiene
che il citato art. 4, comma 3, violi il principio di ragionevolezza (art. 3
Cost.). L’art. 1 della legge n. 40 del 2004 precisa, infatti, che obiettivo di
questa legge è quello di «favorire la soluzione dei problemi riproduttivi
derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana» consentendo a questo scopo
«Il ricorso alla procreazione medicalmente assistita [...] qualora non vi siano
altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità o
infertilità». Il divieto in esame realizzerebbe, invece, un diverso trattamento
delle coppie aventi problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla
infertilità, nonostante che la sostanziale eguaglianza delle situazioni
dovrebbe comportare l’eguale possibilità di ricorrere alla PMA, mediante il
ricorso alla tecnica idonea per porre rimedio alla causa della patologia.
4.– Il Tribunale ordinario di Catania
premette che, nel processo principale, i ricorrenti, coniugati dal 2005, hanno
dedotto che il partner femmina è
stato colpito da sterilità assoluta causata da menopausa precoce e, per questa
ragione, si sono rivolti alla società cooperativa UMR–Unità di Medicina della
Riproduzione (infra: UMR), la quale
ha indicato quale unico metodo per avere figli quello della «ovodonazione», che
ha, tuttavia, rifiutato di praticare, a causa del divieto stabilito dal citato
art. 4, comma 3. I coniugi hanno, quindi, convenuto in giudizio la UMR,
chiedendo, ai sensi dell’art. 700 cod. proc. civ., che sia ordinato alla stessa
di eseguire «secondo l’applicazione delle metodiche della procreazione
assistita, la c.d. fecondazione eterologa e nel caso di specie la donazione di
gamete femminile, secondo le migliori e accertate pratiche mediche», eccependo,
in linea gradata, l’illegittimità costituzionale del citato art. 4, comma 3.
Il rimettente espone che, con ordinanza
del 21 ottobre
Riassunto il giudizio, il Tribunale
ordinario di Catania, con ordinanza del 28 gennaio
Secondo il giudice a quo, sussistono sia i presupposti del chiesto provvedimento
cautelare, sia le condizioni stabilite dall’art. 5 della legge n. 40 del 2004,
poiché i ricorrenti sono maggiorenni, di sesso diverso, coniugati, in età
fertile e la ricorrente è affetta da accertata sterilità secondaria da
menopausa precoce. L’accoglimento della domanda è, quindi, impedito
esclusivamente dal divieto stabilito dal citato dall’art. 4, comma 3, del
quale, a suo avviso, non è possibile offrire un’interpretazione
costituzionalmente orientata, con conseguente rilevanza delle sollevate
questioni di legittimità costituzionale.
4.1.– Ad avviso del rimettente, le norme
censurate si porrebbero anzitutto in contrasto con gli artt. 3 e 31 Cost., in quanto
stabiliscono un divieto discriminatorio, lesivo del diritto fondamentale alla
formazione della famiglia, riconosciuto e tutelato dagli artt. 2 e 31 Cost.,
che concernerebbe anche il profilo relativo alla soluzione dei problemi
riproduttivi della coppia. Inoltre, esse realizzerebbero un diverso trattamento
di coppie con identici problemi di procreazione, penalizzando irragionevolmente
quella colpita dalla patologia più grave, in violazione anche dell’art. 2
Cost., con pregiudizio del diritto a formare una famiglia e della libertà di
autodeterminazione in relazione a scelte riconducibili alla sfera più intima
della persona.
4.2.– Secondo il giudice a quo, l’art. 32 Cost. sarebbe violato,
in quanto il divieto in esame irragionevolmente impedirebbe di curare la
patologia più grave. Nella specie vengono, inoltre, in rilievo i diritti della
madre genetica, della madre biologica e del nascituro e, in considerazione
delle risultanze della scienza medica, la fecondazione eterologa non
comporterebbe rischi per la salute (fisica o mentale) né della madre biologica,
né della donatrice. Per quest’ultima, il rischio di «stressare il proprio
fisico per l’eventuale commercializzazione dei gameti» sarebbe scongiurato dal
divieto stabilito dalla legge n. 40 del 2004 di commercializzare gli ovuli e,
comunque, sarebbe comune ad altre più rilevanti ipotesi, eticamente e
socialmente approvate, di donazione di tessuti, organi o parti di essi tra
soggetti viventi.
Quanto, invece, al diritto del nascituro
alla conoscenza della propria origine genetica, benché la tutela del concepito
rinvenga fondamento costituzionale negli artt. 31, secondo comma, e 2 Cost.,
alla stessa non potrebbe essere data prevalenza totale ed assoluta, non
esistendo «equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute
proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione
che persona deve ancora diventare» (sentenza n. 27 del 1975).
La soluzione dei problemi riproduttivi
della coppia sarebbe riconducibile al diritto fondamentale alla
maternità/paternità ed il bilanciamento del diritto costituzionalmente protetto
alla creazione di una famiglia (riconosciuto e tutelato dagli artt. 2 e 31
Cost.) spettante «a soggetti esistenti (persone in senso tecnico)» e del
diritto riconoscibile «ad una entità (embrione, feto) che soggetto (nel senso
pieno di persona) ancora non è, non sembra possa ragionevolmente risolversi in
favore del secondo». L’ampia tutela del nascituro deve tenere conto che,
comunque, questi non sarebbe equiparabile alla persona già nata; la stessa
legge n. 40 del 2004 tutela il concepito, ma non «arriva […] a modificare
l’art. 1 del codice civile che […] riconosce la capacità giuridica solo al momento
della nascita e subordina ad essa l’effettivo sorgere dei diritti ivi
menzionati con riferimento agli artt. 462, 687 e 715 c.c. (per donazione e
testamento)». Siffatta legge ha inteso garantire che il concepito non subisca
«trattamenti disumani», cui potevano esporlo la crioconservazione, la
sperimentazione e la selezione genetica, ma il Capo III della medesima non
riguarderebbe la tutela diretta del concepito, bensì lo stato giuridico del
nato, come risulta dagli artt. 8 e 9. Queste disposizioni tutelano l’interesse
del nascituro e garantiscono una «stabilità parentale» non deteriore rispetto a
quella del figlio nato dalla fecondazione omologa «e, per certi versi, anche
migliore di quella di cui gode il figlio nato da ogni unione "naturale”,
soggetto, com’è noto, alle azioni di disconoscimento di stato o al mancato
riconoscimento da parte del padre o della madre che ha anche il diritto di non
essere nominata al momento del parto».
Ad avviso del giudice a quo, il censurato divieto non sarebbe
giustificato dall’asserito diritto del nascituro a conoscere la propria origine
genetica anche perché il citato art. 9, comma 3, come nel caso dell’adozione,
mira a recidere ogni relazione giuridica parentale del nato con il donatore di
gameti e nei confronti di quest’ultimo non può essere fatto valere nessun
diritto. Sarebbe, inoltre, irragionevole che, per scongiurare l’ipotetica
sofferenza di un futuro soggetto (dovuta all’ignoranza della propria origine
genetica), sia precluso il più rilevante diritto di venire al mondo. Quanto,
invece, all’esigenza di garantire al nascituro stabili relazioni parentali, gli
studi al riguardo avrebbero dimostrato che soltanto in una bassa percentuale di
casi i genitori biologici hanno rivelato al figlio la sua origine genetica ed in
questi lo sviluppo psicosociale del predetto non si discosterebbe da quello dei
figli nati senza il ricorso alla fecondazione eterologa.
5.– Nel giudizio davanti a questa Corte
promosso dal Tribunale ordinario di Milano si sono costituiti i ricorrenti nel
processo principale, chiedendo, anche nella memoria depositata in prossimità
dell’udienza pubblica, che le questioni siano dichiarate fondate.
Le parti, premesso che costituiscono una
coppia infertile, ai sensi della legge n. 40 del 2004, poiché il coniuge
maschio è affetto da infertilità assoluta, con azoospermia completa, sostengono
che la locuzione «fecondazione eterologa» sia impropria, occorrendo argomentare
di «donazione di gameti», che va tenuta distinta dalla cosiddetta «surrogazione
di maternità» (vietata dall’art. 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004) e
richiamano la sentenza di questa Corte n. 151
del 2009, per affermare che la
disciplina in esame concerne «un ambito d’interesse sanitario». Inoltre,
sottolineano che le questioni concernerebbero esclusivamente le coppie di
maggiorenni, di sesso diverso, in età potenzialmente fertile «e (va da sé)
entrambi viventi» ed involge un problema quale quello dell’infertilità maschile
e femminile assai diffuso nelle società occidentali.
I ricorrenti nel processo principale
svolgono ampie argomentazioni a conforto della violazione dell’art. 3, primo
comma, Cost., determinata dalla discriminazione tra i potenziali destinatari
della fecondazione medicalmente assistita in danno delle coppie colpite dalla
patologia più grave. A loro avviso, le situazioni delle coppie che possono
porre rimedio alla causa di sterilità o infertilità mediante la fecondazione
omologa, ovvero a quella eterologa, sarebbero analoghe e gli studi
dell’Organizzazione mondiale della sanità (richiamati negli atti difensivi)
avrebbero dimostrato l’inconsistenza delle pretese esigenze di tutela di
carattere psicologico del nascituro, basate su presunti disturbi e sofferenze
dello stesso, nel caso in cui abbia un solo genitore biologico. Il divieto
censurato avrebbe, inoltre, alimentato una sorta di «turismo procreativo»,
dando luogo a situazioni di rischio, a causa dell’inferiore livello di
assistenza sanitaria garantito in altri Paesi, specie in quelli in cui i costi
sono più bassi.
5.1.– Le situazioni di infertilità
superabili mediante l’uso di gameti interni, ovvero esterni alla coppia,
sarebbero omologhe, in relazione all’accesso alle tecniche di fecondazione
assistita. Il citato art. 4, comma 3, sarebbe viziato, in primo luogo, da
irrazionalità «interna», a causa dell’incoerenza tra mezzi e fini, determinata
dal difetto di ogni ragionevole giustificazione del divieto in esame, che
preclude il conseguimento dello scopo dichiarato dalla legge n. 40 del
Sotto un ulteriore profilo, la
disciplina in esame discriminerebbe le coppie in base alla situazione
patrimoniale. Quelle abbienti possono, infatti, praticare la fecondazione
eterologa all’estero, ricorrendo ad una sorta di «turismo procreativo» che
vanificherebbe il divieto censurato, nel quadro di una regolamentazione viziata
da incoerenza, poiché, da un canto, stabilisce il divieto di tale tecnica
terapeutica, dall’altro, prevede la non punibilità di coloro che vi fanno
ricorso e disciplina compiutamente la situazione del nato.
5.2.– In relazione alle censure riferite
agli artt. 2, 29 e 31 Cost., le parti reiterano gli argomenti svolti dal
rimettente e richiamano ricerche e studi i quali hanno escluso che il difetto
di parentela genetica comprometta lo sviluppo del bambino, mentre la sentenza n. 151 del 2009 avrebbe fatto emergere un valore costituzionale
nuovo, costituito dalle «giuste esigenze della procreazione».
L’art. 32 Cost. sarebbe violato, alla
luce della giurisprudenza di questa Corte richiamata dal giudice a quo, perché il divieto in esame
lederebbe l’integrità psichica e fisica delle coppie con più gravi problemi di
sterilità o infertilità.
Le norme censurate non garantirebbero,
inoltre, alle coppie affette da sterilità o infertilità assoluta il proprio
diritto all’identità ed autodeterminazione, espresso dal principio
personalistico dell’art. 2 Cost. La lesione di questo diritto sarebbe
confortata anche dalle sentenze della Corte di Strasburgo, Grande Camera, 3 novembre 2011,
S.H. e altri contro Austria,
seconda sezione, 28
agosto 2012, Costa Pavan contro Italia, e Grande Camera, 4
dicembre 2007, Dickson contro Regno Unito, che indurrebbero a ritenere violato l’art. 117,
primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 della CEDU.
5.3.– Secondo le parti, l’accoglimento
delle questioni non comporterebbe nessun vuoto normativo. La legge n. 40 del
5.4.– Nella memoria depositata in
prossimità dell’udienza pubblica, le parti, oltre a ribadire gli argomenti
svolti nell’atto di costituzione, contestano la fondatezza delle eccezioni di
inammissibilità proposte nell’atto di intervento dal Presidente del Consiglio
dei ministri.
6.– Nel giudizio da ultimo richiamato si
è costituito anche il medico convenuto nel processo principale, svolgendo
argomentazioni sostanzialmente coincidenti con quelle del rimettente, chiedendo
l’accoglimento delle sollevate questioni di legittimità costituzionale.
7.– Nel giudizio promosso dal Tribunale
ordinario di Catania si sono costituiti i ricorrenti nel giudizio principale,
chiedendo, anche nella memoria depositata in prossimità dell’udienza pubblica,
che le sollevate questioni di legittimità costituzionale siano accolte.
Le parti premettono che costituiscono
una coppia infertile, ai sensi della legge n. 40 del 2004, poiché il coniuge
femmina è stata colpita da sterilità assoluta causata da menopausa precoce e le
molteplici cure alle quali si è sottoposta (analiticamente indicate) si sono
rivelate inutili e, da ultimo, il medico responsabile dell’UMR li ha informati
del fatto che potrebbero avere un figlio esclusivamente facendo ricorso alla
donazione di ovuli esterni alla coppia che, però, è vietata dalla legge n. 40
del 2004.
Nel merito, in riferimento ai parametri
evocati dal rimettente, le parti deducono argomentazioni in larga misura
coincidenti con quelle svolte dai ricorrenti costituitisi nel giudizio promosso
dal Tribunale ordinario di Milano, in relazione ai corrispondenti parametri da
questo ritenuto lesi, sopra sintetizzate.
8.– In quest’ultimo giudizio si è
costituita, altresì, la società cooperativa UMR–Unità di Medicina della
Riproduzione, parte nel processo principale, deducendo, anche nella memoria
depositata in prossimità dell’udienza pubblica, la fondatezza delle censure
proposte dal rimettente. In particolare, svolge argomenti sostanzialmente
analoghi a quelli addotti dai ricorrenti negli atti di costituzione sopra
richiamati, allo scopo di dimostrare che, qualora le questioni di legittimità
costituzionale siano accolte, non sussisterebbe nessun vuoto normativo, ciò
anche alla luce della legge 8 novembre 2012, n. 189 (Conversione in legge, con
modificazioni, del decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158, recante
disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto
livello di tutela della salute) e del parere espresso in data 30 marzo 2012
dalla Società italiana di fertilità e sterilità e medicina della riproduzione
in merito alla donazione dei gameti, che ha posto in luce i rischi correlati al
permanere del divieto in esame.
Nella memoria, la parte approfondisce l’iter dei lavori parlamentari della legge
n. 40 del 2004, allo scopo di evidenziare come nel corso degli stessi sia stata
già segnalata la contraddizione insita nella circostanza che è stato regolamentato
lo status del nato dalla fecondazione
eterologa, ma la stessa è stata poi vietata. Quest’ultima pratica terapeutica
costituirebbe espressione di una concezione solidaristica, fondata sul concetto
di «dono» e cioè di atto volontario e gratuito caratterizzato da istanze di
solidarietà e in tali termini è accolta in Francia, in cui è ammessa solo per
le coppie e nel caso di vano esperimento della PMA omologa, e nel Regno Unito.
9.– In tutti e tre i giudizi davanti
alla Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo, negli
atti di costituzione e nelle memorie depositate in prossimità dell’udienza
pubblica, di contenuto in larga misura coincidente, che le questioni di legittimità
costituzionale siano dichiarate inammissibili e, comunque, infondate.
9.1.– Secondo l’interveniente, le
questioni sarebbero inammissibili, poiché i rimettenti non avrebbero adempiuto
l’onere, derivante dall’ordinanza di questa Corte n.
150 del 2012, di riesaminare
le questioni alla luce della giurisprudenza europea. Inoltre, il Tribunale
ordinario di Milano avrebbe inesattamente interpretato la sentenza della Grande Camera
della Corte di Strasburgo 3 novembre 2011, S.H. e altri contro Austria, diffusamente approfondita, allo scopo di
dimostrare che la stessa ha escluso che il divieto di praticare la PMA di tipo
eterologo violi gli artt. 8 e 14 della CEDU, anche in considerazione dell’ampio
margine di discrezionalità di cui godono gli Stati nel disciplinare la materia
in esame.
A suo avviso, le questioni sarebbero
inammissibili anche perché il loro eventuale accoglimento determinerebbe un
vuoto normativo (in relazione alla tutela di tutte le parti coinvolte dalla PMA
eterologa, al numero delle donazioni possibili, al diritto a conoscere il
genitore genetico, al diritto di accesso alla fecondazione eterologa), che può
essere colmato esclusivamente dal legislatore ordinario, al quale sono
riservate le relative scelte.
Nel merito, secondo l’interveniente, le
censure riferite agli artt. 2 e 29 Cost. sarebbero state proposte mediante un
percorso argomentativo che «procede per assiomi e/o postulati» e non considera
la preoccupazione del legislatore per i rischi derivanti dalla mancanza di un
rapporto biologico tra figlio e genitore ed il ragionevole scopo di tutelare il
diritto all’identità biologica del nascituro. Il legislatore avrebbe scelto,
non irragionevolmente, di favorire il concepimento all’interno della coppia, in
coerenza con la ratio legis, che
sarebbe quella di tutelare il diritto all’identità biologica del nascituro,
considerato quale bene giuridico preminente.
La diversità delle situazioni poste in
comparazione escluderebbe, poi, la denunciata violazione dell’art. 3 Cost.,
essendo riconducibile la scelta di «tutela esclusiva della genitorialità
biologica» alla discrezionalità spettante al legislatore ordinario.
10.– Nel giudizio promosso dal Tribunale
ordinario di Catania è intervenuta l’Associazione Vox–Osservatorio italiano sui
diritti, che non è parte nel processo principale, la quale ha diffusamente
approfondito la questione dell’ammissibilità dell’intervento, richiamando
alcune pronunce che, in qualche caso, hanno ritenuto di estendere il
contraddittorio a soggetti non costituiti nel giudizio a quo, benchè abbia dato atto che questa Corte è orientata nel
negare che coloro i quali non hanno nessun legame specifico con la questione
possano intervenire nel giudizio di costituzionalità. A suo avviso, la
circostanza che essa, per statuto, si propone di analizzare gli sviluppi della
società dal punto di vista giuridico, socio-economico e culturale, per individuare
l’insieme dei diritti da proteggere e potenziare, comporterebbe che l’oggetto
delle questioni sia riconducibile nell’ambito delle attività svolte, con
conseguente ammissibilità dell’intervento. Nel merito, l’Associazione svolge
argomentazioni a conforto della fondatezza delle censure proposte dal
rimettente.
11.– In quest’ultimo giudizio sono
altresì intervenute, con un unico atto, l’Associazione Luca Coscioni, per la
libertà di ricerca scientifica, l’Associazione Amica Cicogna Onlus,
l’Associazione cerco un bimbo e l’Associazione Liberi di decidere, le quali,
anche nella memoria depositata in prossimità dell’udienza pubblica, hanno
premesso di essere state ammesse nel giudizio promosso dal Tribunale ordinario
di Firenze sopra richiamato, e deducono che «per intervenuta separazione
personale dei coniugi […] non hanno depositato costituzione nel procedimento
originato dall’ordinanza di rimessione pronunciata da detto giudice».
A loro avviso, in considerazione degli scopi
statutari e dell’attività svolta, sarebbero titolari di un interesse
qualificato, direttamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio
e chiedono, quindi, che la Corte dichiari ammissibile l’intervento ed accolga
le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale ordinario di
Catania.
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale ordinario di Milano, il
Tribunale ordinario di Firenze ed il Tribunale ordinario di Catania hanno
sollevato, in riferimento agli artt. 3 Cost. (tutte e tre le ordinanze), 2, 31
e 32 Cost. (la prima e la terza ordinanza), nonché (la prima ordinanza) agli
artt. 29 e 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 della
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali,
firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4
agosto 1955, n. 848 (di seguito: CEDU), questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 4, comma 3, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di
procreazione medicalmente assistita) (tutte le ordinanze) e degli artt. 9,
commi 1 e 3, limitatamente alle parole «in violazione del divieto di cui
all’articolo 4, comma 3», e 12, comma 1, di detta legge (la prima e la terza
ordinanza).
La legge n. 40 del 2004 reca norme in
materia di procreazione medicalmente assistita (infra: PMA) e permette, «Al fine di favorire la soluzione dei
problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana», il
ricorso alla PMA, alle condizioni e secondo le modalità previste dalla stessa
(art. 1). L’art. 4, comma 3, di detta legge stabilisce che «È vietato il
ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo»;
l’art. 9, concernente il «Divieto del disconoscimento della paternità e
dell’anonimato della madre», dispone, in primo luogo, che, «Qualora si ricorra
a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo in
violazione del divieto di cui all’articolo 4, comma 3, il coniuge o il
convivente il cui consenso è ricavabile da atti concludenti non può esercitare
l’azione di disconoscimento della paternità nei casi previsti dall’articolo
235, primo comma, numeri 1) e 2), del codice civile, né l’impugnazione di cui
all’articolo 263 dello stesso codice» (comma 1); in secondo luogo, prevede che,
«In caso di applicazione di tecniche di tipo eterologo in violazione del
divieto di cui all’articolo 4, comma 3, il donatore di gameti non acquisisce
alcuna relazione giuridica parentale con il nato e non può far valere nei suoi
confronti alcun diritto né essere titolare di obblighi» (comma 3). L’art. 12,
comma 1, stabilisce, infine, che «Chiunque a qualsiasi titolo utilizza a fini
procreativi gameti di soggetti estranei alla coppia richiedente, in violazione
di quanto previsto dall’articolo 4, comma 3, è punito con la sanzione
amministrativa pecuniaria da
2.– Secondo tutti i rimettenti, il
citato art. 4, comma 3, si porrebbe in contrasto con l’art. 3 Cost., in quanto,
avendo la legge n. 40 del 2004 lo scopo di «favorire la soluzione dei problemi
riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana», il divieto
dallo stesso stabilito realizzerebbe un diverso trattamento delle coppie
affette da sterilità o da infertilità, nonostante esse versino in situazioni
sostanzialmente omologhe e, quindi, debbano avere l’eguale possibilità di
ricorrere alla tecnica più utile di PMA, al fine di porre rimedio alla
patologia dalla quale sono affette.
Ad avviso del Tribunale ordinario di
Milano, tutte le norme censurate recherebbero vulnus anche agli artt. 2, 29 e 31 Cost., in quanto – benché il
primo di detti parametri riconosca e tuteli il diritto alla formazione della
famiglia (oggetto anche del secondo parametro) – non garantiscono alle coppie
colpite da sterilità o infertilità assoluta ed irreversibile il diritto
fondamentale alla piena realizzazione della vita privata familiare e di
autodeterminazione in ordine alla medesima, con pregiudizio, secondo il
Tribunale ordinario di Catania, per le coppie colpite dalla patologia più grave,
del diritto di formare una famiglia e costruire liberamente la propria
esistenza. Per entrambi i rimettenti, la considerazione che il divieto in esame
non tuteli l’integrità fisica e psichica di dette coppie e che in materia di
pratica terapeutica la regola debba essere l’autonomia e la responsabilità del
medico, il quale, con il consenso del paziente, effettua le necessarie scelte
professionali, evidenzierebbe il contrasto delle disposizioni con gli artt. 3 e
32 Cost.
Sotto un ulteriore profilo, secondo il
Tribunale ordinario di Catania, gli artt. 2 e 31 Cost. sarebbero lesi, poiché
la soluzione dei problemi riproduttivi della coppia sarebbe riconducibile al
diritto fondamentale alla maternità/paternità e le norme censurate avrebbero
realizzato un irragionevole bilanciamento del diritto alla salute della madre
biologica e della madre genetica, del diritto costituzionalmente protetto alla
formazione della famiglia e dei diritti del nascituro, anche in considerazione
del carattere ipotetico dell’eventuale sofferenza psicologica provocata dalla
mancata conoscenza della propria origine genetica e dell’esistenza di un
istituto quale l’adozione, che ammette le relazioni parentali atipiche.
Il Tribunale ordinario di Milano
censura, infine, le norme sopra indicate, in riferimento all’art. 117, primo
comma, Cost., in relazione al combinato disposto degli artt. 8 e 14 della CEDU,
approfondendo gli argomenti che, a suo avviso, dimostrerebbero l’esistenza di
siffatto contrasto anche avendo riguardo alla sentenza della Grande Camera
della Corte europea dei diritti dell’uomo 3 novembre 2011, S.H. e altri contro
Austria.
3.– In linea preliminare, va ribadito
quanto statuito con l’ordinanza della quale è stata data lettura in udienza,
allegata al presente provvedimento, in ordine alla disposta riunione dei
giudizi (aventi ad oggetto, in parte, le stesse norme, censurate in relazione a
parametri costituzionali per profili e con argomentazioni in larga misura
coincidenti) ed all’inammissibilità dell’intervento nel giudizio promosso dal
Tribunale ordinario di Catania dell’Associazione Vox–Osservatorio italiano sui
diritti, nonché di quello, spiegato con un unico atto, dall’Associazione Luca
Coscioni, per la libertà di ricerca scientifica, dall’Associazione Amica
Cicogna Onlus, dall’Associazione Cerco un bimbo e dall’Associazione Liberi di
decidere.
Secondo la costante giurisprudenza di
questa Corte, sono, infatti, ammessi a intervenire nel giudizio incidentale di
legittimità costituzionale le sole parti del giudizio principale ed i terzi
portatori di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto
sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni
altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura (per tutte, sentenze n. 134 e n. 85 del 2013). Pertanto, poiché le suindicate associazioni non
sono parti nel processo principale e non risultano essere titolari di un
siffatto interesse qualificato, gli interventi vanno dichiarati inammissibili.
In ordine a quello spiegato dalle ultime Associazioni sopra richiamate, va,
inoltre, ribadito come la circostanza che esse siano parti in un giudizio
diverso da quello oggetto dell’ordinanza di rimessione, nel quale è stata
sollevata analoga questione di legittimità costituzionale, neppure è
sufficiente a renderlo ammissibile (ex plurimis, sentenza n. 470 del
2002; ordinanza n. 150 del 2012).
3.1.– Le questioni di legittimità
costituzionale oggetto di scrutinio costituiscono una nuova proposizione di
quelle, in parte analoghe, sollevate dai giudici a quibus nel corso dei medesimi processi principali, decise da
questa Corte con l’ordinanza n. 150 del 2012 che – dopo averle ritenute ammissibili – ha
disposto la restituzione degli atti, per un rinnovato esame delle stesse, alla
luce della sopravvenuta sentenza della Grande Camera
della Corte europea dei diritti dell’uomo 3 novembre 2011, S.H. e altri c.
Austria.
I Tribunali ordinari di Firenze e di
Catania, nell’osservanza di siffatto onere, hanno formulato una nuova e diversa
prospettazione delle stesse questioni, esplicitando gli argomenti che, a loro
avviso, dimostrano la perdurante rilevanza e la non manifesta infondatezza
esclusivamente delle censure riferite agli artt. 2, 3, 31 e 32 Cost.; non
hanno, quindi, più proposto quelle concernenti l’art. 117, primo comma, Cost.
in relazione agli artt. 8 e 14 della CEDU. Queste ultime sono state, invece,
reiterate dal Tribunale ordinario di Milano, il quale ha, tuttavia,
diffusamente motivato sul punto ed è palese che l’eventuale fondatezza dei
relativi argomenti concerne esclusivamente il merito delle censure. Sotto
questo profilo, non è, quindi, fondata l’eccezione con cui l’Avvocatura
generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni, deducendo
la violazione del suindicato onere. L’ulteriore eccezione di inammissibilità,
proposta sul rilievo che l’accoglimento delle censure determinerebbe
incolmabili «vuoti normativi», sarà esaminata in seguito, unitamente allo
scrutinio nel merito delle censure.
3.2.– La questione di legittimità
costituzionale può poi essere sollevata anche in sede cautelare, qualora il
giudice non abbia provveduto sulla domanda (come accaduto nei giudizi in
esame), ovvero quando abbia concesso la relativa misura, purché tale
concessione non si risolva nel definitivo esaurimento del potere del quale egli
è titolare in tale sede (tra le molte, ordinanze n. 3 del 2014 e n. 150 del 2012). Anche in relazione a questo profilo le questioni
sono pertanto ammissibili.
3.3.– Sull’ammissibilità della questione
sollevata dal Tribunale ordinario di Firenze non incide, inoltre, l’omessa
censura degli artt. 9, commi 1 e 3, e 12, comma 1, della legge n. 40 del 2004,
poiché la norma della quale il rimettente deve fare immediata e diretta
applicazione nel processo principale è soltanto il citato art. 4, comma 3,
mentre la mancata considerazione di quelle ulteriori non influisce sulla
correttezza della ricostruzione del quadro normativo di riferimento.
Parimenti irrilevante è che nel relativo
processo principale, secondo quanto dedotto da alcune delle associazioni
intervenute nel giudizio promosso dal Tribunale ordinario di Catania, sarebbe
sopravvenuta la separazione personale dei coniugi ricorrenti. Indipendentemente
da ogni considerazione in ordine alla prova di siffatta sopravvenienza, la
stessa non può esplicare effetti sul giudizio di legittimità costituzionale, in
quanto questo, una volta iniziato in seguito ad ordinanza di rinvio del giudice
rimettente, non è suscettibile di essere influenzato da successive vicende di
fatto concernenti il rapporto dedotto nel processo che lo ha occasionato, come
previsto dall’art. 18 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte
costituzionale, nel testo approvato il 7 ottobre 2008 (sentenze n. 274 del 2011 e n. 227 del 2010).
3.4.– Secondo i giudici a quibus, nelle fattispecie sottoposte
alla loro decisione sussistono, inoltre, i requisiti soggettivi di cui all’art.
5 della legge n. 40 del 2004, ma i ricorrenti, allo scopo di avere un figlio,
non possono fare ricorso alla PMA di tipo omologo, in quanto uno dei componenti
della coppia è stato colpito da patologie produttive della sterilità o
infertilità assolute ed irreversibili, mentre potrebbero utilmente avvalersi di
quella di tipo eterologo.
Tutte le ordinanze di rinvio hanno,
quindi, argomentato in modo non implausibile in ordine alla rilevanza delle
questioni, che, in coerenza con il petitum
formulato, sussiste esclusivamente in riferimento alla previsione del divieto,
nella parte in cui impedisce ai soggetti che vantano i requisiti di cui
all’art. 5 della legge n. 40 del 2004, di fare ricorso alla PMA di tipo
eterologo, qualora sia stata accertata l’esistenza di una patologia che sia
causa irreversibile di sterilità o infertilità assoluta.
Sussiste, inoltre, l’incidentalità delle
sollevate questioni. Le censure hanno, infatti, ad oggetto norme che i
rimettenti devono applicare, quale passaggio obbligato al fine della decisione
sulle domande proposte nei processi principali, concernenti il riconoscimento
del diritto delle parti attrici ad ottenere la condanna dei convenuti ad
eseguire la prestazione richiesta, con conseguente esistenza di un petitum distinto dalle sollevate
questioni di legittimità costituzionale.
3.5.– Ancora in linea preliminare,
occorre precisare che non possono essere presi in considerazione, oltre i
limiti fissati nelle ordinanze di rimessione, ulteriori questioni o profili di
costituzionalità dedotti dalle parti, tanto se siano stati eccepiti ma non
fatti propri da queste ultime, quanto se siano diretti ad ampliare o modificare
successivamente il contenuto delle stesse ordinanze (per tutte, sentenza n. 275 del 2013, ordinanza n. 10 del
2014).
Spetta, inoltre, a questa Corte valutare
il complesso delle eccezioni e delle questioni costituenti il thema decidendum e stabilire, anche per
economia di giudizio, l’ordine con cui affrontarle nella sentenza,
dichiarandone eventualmente assorbite alcune, quando si è in presenza di
questioni tra loro autonome per l’insussistenza di un nesso di pregiudizialità
(sentenze n. 278 e n. 98 del 2013, n. 293 del 2010).
4.– Nel merito, le questioni sollevate
in riferimento agli artt. 2, 3, 29, 31 e 32 Cost. sono fondate nei termini di
seguito precisati.
5.– Lo scrutinio delle censure va
effettuato, avendo riguardo congiuntamente a tutti questi parametri, poiché la
procreazione medicalmente assistita coinvolge «plurime esigenze costituzionali»
(sentenza n. 347 del 1998) e, conseguentemente, la legge n. 40 del 2004
incide su una molteplicità di interessi di tale rango. Questi, nel loro
complesso, richiedono «un bilanciamento tra di essi che assicuri un livello
minimo di tutela legislativa» ad ognuno (sentenza n. 45 del 2005), avendo, infatti, questa Corte già affermato che
la stessa «tutela dell’embrione non è comunque assoluta, ma limitata dalla
necessità di individuare un giusto bilanciamento con la tutela delle esigenze
di procreazione» (sentenza n. 151 del 2009).
Le questioni toccano temi eticamente
sensibili, in relazione ai quali l’individuazione di un ragionevole punto di
equilibrio delle contrapposte esigenze, nel rispetto della dignità della
persona umana, appartiene «primariamente alla valutazione del legislatore» (sentenza n. 347 del 1998), ma resta ferma la sindacabilità della stessa, al
fine di verificare se sia stato realizzato un non irragionevole bilanciamento
di quelle esigenze e dei valori ai quali si ispirano. Il divieto in esame non
costituisce, peraltro, il frutto di una scelta consolidata nel tempo, in quanto
è stato introdotto nel nostro ordinamento giuridico proprio dal censurato art.
4, comma 3. Anteriormente, l’applicazione delle tecniche di fecondazione
eterologa era, infatti, «lecita […] ed ammessa senza limiti né soggettivi né
oggettivi» e, nell’anno 1997, era praticata da 75 centri privati (Relazione
della XII Commissione permanente della Camera dei deputati presentata il 14
luglio 1998 sulle proposte di legge n. 414, n. 616 e n. 816, presentate nel
corso della XII legislatura). Tali centri operavano nel quadro delle circolari
del Ministro della sanità del 1° marzo 1985 (Limiti e condizioni di legittimità
dei servizi per l’inseminazione artificiale nell’ambito del Servizio sanitario
nazionale), del 27 aprile 1987 (Misure di prevenzione della trasmissione del
virus HIV e di altri agenti patogeni attraverso il seme umano impiegato per
fecondazione artificiale) e del 10 aprile 1992 (Misure di prevenzione della
trasmissione dell’HIV e di altri agenti patogeni nella donazione di liquido
seminale impiegato per fecondazione assistita umana e nella donazione d’organo,
di tessuto e di midollo osseo), nonché dell’ordinanza dello stesso Ministero
del 5 marzo 1997, recante «Divieto di commercializzazione e di pubblicità di
gameti ed embrioni umani» (avente efficacia temporalmente limitata, poi
prorogata per ulteriori novanta giorni da una successiva ordinanza del 4 giugno
1997).
Il primo di tali atti vietava, infatti,
esclusivamente la possibilità di praticare la PMA eterologa all’interno di
strutture del Servizio sanitario nazionale; il secondo aveva, invece, avuto
cura di stabilire i protocolli per l’utilizzazione del seme «per le
inseminazioni eterologhe», dettando altresì le regole di approntamento dello
schedario delle coppie che si sottoponevano a tale pratica e dei donatori di
gameti, nonché della tipologia di accertamenti da svolgere su questi ultimi; il
terzo aveva ulteriormente specificato la disciplina concernente le modalità di
raccolta, preparazione e crioconservazione del liquido seminale dei donatori,
nonché dello screening cui doveva
essere sottoposta la donna ricevente la donazione, «al fine di tutelare
l’eventuale nascituro»; il quarto aveva, infine, vietato «ogni forma di
remunerazione, diretta o indiretta, immediata o differita, in denaro od in
qualsiasi altra forma per la cessione di gameti, embrioni o, comunque, di
materiale genetico», nonché ogni forma di intermediazione commerciale
finalizzata a tale cessione, disponendo l’obbligo da parte dei centri che la
praticavano di comunicare taluni dati al Ministero della sanità.
Siffatto divieto neppure è, poi,
conseguito ad obblighi derivanti da atti internazionali, dato che, come già è
stato puntualizzato da questa Corte, la sua eliminazione in nessun modo ed in
nessun punto viola i principi posti dalla Convenzione di Oviedo del 4 aprile
1997 (che solo vieta la PMA a fini selettivi ed eugenetici e, peraltro, è
ancora priva degli strumenti di attuazione) e dal Protocollo addizionale del 12
gennaio 1998, n. 168, sul divieto di clonazione di esseri umani, recepiti nel
nostro ordinamento con la legge di adattamento 28 marzo 2001, n. 145 (Ratifica
della Convenzione di Oviedo) (sentenza n. 49 del 2005).
6.– Posta questa premessa, opportuna al
fine della contestualizzazione del divieto in esame, occorre constatare che
esso, impedendo alla coppia destinataria della legge n. 40 del 2004, ma assolutamente sterile o infertile, di
utilizzare la tecnica di PMA eterologa, è privo di adeguato fondamento
costituzionale.
Deve anzitutto essere ribadito che la
scelta di tale coppia di diventare genitori e di formare una famiglia che abbia
anche dei figli costituisce espressione della fondamentale e generale libertà
di autodeterminarsi, libertà che, come questa Corte ha affermato, sia pure ad
altri fini ed in un ambito diverso, è riconducibile agli artt. 2, 3 e 31 Cost.,
poiché concerne la sfera privata e familiare. Conseguentemente, le limitazioni
di tale libertà, ed in particolare un divieto assoluto imposto al suo
esercizio, devono essere ragionevolmente e congruamente giustificate
dall’impossibilità di tutelare altrimenti interessi di pari rango (sentenza n. 332 del 2000). La determinazione di avere o meno un figlio,
anche per la coppia assolutamente sterile o infertile, concernendo la sfera più
intima ed intangibile della persona umana, non può che essere incoercibile,
qualora non vulneri altri valori costituzionali, e ciò anche quando sia
esercitata mediante la scelta di ricorrere a questo scopo alla tecnica di PMA
di tipo eterologo, perché anch’essa attiene a questa sfera. In tal senso va
ricordato che la giurisprudenza costituzionale ha sottolineato come la legge n.
40 del 2004 sia appunto preordinata alla «tutela delle esigenze di
procreazione», da contemperare con ulteriori valori costituzionali, senza
peraltro che sia stata riconosciuta a nessuno di essi una tutela assoluta,
imponendosi un ragionevole bilanciamento tra gli stessi (sentenza n. 151 del 2009).
Va anche osservato che la Costituzione
non pone una nozione di famiglia inscindibilmente correlata alla presenza di
figli (come è deducibile dalle sentenze n. 189 del 1991 e n. 123 del 1990). Nondimeno, il progetto di formazione di una
famiglia caratterizzata dalla presenza di figli, anche indipendentemente dal
dato genetico, è favorevolmente considerata dall’ordinamento giuridico, in
applicazione di principi costituzionali, come dimostra la regolamentazione
dell’istituto dell’adozione. La considerazione che quest’ultimo mira
prevalentemente a garantire una famiglia ai minori (come affermato da questa
Corte sin dalla sentenza n. 11 del 1981) rende, comunque, evidente che il dato della
provenienza genetica non costituisce un imprescindibile requisito della
famiglia stessa.
La libertà e volontarietà dell’atto che
consente di diventare genitori e di formare una famiglia, nel senso sopra
precisato, di sicuro non implica che la libertà in esame possa esplicarsi senza
limiti. Tuttavia, questi limiti, anche se ispirati da considerazioni e
convincimenti di ordine etico, pur meritevoli di attenzione in un ambito così
delicato, non possono consistere in un divieto assoluto, come già sottolineato,
a meno che lo stesso non sia l’unico mezzo per tutelare altri interessi di
rango costituzionale.
7.– La disciplina in esame incide,
inoltre, sul diritto alla salute, che, secondo la costante giurisprudenza di
questa Corte, va inteso «nel significato, proprio dell’art. 32 Cost.,
comprensivo anche della salute pischica oltre che fisica» (sentenza n. 251 del 2008; analogamente, sentenze n. 113 del 2004; n. 253 del 2003) e «la cui tutela deve essere di grado pari a quello
della salute fisica» (sentenza n. 167 del 1999). Peraltro, questa nozione corrisponde a quella
sancita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, secondo la quale «Il
possesso del migliore stato di sanità possibile costituisce un diritto
fondamentale di ogni essere umano» (Atto di costituzione dell’OMS, firmato a
New York il 22 luglio 1946).
In relazione a questo profilo, non sono
dirimenti le differenze tra PMA di tipo omologo ed eterologo, benché soltanto
la prima renda possibile la nascita di un figlio geneticamente riconducibile ad
entrambi i componenti della coppia. Anche tenendo conto delle diversità che
caratterizzano dette tecniche, è, infatti, certo che l’impossibilità di formare una famiglia con figli
insieme al proprio partner,
mediante il ricorso alla PMA di tipo eterologo, possa incidere negativamente,
in misura anche rilevante, sulla salute della coppia, nell’accezione che al
relativo diritto deve essere data, secondo quanto sopra esposto.
In coerenza con questa nozione di
diritto alla salute, deve essere, quindi, ribadito che, «per giurisprudenza
costante, gli atti dispositivi del proprio corpo, quando rivolti alla tutela
della salute, devono ritenersi leciti» (sentenza n. 161 del
1985), sempre che non siano
lesi altri interessi costituzionali.
Nel caso di patologie produttive di una
disabilità – nozione che, per evidenti ragioni solidaristiche, va accolta in
un’ampia accezione – la discrezionalità spettante al legislatore ordinario
nell’individuare le misure a tutela di quanti ne sono affetti incontra,
inoltre, il limite del «rispetto di un nucleo indefettibile di garanzie per gli
interessati» (sentenze n. 80 del 2010, n. 251 del 2008). Un intervento sul merito delle scelte terapeutiche,
in relazione alla loro appropriatezza, non può nascere da valutazioni di pura
discrezionalità politica del legislatore, ma deve tenere conto anche degli
indirizzi fondati sulla verifica dello stato delle conoscenze scientifiche e
delle evidenze sperimentali acquisite, tramite istituzioni e organismi a ciò
deputati (sentenza n. 8 del 2011), anche in riferimento all’accertamento
dell’esistenza di una lesione del diritto alla salute psichica ed alla idoneità
e strumentalità di una determinata
tecnica a garantirne la tutela nei termini nei quali essa si impone alla luce
della nozione sopra posta. Pertanto, va ribadito che, «in materia di pratica
terapeutica, la regola di fondo deve essere la autonomia e la responsabilità
del medico, che, con il consenso del paziente, opera le necessarie scelte
professionali» (sentenza n. 151 del 2009), fermo restando il potere del legislatore di
intervenire in modo conforme ai precetti costituzionali. Non si tratta di
soggettivizzare la nozione di salute, né di assecondare il desiderio di
autocompiacimento dei componenti di una coppia, piegando la tecnica a fini
consumistici, bensì di tenere conto che la nozione di patologia, anche
psichica, la sua incidenza sul diritto alla salute e l’esistenza di pratiche
terapeutiche idonee a tutelarlo vanno accertate alla luce delle valutazioni riservate alla scienza medica,
ferma la necessità di verificare che la relativa scelta non si ponga in
contrasto con interessi di pari rango.
8.– Il censurato divieto incide, quindi,
sui richiamati beni costituzionali. Tuttavia, ciò non è sufficiente a farlo
ritenere illegittimo, occorrendo a questo scopo accertare se l’assolutezza che
lo connota sia l’unico mezzo per garantire la tutela di altri valori
costituzionali coinvolti dalla tecnica in esame.
9.– In linea preliminare, va osservato
che la PMA di tipo eterologo mira a favorire la vita e pone problematiche
riferibili eminentemente al tempo successivo alla nascita. La considerazione
che il divieto è stato censurato nella parte in cui impedisce il ricorso a
detta tecnica nel caso in cui sia stata accertata l’esistenza di una patologia,
che è causa irreversibile di sterilità o infertilità assolute, deve escludere,
in radice, infatti, un’eventuale utilizzazione della stessa ad illegittimi fini
eugenetici.
La tecnica in esame (che va
rigorosamente circoscritta alla donazione di gameti e tenuta distinta da ulteriori
e diverse metodiche, quali la cosiddetta «surrogazione di maternità»,
espressamente vietata dall’art. 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004, con
prescrizione non censurata e che in nessun modo ed in nessun punto è incisa
dalla presente pronuncia, conservando quindi perdurante validità ed efficacia),
alla luce delle notorie risultanze della scienza medica, non comporta, inoltre,
rischi per la salute dei donanti e dei donatari eccedenti la normale alea
insita in qualsiasi pratica terapeutica, purché eseguita all’interno di
strutture operanti sotto i rigorosi controlli delle autorità, nell’osservanza
dei protocolli elaborati dagli organismi specializzati a ciò deputati.
10.– L’unico interesse che si
contrappone ai predetti beni costituzionali è, dunque, quello della persona
nata dalla PMA di tipo eterologo, che, secondo l’Avvocatura generale dello
Stato, sarebbe leso a causa sia del rischio psicologico correlato ad una
genitorialità non naturale, sia della violazione del diritto a conoscere la
propria identità genetica. Le censure, ad avviso dell’interveniente, sarebbero
inoltre inammissibili, come sopra accennato, poiché il loro eventuale
accoglimento determinerebbe incolmabili «vuoti normativi» in ordine a rilevanti
profili della disciplina applicabile, venendo in rilievo «una questione di
politica e di tecnica legislativa di competenza del conditor iuris», che porrebbe esclusivamente «scelte di
opportunità», riconducibili alla discrezionalità riservata al legislatore
ordinario.
Questa eccezione evidenzia
l’inestricabile correlazione esistente tra profili concernenti l’ammissibilità
ed il merito delle questioni. Devono,
per ciò stesso, essere esaminati congiuntamente.
L’eccezione di inammissibilità non è
fondata, anche se va escluso che l’accoglimento delle questioni possa far
rivivere gli atti amministrativi sopra richiamati, come sostenuto invece dalle
parti private. Il contenuto del divieto introdotto dal citato art. 4, comma 3,
e l’impossibilità di qualificare detta norma (e l’intera legge) come esclusivamente
ed espressamente abrogatrice di una norma preesistente, nonché la natura di
tali atti, rendono infatti palese che non ricorre nessuna delle «ipotesi
tipiche e molto limitate» di reviviscenza che l’ordinamento costituzionale
tollera (tra le più recenti, sentenza n. 70 del 2013).
11.– Posta questa premessa, deve essere
ribadito che la legge n. 40 del 2004 costituisce la «prima legislazione
organica relativa ad un delicato settore […] che indubbiamente coinvolge una
pluralità di rilevanti interessi costituzionali, i quali, nel loro complesso,
postulano quanto meno un bilanciamento tra di essi che assicuri un livello
minimo di tutela legislativa» e, quindi, sotto questo profilo, è
«costituzionalmente necessaria» (sentenza n. 45 del 2005). Nondimeno, in
parte qua, essa non ha contenuto costituzionalmente vincolato; infatti, nel
dichiarare ammissibile la richiesta di referendum
popolare per l’abrogazione, tra gli altri, dell’art. 4, comma 3, è stato
sottolineato che l’eventuale accoglimento della proposta referendaria non
avrebbe fatto «venir meno un livello minimo di tutela costituzionalmente
necessario, così da sottrarsi alla possibilità di abrogazione referendaria» (sentenza n. 49 del 2005).
In relazione al «vuoto normativo»
paventato dall’interveniente, rinviando alle considerazioni svolte di seguito
per l’identificazione delle lacune eventualmente conseguenti all’accoglimento
delle questioni, occorre, peraltro, ricordare che questa Corte sin dalla sentenza n. 59 del 1958 ha affermato che il proprio potere «di dichiarare
l’illegittimità costituzionale delle leggi non può trovare ostacolo nella
carenza legislativa che, in ordine a dati rapporti, possa derivarne; mentre
spetta alla saggezza del legislatore […] di eliminarla nel modo più sollecito
ed opportuno» e, di recente, ha ribadito che, «posta di fronte a un vulnus costituzionale, non sanabile in
via interpretativa – tanto più se attinente a diritti fondamentali – la Corte è
tenuta comunque a porvi rimedio» (sentenza n. 113 del
2011).
L’esigenza di garantire il principio di
costituzionalità rende, infatti, imprescindibile affermare che il relativo
sindacato «deve coprire nella misura più ampia possibile l’ordinamento
giuridico» (sentenza n. 1 del 2014), non essendo, ovviamente, ipotizzabile l’esistenza
di ambiti sottratti allo stesso. Diversamente, si determinerebbe, infatti, una
lesione intollerabile per l’ordinamento costituzionale complessivamente
considerato, soprattutto quando risulti accertata la violazione di una libertà
fondamentale, che non può mai essere giustificata con l’eventuale inerzia del
legislatore ordinario. Una volta accertato che una norma primaria si pone in
contrasto con parametri costituzionali, questa Corte non può, dunque, sottrarsi
al proprio potere-dovere di porvi rimedio e deve dichiararne l’illegittimità,
essendo poi «cómpito del legislatore introdurre apposite disposizioni» (sentenza n. 278 del 2013), allo scopo di eliminare le eventuali lacune che
non possano essere colmate mediante gli ordinari strumenti interpretativi dai
giudici ed anche dalla pubblica amministrazione, qualora ciò sia ammissibile.
Nella specie sono, peraltro,
identificabili più norme che già disciplinano molti dei profili di più
pregnante rilievo, anche perché il legislatore, avendo consapevolezza della
legittimità della PMA di tipo eterologo in molti paesi d’Europa, li ha
opportunamente regolamentati, dato che i cittadini italiani potevano (e
possono) recarsi in questi ultimi per fare ad essa ricorso, come in effetti è
accaduto in un non irrilevante numero di casi.
11.1.– La ritenuta fondatezza delle
censure non determina incertezze in ordine all’identificazione dei casi nei
quali è legittimo il ricorso alla tecnica in oggetto. L’accoglimento delle
questioni, in coerenza con il petitum
formulato dai rimettenti, comporta, infatti, l’illegittimità del divieto in
esame, esclusivamente in riferimento al caso in cui sia stata accertata
l’esistenza di una patologia che sia causa irreversibile di sterilità o
infertilità assolute. In particolare, secondo quanto stabilito dagli artt. 1, comma
2, e 4, comma 1, della legge n. 40 del 2004, all’evidenza direttamente
riferibili anche alla PMA di tipo eterologo, il ricorso alla stessa, una volta
dichiarato illegittimo il censurato divieto, deve ritenersi consentito solo
«qualora non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere» le cause
di sterilità o infertilità e sia stato accertato il carattere assoluto delle
stesse, dovendo siffatte circostanze essere «documentate da atto medico» e da
questo certificate. Il ricorso a questa tecnica, non diversamente da quella di
tipo omologo, deve, inoltre, osservare i principi di gradualità e del consenso
informato stabiliti dal citato art. 4, comma 2.
Nessuna lacuna sussiste in ordine ai
requisiti soggettivi, poiché la dichiarata illegittimità del divieto non incide
sulla previsione recata dall’art. 5, comma 1, di detta legge, che risulta
ovviamente applicabile alla PMA di tipo eterologo (come già a quella di tipo
omologo); quindi, alla stessa possono fare ricorso esclusivamente le «coppie di
maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente
fertile, entrambi viventi». Ad analoga conclusione deve pervenirsi quanto alla
disciplina del consenso, dato che la completa regolamentazione stabilita
dall’art. 6 della legge n. 40 del 2004 – una volta venuto meno, nei limiti
sopra precisati, il censurato divieto – riguarda evidentemente anche la tecnica
in esame, in quanto costituisce una particolare metodica di PMA. È, inoltre,
parimenti chiaro che l’art. 7 della legge n. 40 del 2004, il quale offre base
giuridica alle Linee guida emanate dal Ministro della salute, «contenenti
l’indicazione delle procedure e delle tecniche di procreazione medicalmente
assistita», avendo ad oggetto le direttive che devono essere emanate per
l’esecuzione della disciplina e concernendo il genus PMA, di cui quella di tipo eterologo costituisce una species, è, all’evidenza, riferibile
anche a questa, come lo sono altresì gli artt. 10 ed
Siffatta considerazione permette, poi,
di ritenere che le norme di divieto e sanzione non censurate (le quali
conservano validità ed efficacia), preordinate a garantire l’osservanza delle
disposizioni in materia di requisiti soggettivi, modalità di espressione del
consenso e documentazione medica necessaria ai fini della diagnosi della
patologia e della praticabilità della tecnica, nonché a garantire il rispetto
delle prescrizioni concernenti le modalità di svolgimento della PMA ed a
vietare la commercializzazione di gameti ed embrioni e la surrogazione di
maternità (art. 12, commi da
I profili sui quali si è soffermato
l’interveniente, concernenti lo stato giuridico del nato ed i rapporti con i
genitori, sono, inoltre, anch’essi regolamentati dalle pertinenti norme della
legge n. 40 del 2004, applicabili anche al nato da PMA di tipo eterologo in
forza degli ordinari canoni ermeneutici. La constatazione che l’art. 8, comma
1, di detta legge contiene un ampio riferimento ai «nati a seguito
dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita», in
considerazione della genericità di quest’ultima locuzione e dell’essere la PMA
di tipo eterologo una species del genus, come sopra precisato, rende,
infatti, chiaro che, in virtù di tale norma, anche i nati da quest’ultima
tecnica «hanno lo stato di figli nati nel matrimonio o di figli riconosciuti
della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime».
Della nuova concezione della paternità il legislatore ordinario si è, peraltro,
di recente dimostrato consapevole, modificando l’art. 231 del codice civile, il
quale, nel testo novellato dall’art. 8 del decreto legislativo 28 dicembre
2013, n. 154 (Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a
norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219), stabilisce,
significativamente, che «Il marito è padre del figlio concepito o nato durante
il matrimonio», risultando così sostituita l’originaria formulazione della
norma, la quale disponeva, invece, che «Il marito è padre del figlio concepito
durante il matrimonio».
Una volta espunte dai commi 1 e 3
dell’art. 9 della legge n. 40 del
12.– Dalle norme vigenti è, dunque, già
desumibile una regolamentazione della PMA di tipo eterologo che, in relazione
ai profili ulteriori rispetto a quelli sopra approfonditi, è ricavabile,
mediante gli ordinari strumenti interpretativi, dalla disciplina concernente,
in linea generale, la donazione di tessuti e cellule umani, in quanto
espressiva di principi generali pur nelle diversità delle fattispecie (in
ordine, esemplificativamente, alla gratuità e volontarietà della donazione,
alle modalità del consenso, all’anonimato del donatore, alle esigenze di tutela
sotto il profilo sanitario, oggetto degli artt. 12, 13, comma 1, 14 e 15 del
decreto legislativo 6 novembre 2007, n. 191, recante «Attuazione della
direttiva 2004/23/CE sulla definizione delle norme di qualità e di sicurezza
per la donazione, l’approvvigionamento, il controllo, la lavorazione, la conservazione,
lo stoccaggio e la distribuzione di tessuti e cellule umane»). In relazione al
numero delle donazioni è, poi, possibile un aggiornamento delle Linee guida,
eventualmente anche alla luce delle discipline stabilite in altri Paesi europei
(quali, ad esempio, la Francia e il Regno Unito), ma tenendo conto
dell’esigenza di consentirle entro un limite ragionevolmente ridotto.
La questione del diritto all’identità
genetica, nonostante le peculiarità che la connotano in relazione alla
fattispecie in esame, neppure è nuova. Essa si è posta, infatti, in riferimento
all’istituto dell’adozione e sulla stessa è di recente intervenuto il
legislatore, che ha disciplinato l’an
ed il quomodo del diritto dei
genitori adottivi all’accesso alle informazioni concernenti l’identità dei
genitori biologici dell’adottato (art. 28, comma 4, della legge 4 maggio 1983,
n. 184, recante «Diritto del minore ad una famiglia», nel testo modificato
dall’art. 100, comma 1, lettera p,
del d.lgs. n. 154 del 2013). Inoltre, in tale ambito era stato già infranto il
dogma della segretezza dell’identità dei genitori biologici quale garanzia
insuperabile della coesione della famiglia adottiva, nella consapevolezza
dell’esigenza di una valutazione dialettica dei relativi rapporti (art. 28,
comma 5, della legge n. 184 del 1983). Siffatta esigenza è stata confermata da
questa Corte la quale, nello scrutinare la norma che vietava l’accesso alle
informazioni nei confronti della madre che abbia dichiarato alla nascita di non
volere essere nominata, ha affermato che l’irreversibilità del segreto arrecava
un insanabile vulnus agli artt. 2 e 3
Cost. e l’ha, quindi, rimossa, giudicando inammissibile il suo mantenimento ed
invitando il legislatore ad introdurre apposite disposizioni volte a consentire
la verifica della perdurante attualità della scelta compiuta dalla madre
naturale e, nello stesso tempo, a cautelare in termini rigorosi il suo diritto
all’anonimato (sentenza n. 278 del 2013).
13.– Il censurato divieto, nella sua
assolutezza, è pertanto il risultato di un irragionevole bilanciamento degli
interessi in gioco, in violazione anche del canone di razionalità dell’ordinamento,
non giustificabile neppure richiamando l’esigenza di intervenire con norme
primarie o secondarie per stabilire alcuni profili della disciplina della PMA
di tipo eterologo.
A tal proposito, va ricordato che la
giurisprudenza costituzionale «ha desunto dall’art. 3 Cost. un canone di
"razionalità” della legge svincolato da una normativa di raffronto,
rintracciato nell’"esigenza di conformità dell’ordinamento a valori di
giustizia e di equità” […] ed a criteri di coerenza logica, teleologica e storico-cronologica,
che costituisce un presidio contro l’eventuale manifesta irrazionalità o
iniquità delle conseguenze della stessa» (sentenza n. 87 del 2012). Lo scrutinio di ragionevolezza, in ambiti
connotati da un’ampia discrezionalità legislativa, impone, inoltre, a questa
Corte di verificare che il bilanciamento degli interessi costituzionalmente
rilevanti non sia stato realizzato con modalità tali da determinare il
sacrificio o la compressione di uno di essi in misura eccessiva e pertanto
incompatibile con il dettato costituzionale. Tale giudizio deve svolgersi
«attraverso ponderazioni relative alla proporzionalità dei mezzi prescelti dal
legislatore nella sua insindacabile discrezionalità rispetto alle esigenze
obiettive da soddisfare o alle finalità che intende perseguire, tenuto conto
delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti» (sentenza n. 1130 del 1988). A questo scopo può essere utilizzato il test di
proporzionalità, insieme con quello di ragionevolezza, che «richiede di
valutare se la norma oggetto di scrutinio, con la misura e le modalità di
applicazione stabilite, sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi
legittimamente perseguiti, in quanto, tra più misure appropriate, prescriva
quella meno restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri non
sproporzionati rispetto al perseguimento di detti obiettivi» (sentenza n. 1 del 2014).
In applicazione di tali principi, alla
luce del dichiarato scopo della legge n. 40 del 2004 «di favorire la soluzione dei
problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana»
(art. 1, comma 1), la preclusione assoluta di accesso alla PMA di tipo
eterologo introduce un evidente elemento di irrazionalità, poiché la negazione assoluta del diritto a realizzare la genitorialità, alla formazione della
famiglia con figli, con incidenza sul diritto alla salute, nei termini sopra
esposti, è stabilita in danno delle coppie affette dalle patologie più gravi,
in contrasto con la ratio legis. Non
rileva che le situazioni in comparazione non sono completamente assimilabili,
sia perché ciò è ininfluente in relazione al canone di razionalità della norma,
sia perché «il principio di cui all’art. 3 Cost. è violato non solo quando i
trattamenti messi a confronto sono formalmente contraddittori in ragione
dell’identità delle fattispecie, ma anche quando la differenza di trattamento è
irrazionale secondo le regole del discorso pratico, in quanto le rispettive
fattispecie, pur diverse, sono ragionevolmente analoghe» (sentenza n. 1009 del 1988), come appunto nel caso in esame.
Il divieto in esame cagiona, in
definitiva, una lesione della libertà fondamentale della coppia destinataria
della legge n. 40 del 2004 di formare una famiglia con dei figli, senza che la
sua assolutezza sia giustificata dalle esigenze di tutela del nato, le quali,
in virtù di quanto sopra rilevato in ordine ad alcuni dei più importanti
profili della situazione giuridica dello stesso, già desumibile dalle norme
vigenti, devono ritenersi congruamente garantite.
La regolamentazione degli effetti della
PMA di tipo eterologo praticata al di fuori del nostro Paese, benché sia
correttamente ispirata allo scopo di offrire la dovuta tutela al nato, pone,
infine, in evidenza un ulteriore elemento di irrazionalità della censurata
disciplina. Questa realizza, infatti, un ingiustificato, diverso trattamento
delle coppie affette dalla più grave patologia, in base alla capacità economica
delle stesse, che assurge intollerabilmente a requisito dell’esercizio di un
diritto fondamentale, negato solo a quelle prive delle risorse finanziarie
necessarie per potere fare ricorso a tale tecnica recandosi in altri Paesi. Ed
è questo non un mero inconveniente di fatto, bensì il diretto effetto delle
disposizioni in esame, conseguente ad un bilanciamento degli interessi
manifestamente irragionevole. In definitiva, le norme censurate, pur
nell’obiettivo di assicurare tutela ad un valore di rango costituzionale, stabiliscono
una disciplina che non rispetta il vincolo del minor sacrificio possibile degli
altri interessi e valori costituzionalmente protetti, giungendo a realizzare
una palese ed irreversibile lesione di alcuni di essi, in violazione dei
parametri costituzionali sopra richiamati.
Deve essere quindi dichiarata
l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 3, della legge n. 40 del
2004, nella parte in cui stabilisce il divieto del ricorso a tecniche di
procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, qualora sia stata
diagnosticata una patologia che sia causa di sterilità o infertilità assolute
ed irreversibili, nonché dell’art. 9, commi 1 e 3, limitatamente alle parole
«in violazione del divieto di cui all’articolo 4, comma 3», e dell’art. 12, comma
1, di detta legge.
14.– Restano assorbiti i motivi di
censura formulati in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione
agli artt. 8 e 14 della CEDU.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 3, della legge 19 febbraio
2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), nella
parte in cui stabilisce per la coppia di cui all’art. 5, comma 1, della
medesima legge, il divieto del ricorso a tecniche di procreazione medicalmente
assistita di tipo eterologo, qualora sia stata diagnosticata una patologia che
sia causa di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili;
2) dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, della legge n. 40 del
2004, limitatamente alle parole «in violazione del divieto di cui all’articolo
4, comma 3»;
3) dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 3, della legge n. 40 del
2004, limitatamente alle parole «in violazione del divieto di cui all’articolo
4, comma 3»;
4) dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art. 12, comma 1, della legge n. 40 del
2004.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 aprile
2014.
F.to:
Depositata in
Allegato
Ordinanza letta all’udienza
dell’8 aprile 2014