Ordinanza n. 344/2000

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ORDINANZA N. 344

ANNO 2000

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare MIRABELLI, Presidente

- Fernando SANTOSUOSSO

- Massimo VARI 

- Cesare RUPERTO 

- Riccardo CHIEPPA 

- Gustavo ZAGREBELSKY 

- Valerio ONIDA 

- Carlo MEZZANOTTE 

- Fernanda CONTRI 

- Guido NEPPI MODONA 

- Piero Alberto CAPOTOSTI  "

- Annibale MARINI 

- Franco BILE 

- Giovanni Maria FLICK 

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 256 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 16 luglio 1999 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bologna in un procedimento penale, iscritta al n. 633 del registro ordinanze 1999 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 47, prima serie speciale, dell’anno 1999.

 Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 udito nella camera di consiglio del 21 giugno 2000 il Giudice relatore Fernanda Contri.

Ritenuto che nel corso di un procedimento instaurato a norma dell’art. 409, comma 2, del codice di procedura penale, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bologna - chiamato a provvedere sulla richiesta di archiviazione avanzata dal pubblico ministero, in data 3 maggio 1999, a séguito della sentenza della Corte costituzionale n. 410 del 1998 - ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, secondo (recte: primo) comma, 101, secondo comma, e 112 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 256 cod. proc. pen., “nella parte in cui consente di opporre il segreto di Stato anche in relazione ad atti privi del connotato della segretezza in quanto già contenuti ed acquisiti al fascicolo processuale, o comunque ad atti che, venendo contestualmente trasmessi alla A.G., perdono le loro caratteristiche di segretezza, ovvero laddove non prevede che il segreto in precedenza ritualmente e correttamente opposto diventi inefficace nel caso in cui l’atto da esso coperto abbia perso il suo carattere di segretezza”;

 che nell’ordinanza di rimessione vengono riassunte le vicende dalle quali hanno tratto origine i due conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato, sollevati dal Presidente del Consiglio dei ministri nei confronti della Procura della Repubblica di Bologna e definiti da questa Corte, rispettivamente, con le sentenze n. 110 e n. 410 del 1998;

 che dopo aver riportato o sintetizzato alcuni passaggi della motivazione delle menzionate sentenze, il giudice rimettente motiva sulla non manifesta infondatezza della prospettata questione di legittimità costituzionale e ne afferma la rilevanza;

 che, quanto alla prima delle due condizioni di proponibilità, il giudice a quo ritiene “non conforme né al principio di ragionevolezza di cui all’art. 3, comma 2 (recte: primo), Cost., né conforme alle norme a tutela della attività giudiziaria (in primis, art. 101, comma 2, e 112 Cost.) l’art. 256 c.p.p. laddove consente di opporre il segreto di Stato anche in relazione ad atti privi del connotato della segretezza in quanto già contenuti ed acquisiti al fascicolo processuale, o comunque ad atti che, venendo contestualmente trasmessi alla A.G. perdono le loro caratteristiche di segretezza, ovvero laddove non prevede che il segreto in precedenza ritualmente e correttamente opposto diventi inefficace nel caso in cui l’atto da esso coperto abbia perso il suo carattere di segretezza”;

 che la motivazione della rilevanza della sollevata questione è affidata alla considerazione che, nel caso di specie, “si sono ritenuti coperti dal segreto di Stato atti (quelli trasmessi dal Questore di Bologna) che contestualmente venivano portati a conoscenza della A.G., e che anzi in buona parte già erano in possesso della stessa ... atti tutti che allo stato non sono utilizzabili stante le citate pronunce della Corte, e che invece potrebbero esserlo laddove la questione ... che qui si solleva fosse ritenuta fondata”;

 che nel presente giudizio costituzionale, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha spiegato intervento il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo la declaratoria di inammissibilità o di infondatezza della questione sollevata dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bologna, e riservandosi di svolgere deduzioni con una successiva memoria illustrativa;

 che in prossimità della data fissata per la camera di consiglio, il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato una memoria nella quale si chiede che venga dichiarata l’infondatezza della questione;

 che nella stessa memoria si afferma la natura “funzionale” del segreto di Stato, che “non cessa di essere tale per essere stato rivelato a soggetti non legittimati a conoscerlo”, e si contesta l’assunto secondo il quale la conoscenza, da parte di un pubblico funzionario non abilitato, di un documento coperto da segreto di Stato farebbe venir meno il carattere della segretezza, ritenendo la difesa erariale tale assunto inconciliabile con il principio che impone di evitare che un fatto illecito sia portato a più gravi conseguenze;

 che anzi secondo l’Avvocatura presenterebbe “estremi oggettivi di rilevanza penale” lo stesso comportamento del pubblico ministero, il quale, “venuto a conoscenza di documenti coperti da segreto di Stato, invece di restituirli immediatamente al legittimo detentore, informare il Presidente del Consiglio ed astenersi dall’utilizzarli ex artt. 191 e 526 c.p.p. li ha ... posti a base di indagini strumentali all’azione penale così [a]vviando un processo destinato alla progressiva diffusione del segreto”.

 Considerato che il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bologna dubita, in riferimento agli artt. 3, 101, secondo comma, e 112 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 256 cod. proc .pen., “nella parte in cui consente di opporre il segreto di Stato anche in relazione ad atti privi del connotato della segretezza in quanto già contenuti ed acquisiti al fascicolo processuale, o comunque ad atti che, venendo contestualmente trasmessi alla A.G., perdono le loro caratteristiche di segretezza, ovvero laddove non prevede che il segreto in precedenza ritualmente e correttamente opposto diventi inefficace nel caso in cui l’atto da esso coperto abbia perso il suo carattere di segretezza”;

 che il giudice a quo ritiene rilevante la sollevata questione in quanto, nel caso di specie, “si sono ritenuti coperti dal segreto di Stato atti (quelli trasmessi dal Questore di Bologna) che contestualmente venivano portati a conoscenza della A.G., e che anzi in buona parte già erano in possesso della stessa ... atti tutti che allo stato non sono utilizzabili stante le citate pronunce della Corte, e che invece potrebbero esserlo laddove la questione ... che qui si solleva fosse ritenuta fondata”;

 che, nel motivare sulla rilevanza della prospettata questione, il rimettente fa riferimento, innanzi tutto, alla sentenza n. 110 del 1998, con la quale la Corte ha dichiarato non spettare al pubblico ministero, in persona del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bologna, né acquisire, né utilizzare, sotto alcun profilo, direttamente o indirettamente, atti o documenti sui quali era stato legalmente opposto e confermato dal Presidente del Consiglio dei ministri il segreto di Stato, né trarne comunque occasione di indagine ai fini del promovimento dell'azione penale, annullando conseguentemente gli atti di indagine compiuti sulla base di fonti di prova coperte dal segreto di Stato, nonché la sopravvenuta richiesta di rinvio a giudizio;

 che, a séguito di tale sentenza, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bologna, al quale gli atti erano stati restituiti dal giudice per le indagini preliminari, reiterava la richiesta di rinvio a giudizio, eliminando da questa i riferimenti ai documenti trasmessi dalla Questura di Bologna;

 che con ricorso del 10 luglio 1998, depositato il 14 luglio 1998, il Presidente del Consiglio dei ministri sollevava un nuovo conflitto di attribuzione nei confronti del pubblico ministero, in persona del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bologna, in relazione alla richiesta di rinvio a giudizio formulata in data 5 maggio 1998 nei confronti di funzionari del SISDE e di funzionari di polizia che con i primi avevano collaborato, e che si assumeva nuovamente basata su fonti di prova incise dal segreto di Stato opposto dal Presidente del Consiglio dei ministri ex art. 12 della legge 24 ottobre 1977, n. 801;

 che, in accoglimento del secondo ricorso del Presidente del Consiglio, la Corte costituzionale ha pronunciato la sentenza n. 410 del 1998 - anch’essa richiamata dal rimettente in sede di motivazione sulla rilevanza - con la quale ha dichiarato non spettare al pubblico ministero, in persona del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bologna, rinnovare la richiesta di rinvio a giudizio utilizzando fonti di prova acquisite in violazione del segreto di Stato già accertata con la precedente sentenza della Corte costituzionale n. 110 dello stesso anno ed ha annullato la richiesta di rinvio a giudizio in data 5 maggio 1998;

 che, con le sentenze n. 110 e 410 del 1998, questa Corte ha già disposto l’inutilizzabilità nel processo degli atti di cui si tratta, non in applicazione dell’impugnato art. 256 cod. proc. pen., bensì in ragione dei princìpi costituzionali posti a tutela del segreto di Stato e del principio di correttezza e lealtà che deve ispirare i rapporti tra autorità giudiziaria e Presidente del Consiglio dei ministri, assunti a parametro per la risoluzione dei conflitti di attribuzione sollevati da quest’ultimo, non potendo i conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato essere definiti in applicazione di scelte rimesse al legislatore ordinario (sentenza n. 385 del 1996);

 che, in particolare, con la sentenza n. 410 del 1998, questa Corte ha già inoppugnabilmente definito la controversia in merito all’utilizzabilità degli stessi atti, sui quali è stato opposto e confermato il segreto di Stato, cui fa riferimento il giudice a quo, statuendo in via definitiva sulla non spettanza al pubblico ministero del potere di utilizzarli ed annullando la richiesta di rinvio a giudizio basata sugli stessi;

 che, derivando inequivocabilmente, e in via definitiva, la sanzione dell’inuti­lizza­bilità degli atti di cui si tratta, non già dall’art. 256 cod. proc. pen., bensì dalle due citate sentenze della Corte costituzionale, sottratte dall’art. 137, ultimo comma, della Costituzione, a qualsiasi forma, anche indiretta o impropria, di impugnazione, il giudice a quo avrebbe dovuto rilevarla d’ufficio a norma dell’art. 191, comma 2, cod. proc. pen.;

 che, per le ragioni su esposte, non residuava nel procedimento penale a quo alcuno spazio per fare applicazione, ai fini dell’identificazione degli atti non utilizzabili, dell’art. 256 cod. proc. pen., né quindi per dubitare della sua legittimità costituzionale;

 che, pertanto, la sollevata questione di legittimità costituzionale si appalesa ictu oculi irrilevante e deve essere dichiarata manifestamente inammissibile.

 Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 256 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 101, secondo comma, e 112 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bologna con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 luglio 2000.

Cesare MIRABELLI, Presidente

Fernanda CONTRI, Redattore

Depositata in cancelleria il 24 luglio 2000.