SENTENZA N. 87
ANNO 2012
Commenti alla decisione di
I. Renzo Dickmann,
La
Corte costituzionale precisa (e ridimensiona) il ruolo del "Tribunale dei
ministri” e delle Camere nel procedimento per reati del Presidente del
Consiglio e dei Ministri (per gentile concessione
della Rivista telematica Federalismi.it)
II. Arianna Carminati, La
Corte costituzionale decide i conflitti "Berlusconi” e "Mastella” in materia di
reati ministeriali e "taglia i ponti” tra le camere e l’autorità giudiziaria
(per gentile concessione della Rivista telematica dell’AIC – Associazione Italiana dei
Costituzionalisti)
III. Eric Furno,
Le nuove sentenze " gemelle "
della Corte costituzionale sui reati ministeriali: un finale di partita? (per gentile concessione della Rivista Giurisprudenza
Italiana)
IV. Massimiliano Boni, Spigolature
a margine del "caso Ruby”: sulla costituzione di mero stile nei giudizi davanti
la Corte costituzionale, per gentile concessione del Forum di Quaderni Costituzionali
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
composta dai signori:
-
-
- Luigi MAZZELLA "
-
-
-
-
- Giuseppe FRIGO
"
- Alessandro CRISCUOLO "
- Paolo GROSSI "
- Giorgio LATTANZI "
- Aldo CAROSI "
- Marta CARTABIA "
- Sergio MATTARELLA "
- Mario
Rosario MORELLI "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio per conflitto di
attribuzione tra poteri dello Stato sorto in seguito alla apertura delle
indagini ed alla successiva richiesta di giudizio immediato del 9 febbraio 2011
da parte del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale ordinario di
Milano ed al decreto di giudizio immediato del 15 febbraio 2011 emesso dal
Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale ordinario di Milano,
nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri in carica, promosso
dalla Camera dei deputati, con ricorso notificato il 1° agosto 2011, depositato
in cancelleria il 2 agosto 2011, ed iscritto al n. 7 del registro conflitti tra
poteri dello Stato 2011, fase di merito.
Visti
l’atto di costituzione
della Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Milano, nonchè l’atto di intervento del Senato della Repubblica;
udito nell’udienza pubblica del 14 febbraio
2012 il Giudice relatore
uditi
gli avvocati
Ritenuto in
fatto
1.― Con ricorso depositato il 17
maggio 2011, la Camera dei deputati ha sollevato conflitto di attribuzione nei
confronti del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale ordinario di
Milano (di seguito: PM) e del Giudice per le indagini preliminari di
quest’ultimo Tribunale (infra: GIP),
in relazione alle indagini poste in essere dal PM (nell’ambito del procedimento
penale R.G.N.R. n. 55781/2010) nei confronti dell’on. Silvio Berlusconi, membro
della Camera dei deputati, Presidente del Consiglio dei ministri in carica, ed
alla richiesta di giudizio immediato formulata in data 9 febbraio 2011
(nell’ambito del procedimento penale R.G.N.R. n. 5657/11), relativamente al
contestato delitto di concussione, nonché, sempre in riferimento solo a tale
ultimo reato, al decreto di giudizio immediato, in data 15 febbraio 2011, del
GIP (nell’ambito del procedimento R.G.G.I.P. n. 1297/11).
In particolare, la ricorrente ha chiesto
che questa Corte: a) dichiari che non spettava al PM «avviare ed esperire
indagini nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri in carica,
nonché procedere alla richiesta di giudizio immediato (…), relativamente al
contestato delitto di concussione, omettendo di trasmettere gli atti al
Collegio per i reati ministeriali ai sensi dell’art. 6 della legge
costituzionale» 16 gennaio 1989, n. 1 (Modifiche degli articoli 96, 134 e 135
della Costituzione e della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1, e norme in
materia di procedimenti per i reati di cui all’articolo 96 della Costituzione),
«in tal modo precludendo alla competente Camera dei deputati l’esercizio delle
proprie attribuzioni costituzionali in materia di cui all’art. 96 Cost.» e a
detta legge costituzionale, «e comunque senza dare la dovuta comunicazione»
alla Camera dei deputati; b) dichiari che non spettava al GIP «procedere in via
ordinaria ed emettere il decreto di giudizio immediato nei confronti del
Presidente del Consiglio dei ministri in carica (…), né affermare, in relazione
al contestato delitto di concussione, la natura non ministeriale dello stesso,
omettendo di rilevare la necessaria trasmissione degli atti al Collegio per i
reati ministeriali con i provvedimenti del caso, in tal modo precludendo» ad
essa istante l’esercizio delle suindicate attribuzioni costituzionali, e
«comunque senza provvedere in modo che venisse data la dovuta comunicazione»
alla Camera dei deputati; c) provveda all’«annullamento delle attività poste in
essere e degli atti adottati nell’ambito dei procedimenti» sopra indicati.
2.― La ricorrente premette che, in
occasione della ricezione, in data 14 gennaio 2011, della richiesta del PM di
autorizzazione ad eseguire la perquisizione di alcuni locali siti nella
disponibilità del Presidente del Consiglio dei ministri del tempo (nell’ambito
del procedimento penale R.G.N.R. n. 55781/2010, per i delitti di cui agli artt.
317, 61, numero 2, 81 cpv e 600-bis, secondo comma, del codice penale), integrata in data 26
gennaio 2011, apprendeva che, in relazione a detto procedimento penale, tale
organo stava svolgendo indagini nei confronti dell’on. Silvio Berlusconi. La
Giunta per le autorizzazioni (infra:
Giunta), con relazione adottata a maggioranza, in riferimento al contestato
delitto di concussione, osservava che sarebbe stata prospettabile «l’ipotesi
che si versi nel reato ministeriale» e deduceva che la competenza a qualificare
come tale il reato sarebbe «essenzialmente attribuita dalla legge al tribunale
dei ministri», «quanto meno per i fatti per i quali sussista un ragionevole
dubbio circa il ricorrere di questo requisito», e proponeva di deliberare che
«la Camera restituisca gli atti all’autorità giudiziaria procedente», proposta
accolta dall’Assemblea in data 3 febbraio 2011.
Con
missiva del 1° marzo 2011, tre Presidenti di Gruppo richiedevano alla
Presidenza della Camera dei deputati di «accertare la sussistenza delle
condizioni per sollevare un conflitto di attribuzione», dato che tale ultima
delibera «non ha sortito alcun effetto». La Giunta, in data 23 marzo 2011,
approvava la proposta di parere diretta a proporre conflitto di attribuzione
che l’Assemblea della Camera dei deputati, nella seduta del 5 aprile 2011,
deliberava di sollevare.
2.1.― Posta questa premessa, la Camera
dei deputati svolge ampie argomentazioni a conforto dell’ammissibilità del
conflitto, sotto il profilo sia soggettivo, sia oggettivo, poiché PM e GIP
avrebbero compiuto gli atti impugnati in violazione della disciplina stabilita
dalla legge cost. n. 1 del 1989, senza porla in condizioni di «poter esprimere
con cognizione di causa la propria valutazione in ordine al carattere
ministeriale del reato nonché ai fini della eventuale autorizzazione a
procedere nei confronti del titolare della carica di Governo». Il conflitto non
prospetterebbe, quindi, una questione di giurisdizione e/o competenza, ma
sarebbe diretto a reintegrare le prerogative della Camera correlate «alle
competenze del c.d. tribunale dei ministri».
2.2.― Nel merito, secondo la
ricorrente, PM e GIP avrebbero erroneamente ritenuto di «poter procedere nelle
vie ordinarie in quanto titolari in via esclusiva del potere di qualificazione
dell’illecito»: il primo, senza fornire motivazione; il secondo, rigettando
l’eccezione proposta dall’imputato; entrambi, omettendo di comunicare alla
Camera dei deputati siffatte determinazioni, senza tenere conto delle
osservazioni svolte nel provvedimento di restituzione della citata richiesta di
autorizzazione alle perquisizioni.
La ricorrente riporta il contenuto degli
articoli 6, 8 e 9 della legge cost. n. 1 del 1989 e degli articoli 1 e 4 della
legge 5 giugno 1989, n. 219 (Nuove norme in tema di reati ministeriali e di
reati previsti dall’articolo 90 della Costituzione), sostenendo che la
disciplina stabilita da dette disposizioni sarebbe preordinata, in primo luogo,
a concentrare in capo al collegio per i reati ministeriali l’attività di
indagine (come dimostrato dalla previsione di un termine per la trasmissione
allo stesso della notizia di reato da parte del PM e dal divieto per questi di
procedere ad indagini), al fine di realizzare le garanzie e le finalità cui è
preordinato tale collegio (poste in luce anche dalla sentenza n. 403 del
1994). In secondo luogo, mirerebbe ad assicurare che la Camera competente,
sulla scorta delle indagini effettuate da detto organo, nei casi di richiesta
dell’autorizzazione a procedere, ovvero di archiviazione «anomala» (sentenza n. 241 del
2009), sia posta in condizione di conoscere tutti gli elementi necessari
per assumere le determinazioni di propria competenza in ordine al carattere
ministeriale del reato ed alla sussistenza di eventuali esimenti. In terzo
luogo, come risulterebbe anche dalla brevità dei termini sopra indicati,
sarebbe preordinata a garantire che le ipotesi di reato, prima dell’eventuale
esercizio dell’azione penale, siano sottoposte ad una duplice valutazione,
avente ad oggetto «la meritevolezza circa la prosecuzione del procedimento»
(spettante al collegio per i reati ministeriali) e «l’esistenza dei presupposti
per l’attivazione della relativa guarentigia» (riservata alla Camera di
competenza), tenuto conto degli «interessi di natura istituzionale» in gioco.
Secondo la ricorrente, la mancata
osservanza di detto procedimento vanificherebbe «l’intero sistema disegnato dal
legislatore costituzionale nel quale si trovano contemperate "la garanzia della
funzione di governo e l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge”» (sentenza n. 241 del
2009). Questa Corte ha, infatti, affermato che, per realizzare un
ragionevole bilanciamento tra questi due principi, sia le norme costituzionali
che quelle della legge ordinaria mirano a porre tanto l’autorità giudiziaria
quanto quella politica in condizione di tutelare, nei loro reciproci rapporti,
la prima, il potere-dovere di perseguire i reati commessi da qualunque
cittadino, indipendentemente dalla carica ricoperta, la seconda, il
potere-dovere di attuare in concreto la guarentigia prevista dall’art. 96 Cost.
Tale risultato si conseguirebbe, da un lato, mantenendo all’autorità
giudiziaria ordinaria il potere di svolgere le indagini necessarie rispetto
alle notizie di reato a carico dei ministri; dall’altro, assicurando alla
Camera l’adeguata e tempestiva informazione sugli sviluppi e l’esito dei
procedimenti penali a carico dei componenti del Governo (sentenza n. 241 del
2009).
Il necessario e tempestivo
coinvolgimento della Camera costituirebbe, quindi, uno snodo essenziale del
procedimento, come risulta dal fatto che l’obbligo di comunicazione sussiste
anche nel caso di archiviazione disposta a causa della ritenuta non
ministerialità del reato (sentenza n. 241 del
2009).
2.3.― La Camera dei deputati
contesta che l’iter procedimentale
sintetizzato concerna il solo caso in cui «sia stato previamente accertato
dall’autorità giudiziaria, su cui grava l’obbligo della trasmissione al
Collegio, il carattere ministeriale del reato». A suo avviso, l’equilibrio tra
i poteri sarebbe garantito dalla spettanza al collegio per i reati ministeriali
del compito di qualificare la natura del reato, che assicura alla Camera
competente l’informazione costituzionalmente dovutale (sentenza n. 241 del
2009), consentendole di adottare le valutazioni di propria spettanza
relative alla natura del reato ed alle circostanze dello stesso. Siffatta tesi
non comporterebbe che lo status di
componente del Governo costituisca condizione necessaria e sufficiente per
ritenere il carattere ministeriale del reato, dato che «sia la prima e
"precaria” valutazione operata dal Procuratore, finalizzata alla presentazione
delle sue "richieste” al Collegio unitamente alla trasmissione degli atti», sia
quella conclusiva del collegio per i reati ministeriali «verteranno sui profili
atti ad integrare il reato ministeriale». In tal senso deporrebbero il divieto
per il PM di effettuare indagini sulla notizia di reato a carico di un ministro
e la brevità del termine per presentare le richieste al collegio per i reati
ministeriali, in quanto incompatibili con la possibilità di operare una
ponderazione conclusiva ed adeguata in ordine alla natura del reato.
Secondo la Camera dei deputati, siffatta
configurazione sarebbe confortata anzitutto dai lavori preparatori della legge
cost. n. 1 del 1989 (in particolare, dalla relazione della Commissione affari
costituzionali del Senato della Repubblica, nella parte in cui sottolinea che
«il Pubblico Ministero è tenuto ad inoltrare al Collegio la documentazione
pervenuta perché questo conduca indagini preliminari» e «svolge in questa fase
preliminare una funzione di raccolta delle notizie di reato e di primi
elementi, nonché di consulenza al Collegio»). Inoltre, dalla constatazione che
la riduzione del termine di trasmissione della richiesta a quindici giorni e
l’introduzione nel citato art. 6 dell’espressione «omessa ogni indagine» –
conseguite ad indicazioni della Commissione giustizia – sono state ritenute
indispensabili, allo scopo di chiarire la funzione del PM di «"semplice tramite
al Collegio”» e di evidenziare che questi non può né deve svolgere nessuna
indagine.
L’implausibilità
dell’interpretazione sostenuta dall’autorità giudiziaria sarebbe confortata dal
fatto che per il PM il breve lasso di tempo accordatogli è sufficiente per
adottare le determinazioni del caso, senza nessun ulteriore supporto
investigativo. Al collegio per i reati ministeriali è concesso, invece, un
termine più ampio, anche per qualificare il reato come "comune”. D’altronde,
non sarebbe plausibile che l’ipotizzato potere esclusivo del PM di qualificare
il reato sia governato da una disciplina dissociata, in virtù della quale,
qualora egli ritenga il reato "comune”, il collegio per i reati ministeriali
non potrebbe esprimersi in ordine a detta qualificazione, mentre «in caso di
esito positivo (la ministerialità del reato) tale valutazione potrebbe essere
sovvertita» da quest’ultimo, con esito interpretativo non giustificato da un
ipotetico favor per il carattere non
ministeriale del reato, del quale non v’è traccia nelle norme.
La qualificazione offerta dal collegio
per i reati ministeriali neppure inciderebbe sul potere della Camera competente
di adottare le determinazioni ad essa spettanti, poiché all’organo parlamentare
«non può essere sottratta una propria autonoma valutazione sulla natura
ministeriale o non ministeriale dei reati» (sentenza n. 241 del
2009), ciò che, invece, avverrebbe qualora la natura "comune” del reato non
sia stabilita dal collegio per i reati ministeriali.
2.4.― Secondo la ricorrente, le
attribuzioni costituzionali della Camera competente non potrebbero essere
lasciate nella totale disponibilità dell’autorità giudiziaria, avendo la sentenza n. 241 del
2009 negato anche che un siffatto incontrollabile potere spetti al collegio
per i reati ministeriali. A tale esito condurrebbe invece, la tesi del PM e del
GIP, lesiva dell’esigenza di certezza delle attribuzioni costituzionali, del
ragionevole equilibrio nell’esercizio delle stesse e del principio di leale
collaborazione. In contrario, non sarebbe sostenibile che la Camera di
competenza potrebbe far valere il proprio dissenso, proponendo conflitto di
attribuzione. La prefigurazione di tale rimedio non esime, infatti, da una
corretta ricostruzione del sistema, mentre il procedimento stabilito dalla
legge costituzionale è strumentale a garantire una consapevole determinazione
da parte della predetta in ordine alla natura del reato ed all’eventuale
sussistenza di esimenti.
2.5.― Sotto un concorrente
profilo, le circostanze emerse nel corso del dibattito parlamentare svolto in
occasione dell’adozione della suindicata delibera di restituzione della
richiesta di autorizzazione alle perquisizioni e quelle indicate nella relazione di maggioranza della Giunta, in
data 31 gennaio 2011, avevano evidenziato che l’accertamento della natura
ministeriale del reato «richiede volta per volta una delicata attività
interpretativa» «di cui però – nel caso in questione – non sembra esservi
traccia» ed erano state poste in luce peculiarità e specificità della posizione
del Presidente del Consiglio dei ministri (caratteri espressamente indicati ed asseritamente
rilevanti per identificare l’ambito di operatività della prerogativa di
cui all’art. 96 Cost.).
Ad avviso della ricorrente, sussistevano
dubbi in ordine alla natura del reato che avrebbero dovuto indurre PM e GIP ad
investire della qualificazione del reato l’organo specializzato (a conforto è
richiamata Cass., sezione VI pen., 6 agosto 1992, n.
2865) e, in presenza di tale divergenza di valutazioni, il principio di leale
collaborazione avrebbe «imposto l’attivazione della speciale procedura» della
legge cost. n. 1 del 1989.
Un «ulteriore profilo di lesività»
sarebbe «riscontrabile nella motivazione del decreto del GIP», nella parte in
cui, per sostenere la natura non ministeriale del reato, «si è dovuto impegnare
su svariati e problematici aspetti di ordine costituzionale inerenti la
complessiva posizione istituzionale della figura del Presidente del Consiglio
dei ministri», svolgendo argomenti in riferimento ai quali «non appare
possibile declinare il contributo valutativo offerto dagli organi della
Camera». Nella più volte richiamata relazione della Giunta era stata anzitutto
posta in luce la peculiarità della posizione del Presidente del Consiglio dei
ministri (al quale spettano «funzioni di direzione della politica generale del
governo, di cui è responsabile, e di mantenimento dell’unità di indirizzo
politico ed amministrativo») ed era stata affrontata la questione della «tutela
delle relazioni diplomatiche»; era stato, inoltre, evidenziato che la funzione
di mantenere «l’unità di indirizzo politico-amministrativo, promuovendo e
coordinando l’attività del ministri» (art. 95, primo comma, Cost.) può
costituire fonte di competenze, anche innominate, in grado di trascendere la
rigidità delle competenze ministeriali; era stato, infine, sottolineato che
l’abuso di potere ipotizzato dal GIP non sarebbe risolutivo per rendere
evidente il carattere non ministeriale del reato di concussione.
2.6.― In linea subordinata,
secondo la ricorrente, il comportamento di PM e GIP sarebbe lesivo delle
attribuzioni costituzionali ad essa spettanti, in quanto hanno omesso di
«informar[la] a tempo debito e nelle forme richieste» della trattazione del
procedimento nelle forme ordinarie, precludendole il «potere (…) di procedere
alle apposite determinazioni di sua pertinenza circa la natura del reato ed
eventualmente circa la sussistenza delle esimenti» di cui all’art. 9, comma 3,
della legge cost. n. 1 del 1989.
Le esigenze costituzionali che
imporrebbero di interloquire con la Camera competente sarebbero state poste in
luce da questa Corte con la sentenza n. 241 del
2009 e sussisterebbero anche nel caso «di valutazione di non ministerialità
del reato operata in via autonoma da altri organi giudiziari». Qualora PM e GIP
si arroghino il potere di qualificare il reato in luogo del collegio per i
reati ministeriali dovrebbero osservare gli obblighi di comunicazione e di
coinvolgimento della Camera, alla quale «non può essere sottratta una propria
autonoma valutazione sulla natura ministeriale o non ministeriale dei reati
oggetto di indagine giudiziaria» (sentenza n. 241 del
2009). Infine, conclude la ricorrente, non sarebbe sostenibile che «la
Camera competente debba rimettersi all’iniziativa del singolo titolare della
carica di governo, peraltro non necessariamente interessato a far valere il
carattere ministeriale del reato», essendo compito delle Camere assicurare, nel
suo complesso, il corretto funzionamento del sistema parlamentare e l’integrità
delle funzioni di governo.
3.― Con ordinanza n. 241
del 2011 questa Corte ha dichiarato ammissibile il conflitto, disponendo la
notifica degli atti anche al Senato della Repubblica.
4.― Si è costituita nel giudizio
la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano, in persona del
Procuratore della Repubblica pro tempore
(infra: PM), chiedendo che il
conflitto sia dichiarato inammissibile e, comunque, infondato.
Il PM espone analiticamente i fatti
oggetto dell’attività di indagine e la vicenda relativa alla suindicata
richiesta di autorizzazione alla perquisizione, eccependo l’infondatezza del dubbio
in ordine alla qualificazione come ministeriale del reato di concussione.
Inoltre, a suo avviso, «oggetto del presente giudizio non è la questione se il
comportamento ascritto al Presidente del Consiglio rientri o meno nella
categoria dei reati ministeriali» e, quindi, questa Corte «non è chiamata
nemmeno indirettamente a delimitare la competenza tra l’autorità giudiziaria
ordinaria e il c.d. tribunale dei Ministri». La questione, come prospettata,
richiederebbe di stabilire «se, ogni volta che sia iniziato un procedimento
penale a carico di un Ministro o del Presidente del Consiglio, l’A.G. e in
particolare il PM procedente debba investire della notitia criminis il tribunale dei Ministri» e se sussista «un
"difetto d’informazione” da cui sarebbe derivata l’inibizione alla Camera di
procedere alle apposite determinazioni di sua competenza».
Secondo il resistente, dalla legge cost.
n. 1 del 1989 «si ricava in modo inequivocabile che la qualificazione del reato
come "ministeriale” non è oggetto di una valutazione riservata al tribunale dei
Ministri e, tanto meno, alle Camere». Sarebbe, inoltre, pacifico che, come
affermato dalla Corte di cassazione nella sentenza 3 marzo 2011, n. 1031, il PM
non è tenuto a trasmettere al collegio per i reati ministeriali gli atti
relativi a qualsiasi notizia di reato a carico di un membro del Governo, ma ciò
deve fare soltanto qualora ne ravvisi
Il collegio per i reati ministeriali,
una volta ricevuti gli atti, ha poi il potere di compiere una propria
valutazione e appunto per questo la legge n. 219 del
Il resistente svolge, poi, diffuse
argomentazioni a conforto del carattere eccezionale del diniego
dell’autorizzazione a procedere, deducendo che la disciplina costituzionale dei
reati ministeriali sarebbe caratterizzata da una regola e da un’eccezione: la
regola è che i membri del Governo devono essere giudicati dalla magistratura
ordinaria; l’eccezione è il potere della Camera competente di negare
l’autorizzazione a procedere. L’accertamento penale è destinato ad arrestarsi
dinanzi alla funzione governativa esercitata nell’interesse "preminente” dello
Stato, non di fronte alla carica rivestita dall’inquisito.
A suo avviso, le norme costituzionali
prevedono una doppia valutazione del fatto ascritto al membro del Governo: una
di carattere giuridico demandata all’autorità giudiziaria; una di natura
politica, attribuita alla Camera, avente ad oggetto il riscontro delle finalità
di cui all’art 9 della legge cost. n. 1 del 1989. Le Camere non partecipano
all’iniziale qualificazione in ordine alla natura del reato ed il potere ad
esse attribuito è solo quello di negare l’autorizzazione a procedere, in forza
di una valutazione politica di un’azione che si inserisce nell’attività di
governo ed esse operano una qualificazione del reato solo strumentale alla
deliberazione sull’autorizzazione a procedere.
4.1.― Secondo il resistente, la sentenza n. 241 del
2009 avrebbe chiarito che l’obbligo di comunicazione previsto dall’art. 8,
comma 4, della legge cost. n. 1 del 1989 sussiste anche nel caso della
cosiddetta archiviazione «asistematica», ma al solo fine di consentire alla
Camera competente di sollevare conflitto di attribuzione, qualora questa, in
presenza di una tale archiviazione, ritenga il reato ministeriale.
L’inesatta estrapolazione dalla sentenza n. 241 del
2009 del brano nel quale è affermato che alle Camere «non può essere
sottratta una propria, autonoma valutazione sulla natura ministeriale o non
ministeriale dei reati» sarebbe alla base di recenti iniziative delle stesse
dirette a rivendicare il potere – inesistente nella disciplina costituzionale –
di qualificare il reato, in contrasto con le determinazioni dell’autorità
giudiziaria. L’attribuzione costituzionale ad esse spettante consisterebbe nel
solo potere di negare l’autorizzazione, in caso di reato ritenuto ministeriale;
«solo qualora l’autorità giudiziaria erroneamente qualificasse un reato
ministeriale come comune e di conseguenza, parimenti erroneamente, non
attivasse il procedimento "speciale” previsto dalla legge costituzionale n. 1
del 1989, la Camera competente subirebbe una concreta menomazione, conseguente
all’impossibilità di deliberare sull’eventuale sussistenza di una delle
"esimenti” speciali» e potrebbe sollevare conflitto di attribuzione, per
sostenere la natura ministeriale del reato e denunciare la lesione delle
proprie attribuzioni, a causa dell’erronea qualificazione.
Il conflitto proposto non avrebbe,
tuttavia, tale contenuto, poiché il ricorso «non tende a dimostrare la natura
ministeriale del reato di concussione» e la Camera dei deputati «non allega e
non lamenta la menomazione in concreto dell’unica attribuzione costituzionale
ad essa spettante in materia di reati ministeriali, che è (…) quella di negare
l’autorizzazione a procedere». Dunque, ad avviso del PM, «non dimostrando (e,
invero, neanche allegando) l’effettiva sussistenza nella specie del presupposto
logico e giuridico dell’attribuzione ad essa spettante, la Camera ha proposto
un conflitto del tutto sganciato da un suo interesse concreto e perciò
inammissibile». L’ammissibilità del conflitto neppure sarebbe desumibile dal
riferimento all’esistenza di un "ragionevole dubbio” in ordine alla
qualificazione del reato, poiché l’attribuzione della Camera dei deputati non
presuppone la contestazione ad un membro del Governo di un reato che «forse»,
secondo alcuni deputati, potrebbe essere qualificato come ministeriale.
Inoltre, la ricorrente avrebbe
rivendicato «una sorta di diritto all’informazione circa i fatti addebitati»,
informazione che, «come afferma lo stesso ricorso, alla Camera è comunque
pervenuta in via ufficiale, allorché le fu chiesta l’autorizzazione alla
perquisizione». Se, dunque, l’informazione c’è stata, il conflitto «si appalesa
privo di oggetto, avendo avuto la Camera tutti gli elementi per proporre
conflitto di attribuzioni, ma avendo essa rinunciato a contestare, nel merito,
la natura non ministeriale del reato» in questione.
4.2.― Nel merito, il ricorso
sarebbe infondato, dato che nessuna norma di legge (costituzionale o ordinaria)
stabilisce l’obbligo del PM di trasmettere al collegio per i reati ministeriali
gli atti relativi ad una notizia di reato a carico di un membro del Governo che
non appaia allo stesso correlata all’esercizio della funzione di governo. Il
richiamo della sentenza
n. 241 del 2009 sarebbe incongruo, poiché nella specie il procedimento
penale ha ad oggetto un reato "comune” ritenuto tale dal PM e dal GIP; nel caso
dell’archiviazione da parte del collegio per i reati ministeriali l’obbligo di
comunicazione è previsto dalla disciplina costituzionale, ma esso non sussiste
nella fattispecie in esame.
L’obbligo di attivare il procedimento
concernente i reati ministeriali non potrebbe, inoltre, derivare dalla delibera
di restituzione della richiesta di autorizzazione alla perquisizione, con la
quale la Camera dei deputati si sarebbe arrogata «il potere di interferire con
l’esercizio del potere giudiziario al di fuori di qualsiasi previsione
costituzionale», prospettando un dubbio in ordine alla natura ministeriale di
uno dei reati contestati che sarebbe «tutto fuorché "ragionevole”», alla luce
della ricostruzione dei fatti analiticamente svolta dal resistente nell’atto di
costituzione.
4.3.― Secondo il PM, sarebbe,
infine, infondata anche la censura proposta in linea gradata.
La comunicazione pretesa dalla
ricorrente non è prevista dalla legge cost. n. 1 del 1989 e non avrebbe alcuna
ragion d’essere, in quanto nella logica della disciplina costituzionale la
qualificazione del reato come non ministeriale esclude la partecipazione delle
Camere. Siffatta legge non mirava a prevedere l’ipotizzata comunicazione, come
risulta anche dalla mancata riproduzione dell’art. 12 della legge 25 gennaio
1962, n. 20 (Norme sui procedimenti e giudizi di accusa), che imponeva al PM di
informare sempre il Presidente della Camera in caso di esercizio dell’azione
penale nei confronti di un ministro.
In ogni caso, conclude il PM, la
ricorrente è stata «ampiamente informata in data 14 gennaio 2011, allorché la
Procura della Repubblica di Milano ha trasmesso la richiesta di autorizzazione
alla perquisizione di alcuni uffici» e, sotto questo profilo, il conflitto
sarebbe inammissibile per carenza d’interesse ad un’informazione che comunque
l’autorità giudiziaria ha fornito.
5.― Nel giudizio è intervenuto il
Senato della Repubblica, chiedendo l’accoglimento del ricorso, formulando
riserva di svolgere in una successiva memoria le deduzioni a conforto di tale
conclusione.
6.― In prossimità dell’udienza
pubblica ha depositato memoria la ricorrente, deducendo l’infondatezza
dell’eccezione di inammissibilità formulata dal PM e richiamando a conforto la sentenza n. 241 del
2009. Inoltre, contesta che «l’adozione dell’apposita delibera in ordine alla
ministerialità del reato da parte della Camera competente (…) presenti quella
natura pregiudiziale rispetto all’elevazione di conflitto che la Procura
pretende di annettervi» e sostiene che, se spetta alla Camera dei deputati
esprimere la propria valutazione sul reato contestato ad un membro del Governo,
ne deriva che essa «è abilitata a dolersi di quei comportamenti (…) che le
precludano la possibilità di operare siffatte valutazioni con le modalità
costituzionalmente previste, a prescindere dall’esito cui esse possano
addivenire».
La disciplina del procedimento per i
reati ministeriali è caratterizzata dalla partecipazione di diversi organi,
soprattutto se interpretata alla luce del principio di leale collaborazione,
nella specie vulnerato a causa della mancata considerazione delle
sollecitazioni alla «attivazione della procedura indicata dalla normativa
costituzionale».
6.1.― Nel merito, la ricorrente
ripercorre analiticamente le argomentazioni svolte nel ricorso, per ribadire
che la qualificazione del reato deve scaturire dalla apposita procedura rimessa
ad un organo specializzato della giustizia ordinaria, contestando che spetti al
PM «l’assoluta disponibilità dell’attivazione del procedimento previsto dalla
legge costituzionale n. l del 1989». A suo avviso, la sentenza n. 241 del
2009 avrebbe «riconosciuto alla Camera "il potere di valutare la natura del
reato contestato al membro del Governo”» e con il conflitto in esame essa ha appunto
chiesto «di preservare la possibilità di
esercitare tale attribuzione» costituzionale.
La mancata considerazione del contributo
valutativo offerto con la delibera di restituzione della richiesta di
autorizzazione alle perquisizioni domiciliari, secondo la ricorrente, sarebbe
lesiva del principio di leale collaborazione, quale precisato dalla Corte, tra
l’altro, nelle sentenze n. 26 del 2009
e n. 225 del
2001. Inoltre, nel decreto del GIP la questione della ministerialità del
reato è stata «esplicitamente considerata, ma solo per contrastare le eccezioni
sollevate dalla difesa dell’imputato», mentre gli interessi fatti valere da
questa «non coincidono con quelli tutelati dall’intervento dell’organo
parlamentare», «preordinato a preservare le proprie competenze costituzionali».
Secondo la ricorrente, i «ripetuti
apporti valutativi, nel senso del carattere ministeriale del reato», forniti
con gli atti sopra indicati costituirebbero «la riprova che non spettava
all’autorità giudiziaria asserire la
"evidenza” del fatto (…)
interdicendo in tal
modo l’attivazione della
procedura imposta dalla legge costituzionale n. l del l989». La
negazione della sintomaticità di tali elementi svolta tardivamente dal PM nella
memoria di costituzione non sarebbe idonea a confutare la tesi della Camera,
mentre l’esimente costituzionale opera quando «l’inquisito abbia agito per la tutela
di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il
perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione
di governo», «valutazioni queste che la Camera non ha effettuato, né lo avrebbe
potuto, essendo stata preclusa la sua partecipazione al procedimento di cui alla legge cost. n. l del l989».
6.2.― In relazione alla censura
proposta in linea gradata, la ricorrente deduce che dalla sentenza n. 241 del
2009 sarebbe desumibile che l’obbligo di informazione non concerne il solo
caso della archiviazione «sistematica» e contesta che esso sia stato adempiuto
con le informazioni offerte in occasione della richiesta di autorizzazione alle
perquisizioni domiciliari.
7.― Il PM, nella memoria
depositata in prossimità dell’udienza pubblica, ribadisce le deduzioni
sviluppate nell’atto di costituzione ed eccepisce l’inammissibilità dell’atto
di intervento del Senato della Repubblica, in riferimento all’art. 25 della
legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della
Corte costituzionale), applicabile in virtù del richiamo contenuto nell’art.
37, quinto comma, di detta legge, ed all’art. 3 delle norme integrative per i
giudizi davanti alla Corte costituzionale, richiamato dall’art. 24, comma 4,
delle stesse.
A suo avviso, il carattere perentorio
del termine di costituzione non permetterebbe di differire la formulazione
delle deduzioni difensive ad un momento successivo a quello della costituzione,
come accaduto nella specie, in virtù di una regola strumentale a garantire il
contraddittorio fra le parti e la parità delle armi, anche per l’impossibilità
di depositare memorie di replica. Secondo il PM, è da supporre che l’interveniente,
«nel termine dei venti giorni dall’udienza, depositerà un’ampia memoria volta a
contestare le eccezioni formulate dalla resistente», che non avrà la
possibilità di produrre alcuna replica scritta a detta memoria.
8.― Il Senato della Repubblica,
nella memoria depositata in prossimità dell’udienza pubblica, ha insistito per
l’accoglimento del ricorso.
L’interveniente, dopo avere sintetizzato
la vicenda alla base del conflitto ed il contenuto del ricorso, deduce che, con
tale atto, la Camera dei deputati ha posto «in chiara evidenza che, ove il
tribunale dei Ministri non sia investito delle indagini», si consentirebbe al
PM «di paralizzare a propria discrezione le prerogative costituzionali
dell’organo parlamentare» e, quindi, in relazione a tale conflitto sussiste la
propria legittimazione ad intervenire nel giudizio.
8.1.― L’interveniente contesta sia
l’eccezione di inammissibilità del PM, sia l’idoneità dell’informazione offerta
con la richiesta di autorizzazione alle perquisizioni domiciliari ad integrare
la «garanzia assicurata dall’art. 96
Cost.». A suo avviso, PM e GIP hanno ritenuto il reato "comune”, nonostante che
tale qualificazione spetti al Collegio per i reati ministeriali. Inoltre,
sarebbe «indefettibile ai sensi della vigente Costituzione il nesso fra potere
valutativo del collegio e potere valutativo della Camera», «di guisa che il
mancato pieno dispiegarsi del primo comunque incide sull’altro» (sentenza n. 403 del
1994); quindi, «dalla pretermissione del passaggio di fronte al Collegio
consegue inevitabilmente» la lesione delle prerogative costituzionali della
ricorrente.
Secondo il Senato, «dalla mole del
materiale depositato emerge come il P.M. per poter raggiungere la propria
convinzione e determinazione nel senso della natura comune dell’illecito non
possa non aver svolto una propria indagine con violazione delle tassative
disposizioni di cui all’art. 6, comma 2» della legge cost. n. 1 del 1989,
esulando dalla ratio di quest’ultima
e dell’art. 96 Cost. la possibilità di procedere, omettendo la dovuta
informazione alla Camera competente.
8.2.― Nel merito, l’interveniente
dichiara di «aderire alle censure mosse dalla Camera». Nella specie,
sussisterebbe un «intreccio» o «convergenza» delle attribuzioni parlamentari e
giudiziarie ed il principio di ragionevolezza e la pari dignità costituzionale
delle stesse imporrebbero che ciascun potere le eserciti «in modo da ricercare
la massima compatibilità possibile con l’altro potere», nell’osservanza del
principio di leale collaborazione (sono richiamate le sentenze n. 380 del 2003;
n. 487 del 2000,
n. 379 del 1992,
n. 410 e n. 110 del 1998
e l’ordinanza n.
344 del 2000).
A suo avviso, questa Corte, nel caso del
contrasto dei poteri attribuiti all’autorità giudiziaria con le garanzie
parlamentari, ha negato «la legittimità di una aprioristica accettazione della
valutazione unilaterale svolta dal giudiziario», affermando «la presenza del
vincolo della leale collaborazione fra poteri» (sentenze n. 284 del 2004,
n. 263 del 2003
e n. 225 del
200l). Di recente, la sentenza n. 23 del
2011 ha chiarito che la posizione dell’imputato, il quale sia membro del
Parlamento, «non è assistita da speciali garanzie costituzionali», ma,
nell’applicare le comuni regole processuali, il giudice deve esercitare il suo
potere di «apprezzamento degli impedimenti invocati» dall’imputato e tenere
conto anche degli interessi, costituzionalmente tutelati, di altri poteri.
Nella vicenda in esame, il dubbio in ordine alla ministerialità del reato era
stato portato all’attenzione dell’autorità giudiziaria e, quindi, PM e GIP
erano consapevoli «dell’interesse e dell’attenzione» alla stessa da parte della
Camera dei deputati e, appunto per questo, sarebbe palese la violazione del
principio di leale collaborazione.
8.3.― Secondo l’interveniente, «il
mancato coinvolgimento del tribunale dei Ministri», soprattutto in presenza di
un dubbio sulla natura del reato contestato, avrebbe «comportato un vulnus al vincolo di leale
collaborazione». Peraltro, la tesi fatta propria dal resistente neppure
costituirebbe l’unica opzione interpretativa accolta dalla giurisprudenza e, di
recente, il Procuratore della Repubblica di Trani «il 19 marzo
La tesi del PM, benché condivisa dalla
Corte di cassazione, sarebbe erronea, poiché è «improntata a una lettura
formale dei disposti normativi e ignora frontalmente il principio di leale
collaborazione». Inoltre, PM e GIP, «nel sottrarre al Collegio per i reati
ministeriali la cognizione circa la ministerialità» dell’illecito contestato,
si sarebbero arrogati il potere di farsi arbitri esclusivi della competenza,
riservata invece dalla legge costituzionale alle Camere, impedendo alla
ricorrente di esercitare le proprie funzioni.
8.4.― Secondo l’interveniente,
«ragioni di prudenza e di rispetto delle prerogative costituzionali del
Parlamento avrebbero consigliato di non "saltare” la fase del tribunale dei
Ministri» ed avere proceduto ignorando i segnali ricevuti dalla Camera dei
deputati fa assumere alla vicenda «il profilo dello sgarbo istituzionale» e
concreta una violazione del principio di leale collaborazione. Inoltre, se la
legge cost. n. 1 del 1989 impone al collegio per i reati ministeriali «di
mettere il Parlamento in condizione di interloquire in merito alla
qualificazione di un eventuale reato», tale facoltà dovrebbe «essere assicurata
nei casi in cui sia il P.M. a decidere, delibando sulla presenza o meno dei
presupposti di cui all’art. 96 Cost.». La negazione di tale obbligo violerebbe
i principi di leale ed utile collaborazione e di ragionevolezza, nonché i
criteri di buon funzionamento dell’apparato istituzionale, poiché permarrebbe
la facoltà di sollevare conflitto di attribuzione che, tuttavia, dovrebbe
costituire un rimedio eccezionale, indice di una patologia
dei rapporti interistituzionali.
9.― All’udienza le parti
costituite hanno insistito per l’accoglimento delle conclusioni svolte nelle
difese scritte.
Considerato in diritto
1.― La Camera dei deputati ha
sollevato conflitto di attribuzione nei confronti del Procuratore della
Repubblica presso il Tribunale ordinario di Milano (di seguito: PM) e del
Giudice per le indagini preliminari di quest’ultimo Tribunale (infra: GIP), in relazione alle indagini
poste in essere dal PM (nell’ambito del procedimento penale R.G.N.R. n.
55781/2010) nei confronti dell’on. Silvio Berlusconi, membro della Camera dei
deputati, Presidente del Consiglio dei ministri in carica, ed alla richiesta di
giudizio immediato formulata in data 9 febbraio 2011 (nell’ambito del
procedimento penale R.G.N.R. n. 5657/11), relativamente al contestato delitto
di concussione, nonché – sempre in riferimento solo a tale ultimo reato – al decreto
di giudizio immediato, in data 15 febbraio 2011, del GIP (nell’ambito del
procedimento R.G.G.I.P. n. 1297/11).
La ricorrente chiede che questa Corte:
a) dichiari che non spettava al PM
«avviare ed esperire indagini nei confronti del Presidente del Consiglio
dei ministri in carica, nonché procedere alla richiesta di giudizio immediato
(…), relativamente al contestato delitto di concussione, omettendo di
trasmettere gli atti al Collegio per i reati ministeriali ai sensi dell’art. 6
della legge costituzionale» 16 gennaio 1989, n. 1 (Modifiche degli articoli 96,
134 e 135 della Costituzione e della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1,
e norme in materia di procedimenti per i reati di cui all’articolo 96 della
Costituzione), «in tal modo precludendo alla competente Camera dei deputati
l’esercizio delle proprie attribuzioni costituzionali in materia di cui
all’art. 96 Cost.» e a detta legge costituzionale, «e comunque senza dare la
dovuta comunicazione» alla Camera dei deputati; b) dichiari che non spettava al
GIP «procedere in via ordinaria ed emettere il decreto di giudizio immediato
nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri in carica (…), né
affermare, in relazione al contestato delitto di concussione, la natura non
ministeriale dello stesso, omettendo di rilevare la necessaria trasmissione
degli atti al Collegio per i reati ministeriali con i provvedimenti del caso,
in tal modo precludendo» ad essa istante l’esercizio delle suindicate
attribuzioni costituzionali, e «comunque senza provvedere in modo che venisse
data la dovuta comunicazione» alla Camera dei deputati; c) provveda
all’«annullamento delle attività poste in essere e degli atti adottati
nell’ambito dei procedimenti» sopra indicati.
2.― Secondo la Camera ricorrente e
l’interveniente Senato della Repubblica, la disciplina stabilita in tema di
procedimento per i reati di cui all’articolo 96 Cost. (infra: anche reati ministeriali) riserverebbe al collegio per i
reati ministeriali (di seguito, anche tribunale dei ministri) la competenza a
stabilire la natura (ministeriale o comune) dei medesimi, con previsione
strumentale ad assicurare il necessario e tempestivo coinvolgimento della
Camera competente, per permetterle di adottare le valutazioni di propria
spettanza, garantendo in tal modo l’esercizio delle attribuzioni costituzionali
di cui essa è titolare. Il PM ed il GIP avrebbero, invece, erroneamente
ritenuto di «poter procedere nelle vie ordinarie, in quanto titolari in via
esclusiva del potere di qualificazione dell’illecito», in violazione del
procedimento stabilito dalla legge costituzionale n. 1 del 1989 e dalla legge 5
giugno 1989, n. 219 (Nuove norme in tema di reati ministeriali e di reati
previsti dall’articolo 90 della Costituzione), dell’esigenza di certezza delle
attribuzioni costituzionali, del ragionevole equilibrio nell’esercizio delle
stesse, nonché del principio di leale collaborazione, recando vulnus alle prerogative costituzionali
spettanti alla Camera dei deputati.
Siffatte prerogative, inerenti la valutazione
in ordine alla natura del reato ed alla sussistenza delle eventuali esimenti
previste dalla citata legge costituzionale, ad avviso della ricorrente, non
potrebbero essere lasciate nella totale disponibilità dell’autorità
giudiziaria, senza che, in contrario, possa dedursi che alla Camera competente
«sarebbe dato in ogni caso il rimedio del conflitto di attribuzione laddove
essa ritenga di dissentire dagli assunti del giudice ordinario in ordine al
carattere non ministeriale del reato». Inoltre, i dubbi sollevati nella
delibera di restituzione degli atti adottata sulla richiesta del PM di
autorizzazione ad eseguire la perquisizione di alcuni locali nella
disponibilità del Presidente del Consiglio dei ministri del tempo, concernenti
la natura (ministeriale o comune) del reato di concussione, e la stessa
necessità per il GIP di affrontare «svariati e problematici aspetti inerenti la
complessiva posizione istituzionale della figura del Presidente del Consiglio
dei ministri», avrebbero dovuto indurre tali organi ad investire della
qualificazione del reato il tribunale dei ministri.
In definitiva, la Camera dei deputati,
con tale domanda, non chiede a questa Corte di accertare se il contestato reato
di concussione abbia natura ministeriale, bensì di stabilire se l’autorità
giudiziaria, una volta ritenuta la natura comune dello stesso (e limitatamente
al medesimo), avrebbe potuto procedere nelle forme ordinarie, ovvero avrebbe,
invece, dovuto attivare comunque la procedura che conduce al tribunale dei
ministri (e ciò almeno per la sussistenza, a suo dire, di un dubbio in ordine a
detta natura del reato), in considerazione dell’attribuzione a tale ultimo
organo del potere di qualificazione del reato, strumentale alla tutela delle
proprie attribuzioni costituzionali.
2.1.― La Camera dei deputati, «in
via subordinata», deduce che «il comportamento dei menzionati organi del potere
giudiziario» sarebbe comunque lesivo delle proprie attribuzioni costituzionali,
in quanto entrambi avrebbero omesso di «informar[la] a tempo debito e nelle
forme richieste» della trattazione del procedimento nelle forme ordinarie, non
essendo idonea a detto scopo l’informazione fornita in occasione della
suindicata richiesta di autorizzazione alla perquisizione di alcuni locali.
Siffatta omissione avrebbe comportato l’inibizione del potere «di procedere
alle apposite determinazioni di sua pertinenza circa la natura del reato ed
eventualmente circa la sussistenza delle esimenti» di cui all’art. 9, comma 3,
della legge cost. n. 1 del 1989, restando escluso che l’informazione in esame
possa essere rimessa «all’iniziativa del singolo titolare della carica di
governo, peraltro non necessariamente interessato a far valere il carattere
ministeriale del reato», poiché è compito delle Camere assicurare, nel suo
complesso, il corretto funzionamento del sistema parlamentare e l’integrità
delle funzioni di governo.
3.― In linea preliminare, va
osservato che il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale ordinario di
Milano ha eccepito, «in riferimento all’art. 25 della legge 11 marzo 1953, n.
87» (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale),
«applicabile nei conflitti in forza del richiamo di cui all’art. 37 u.c. della
medesima legge», «ed all’art. 3 delle Norme integrative per i giudizi davanti
alla Corte costituzionale, richiamato dall’art. 24, comma 4, delle medesime»,
l’inammissibilità dell’intervento del Senato della Repubblica, in quanto nel
relativo atto questi si è limitato a chiedere l’accoglimento del ricorso, «riservando
alle successive memorie le proprie difese», con modalità che sarebbero in
contrasto con dette disposizioni e recherebbero vulnus al principio del contraddittorio.
3.1.― L’eccezione non è fondata.
L’art. 37, quinto comma, della legge n.
87 del 1953, stabilisce che al giudizio per conflitto di attribuzione tra
poteri dello Stato è applicabile l’art. 25 di detta legge, che disciplina la
costituzione in giudizio delle parti; l’art. 24 delle citate norme integrative,
concernente la disciplina di detto giudizio, al comma 4, rende, inoltre,
applicabile al medesimo, tra gli altri, l’art. 3 di tali norme. Questa
disposizione stabilisce che la costituzione delle parti avviene «mediante
deposito in cancelleria della procura speciale, con la elezione del domicilio,
e delle deduzioni comprensive delle conclusioni», con formulazione che,
nell’ultimo inciso, coincide, sostanzialmente, con quella dell’art. 19, comma
3, delle stesse norme (recante la disciplina della costituzione nel giudizio di
legittimità costituzionale in via principale), in virtù del quale l’atto di
costituzione contiene «le conclusioni e l’illustrazione delle stesse». Tale
ultima locuzione è di peculiare rilievo, poiché sembrerebbe postulare, forse
con maggiore evidenza, l’imprescindibilità dell’esplicitazione nell’atto di
costituzione delle argomentazioni a conforto delle conclusioni, anche in quanto
la corrispondente disposizione vigente prima della modifica del 2008 – l’art.
23, comma 3, delle norme integrative – dettava una previsione più lata,
contemplando la costituzione in giudizio attraverso la presentazione di
«deduzioni». Questa Corte, di recente, ha, tuttavia, valutato un’analoga
eccezione, ritenendola non fondata (sentenza n. 168 del
2010), enunciando un principio qui applicabile, in considerazione della
sostanziale identità della formulazione e della ratio di dette disposizioni.
Pertanto, va ribadito che la lettera
della disposizione non conforta l’interpretazione sostenuta con l’eccezione,
poiché l’instaurazione del contraddittorio nel giudizio in esame è scandita da
termini perentori, tesi a soddisfare esigenze di certezza nella dinamica
processuale ed è l’inosservanza di questi a determinare l’inammissibilità del
ricorso e ad inficiare, parimenti, la validità della costituzione in giudizio
della parte convenuta. La ratio della
disposizione (analogamente a quella sottesa all’art. 19, comma 3, delle norme
integrative) non è, invece, quella di subordinare l’ammissibilità o validità
della costituzione in giudizio all’adempimento ivi previsto, poiché, come ha
chiarito questa Corte, «la corretta instaurazione del contraddittorio, in nome
di un principio generale di diritto processuale, è subordinata al rispetto dei
previsti termini perentori, mentre la disposizione secondo cui l’atto di
costituzione della parte resistente deve contenere anche l’illustrazione delle
conclusioni mira a sollecitare una adeguata prospettazione delle rispettive
posizioni sin dall’ingresso delle parti nel giudizio, ai fini di un
arricchimento della dialettica processuale» (sentenza n. 168 del
2010). Il thema decidendum è,
inoltre, circoscritto dal ricorso e le argomentazioni sviluppate nell’atto di
costituzione «sono dirette a fornire elementi idonei a influenzare, sotto forma
di fattori di conoscenza e di deduzioni logiche, il convincimento dell’organo
giudicante intorno alle specifiche questioni» dibattute, mentre la mancata costituzione
in giudizio della parte resistente o l’allegazione di rilievi insufficienti
neppure conducono necessariamente all’accoglimento della questione sollevata
con il ricorso, sicché è interesse della parte far valere le proprie ragioni in
giudizio, adempiendo l’onere di prospettare argomenti difensivi.
La disposizione mira, quindi, a
stimolare l’apporto argomentativo delle parti, senza che siano prefigurabili
conseguenze sanzionatorie nel caso di mancata illustrazione delle conclusioni
formulate nell’atto di costituzione della parte convenuta o dell’interveniente,
con conseguente non fondatezza dell’eccezione.
4.― Ancora in via preliminare, va
affermata definitivamente l’ammissibilità del conflitto, già ritenuta con l’ordinanza n. 241
del 2011, posto che ne sussistono i requisiti oggettivi e soggettivi.
Non vi sono dubbi, in particolare, circa
la legittimazione a sollevare conflitto da parte della Camera dei deputati, al
fine di difendere le attribuzioni alla stessa spettanti ai sensi dell’art. 96
Cost. (sentenze n.
241 del 2009 e n. 403 del 1994;
ordinanze n. 313
del 2011, n.
211 del 2010, n.
8 del 2008 e n.
217 del 1994).
Inoltre, parimenti pacifica deve
ritenersi la legittimazione a resistere del Procuratore della Repubblica presso
il Tribunale ordinario di Milano e del Giudice per le indagini preliminari di
detto Tribunale, in quanto investiti, con riferimento alla vicenda oggetto di
conflitto, il primo della quota di potere costituzionale preposta all’esercizio
dell’azione penale e allo svolgimento delle indagini ad esso finalizzate
(ordinanze n.
276 del 2008, n.
73 del 2006 e n.
404 del 2005), il secondo dell’esercizio di funzioni giurisdizionali svolte
in posizione di piena indipendenza (per tutte, sentenza n. 82 del
2011).
Infine, la circostanza che il ricorso
abbia ad oggetto atti tipici propri del potere giudiziario non ne mina, nel
caso di specie, l’ammissibilità.
Questa Corte ha costantemente affermato,
a tale proposito, che il conflitto di attribuzione non può degenerare, a pena
di inammissibilità, in strumento atipico di impugnazione diretto contro atti
giurisdizionali (sentenze n. 222 e n. 2 del 2007; ordinanza n. 334
del 2008) e che non è compito della giurisdizione costituzionale «stabilire
i corretti criteri interpretativi e applicativi delle regole processuali» (sentenza n. 225 del
2001). Tale principio, che va qui pienamente ribadito, non è invocabile,
tuttavia, nelle ipotesi in cui venga posta in discussione non già la fedele
applicazione della legge da parte dell’autorità giudiziaria, ma l’assunzione da
parte di quest’ultima di una decisione estranea all’ambito oggettivo della
giurisdizione di cui il magistrato è titolare, comunque idonea a menomare
l’altrui attribuzione costituzionale.
Coltivando l’azione penale nelle forme
ordinarie, PM e GIP, secondo la prospettazione della Camera dei deputati,
avrebbero esercitato una funzione, rispettivamente di indagine e di giudizio,
che non sarebbe loro spettata.
Al riguardo non varrebbe obiettare che
il tribunale dei ministri è organo della giurisdizione ordinaria, sicché,
quand’anche si dovesse ritenerlo destinatario di qualsivoglia notizia di reato
nei riguardi del Presidente del Consiglio dei ministri, ovvero di un ministro,
non sarebbe comunque sostenibile che il potere giudiziario sia carente, nei
casi in questione, della potestà giurisdizionale, atteso che essa si
limiterebbe a transitare da un organo all’altro dell’autorità giudiziaria,
secondo criteri di competenza per materia e territorio. Corollario di simile
impostazione sarebbe, dunque, la conclusione che la Camera dei deputati avrebbe
inammissibilmente devoluto a questa Corte non già un conflitto di attribuzione
fra poteri, ma un mero conflitto di competenza tra organi della giurisdizione
ordinaria, estraneo all’ambito della giurisdizione costituzionale (sentenza n. 385 del
1996; ordinanza
n. 117 del 2006, entrambe con riferimento ai conflitti di giurisdizione, ma
senza dubbio con argomenti direttamente estensibili ai profili di competenza).
Una simile prospettiva trascura di
considerare che in realtà la Camera dei deputati non ha posto, con l’odierno
ricorso, un mero problema di regolamento di confini tra competenza
dell’autorità giudiziaria comune e tribunale dei ministri, al quale sarebbe
infatti stata estranea. Piuttosto, l’investitura del tribunale dei ministri,
secondo la ricorrente, sarebbe prodromica al coinvolgimento della Camera
competente nella valutazione concernente la ministerialità del reato.
L’adempimento previsto dall’art. 6 della legge cost. n. 1 del 1989 viene perciò
ricostruito come finalizzato non soltanto ad attivare l’organo giurisdizionale
competente, ma anche a soddisfare una prerogativa costituzionale direttamente e
senza mediazioni intestata alla Camera dei deputati, ai sensi dell’art. 96
Cost. Ciò che viene in rilievo, pertanto, non è la questione di competenza in
sé, ma il fatto che, omettendo di trasmettere gli atti al tribunale dei
ministri, l’autorità giudiziaria avrebbe menomato l’attribuzione costituzionale
propria della Camera dei deputati, per l’esercizio della quale detto tribunale
agirebbe da indefettibile cerniera di collegamento.
Nessun dubbio, poi, può nascere a
proposito dell’ammissibilità del ricorso, nella parte in cui, nell’ipotesi di
mancata attivazione del tribunale dei ministri, si contesta al potere
giudiziario di non avere informato la Camera dei deputati della pendenza del
procedimento penale a carico del Presidente del Consiglio dei ministri: tale
prospettazione, svolta sempre in riferimento all’attribuzione di cui all’art.
96 Cost. ed alla legge cost. n. 1 del 1989, con riguardo all’osservanza del
principio di ragionevolezza e mediante l’evocazione (implicita, ma chiara) del
principio di leale collaborazione, non incide, infatti, sull’attività
giurisdizionale compiuta, se non per il fatto che ad essa non si è aggiunta, su
di un piano parallelo, ma distinto, una condotta che sarebbe prescritta dal
principio di leale collaborazione. La questione concernente la sussistenza di
detto obbligo di informazione è, inoltre, giuridicamente e logicamente
preliminare rispetto a quella ulteriore, avente ad oggetto la possibilità di
ritenerlo adempiuto con l’informazione fornita in occasione della più volte
richiamata richiesta del PM di autorizzazione ad eseguire perquisizioni.
In conclusione, il conflitto è
ammissibile, in quanto diretto anzitutto a preservare un’attribuzione
costituzionale propria della Camera dei deputati, innanzi ad atti assunti
dall’autorità giudiziaria procedente in una situazione che il ricorrente ritiene di carenza di potestà; e comunque, in
linea subordinata, a contestare l’omissione di un adempimento informativo
imposto dal principio di leale collaborazione tra poteri dello Stato, al fine
di consentire alla Camera di difendere la medesima attribuzione.
In tale modo viene delimitato al giusto
l’oggetto del presente giudizio, con il quale la ricorrente non afferma, né
chiede a questa Corte di accertare, in relazione al solo reato di concussione,
per il quale è imputato il Presidente del Consiglio dei ministri in carica, che
lo stesso abbia natura ministeriale, bensì, muovendo dalla premessa che ad essa
spetterebbe «il potere di valutare la natura del reato contestato al membro del
Governo», ha espressamente precisato che «con l’odierno conflitto è stato
appunto chiesto di preservare la
possibilità di esercitare tale attribuzione costituzionale» e, quindi,
ha individuato soltanto le modalità procedimentali che, a suo dire, la
Costituzione prescriverebbe sempre di osservare, ove un’indagine penale abbia
per destinatario un membro del Governo.
5.― Secondo la tesi della
ricorrente, l’art. 6 della legge cost. n. 1 del 1989 obbligherebbe il pubblico ministero che abbia
acquisito una notizia di reato a carico del Presidente del Consiglio dei
ministri, ovvero di un ministro, ad attivarsi, perché il procedimento sia
assegnato al collegio di cui al successivo art.
Ove tale prospettazione fosse
condivisibile, in definitiva, sarebbe sufficiente la sola qualità soggettiva
dell’autore del fatto a incardinare la competenza riservata del tribunale dei
ministri, ferma la possibilità che, all’esito delle indagini, tale organo
disponga la c.d. archiviazione asistematica.
Questa Corte osserva che una tale tesi è
in evidente contrasto con la formulazione della norma, giacché è proprio l’art.
6 della legge cost. n. 1 del
È da aggiungere che la Corte, fin dalla sentenza n. 125 del
1977, non solo ha escluso un simile effetto, ma ha altresì ritenuto che
nella configurazione del reato ministeriale «prevale l’elemento oggettivo su
quello soggettivo».
Tale asserzione è lo specchio
dell’evoluzione che, con l’entrata in vigore della Costituzione, gli istituti
di immunità, e più in generale di deroga alle comuni regole di esercizio della
giurisdizione, hanno assunto nei confronti di coloro che sono investiti di
pubblici uffici.
Lo Stato costituzionale pone a
fondamento delle proprie dinamiche istituzionali, infatti, i soli poteri legali
che derivano la propria legittimità dalla conformità alle norme superiori
dell’ordine costituzionale, e ne modella lo status
di garanzia con riguardo all’esigenza di preservare l’integrità di quest’ultimo
attraverso il sereno ed equilibrato compimento delle funzioni dei primi: non vi
è spazio nell’ordinamento per potestà sorte in forza di criteri di
legittimazione estranei al sistema delle fonti costituzionali.
La prerogativa stessa, anziché
protezione offerta alla persona, è elemento costitutivo della funzione da
quest’ultima esercitata, che ne limita al contempo l’ambito.
Per tali ragioni, che si collocano alle
fondamenta dello Stato costituzionale, questa Corte è sempre stata costante
nell’escludere che le immunità costituzionali possano trasmodare in privilegi,
come accadrebbe se una deroga al principio di uguaglianza innanzi alla legge
potesse venire indotta direttamente dalla carica ricoperta, anziché dalle
funzioni inerenti alla stessa.
Questo principio è stato affermato in
tutti i casi in cui la Costituzione prevede forme di immunità, sia che si
tratti delle guarentigie dei membri del Parlamento (sentenze n. 10 e n. 11 del 2000),
o del Consiglio regionale (sentenza n. 289 del
1997), sia che venga in gioco la responsabilità penale del Capo dello Stato (sentenza n. 154 del
2004) o il fondamento costituzionale che assiste l’immunità sostanziale dei
componenti del Consiglio superiore della magistratura per le opinioni espresse
nell’esercizio delle funzioni (sentenza n. 148 del
1983), sia che, infine, venga in questione proprio la responsabilità per
reato ministeriale (sentenza n. 6 del
1970).
Da ultimo, si è anzi precisato che esso
trova applicazione tutte le volte che, in ragione di una prerogativa
costituzionale, vengano introdotte nell’ordito legislativo primario norme di
deroga rispetto al comune regime processuale, giacché «alle origini della
formazione dello Stato di diritto sta il principio della parità di trattamento
rispetto alla giurisdizione» (sentenza n. 24 del
2004). La deviazione dalle ordinarie
regole processuali è tollerata, quanto alla posizione del titolare di un organo
costituzionale, «solo per lo stretto necessario» (sentenza n. 262 del
2009), e, al di fuori di simile limite funzionale, scade in prerogativa
illegittima, se priva di espressa copertura costituzionale (sentenza n. 23 del
2011).
«Le generali regole del processo,
assistite dalle correlative sanzioni, e soggette nella loro applicazione agli
ordinari rimedi processuali», si profilano perciò indefettibili, non appena sia
stato valicato il confine della immunità (sentenza n. 225 del
2001; in seguito, sentenze n. 451 del 2005,
n. 284 del 2004
e n. 263 del
2003).
5.1.― Non vi è dubbio che la
Costituzione abbia inteso riconoscere al Presidente del Consiglio dei ministri
ed ai ministri stessi una forma di immunità in senso lato, consentendo alla Camera
competente di inibire l’esercizio della giurisdizione in presenza degli
interessi indicati dall’art. 9, comma 3, della legge cost. n. 1 del 1989, e
dando vita ad uno speciale procedimento che si innesta nell’ambito delle
peraltro persistenti attribuzioni dell’autorità giudiziaria. Ma l’unica lettura
di questa garanzia compatibile con le premesse appena svolte consiste nel
limitarne l’area al campo dei soli reati commessi nell’esercizio delle
funzioni.
Pur nel silenzio della legge
costituzionale emanata in attuazione dell’art. 96 Cost., pertanto, non sarebbe
stato possibile giungere a conclusioni differenti da quelle che sono, in ogni
caso, chiaramente espresse dalla lettera dell’art. 6 della legge cost. n. 1 del
1989. Né esse potrebbero venire invertite dalla prassi costituzionale, dal
legislatore ordinario, e finanche da questa Corte.
Le immunità riconosciute ai pubblici
poteri, infatti, introducendo una deroga eccezionale al generale principio di
uguaglianza, non possono che originarsi dalla Costituzione (sentenza n. 262 del
2009) e, una volta riscontrata tale derivazione, sono comunque soggette a
stretta interpretazione. Troppo significativo, infatti, nel processo di
formazione dello Stato di diritto, è stato il vincolo progressivo di soggezione
dell’azione degli organi dello Stato al principio di legalità e dunque di piena
sottoposizione al diritto, perché esso possa venire oggi anche solo in parte
affievolito, per effetto di interpretazioni evolutive, che vadano nella
direzione dell’ampliamento dell’area delle immunità costituzionali, oltre le
previsioni della Costituzione.
Nel caso di specie, poi, una tale
operazione ermeneutica è preclusa da ulteriori peculiari considerazioni, relative
alla responsabilità per reato ministeriale.
Come è noto, l’art. 96 Cost., nel testo
originario, stabiliva che il Presidente del Consiglio dei ministri ed i
ministri fossero posti in stato d’accusa (innanzi a questa Corte: art. 134
Cost., nel testo storico) dal Parlamento in seduta comune per i reati commessi
nell’esercizio delle loro funzioni. L’art. 12 della legge costituzionale 11
marzo 1953, n. 1 (Norme integrative della Costituzione concernenti la Corte
costituzionale), a tale scopo aveva istituito una Commissione parlamentare, cui
la legge 25 gennaio 1962, n. 20 (Norme sui procedimenti e giudizi di accusa),
aveva poi conferito poteri di apprezzamento della effettiva natura del reato e
poteri di indagine. In un simile contesto normativo, la giurisdizione ordinaria
era esclusa da ogni competenza in merito al procedimento, del quale infatti era
tenuta a spogliarsi definitivamente, non appena avesse ravvisato la
ministerialità del reato (art. 10 della legge n. 20 del 1962). Si poteva allora
concludere che la Costituzione avesse inteso dar luogo ad un’ipotesi di
garanzia nell’ambito dell’ordinamento giuridico, il cui fulcro riposava sulla
integrale sottrazione del reato ministeriale alla giurisdizione comune.
Il legislatore costituzionale del 1989
si è invece incamminato verso la direzione opposta, optando per la piena riespansione della giurisdizione comune, al di fuori dei
soli limiti eccezionali suggeriti dalla ragione giustificatrice degli istituti
di giustizia politica. A fronte di un reato ministeriale, infatti, oggi spetta
pur sempre ad un organo della giurisdizione ordinaria, ovvero al tribunale dei
ministri, cumulare funzioni inquirenti e giudicanti, al fine di radicare
successivamente, se del caso e previa autorizzazione parlamentare, il giudizio
davanti ad un giudice comune, e secondo l’ordinario rito processuale.
La revisione costituzionale si è mossa,
perciò, da un presupposto di adeguatezza del giudice ordinario all’esercizio
della giurisdizione per reato ministeriale, fugando ogni dubbio che la deroga
rispetto al rito comune trovi giustificazione, quand’anche parziale, nello
scopo di prevenire l’intento persecutorio del magistrato nei confronti del
membro del Governo.
Non è a tale scopo infatti che viene
costruito, in seno a un procedimento destinato ad evolversi secondo le forme
ordinarie, l’intervento della Camera competente, il cui sindacato può e deve
essere limitato all’apprezzamento, in termini insindacabili se congruamente
motivati, della sussistenza dell’interesse qualificato a fronte del quale
l’ordinamento stima recessive le esigenze di giustizia del caso concreto.
Ferma dunque la fase dell’autorizzazione
a procedere, del tutto autonoma rispetto alle finalità di accertamento della
responsabilità penale, rimesso all’autorità giudiziaria, la sola ulteriore
deroga in cui si sostanzia la prerogativa è l’azione, secondo norme del tutto
peculiari, del tribunale dei ministri, anziché del pubblico ministero e del
giudice per le indagini preliminari.
Il legislatore costituzionale ha
ritenuto opportuno non già privare l’ordine giudiziario dei suoi compiti
istituzionali, ma realizzare in seno ad esso un meccanismo procedimentale,
giudicato particolarmente incisivo, ove si cumulassero nel medesimo organo
funzioni inquirenti e giudicanti, sia per effetto della tradizione repubblicana
incentrata, con analoghe modalità, sulla Commissione parlamentare inquirente,
sia per istituire un privilegiato canale di raccordo con il Parlamento, sia per
destinare ad un soggetto di eccezionale natura poteri «eccezionalmente ampi» (sentenza n. 403 del
1994), di difficile inserimento nel corpo dell’ordinaria procedura penale.
Alla base della creazione del Collegio previsto dalla legge costituzionale si
pone dunque non l’insussistente terzietà rispetto al potere giudiziario, al
quale appartiene strutturalmente, ma l’obiettivo cumulo di funzioni, altrimenti
da ripartirsi secondo criteri di separazione tra giudice e pubblico ministero.
Se, perciò, l’elemento che connota con
maggiore pregnanza l’innovazione costituzionale, per quanto qui interessa, è la
specialità della procedura elaborata con riguardo ai soli reati ministeriali,
non si vede come si potrebbe legittimamente favorire un’estensione di essa alle
ipotesi di illecito comune, posto che, in tal modo, verrebbe ad assumere
carattere generale proprio il tratto che il legislatore costituzionale ha
voluto invece eccezionale.
Al contrario, la sussistenza di una
generale attribuzione della giurisdizione ordinaria in tema di reati
ministeriali contribuisce a rendere residuali gli spazi che ad essa restano
sottratti per esplicita previsione costituzionale.
Del resto, solo se la prerogativa in
questione fosse finalizzata a contrastare intenti persecutori della
magistratura nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, ovvero di
un ministro, si potrebbe giustificare, in linea meramente logica,
l’edificazione di un filtro all’azione giudiziaria, che si attivi ogni volta
che il membro del Governo sia soggetto ad indagine penale.
Una volta negato, come si deve negare,
un simile presupposto, non resta che rilevare che l’intervento del tribunale
dei ministri si colloca coerentemente nella disciplina di sistema, nelle sole
ipotesi di illecito penale commesso nell’esercizio delle funzioni.
Non gioverebbe, pertanto, invocare, in
contrario, l’art. 12 della legge n. 20 del 1962, peraltro abrogato fin
dall’art. 9 della legge 10 maggio 1978, n. 170 (Nuove norme sui procedimenti
d’accusa di cui alla legge 25 gennaio 1962, n. 20), secondo il quale «il
pubblico ministero che inizia l’azione penale a carico di alcuna delle persone
indicate negli articoli 90 e 96 della Costituzione ne dà notizia al Presidente
della Camera dei deputati». E non è possibile ritenere che tale disposizione,
saldandosi senza soluzione di continuità a quanto oggi previsto dall’art. 8,
comma 4, della legge cost. n. 1 del 1989 per i casi di archiviazione del
procedimento da parte del tribunale dei ministri, indichi la necessità
costituzionale di un coinvolgimento del Parlamento nell’attività di
qualificazione del reato attribuito al membro del Governo, reso possibile
grazie all’azione del Collegio di cui all’art. 7 della legge cost. n. 1 del
1989, e non più a quella, in parte corrispondente, della Commissione
inquirente.
Il vizio di questa argomentazione è già
nelle premesse logiche, secondo le quali la revisione costituzionale del 1989
non avrebbe inciso, per tale parte, sulle competenze parlamentari, quando
invece esse ne sono state profondamente modificate (sentenze n. 134 del 2002
e n. 403 del
1994). Anteriormente alla revisione dell’art. 96 Cost., come si è visto,
alla Commissione inquirente spettava ogni attività necessaria a perseguire il
reato ministeriale, mentre permaneva la competenza dell’autorità giudiziaria
per le ipotesi di illecito penale comune. L’una di tali prerogative non aveva
carattere residuale, ma alternativo rispetto all’altra. Perciò, innanzi ad un
medesimo fatto storico da cui potesse derivare la responsabilità penale del
Presidente del Consiglio dei ministri, ovvero di un ministro, era necessario
che tanto la Commissione inquirente, quanto il potere giudiziario ne potessero
prendere cognizione, al fine primario di stabilire se esso ricadesse nella
propria area di attribuzione, svolgendo le relative attività di indagine: questa
Corte aveva infatti ritenuto che «la Commissione inquirente può attivarsi per
svolgere indagini sulla base di notizie di possibili reati di sua competenza,
ancorché non tipiche o qualificate» (sentenza n. 13 del
1975). Vi era, in conseguenza di ciò, una concorrente attribuzione qualificatoria del fatto, finalizzata in entrambi i casi,
sia pure in forme del tutto differenti, all’esercizio dell’azione penale nei
confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, ovvero di un ministro,
ferma restando la via del conflitto di attribuzione ove Parlamento ed autorità
giudiziaria dissentissero sulla natura del reato, e con ciò sui confini della
propria competenza costituzionale.
5.2.― Per certi versi, la
condizione di iniziale e paritario concorso di due poteri dello Stato a
conoscere del medesimo fatto ricorda l’attuale assetto dei rapporti tra Camere
e potere giudiziario riguardo all’applicabilità della prerogativa
dell’insindacabilità prevista, per i membri del Parlamento, dall’art. 68, primo
comma, Cost.
Anche in questo caso, oramai del tutto
distante dalla regolazione costituzionale del procedimento per reato
ministeriale, si è configurata un’attribuzione tanto dell’ordine giudiziario,
nell’esercizio della giurisdizione (sentenze n. 120 del 2004
e n. 265 del
1997), quanto delle Camere, in relazione allo svolgimento della vita
parlamentare in condizioni di assoluta libertà ed autonomia (sentenza n. 1150
del 1988), a pronunciarsi sulla sussistenza della prerogativa, per quanto,
da ultimo, il legislatore ordinario abbia istituito un meccanismo
procedimentale non irragionevole (sentenza n. 149 del
2007) di coordinamento tra le reciproche competenze, per mezzo della legge
20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della
Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte
cariche dello Stato).
Non vi è chi non veda, invece, il salto
compiuto, rispetto al modello segnato dalla formula ampia contenuta nell’art.
68, primo comma Cost., con la revisione dell’art. 96 Cost., che ha confinato
l’attribuzione del Parlamento alla sola valutazione delle condizioni per
concedere, o negare, l’autorizzazione a procedere.
Si è appena osservato infatti che, a
seguito di tale revisione, e dell’attuazione conferita a tale riforma con la
legge cost. n. 1 del 1989, e subordinatamente con la legge 20 maggio 1988, n.
163 (Disciplina transitoria delle attività istruttorie per i procedimenti di
cui agli articoli 90 e 96 della Costituzione), l’unica attribuzione delle
Camere consiste oggi nell’apprezzamento dell’interesse previsto dall’art. 9
della legge cost. n. 1 del 1989, e ha modo di manifestarsi, unitamente alla
preliminare delibazione circa la natura ministeriale del reato che ad essa è
strumentale, per il solo caso in cui detta autorizzazione sia stata richiesta,
per il tramite del procuratore della Repubblica, dal tribunale dei ministri.
Il quadro è, pertanto, del tutto diverso
da quello che questa Corte aveva posto a fondamento della deroga ai principi di
autonomia e indipendenza dell’ordine giudiziario, «allo scopo di garantire
d’altro lato l’indipendenza del potere politico contro ogni indebita ingerenza
suscettibile di alterare la reciproca parità e la necessaria distinzione tra i
poteri dello Stato» (sentenza n. 13 del
1975).
Nel vigente ordine costituzionale, il
principio di generale attribuzione all’autorità giudiziaria ordinaria dell’esercizio
della giurisdizione penale, salvo le eccezionali e restrittive deroghe
stabilite espressamente dalla fonte superprimaria, non incontra alcun limite
ulteriore, e torna così in modo del tutto naturale ed automatico a governare la
fattispecie della responsabilità penale del Presidente del Consiglio dei
ministri, ovvero di un ministro, in accordo con i principi di uguaglianza,
legalità e giustiziabilità dei diritti, ribaditi, quanto ai pubblici
funzionari, dall’art. 28 Cost. (sentenza n. 154 del
2004).
Questa Corte ha a tale proposito già
affermato che sussiste nel nostro ordinamento una «generale competenza delle
autorità giudiziarie all’accertamento dei presupposti della responsabilità» (sentenza n. 154 del
2004), la quale si segnala per costituire la parola ultima, e di
regola definitiva, che l’ordinamento
giuridico pronuncia a livello nazionale (salve le ipotesi patologiche di
conflitti che questa Corte sia competente a conoscere), venendo così a
separarsi qualitativamente da ogni diversa attività preliminare di valutazione,
che altri soggetti possono compiere, nell’ambito delle proprie competenze, sui
medesimi presupposti.
Va da sé che la competenza in questione
non può che implicare la preliminare attività di qualificazione del reato, o
per meglio dire il giudizio con cui un accadimento materiale viene ricondotto
alla previsione generale di una o più disposizioni di legge, che lo sottraggono
all’area di ciò che è giuridicamente indistinto per conferirgli una identità
normativa, alla quale conseguono i tipici effetti processuali e sostanziali
stabiliti dalla legge. Nel caso di specie, componente costitutiva di un tale
giudizio è la stessa natura, ministeriale o comune, del reato, dalla quale
deriva nel primo caso l’investitura del tribunale dei ministri, e
successivamente del ramo competente del Parlamento, ovvero, nel secondo caso,
l’osservanza delle ordinarie regole sull’accertamento della responsabilità
penale. In difetto di esplicite deroghe costituzionali, agli altri poteri dello
Stato, e tra questi alla Camera competente ai sensi dell’art. 96 Cost., non
spetta alcuna attribuzione in merito, con la conseguenza che non ha fondamento
la pretesa di interloquire con l’autorità giudiziaria, secondo un canale
istituzionale indefettibilmente offerto dal tribunale dei ministri, nelle
ipotesi in cui quest’ultima, esercitando le proprie esclusive prerogative,
abbia stimato il reato privo del carattere della ministerialità e,
nell’esercizio delle stesse, abbia approfondito detto profilo, esplicitando le
ragioni a conforto di tale qualificazione (come nella specie, in particolare,
ha fatto il GIP).
Questa Corte deve però precisare che
tale asserzione non equivale a privare il Parlamento dello spazio di
apprezzamento, anche in ordine alla natura del reato contestato al Presidente
del Consiglio dei ministri, ovvero ad un ministro, che l’art. 96 Cost. gli
riserva, perché è indiscutibile che la Camera competente debba in ogni caso
godere dell’attribuzione di concedere o negare l’autorizzazione a procedere,
ogni qual volta il reato sia stato commesso dal Presidente del Consiglio dei
ministri o dai ministri, nell’esercizio delle loro funzioni.
5.3.― L’attribuzione esclusiva
dell’autorità giudiziaria relativa all’accertamento degli elementi della
fattispecie penale, come è stato già posto in rilievo, convive poi, di regola, con
la competenza di altri soggetti pubblici ad assumere determinazioni, che a
propria volta possono essere legate ad un apprezzamento giuridico in ordine
alla sussistenza ed alla natura di un reato, ma allo stesso tempo se ne
distingue per il carattere definitivo che è destinata ad acquisire.
La Camera competente, a propria volta,
si trova investita dell’attribuzione relativa all’autorizzazione a procedere,
rispetto alla quale è strumentale il sindacato incidentale sulla effettiva
natura dell’illecito. Affermare che una valutazione di tale carattere funge da
fase prodromica, ai fini dell’esercizio della sola attribuzione conferita
dall’art. 96 Cost. in punto di autorizzazione a procedere, non equivale a dire
che essa si possa sostituire al giudizio espresso, nell’ambito di una
prerogativa costituzionale esclusiva, dall’autorità giudiziaria, o persino
possa prevalere su di esso.
Piuttosto, per il fatto, del tutto
peculiare, che a tale ultima prerogativa del potere giudiziario il Parlamento
possa opporre una propria sfera di attribuzione determinata da norme
costituzionali, che dipende in parte dal corretto esercizio della prima, si
apre la via per superare, mediante gli strumenti della giustizia
costituzionale, uno svolgimento in concreto della funzione giurisdizionale
rivelatosi tale, secondo l’apprezzamento incidentale delle Camere, da menomarne
la competenza ai sensi dell’art. 96 Cost.
In altre parole, la valutazione
parlamentare sulla natura del reato attribuito al Presidente del Consiglio dei
ministri, ovvero ad un ministro, si colloca esattamente lungo la linea di
confine che questa Corte ha costantemente tracciato tra i conflitti di
attribuzione ove si eserciti una vindicatio potestatis, ovvero dove risulti in discussione quale
potere sia titolare della competenza costituzionale contesa, e i conflitti di
attribuzione derivanti dalla menomazione, da parte di un potere e nel
compimento di una prerogativa che certamente gli spetta, della sfera competenziale riservata ad altro potere, con cui il primo
abbia interferito.
Entro questi limiti, va riconosciuto che
il ramo del Parlamento competente ai sensi dell’art. 96 Cost. possa esprimere
una propria valutazione sulla natura del fatto contestato al Presidente del
Consiglio dei ministri, ovvero ad un ministro, purché essa si collochi
all’interno della procedura per reato ministeriale attivata dall’autorità
giudiziaria, o sia strumentale a rivendicare che detta procedura sia seguita, e
purché siffatto apprezzamento sfoci nella sola reazione consentita dall’ordinamento
innanzi ad una qualificazione, da parte dell’ordine giudiziario, del reato come
comune anziché ministeriale, ovvero nel ricorso a questa Corte per mezzo del
conflitto di attribuzione.
Tale è dunque il senso dell’affermazione
di questa Corte, secondo la quale «all’organo parlamentare (…) non può essere
sottratta una propria, autonoma valutazione sulla natura ministeriale o non
ministeriale dei reati oggetto di indagine giudiziaria» (sentenza n. 241 del
2009): non è dubbio che essa sia infatti strumentale rispetto alla
possibilità di sollevare conflitto costituzionale da menomazione.
Nell’ipotesi in cui l’autorità
giudiziaria avesse inizialmente qualificato il reato in termini ministeriali,
ma il tribunale di ministri abbia poi concluso per la natura comune, procedendo
ad archiviazione c.d. asistematica, il Parlamento viene informato dei fatti per
effetto di quanto stabilito espressamente dall’art. 8, comma 4, della legge
cost. n. 1 del 1989. L’informativa ufficiale e in via istituzionale che spetta
alle Camere, nonostante l’illecito non sia stato ritenuto commesso
nell’esercizio delle funzioni, costituisce perciò l’occasione che consente loro
di prendere cognizione dei fatti, al fine di sollevare conflitto di
attribuzione, benché non si possa escludere, e anzi nei fatti sia ciò che
consuetamente accade, che gli elementi necessari a tale scopo siano già stati
acquisiti in precedenza, spesso per iniziativa dello stesso Presidente del
Consiglio dei ministri, ovvero del ministro, che si ritenga indebitamente
soggetto ad un’indagine nelle forme comuni. In tale evenienza, è ovvio che il
conflitto potrà essere esperito, anche ove la comunicazione da parte
dell’autorità giudiziaria, che resta comunque costituzionalmente dovuta (sentenza n. 241 del
2009), sia mancata. Per la stessa ragione, la via del conflitto, nei limiti
appena specificati, è aperta nel caso, distinto dal primo, in cui il reato
attribuito al membro del Governo sia stato fin dall’origine reputato privo di
carattere ministeriale. Per tale ipotesi, non si è ritenuta opportuna a livello
normativo una previsione corrispondente all’art. 8, comma 4, della legge cost.
n. 1 del 1989, che trova giustificazione nella finalità di concludere
definitivamente una fase procedimentale pur sempre vertente su di un caso
ipotizzato di ministerialità dell’illecito penale; tuttavia, anche al di là di
questa peculiare e tassativa disposizione di legge costituzionale, non può che
spettare al Parlamento l’accesso a questa Corte, affinché sia verificato, nei
modi consentiti dalla Costituzione, se un erroneo esercizio delle proprie
attribuzioni da parte del potere giudiziario abbia menomato la Camera
competente ai sensi dell’art. 96 Cost., impedendole di deliberare
sull’autorizzazione a procedere, prevista ogni qual volta il reato sia stato
commesso nell’esercizio delle funzioni.
6.― I principi appena esposti
trovano espressione nella vigente disciplina costituzionale che regolamenta le
indagini penali per reato ministeriale.
L’art. 6, comma 1, della legge cost. n.
1 del 1989 stabilisce con chiarezza che devono essere indirizzate al
procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto di
corte d’appello competente per territorio le sole notizie concernenti i reati
indicati dall’art. 96 Cost., ovvero i reati commessi da membri del Governo
nell’esercizio delle funzioni.
Ai sensi del comma 2 seguente, il
procuratore della Repubblica, omessa ogni indagine, nel termine di quindici
giorni trasmette gli atti al tribunale dei ministri.
La competenza per territorio
dell’ufficio del pubblico ministero viene in tal modo individuata in ragione della corrispondente competenza
dell’organo giudicante (art. 11 della legge cost. n. 1 del 1989), sicché fin
dall’origine il procedimento si connota per una vocazione finalistica rispetto
all’esercizio dell’azione penale nei modi consentiti dall’art. 96 Cost.
Non si può obiettare, come ha fatto la ricorrente,
che il divieto imposto al procuratore della Repubblica di svolgere indagini
testimonierebbe che, perlomeno nelle ipotesi di dubbio circa la qualificazione
del reato, la decisione debba venire necessariamente assunta dal Collegio di
cui all’art. 7 della legge cost. n. 1 del 1989. Si può infatti immaginare che
vi siano casi in cui il fatto viene descritto nella notizia di reato in termini
inequivocabilmente ministeriali, cosicché l’investitura del tribunale dei
ministri è immediata e non comporta ulteriori accertamenti da parte
dell’autorità giudiziaria nelle forme ordinarie; parimenti, vi possono essere
casi ove è subito percepibile l’estraneità della condotta all’area funzionale
propria del Presidente del Consiglio dei ministri, ovvero di un ministro, con
l’effetto che il procedimento, in difetto dell’eccezionale caso di deroga
previsto per i soli illeciti penali ministeriali, si avvierà e procederà
secondo le comuni regole processuali. Non si può, infine, escludere che la sola
descrizione del fatto, con le indicazioni dedotte a sostegno di essa nella
notizia di reato, non sia tale da permetterne la qualificazione in termini
ministeriali, ma che quest’ultima finisca per emergere solo successivamente, a
seguito dell’acquisizione, anche attraverso le indagini, degli elementi utili a
tale scopo. La già ricordata natura eccezionale della deroga alle regole
generali della giurisdizione comporta, tuttavia, che la stessa possa operare
solo allorché ne ricorrano integralmente tutti i presupposti; fino ad allora,
invece, ovvero fino a quando non sia possibile cogliere i profili di
ministerialità del fatto, tali regole generali dovranno continuare a trovare
applicazione, poiché non sono ancora maturati i requisiti peculiari che ne
determinano la cedevolezza, a fronte della normativa costituzionale speciale.
È dunque solo da tale momento che la
notizia di reato ricade nella previsione del comma 1 dell’art. 6 della legge
cost. n. 1 del 1989, e che, conseguentemente, al pubblico ministero competente
è inibita ogni ulteriore attività, mentre il procuratore della Repubblica
presso il capoluogo del distretto, oramai chiamato in causa nella veste di
congiunzione con il tribunale dei ministri, incorre a propria volta nel divieto
di disporre indagini. Naturalmente, l’ordinamento offre adeguati rimedi, tra
cui l’accesso a questa Corte, per evitare che l’autorità giudiziaria svolga
attività inquirente a carico del Presidente del Consiglio dei ministri, ovvero
di un ministro, non appena si consolidi, in forza degli elementi di fatto
acquisiti, anche a seguito dell’attività investigativa svolta dagli stessi, e
delle valutazioni di diritto ad essi conseguenti, l’ipotesi della
ministerialità del reato; e anzi, ogni qual volta essa sia prospettabile in
linea astratta, ma non ancora acclarata, è a tale profilo del fatto che debbono
rivolgersi anzitutto e senza indugio le attenzioni degli inquirenti, al fine di
evitare la compressione indebita, anche in via temporanea, delle attribuzioni
costituzionali del tribunale dei ministri e conseguentemente della Camera
competente ai sensi dell’art. 96 Cost.
Una volta emersa la ministerialità del
reato, secondo il primo apprezzamento che compete agli organi ordinari della
giurisdizione penale, le attività inquirenti proprie del pubblico ministero e
le funzioni di giudice per le indagini preliminari sono immediatamente
concentrate presso il tribunale dei ministri (art. 8 della legge cost. n. 1 del
1989; art. 1 della legge n. 219 del 1989), il quale non incontra alcun vincolo
nella precedente qualificazione del fatto e ben può concludere che il reato è
invece comune, disponendo l’archiviazione c.d. asistematica e trasmettendo gli
atti all’autorità giudiziaria competente a conoscerne (art. 8 della legge cost.
n. 1 del 1989; art. 2, comma 1, della legge n. 219 del 1989).
Nel caso di archiviazione, il citato
art. 8, comma 4, impone al procuratore della Repubblica di darne comunicazione
al Presidente della Camera competente: così, come si è già precisato, è dato
modo al Parlamento di valutare se il reato abbia davvero il carattere comune
che il potere giudiziario gli ha infine attribuito, ovvero se esso debba
ritenersi commesso nell’esercizio delle funzioni, al solo scopo, in
quest’ultimo caso, di sollevare conflitto di attribuzione.
Ove, invece, il procedimento per reato
ministeriale non sia mai stato iniziato, nonostante ne prescrivessero
l’attivazione gli elementi acquisiti anche a seguito dell’attività
investigativa svolta dal Presidente del Consiglio dei ministri, ovvero dal
ministro, la Camera competente potrà parimenti rivolgersi alla giurisdizione
costituzionale, per difendere l’attribuzione a deliberare sull’autorizzazione a
procedere. Questa Corte, in tali casi, sarà chiamata a decidere, con
inevitabile riferimento al carattere del reato, in forza di tutte le risultanze istruttorie poste a
disposizione dalle parti del conflitto.
È dunque priva di fondamento la
preoccupazione secondo la quale, in difetto dell’azione del tribunale dei
ministri, non sarebbe dato modo né al Parlamento, né a questa Corte di
accertare con cognizione il carattere del reato.
In definitiva, la Camera si trova, nei
limiti innanzi precisati, a soppesare la natura comune o ministeriale del
reato, in forza degli elementi posti a disposizione dall’autorità giudiziaria e
delle ulteriori osservazioni che provengano dai soggetti interessati ai sensi
dell’art. 9, comma 2, della l. cost. n. 1 del 1989: ciò accade, ai fini
dell’esercizio dell’attribuzione conferita dall’art. 96 Cost., sia nel caso in
cui le sia stata richiesta l’autorizzazione a procedere e decida di restituire
gli atti all’autorità giudiziaria (art. 18-ter
del Regolamento della Camera dei deputati e art. 135-bis del Regolamento del Senato della Repubblica), sia, sollevando
conflitto, nel caso in cui il potere giudiziario proceda nelle forme comuni,
nonostante la ministerialità del reato,
ovvero nel caso di archiviazione c.d. asistematica.
Così ricostruito, alla luce del tessuto
normativo e in armonia con i principi dell’ordine costituzionale dello Stato,
il complesso meccanismo della giustizia politica, non resta alla Corte che
prendere atto della estraneità ad esso della fattispecie peculiare che ha
originato l’odierno contenzioso costituzionale.
La vicenda che costituisce oggetto del
ricorso concerne, infatti, un reato (il reato di concussione, l’unico in
relazione al quale è stato sollevato il conflitto) che l’autorità giudiziaria
ha ritenuto immediatamente privo di carattere funzionale e la cui natura
ministeriale non è stata posta a fondamento del conflitto, nel senso che con
esso – e tenuto conto del contenuto della domanda proposta dalla Camera dei
deputati, quale dianzi precisata – questa Corte non è stata investita
dell’accertamento di siffatto carattere. In tali circostanze, non solo il
potere giudiziario, ritenendo il reato di natura comune, poteva omettere di
investire il tribunale dei ministri della notizia di reato, ma ne era
costituzionalmente obbligato, ai sensi del combinato disposto degli artt. 96
Cost. e 6 della legge cost. n. 1 del 1989, non essendogli possibile sottrarsi
all’accertamento della penale responsabilità nelle forme proprie della
giurisdizione ordinaria penale (art. 112 Cost.), se non in presenza delle
deroghe tassative prescrivibili dalla sola Costituzione, e che neppure il
legislatore ordinario potrebbe ampliare (sentenze n. 23 del 2011
e n. 262 del
2009).
Questa Corte deve perciò concludere che
spettava al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale ordinario di
Milano avviare, esperire indagini e procedere alla richiesta di giudizio
immediato in relazione al contestato delitto di concussione nei confronti del
Presidente del Consiglio dei ministri, in carica all’epoca dei fatti, e del
pari spettava al Giudice per le indagini preliminari di quest’ultimo Tribunale
procedere, a propria volta, nelle forme comuni ed emettere il decreto di
giudizio immediato, una volta ritenuto detto reato non commesso nell’esercizio
delle funzioni, omettendo di trasmettere gli atti al Collegio previsto
dall’art. 7 della legge cost. n. 1 del 1989.
7.― Resta da decidere se
l’autorità giudiziaria, nel procedere nei confronti del Presidente del
Consiglio dei ministri in carica, avesse l’obbligo di informare la Camera dei
deputati della pendenza del procedimento.
Questa Corte ha già escluso che un tale
dovere possa ricavarsi dalle disposizioni costituzionali concernenti il
procedimento per i reati di cui all’art. 96 Cost., ed in particolar modo
dall’art. 8, comma 4, della legge cost. n. 1 del 1989, che inerisce per le
ragioni dette esclusivamente ai casi di archiviazione.
Il fondamento costituzionale
dell’attribuzione rivendicata dalla ricorrente andrebbe perciò ricercato nel principio
di leale collaborazione tra i poteri dello Stato, dal quale si vorrebbe
desumere una regola informativa che non cambia la natura e la pienezza dei
poteri di accertamento del giudice comune, ma si aggiunge ad essi su di un
piano parallelo, obbligandolo a rendere edotta la Camera competente del fatto
storico, affinché quest’ultima sia posta nelle condizioni di valutarne la
natura, e, se del caso, di reagire immediatamente con lo strumento del
conflitto.
Questa Corte ha già affermato che «il
principio di leale collaborazione (…) deve sempre permeare di sé il rapporto
tra poteri dello Stato» (sentenza n. 26 del
2008) e che ad esso non sfugge neppure l’ordine giudiziario, nell’esercizio
della giurisdizione, quando esso ridondi sulle altrui attribuzioni
costituzionali (sentenze n. 149 del 2007,
n. 110 del 1998
e n. 403 del
1994).
Presupposto perché la leale
collaborazione venga a dettare regole di azione, sufficientemente elastiche da rispondere
«alle peculiarità delle singole situazioni» (sentenza n. 50 del
2005) è la convergenza dei poteri verso la definizione, ciascuno secondo la
propria sfera di competenza, di una fattispecie di rilievo costituzionale, ove
essi, piuttosto che separati, sono invece coordinati dalla Costituzione,
affinché la fattispecie si definisca per mezzo dell’apporto pluralistico dei
soggetti tra cui è frazionato l’esercizio della sovranità.
Il punto di contatto tra le reciproche
competenze, per quanto concettualmente distinte, non può nell’attuale sistema
costituzionale divenire l’occasione di una contesa, avente ad oggetto le sfere
delle attribuzioni da cui si alimenta la vita democratica della Repubblica, ma
deve consentirne il superamento secondo criteri flessibili di esercizio delle
prerogative, che permettano loro di adattarsi per quanto possibile alla
funzionalità degli altrui compiti.
Ora, se tale è la premessa su cui poggia
il principio di leale collaborazione, è evidente che esso non abbia a
declinarsi laddove non vi sia confluenza delle attribuzioni e la separazione
costituisca l’essenza delle scelte compiute dalla Costituzione, al fine di
ripartire ed organizzare le sfere di competenza costituzionale.
Si tratta di un fenomeno che si
manifesta soprattutto rispetto al potere giudiziario, cui l’attuale sistema
costituzionale fissa limiti rigidi alle prospettive di interazione con gli
altri poteri.
Le regole dell’agire giudiziario, assai più
fitte e rigorose di quanto non siano quelle che accompagnano l’azione degli
organi costituzionali incaricati di tracciare l’indirizzo politico, sono perciò
indisponibili da parte dello stesso ordine giudiziario, e possono venire
arricchite di ulteriori contenuti desumibili dalla clausola generale della
leale collaborazione, solo con la prudenza necessaria ad evitare una
«predisposizione ex novo di un
complesso di regole che non può che essere posto nella sede competente» di
fonte normativa (sentenza
n. 309 del 2000).
Ora, si può anche trascurare che un
obbligo di informazione privo di copertura normativa, se inserito in via
pretoria nelle forme comuni di esercizio della giurisdizione, pone in sé
problemi tecnici di coordinamento, e comunque di bilanciamento con altri
interessi dotati di rilevanza costituzionale, che richiederebbero un articolato
intervento legislativo, con particolare riferimento alla tutela della
segretezza delle indagini, nell’interesse della giustizia e dello stesso
Presidente del Consiglio dei ministri che ne è oggetto. Se, infatti, la
Costituzione imponesse una simile condotta, essa andrebbe comunque osservata
dall’autorità giudiziaria.
Ma non è dato, invece, e proprio con
riferimento alle peculiarità dell’ordine giudiziario nel sistema ordinamentale,
introdurre in via interpretativa un simile obbligo, se non quando esso appaia
assolutamente necessario a preservare le altrui attribuzioni costituzionali,
nell’ambito del principio di leale collaborazione tra poteri dello Stato.
È proprio questo presupposto che manca
nell’ipotesi denunciata dalla Camera ricorrente: per le ragioni esposte
innanzi, infatti, questa Corte ritiene che un’esigenza di coordinamento con la
Camera competente sia stata apprezzata esclusivamente, sul piano
costituzionale, con riguardo al caso che il reato per cui si procede abbia
natura ministeriale, posto che esso sollecita attribuzioni distinte, ma
convergenti dell’autorità giudiziaria e delle Camere. Ad essa, infatti,
rispondono le peculiari regole dettate dalla legge costituzionale di attuazione
dell’art. 96 Cost.
Nell’ipotesi di reato comune, viceversa,
il Parlamento, in difetto di una norma espressa, non ha titolo per pretendere
che l’azione del potere giudiziario sia aggravata da un ulteriore adempimento,
giacché essa si esaurisce interamente nella sfera di attribuzioni proprie di
quest’ultimo, e non interferisce con altrui prerogative, fino a che il
presupposto circa la ministerialità del reato non sia invece rivendicato in
concreto dalla Camera competente.
La sola ipotesi, del tutto astratta, che
il reato possa essere stato commesso nell’esercizio delle funzioni di
Presidente del Consiglio dei ministri, ovvero di ministro, non è sufficiente,
in altri termini, in presenza della generale clausola di competenza
dell’autorità giudiziaria di cui si è detto, a far scaturire, anche in via
meramente potenziale, un’area comune di interferenza fra attribuzioni
parlamentari e dell’ordine giudiziario, essendo a tal fine necessario che le
prime siano state in concreto poste in collegamento con le seconde per
iniziativa della Camera competente.
Né si può opporre a tale conclusione che
è proprio in virtù della carenza di un canale informativo tra Camere e ordine
giudiziario, che quest’ultimo potrebbe procedere nelle forme comuni, pur quando
il fatto sia invece ministeriale, impedendo al Parlamento di attivarsi.
Una simile affermazione, in quanto volta
ad introdurre a rimedio del caso patologico un fisiologico obbligo di
informazione, potrebbe venire spesa a buon titolo, solo se la Costituzione
avesse previsto, in via generale, che il potere dello Stato che ritenga di
esercitare congruamente le proprie attribuzioni, sia contestualmente tenuto a
darne notizia ad ogni altro potere, rispetto al quale quell’esercizio possa
produrre la menomazione di un’attribuzione del tutto diversa, per il caso
ipotetico di cattivo uso delle prime.
Va da sé che un simile principio non è
mai stato riconosciuto vigente nell’ordinamento, né ha trovato applicazione di
sorta nella giurisprudenza costituzionale: anteriormente alla legge n. 140 del
2003, doveva ritenersi, ad esempio, che il giudice comune, in difetto di
delibera di insindacabilità da parte della Camera, potesse rendere diretta
applicazione dell’art. 68, primo comma, Cost., eventualmente negando la
sussistenza della prerogativa, senza necessità alcuna di informarne il
Parlamento, per consentirgli di reagire (sentenza n. 149 del
2007).
È infatti normale che ogni potere dello
Stato agisca sul presupposto della conformità della propria condotta al
principio di legalità costituzionale, sicché non si vede a che titolo, nel
contempo, gli si debba fare obbligo, in forza della Costituzione, di
prospettare ad altro potere l’ipotesi, negata in premessa, della
incompatibilità costituzionale di tale condotta, in quanto contraria al riparto
delle competenze.
Piuttosto, laddove la Costituzione abbia
effettivamente dato luogo ad un’esigenza di coordinamento e di collaborazione
fra l’esercizio della funzione giurisdizionale e l’area di competenza di altro
organo supremo, questa Corte ha escluso l’illegittimità costituzionale di una
normativa primaria ad hoc, poiché «è
possibile e naturale che il legislatore ordinario predisponga in materia
apposite norme processuali, proprio al fine di meglio assicurare il
coordinamento istituzionale e la leale collaborazione fra i poteri dello Stato
coinvolti», pur precisando nel contempo, e assai significativamente, che si
tratta di «una legislazione di rango ordinario dai contenuti costituzionalmente
non vincolati» (sentenza
n. 149 del 2007). Con il che si è reso chiaro che le forme di tale
coordinamento, ove non ricavabili direttamente dalla Costituzione, sono rimesse
alla non irragionevole discrezionalità del legislatore ordinario, il cui
mancato esercizio comporta «la mera applicazione delle generali disposizioni
processuali» (sentenza
n. 149 del 2007).
Una volta escluso che le fonti
normative, costituzionali e primarie, abbiano introdotto l’obbligo
dell’autorità giudiziaria di informare la Camera competente della pendenza del
procedimento comune per reato attribuibile al Presidente del Consiglio dei
ministri, ovvero ad un ministro, e nell’impossibilità di ricavare simile
precetto dal principio di leale collaborazione, viene meno ogni fondamento
giuridico su cui poggiare la pretesa della ricorrente di essere resa edotta dei
fatti, dato che esso neppure è rinvenibile – come ha, invece, sostenuto la
Camera dei deputati – nei «basilari canoni di ragionevolezza ed idoneità allo
scopo che a mente dell’art. 3 Cost. presiedono all’interpretazione della
legge». Indipendentemente dalla genericità che caratterizza detta
prospettazione, va, infatti, ricordato che la giurisprudenza di questa Corte ha
desunto dall’art. 3 Cost. un canone di «razionalità» della legge svincolato da
una normativa di raffronto, rintracciato nell’«esigenza di conformità
dell’ordinamento a valori di giustizia e di equità» (sentenza n. 421 del
1991) ed a criteri di coerenza logica, teleologica e storico-cronologica,
che costituisce un presidio contro l’eventuale
manifesta irrazionalità o iniquità delle conseguenze della stessa
(sentenze n. 46
del 1993, n.
81 del 1992). Tale canone non è, tuttavia, vulnerato da un’esegesi che,
come sopra precisato, nel quadro di un ordinamento nel quale le immunità non
possono che originarsi dalla Costituzione e sono soggette a stretta
interpretazione, prevede l’intervento del tribunale dei ministri nelle sole
ipotesi di illecito commesso nell’esercizio delle funzioni, collocandolo
armonicamente nella regolamentazione di sistema, caratterizzata da un corretto
bilanciamento dei principi di generale attribuzione all’autorità giudiziaria
ordinaria della giurisdizione penale e di tutela delle attribuzioni
costituzionali del Parlamento ex art.
96 Cost., dato che a quest’ultimo spetta l’accesso a questa Corte, per porre in
discussione un eventuale erroneo esercizio delle proprie attribuzioni da parte
del potere giudiziario che, eventualmente, abbia impedito alla Camera
competente ai sensi di tale ultima norma della Costituzione di deliberare
sull’autorizzazione a procedere, sollevando un conflitto avente contenuto
diverso da quello proposto con il presente giudizio.
È dunque nello svolgimento della vita
parlamentare e nella disciplina del rapporto fiduciario tra Parlamento e
Governo che si rinviene la via ufficiale di interessamento alla fattispecie da
parte delle Camere, cui i soggetti interessati – e ciò anche al fine di
consentire loro l’esercizio del diritto di difesa – ben possono direttamente
rivolgersi per informarle degli accadimenti e porle nelle condizioni di sollevare
conflitto innanzi a questa Corte.
La Corte deve, difatti, precisare che,
diversamente, per consentire alla Camera competente di maturare un giudizio
basato sulle risultanze istruttorie disponibili, l’autorità giudiziaria
procedente è tenuta ad osservare una condotta ispirata a leale collaborazione,
quando alla stessa si sia rivolto l’organo parlamentare che, venuto a
conoscenza dei fatti, non sia stato in grado di escluderne con certezza
La negazione dell’obbligo di informare
la Camera competente comporta l’assorbimento dell’ulteriore questione,
logicamente e giuridicamente subordinata, avente ad oggetto l’accertamento
dell’idoneità dell’informazione fornita in occasione della più volte richiamata
richiesta del PM di autorizzazione ad eseguire perquisizioni di alcuni locali
nella disponibilità del Presidente del Consiglio dei ministri in carica a farlo
ritenere adempiuto.
In conclusione, per tali motivi, questa
Corte ritiene che spettava alla Procura della Repubblica presso il Tribunale
ordinario di Milano ed al Giudice per le indagini preliminari di detto
Tribunale procedere per reato comune nei confronti del Presidente del Consiglio
dei ministri in carica, omettendo di informarne la Camera dei deputati.
PER QUESTI MOTIVI
dichiara:
1) che spettava alla Procura della
Repubblica presso il Tribunale ordinario di Milano avviare, esperire indagini e
procedere alla richiesta di giudizio immediato nei confronti del Presidente del
Consiglio dei ministri in carica per un’ipotesi di reato ritenuto non commesso
nell’esercizio delle funzioni, omettendo di trasmettere gli atti ai sensi
dell’art. 6 della legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1 (Modifiche degli
articoli 96, 134 e 135 della Costituzione e della legge costituzionale 11 marzo
1953, n. 1, e norme in materia di procedimenti per i reati di cui all’articolo
96 della Costituzione), perché ne fosse investito il Collegio previsto
dall’art. 7 di detta legge;
2) che spettava al Giudice per le
indagini preliminari del Tribunale ordinario di Milano proseguire nelle forme
comuni ed emettere il decreto di giudizio immediato nei confronti del
Presidente del Consiglio dei ministri in carica, per un’ipotesi di reato
ritenuto non commesso nell’esercizio delle funzioni, omettendo di trasmettere
gli atti ai sensi dell’art. 6 della legge costituzionale n. 1 del 1989, perché
ne fosse investito il Collegio previsto dall’art. 7 di detta legge;
3) che spettava alla Procura della
Repubblica presso il Tribunale ordinario di Milano ed al Giudice per le
indagini preliminari di detto Tribunale esercitare le proprie attribuzioni,
omettendo di informare la Camera dei deputati della pendenza del procedimento
penale nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri in carica.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14
febbraio 2012.
F.to:
Depositata in