SENTENZA N.
227
ANNO 2010
Commento alla
decisione di
Chiara Amalfitano,
Il
mandato d'arresto europeo nuovamente al vaglio della Consulta
(per gentile concessione del Forum dei Quaderni Costituzionali)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
composta dai signori:
–
–
–
–
–
–
– Luigi MAZZELLA "
– Gaetano SILVESTRI "
–
– Maria
– Giuseppe TESAURO "
–
– Giuseppe FRIGO "
– Alessandro CRISCUOLO "
– Paolo GROSSI "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 18,
comma 1, lettera r), e 19, comma 1,
lettera c), della legge 22 aprile
2005, n. 69 (Disposizioni per conformare
il diritto interno alla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13
giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna
tra Stati membri), promossi dalla Corte di cassazione
con ordinanze del 27 agosto, del 4 settembre, del 28 ottobre e dell’11 novembre
2009, rispettivamente iscritte ai nn. 298 e 305 del registro ordinanze 2009 ed
ai nn. 10 e 45 del registro ordinanze 2010 e pubblicate nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica nn. 50 e 52, prima serie speciale, dell’anno
2009 e nn. 5 e 9, prima serie speciale, dell’anno 2010.
Visti l’atto di costituzione di M.K.P. nonché gli atti di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica dell’11 maggio 2010 e nella
camera di consiglio del 12 maggio 2010 il Giudice relatore
uditi l’avvocato Antonio Fiorella per M.K.P. e l’avvocato
dello Stato Maurizio Fiorilli per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.–
1.1.– Il giudice a quo espone che il Tribunale circondariale di Rzeszow (Polonia),
in data 6 luglio
Il condannato deve ancora espiare la
pena di anni 3, mesi 1 e giorni 22 di reclusione e dagli atti acquisiti nel
giudizio, secondo l’ordinanza di rimessione, risulta che egli ha effettiva
residenza in Italia ed ha qui stabilito la sede principale anche dei suoi
interessi affettivi.
Avverso detta sentenza ha proposto
ricorso per cassazione M.K.P., eccependo che erroneamente non sarebbe stato
applicato l’art. 19, comma 1, lettera c),
della legge n. 69 del 2005, pur ricorrendone i presupposti, e censurando il
difetto di motivazione in ordine all’effettività e continuità della sua
residenza in Italia. Il ricorrente ha, inoltre, richiamato le conclusioni rese
il 24 marzo 2009 dall’Avvocato generale della Corte di giustizia delle Comunità
europee, nella causa
C–123/08, promossa dal Rechtbank di Amsterdam, avente ad oggetto
l’interpretazione della Decisione quadro del Consiglio del 13 giugno 2002, n.
2002/584/GAI, «Decisione quadro del Consiglio relativa al mandato d’arresto
europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri» (in seguito denominata
decisione quadro), formulate nel senso che, «in conformità dell’art. 4, punto
6, della decisione quadro», un cittadino di un altro Stato membro che dimori o
risieda nello Stato membro di esecuzione, ai sensi di questa disposizione, è
assimilato a un cittadino di tale Stato nel senso che deve poter beneficiare di
«una decisione di non esecuzione della consegna e della possibilità di scontare
la pena nel detto Stato», ed ha quindi chiesto la sospensione del giudizio sino
all’esito della decisione da parte di detta Corte.
1.2.–
Secondo il rimettente, la censura con la
quale il ricorrente ha dedotto l’applicabilità nella specie dell’art. 19, comma
1, lettera c), della legge n. 69 del
2005 è infondata. Tale norma prevede, infatti, che, «se la persona oggetto del
mandato d’arresto europeo ai fini di un’azione penale è cittadino o residente
dello Stato italiano, la consegna è subordinata alla condizione che la persona,
dopo essere stata ascoltata, sia rinviata nello Stato membro di esecuzione per
scontarvi la pena o la misura di sicurezza privative della libertà personale eventualmente
pronunciate nei suoi confronti nello Stato membro di emissione». Dunque, la
disposizione stabilisce, univocamente, che «soltanto "la persona giudicanda”
(cittadino o residente dello Stato), e per la quale è appunto in corso l’azione
penale», può invocare la «consegna subordinata», con conseguente impossibilità
di applicarla, mediante un’interpretazione costituzionalmente orientata o per
analogia, al diverso caso del mandato d’arresto emesso ai fini della esecuzione
di una pena detentiva irrogata con sentenza di condanna irrevocabile.
1.3.– Posta questa premessa, il giudice a quo dubita, in riferimento agli artt.
3, 27, terzo comma, e 117, primo comma, Cost., della legittimità costituzionale
del citato art. 18, comma 1, lettera r),
nella parte in cui non prevede che anche lo straniero residente in Italia possa
ivi scontare la pena.
In punto di rilevanza, osserva che il
ricorrente, «a quanto risulta, ha fornito la prova necessaria, e nei termini
richiesti dalla giurisprudenza di questa Corte, del suo concreto radicamento
sul territorio e della sua abitudine alla dimora» (così, testualmente) in
Italia.
A suo avviso, la nozione di «residente»
va «determinata in modo che sia funzionale all’assimilazione dello straniero
residente al cittadino, operata dall’art. 4, punto 6, della citata
decisione–quadro», quindi «assume rilievo l’esistenza, nella specie non
contestata, di un "radicamento reale e non estemporaneo” dello straniero in
Italia», qualora questi abbia dimostrato che qui ha «istituito, con continuità
temporale e sufficiente stabilità territoriale, la sede principale e non
occasionale, anche se non esclusiva, dei propri interessi affettivi,
professionali od economici», in virtù di una scelta indicativa di una volontà
di stabile permanenza nel territorio italiano, per un apprezzabile periodo di
tempo. Dunque, il ricorrente «avrebbe titolo a vedere accolta la sua domanda»,
nel caso in cui la questione sia ritenuta fondata.
1.3.1.– In ordine alla non manifesta
infondatezza della questione, il rimettente richiama le sentenze della Corte di
cassazione, secondo le quali la norma censurata concerne esclusivamente il
cittadino italiano, affermando che neppure in via interpretativa essa è
applicabile allo straniero che dimori o risieda in Italia. La decisione quadro
attribuirebbe, infatti, una mera facoltà agli Stati membri dell’Unione europea
di estendere le guarentigie eventualmente riconosciute ai propri cittadini
anche agli stranieri residenti sul loro territorio, in virtù di una scelta di
politica criminale riservata alla discrezionalità dei legislatori nazionali,
neppure censurabile per l’eventuale sua irragionevolezza. Su tale facoltà non
avrebbe inciso la sentenza
della Corte di giustizia del 17 luglio 2008, n. 66, Kozlowsky, che ha soltanto offerto l’interpretazione della
nozione di residenza richiamata nell’art. 4, punto 6, di detta decisione
quadro.
La chiara ed univoca lettera del citato
art. 18, comma 1, lettera r), e la
sua comparazione con l’art. 19, comma 1, lettera c), della legge n. 69 del 2005 non permetterebbero una
interpretazione diversa e meno restrittiva di quella offerta nella sentenza
impugnata. Anche
Il rimettente sintetizza, quindi, gli
argomenti svolti dall’Avvocato generale presso
Identiche ragioni, a suo avviso,
sarebbero alla base dell’art. 5, punto 3, della citata decisione quadro
(concernente il mandato d’arresto processuale), il quale, al fine che qui
interessa, parifica la posizione del cittadino a quella del residente,
escludendo che il legislatore nazionale possa differenziarle. Pertanto, non
sarebbe giustificata la disciplina stabilita nella norma censurata, che opera
una tale differenza, e ciò anche in quanto l’art. 19, comma 1, lettera c), della legge n. 69 del 2005,
concernente il mandato d’arresto europeo «processuale», parifica invece il
secondo al primo.
Il rimettente sostiene che il «principio
di individualizzazione del regime di (futura) esecuzione» della pena non
tollera una distinzione tra cittadino italiano e straniero residente nel
territorio dello Stato, poiché esso è preordinato ad «accrescere le opportunità
di inserimento del condannato nel tessuto relazionale, sociale, affettivo, ma
anche economico ed abitativo, più funzionale allo sviluppo delle potenzialità
socializzanti e rieducative della pena, inflitta (oppure infliggenda) dallo
Stato di emissione, ma della cui positiva operatività vengono a trarre diretto
ed immediato beneficio sia lo Stato di esecuzione, in quanto Stato della
cittadinanza o della residenza del consegnando, sia gli altri Stati dell’Unione
europea», come sottolineato dall’Avvocato generale della Corte di giustizia
nelle conclusioni sopra richiamate.
Lo scopo degli artt. 4, punto 6, e 5,
punto 3, della citata decisione quadro è coerente con il principio della
finalità rieducativa della pena, stabilito dall’art. 27, terzo comma, Cost.,
con la conseguenza che la disciplina stabilita dalla norma censurata violerebbe
anche detto parametro.
Sotto un ulteriore profilo, poiché nel
caso in esame si tratta di un cittadino di uno Stato membro dell’Unione
europea, l’art. 18, comma 1, lettera r),
della legge n. 69 del 2005 si porrebbe in contrasto con il principio di non
discriminazione stabilito dall’art. 12 del Trattato del 15 marzo 1957 (Trattato
che istituisce
Pertanto, la norma censurata violerebbe
l’art. 117, primo comma, Cost., poiché non risulterebbero osservati i «vincoli
derivanti dall’ordinamento comunitario» e l’art. 27, terzo comma, Cost.
1.3.2.– In linea subordinata, e per il
caso in cui le censure riferite ai suindicati parametri costituzionali siano
giudicate infondate, il giudice a quo
prospetta che l’art. 18, comma 1, lettera r),
della legge n. 69 del 2005, violerebbe l’art. 3 Cost.
A suo avviso la diversità della
disciplina rispettivamente stabilita da detta norma e dall’art. 19, comma 1,
lettera c), della stessa legge
sarebbe, infatti, priva di ragionevole giustificazione; anzi, nel caso
disciplinato dalla prima disposizione l’esecuzione della pena in Italia
consente al condannato il mantenimento, per quanto possibile, delle sue
relazioni familiari e sociali, mentre in quello oggetto della seconda il
destinatario del mandato d’arresto deve essere consegnato allo Stato a cui
appartiene l’autorità che lo ha emesso e la restituzione all’Italia, per
scontare la pena, è destinata ad avvenire quando tali rapporti hanno subito un
affievolimento. Dunque, nella fattispecie disciplinata dal citato art. 19,
comma 1, lettera c), l’esecuzione
della condanna nello Stato di emissione sarebbe meno dannosa che nel caso
oggetto della norma censurata.
2.– Nel giudizio innanzi alla Corte si è
costituito M. K. P., ricorrente nel processo principale, chiedendo che la
questione sia accolta.
A conforto della rilevanza, la parte
deduce che nel giudizio a quo è stato
accertato che egli risiede «effettivamente e stabilmente in Italia con il
proprio nucleo familiare», quindi la dichiarazione di illegittimità
costituzionale della norma censurata gli permetterebbe di espiare la pena in
Italia, con conseguente rilevanza delle censure.
M.K.P. fa, quindi, proprie le
argomentazioni svolte nell’ordinanza di rimessione che, sostanzialmente,
riproduce per sostenere che l’art. 18, comma 1, lettera r), della legge n. 69 del 2005 violerebbe l’art. 27, terzo comma,
Cost., il quale, secondo la giurisprudenza di questa Corte, che richiama,
vieterebbe che siano previste modalità di esecuzione della pena le quali
«azzerino sostanzialmente i rapporti, le situazioni e i contesti personali e
che comunque ne ostacolino irragionevolmente la prosecuzione, compatibilmente
con l’esecuzione della pena e nel costante rispetto del principio di
proporzione». Questo risultato sarebbe, invece, realizzato dalla norma
censurata che comporterebbe anche l’impossibilità per lo straniero, pur
residente in Italia, una volta consegnato all’autorità dello Stato di emissione
del mandato di arresto, di «accedere alle misure alternative previste dalla
legge penitenziaria dello Stato italiano», alle quali «il legislatore collega
effetti sospensivi ed estintivi della pena» e «che potrebbero consentirgli di
conservare – sempre nel limite di compatibilità con i fini della pena – i
legami che lo avvincono al territorio ove stabilmente risiede».
Il citato art. 18, comma 1, lettera r), non ragionevolmente impedirebbe allo
straniero un «effettivo recupero», reso possibile anche dalla «vicinanza del
condannato al suo tessuto esistenziale», «criterio espressamente menzionato
dall’ordinamento penitenziario nella disciplina delle assegnazione e dei
trasferimenti ai diversi istituti di pena» (artt. 12 e 42 della legge 26 luglio
1975, n. 354), impedendogli di fruire dei benefici previsti dall’ordinamento
penitenziario italiano, che gli permetterebbero di avere rapporti di lavoro
utili al sostentamento della propria famiglia, evitando che la pena, in
violazione del principio di proporzione, abbia un contenuto afflittivo
eccedente quello strettamente necessario.
Secondo la parte, «l’effetto di
sradicamento» prodotto da detta norma recherebbe vulnus anche al diritto inviolabile all’unità della famiglia
stabilito dagli artt. 2, 29 e 30 Cost., ed al diritto al rispetto dell’unità
familiare sancito dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo
(Cedu), ratificata con legge 4 agosto 1955, n. 848.
A suo avviso la norma censurata, in
violazione dell’art. 3 Cost., non ragionevolmente prevedrebbe una diversità di
disciplina tra il mandato di arresto avente ad oggetto una pena e quello
cosiddetto processuale, potendo anzi ritenersi giustificato, contrariamente a
quanto stabilito, che in relazione al secondo lo straniero non possa espiare la
pena in Italia.
Il citato art. 18, comma 1, lettera r), sarebbe, inoltre, in contrasto con
la garanzia della libertà di circolazione e di soggiorno spettante ai cittadini
dei Paesi dell’Unione europea, in violazione degli artt. 12, 18 e 49 del
Trattato CE, disposizioni che «si collocano propriamente nell’istituto della
cittadinanza dell’Unione», che ha assunto maggiore rilevanza con il Trattato di
Lisbona, data la sua collocazione nell’art.
Il ricorrente, a conforto della
denunciata violazione delle norme comunitarie, richiama quindi la sentenza della
Corte di giustizia del 6 ottobre 2009, n. 123, secondo la quale «gli Stati
membri non possono, nell’ambito dell’attuazione di una decisione quadro, recare
pregiudizio al diritto comunitario, in particolare alle disposizioni del
Trattato CE relative alla libertà riconosciuta a qualsiasi cittadino
dell’Unione di circolare e di soggiornare liberamente sul territorio degli
Stati membri» e la discrezionalità attribuita agli Stati membri nel
disciplinare i limiti della consegna del destinatario del mandato di arresto
non può essere esercitata in modo irragionevole e discriminatorio e deve essere
ispirata alla finalità di «aumentare le opportunità di reinserimento sociale
della persona ricercata alla scadenza della pena cui quest’ultima è stata
condannata».
La norma censurata violerebbe la libertà
di circolazione e soggiorno stabilita dalle norme comunitarie ed il divieto di
discriminazioni fondato sulla nazionalità. La violazione del diritto di
soggiornare nel territorio dello Stato appare ancora più chiara, qualora lo
straniero risieda da lungo tempo in Italia, tenuto conto del disposto dell’art.
9, comma 1, lettera d), della legge 5
febbraio 1992, n. 91 (Nuove norme sulla cittadinanza), il quale prevede che può
essere concessa la cittadinanza italiana «al cittadino di uno Stato membro
delle Comunità europee se risiede legalmente da almeno quattro anni nel
territorio della Repubblica».
Il diritto del cittadino di uno Stato
membro dell’Unione europea di stabilirsi in altro Stato membro della medesima e
di soggiornarvi senza limite di tempo è disciplinato anche dalla direttiva 29
aprile 2004, n. 2004/38/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio
relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare
e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, che modifica il
regolamento (CEE) n. 1612/68 ed abroga le direttive 64/221/CEE, 68/360/CEE,
72/194/CEE, 73/148/CEE, 75/34/CEE, 75/35/CEE, 90/364/CEE, 90/365/CEE e
93/96/CEE), la quale stabilisce che «la cittadinanza dell’Unione conferisce a
ciascun cittadino dell’Unione il diritto primario e individuale di circolare e
di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri» e che «la
cittadinanza dell’Unione dovrebbe costituire lo status fondamentale dei cittadini degli Stati membri quando essi
esercitano il loro diritto di libera circolazione e di soggiorno» (secondo e
terzo "considerando”). Il ventesimo "considerando” dispone, quindi, che «ogni
cittadino dell’Unione e i suoi familiari il cui soggiorno in uno Stato membro è
conforme alla presente direttiva dovrebbero godere in tale Stato membro della
parità di trattamento rispetto ai cittadini nazionali nel campo d’applicazione
del trattato, fatte salve le specifiche disposizioni previste espressamente dal
trattato e dal diritto derivato», principio al quale si conformano gli artt. 24
e 27 della direttiva, i quali, rispettivamente, stabiliscono il principio della
parità di trattamento e prevedono che il diritto di circolazione può subire limitazioni
soltanto per ragioni di ordine pubblico, sicurezza pubblica e sanità, che sono
espressamente identificate.
Siffatta direttiva è stata attuata dal
decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 30 (Attuazione della direttiva
2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari
di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri),
che ha disciplinato le limitazioni al diritto di ingresso e soggiorno nell’art.
20, stabilendo una disciplina che conferma il principio in virtù del quale
l’esistenza di condanne penali non giustifica di per sé l’adozione di un
provvedimento, come invece prevedrebbe la norma censurata.
Infine, secondo la parte, neppure può
ritenersi che il citato art. 18, comma 1, lettera r), abbia la finalità di dare piena attuazione alla collaborazione
tra gli Stati membri, realizzata anche mediante il riconoscimento delle
sentenze emesse in ciascuno di essi, dato che questo, nell’attuale stato della
legislazione, trova un limite nel caso in cui la pronuncia concerna un
cittadino italiano, mentre la norma censurata escluderebbe che tale limite
venga in rilievo in riferimento allo straniero residente in Italia.
3.– Nel giudizio è intervenuto il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata.
A suo avviso, il rimettente non avrebbe
esplicitato le ragioni che possano far ritenere omologhe, al fine che qui interessa,
la situazione del cittadino italiano e dello straniero che risiede in Italia e
la questione sollevata «poggia contraddittoriamente sulla negazione del potere
discrezionale» del legislatore nazionale di differenziare dette situazioni.
La difesa dello Stato riproduce il
quinto, il settimo e l’ottavo "considerando” della decisione quadro n.
2002/584/GAI, sostenendo che obiettivo di tale atto è di abolire, tra gli Stati
membri, la procedura di estradizione, sostituendola con un sistema di consegna tra
autorità giudiziarie, che appare quindi, fondato sul principio del reciproco
riconoscimento delle decisioni in materia penale, che è alla base della
cooperazione giudiziaria tra detti Stati.
L’interveniente trascrive l’art. 1 della
citata decisione quadro, nonché gli artt. 2 e 3, concernenti le condizioni che
rendono ammissibile l’esecuzione del mandato d’arresto europeo; osserva che
l’art. 4, punto 6, dispone che, «se il mandato d’arresto europeo è stato
rilasciato ai fini dell’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza
privative della libertà, qualora la persona ricercata dimori nello Stato membro
di esecuzione, ne sia cittadino o vi risieda, se tale Stato si impegni a
eseguire esso stesso tale pena o misura di sicurezza conformemente al suo diritto
interno», mentre l’art. 5, punto 3, prevede che, «se la persona oggetto del
mandato d’arresto europeo ai fini di un’azione penale è cittadino o residente
dello Stato membro di esecuzione, la consegna può essere subordinata alla
condizione che la persona, dopo essere stata ascoltata, sia rinviata nello
Stato membro di esecuzione per scontarvi la pena o la misura di sicurezza
privative della libertà eventualmente pronunciate nei suoi confronti nello
Stato membro emittente»; sintetizza la disciplina stabilita dagli artt. 11, 15
e
Posta questa premessa, la difesa
erariale deduce che la sentenza della
Corte di giustizia del 17 luglio 2008, causa C–66/08, Kozłowski, ha affermato che l’art. 4, punto 6, della
citata decisione quadro va interpretato nel senso che una persona ricercata
abbia fissato la residenza effettiva nello Stato membro dove deve essere
eseguito il mandato d’arresto, ovvero abbia nello stesso la propria dimora,
allorchè ci si trovi in presenza di un soggiorno stabile di una certa durata,
che permetta di acquisire con tale Stato quei legami di particolare intensità
che si instaurano in caso di residenza, dovendo le nozioni di «residenza» e
«dimora» essere identiche per tutti gli Stati dell’Unione europea.
La sentenza confermerebbe che la
decisione quadro non equipara il cittadino al dimorante e al residente e che il
parametro di riferimento per non dare corso al mandato di arresto sarebbe
costituito dal livello di integrazione del destinatario del mandato di arresto
con lo Stato dove esso deve essere eseguito.
L’interveniente riproduce, quindi, ampi
brani della sentenza
della Corte di giustizia del 6 ottobre 2009, C–123/08, Wolzenburg, secondo la quale l’art. 4, punto 6, della citata
decisione quadro attribuirebbe al legislatore nazionale la facoltà di
disciplinare diversamente la situazione del cittadino e quella dello straniero
residente nel territorio dello Stato. Siffatta facoltà ha costituito oggetto
degli artt. 18 e 19 della legge n. 69 del 2005, che la difesa erariale si
limita a trascrivere, affermando che tali disposizioni «costituiscono
presupposto per la valutazione delle scelte operate in merito alla consegna del
destinatario di un mandato d’arresto europeo», senza svolgere ulteriori
considerazioni.
Relativamente alle censure riferite agli
artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., l’interveniente osserva che l’art. 4, punto
6, della decisione quadro disciplina il caso in cui può essere rifiutata la
consegna del destinatario del mandato d’arresto, stabilendo una disciplina
ispirata alla finalità di favorire il reinserimento sociale del condannato,
tenendo conto dei legami che egli ha in un determinato Stato. Tuttavia, a suo
avviso, questa finalità, secondo
La "cittadinanza”, la "residenza” e la
"dimora” identificherebbero l’ambito della discrezionalità riservata agli Stati
membri che, in base ad esse, possono apprezzare se la condanna comprometta la
politica criminale scelta; la ragione della mancata consegna «sta all’evidenza
nell’interesse dell’Italia a che la rieducazione del condannato avvenga con
riferimento alla società italiana anche se il valore sociale vulnerato non è
condiviso dalla società italiana».
In definitiva, conclude l’Avvocatura,
«la ragione per la quale non è concessa la consegna del cittadino italiano per
espiare una condanna inflitta dal giudice naturale del "fatto reato” è
chiaramente quella del disvalore sociale della condotta di un cittadino che si
sottrae alla responsabilità contratta con la commissione di un reato nello
Stato richiedente; mentre per il caso del "residente” il disvalore per la sua
condotta nulla ha a che fare con la sua personalità e con le ragioni che lo
hanno condotto ad esercitare il diritto di stabilimento in via strumentale»,
con conseguente infondatezza della questione.
4.–
4.1.– La prima ordinanza (r.o. n. 305
del 2009) espone che M.C.N., cittadino rumeno, è stato arrestato in Italia l’11
giugno
Avverso detta pronuncia ha proposto
ricorso per cassazione M.C.N., deducendone l’erroneità, in quanto non ha
ritenuto applicabile quest’ultima norma, ed eccependo la mancanza e/o manifesta
illogicità della motivazione e la violazione di legge, nella parte in cui ha
escluso l’applicabilità dell’art. 19, comma 1, lettera c), della legge n. 69 del 2005.
4.2.– La seconda ordinanza (r.o. n. 10
del 2010) osserva che P.S., cittadino polacco residente in Italia, è
destinatario di un mandato d’arresto europeo emesso dal Tribunale di Katowice
il 4 novembre
P.S. ha proposto ricorso per cassazione
avverso detta sentenza deducendo l’erronea applicazione delle norme sul mandato
di arresto europeo e la violazione dell’art. 5 della decisione quadro n.
2002/584/GAI, in considerazione della disparità di trattamento realizzata tra
cittadini dell’Unione e della sostanziale violazione del diritto dello
straniero di scontare la pena definitiva nello Stato nel quale, per libera
scelta ed in attuazione del principio di libera circolazione, ha stabilito il
centro dei propri interessi.
4.3.– La terza ordinanza (r.o. n. 45 del
2010) deduce che A.S., cittadino romeno, è stato attinto da un mandato di
arresto europeo del 27 marzo 2007, emesso in esecuzione della sentenza
irrevocabile, pronunciata dal Tribunale di Husi il 24 giugno 2004, per il reato
di guida in stato di ebbrezza, commesso in detta città il 6 agosto 2003;
Avverso detta sentenza ha proposto
ricorso per cassazione P.S., deducendo la violazione dell’art. 7 della legge n.
69 del
Il ricorrente, all’udienza camerale, ha
chiesto di potere scontare la pena in Italia.
4.4.– Le ordinanze di rimessione, poste
tali premesse, dubitano, in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, e 117,
primo comma, Cost., della legittimità costituzionale del citato art. 18, comma
1, lettera r), della legge n. 69 del
2005, nella parte in cui prevede che il destinatario del mandato d’arresto
europeo «emesso ai fini della esecuzione di una pena o di una misura di
sicurezza privative della libertà personale» possa scontare la pena in Italia,
esclusivamente qualora «sia cittadino italiano».
Secondo i giudici a quibus, la questione sarebbe rilevante, poiché i ricorrenti hanno
fornito la prova necessaria del loro «concreto radicamento sul territorio» e
della loro stabile ed abituale dimora in Italia, sicché avrebbero titolo a
vedere accolta la domanda, qualora la norma censurata sia dichiarata
costituzionalmente illegittima.
I rimettenti motivano, quindi, la non
manifesta infondatezza in relazione ai parametri evocati riproducendo, quasi
testualmente, le argomentazioni svolte nell’ordinanza di rimessione della Corte
di cassazione del 27 agosto 2009, sopra sintetizzata, anche in ordine
all’impossibilità di superare il dubbio di illegittimità mediante
un’interpretazione costituzionalmente orientata.
5.– Nel giudizio introdotto
dall’ordinanza r.o. n. 10 del 2010,
6.– In tutti i giudizi dinanzi a questa
Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che, nei distinti atti, di contenuto
sostanzialmente identico, ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata,
riproducendo a conforto gli argomenti svolti nell’atto di intervento relativo
al giudizio introdotto dall’ordinanza n. 298 del 2009, sopra sintetizzato.
Considerato in diritto
1.– Vengono all’esame della Corte
quattro ordinanze di rimessione (r.o. n. 298 e 305 del 2009 e r.o. n. 10 e 45
del 2010) – la prima trattata all’udienza pubblica dell’ 11 maggio 2010 e le
altre nella camera di consiglio del successivo 12 maggio – con le quali
1.1.– In virtù
dell’identità delle questioni sollevate e degli argomenti utilizzati va
disposta la riunione dei giudizi, ai fini di un’unica trattazione e di un’unica
pronuncia.
2.– I rimettenti
deducono, in primo luogo, la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in
quanto la norma dell’Unione europea che integra il parametro costituzionale,
l’art. 4, punto 6, della decisione quadro del Consiglio del 13 giugno 2002, n.
2002/584/GAI, «Decisione quadro del Consiglio relativa al mandato d’arresto
europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri» (in seguito denominata
decisione quadro), attribuisce al legislatore nazionale la facoltà di prevedere
che l’autorità giudiziaria rifiuti la consegna del condannato ai fini
dell’esecuzione della pena detentiva nello Stato emittente quando si tratti di
un cittadino dello Stato dell’esecuzione, ovvero ivi risieda o vi abbia dimora,
ma non consentirebbe di limitare il rifiuto al solo cittadino, come viceversa
ha disposto la norma censurata della legge italiana di attuazione della
decisione quadro.
2.1.– Inoltre, e di
conseguenza, la disposizione in esame, nel dare attuazione in modo non corretto
alla disposizione corrispondente della decisione quadro, avrebbe violato anche
il principio di non discriminazione in base alla nazionalità (art. 12 del
Trattato CE, nella versione in vigore fino al 30 novembre 2009, poi art. 18
TFUE, Trattato sul funzionamento dell’Unione europea), in quanto ha negato in
modo assoluto al cittadino di altro Stato membro dell’Unione la possibilità
della detenzione in Italia, che ha invece consentito al cittadino italiano.
2.2.– In linea
subordinata, i rimettenti ritengono che la possibilità di espiare la pena nello
Stato del quale il destinatario del mandato di arresto europeo (in seguito,
MAE) è cittadino o nel quale risiede o dimora è diretta a garantire la
«risocializzazione del condannato», mediante la conservazione dei suoi legami
familiari e sociali, allo scopo di facilitarne il corretto reinserimento al
termine dell’esecuzione della pena, funzione, questa, che costituisce
attuazione della finalità rieducativa della pena sancita dall’art. 27, terzo
comma, Cost. Ne conseguirebbe la violazione anche di questo parametro
costituzionale, che al riguardo non consentirebbe una discriminazione tra
cittadino italiano e cittadino di altro Stato membro dell’Unione.
2.3.– In linea
subordinata, e per il caso chele censure riferite ai suindicati parametri
costituzionali non fossero giudicate fondate, i rimettenti deducono che la
citata disposizione contrasterebbe altresì con l’art. 3 Cost., poiché sarebbe
priva di ragionevole giustificazione la diversità di disciplina stabilita dalla
medesima rispetto all’art. 19, comma 1, lettera c), della legge n. 69 del 2005. Quest’ultima norma riguarda
l’ipotesi di MAE finalizzato allo svolgimento del processo penale e pone sullo
stesso piano il cittadino e il residente nel subordinare la consegna a
determinate condizioni.
2.4.– In punto di
rilevanza, i giudici a quibus precisano
che le persone per le quali sono stati emessi i MAE ai fini dell’esecuzione
della pena risiedono legittimamente in Italia, in quanto hanno fornito la prova
di un "concreto radicamento sul territorio” e di "abitudine alla dimora”; in
breve, di un "radicamento reale e non estemporaneo” in Italia, avendo qui
individuato la sede principale dei loro interessi. I rimettenti deducono,
pertanto, che tali soggetti hanno titolo a che, se la sospetta
incostituzionalità della norma impugnata venisse accertata, la consegna sia
rifiutata e la pena detentiva espiata in Italia.
3.– Preliminarmente,
in relazione al giudizio relativo all’ordinanza iscritta al r.o. n. 10 del
2010, va rilevato che la rinuncia al ricorso, trasmessa dalla Corte di
cassazione, con nota del 17 febbraio 2010, non può esplicare effetti sul
giudizio di legittimità costituzionale, in quanto questo, «una volta iniziato
in seguito ad ordinanza di rinvio del giudice rimettente non è suscettibile di
essere influenzato da successive vicende di fatto concernenti il rapporto
dedotto nel processo che lo ha occasionato», come previsto dall’art. 18 delle
norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, nel testo
approvato il 7 ottobre 2008 (in riferimento all’identica norma contenuta in
precedenza nell’art. 22: sentenza n. 244 del
2005; ordinanze n. 270 del 2003
e n. 383 del
2002).
3.1.– Ancora in limine, deve rilevarsi che i
parametri ed i profili di costituzionalità, evocati dalla parte privata
costituita nel giudizio innanzi a questa Corte, introdotto dall’ordinanza r.o.
n. 298 del 2009, e diversi da quelli evocati dal giudice rimettente, non
possono formare oggetto della decisione. Secondo la costante giurisprudenza di
questa Corte, l’oggetto del giudizio di costituzionalità in via incidentale è,
infatti, limitato alle norme ed ai parametri indicati, pur se implicitamente,
nelle ordinanze di rimessione, non potendo essere presi in considerazione,
oltre i limiti in queste fissati, ulteriori questioni o profili di
costituzionalità dedotti dalle parti, sia che siano stati eccepiti ma non fatti
propri dal giudice a quo, sia che
siano diretti ad ampliare o modificare successivamente il contenuto delle
stesse ordinanze (sentenze n. 50 del 2010;
n. 236 e n. 56 del 2009;
n. 130 del 2008).
4. – Nel merito la
questione relativa alla violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., è
fondata.
5.– La censura principale svolta nelle
quattro ordinanze denuncia un contrasto, insanabile in via interpretativa, tra
una norma interna e la disposizione di un atto dell’Unione europea alla quale
la prima ha dato attuazione.
L’atto dell’Unione che
viene in rilievo è la decisione quadro n. 584 del 2002, relativa al MAE. Con
tale atto gli Stati membri hanno sostituito, nei loro rapporti reciproci, la
procedura di estradizione prevista da più convenzioni internazionali con un
sistema semplificato, diretto, per quanto qui interessa, alla consegna da uno
Stato membro (di esecuzione) ad un altro (di emissione) di soggetti da
sottoporre a giudizio penale ovvero già condannati e che devono espiare una
pena detentiva: la seconda ipotesi è quella di specie. Il quinto "considerando”
della decisione quadro spiega che la creazione di uno spazio di libertà,
sicurezza e giustizia impone la soppressione dell’estradizione tra Stati membri
e la sua sostituzione con un sistema di consegna tra autorità giudiziarie. Il
decimo "considerando” indica che la decisione quadro si fonda su un «elevato
grado di fiducia tra gli Stati membri», sul presupposto della omogeneità di
sistemi giuridici e sulla garanzia equivalente dei diritti fondamentali.
L’introduzione del
nuovo sistema semplificato di consegna delle persone condannate o imputate
consente, in breve, di eliminare la complessità e i potenziali ritardi inerenti
alla disciplina dell’estradizione. Questa Corte ha in proposito rilevato che
«Il mandato d’arresto europeo poggia sul principio dell’immediato e reciproco
riconoscimento del provvedimento giurisdizionale. Tale istituto, infatti, a
differenza dell’estradizione non postula alcun rapporto intergovernativo, ma si
fonda sui rapporti diretti tra le varie autorità giurisdizionali dei Paesi
membri, con l’introduzione di un nuovo sistema semplificato di consegna delle
persone condannate o sospettate» (sentenza n. 143 del
2008).
Il sistema del MAE, in
definitiva, dà luogo ad un rapporto semplificato e diretto fra autorità
giudiziarie, volto a consentire la circolazione delle decisioni giudiziarie
aventi ad oggetto un mandato, in funzione di un processo penale ovvero
dell’esecuzione di una pena detentiva. L’obiettivo è stato poi sancito anche
nella successiva decisione quadro del Consiglio, 27 novembre 2008, n.
2008/909/GAI «relativa all’applicazione del principio del reciproco
riconoscimento alle sentenze penali che irrogano pene detentive o misure
privative della libertà personale, ai fini della loro esecuzione nell’Unione
europea». Tale decisione èentrata in vigore il 5 dicembre 2008, mentre il
termine di trasposizione per gli Stati membri è il 5 dicembre 2011 (art. 29,
par. 1).
La decisione quadro n.
584 del 2002 relativa al MAE è un atto posto in essere nel periodo nel quale,
in forza dei Trattati di Maastricht e poi di Amsterdam, fu introdotto un ambito
di competenze dell’Unione europea relative alla cooperazione di polizia e
giudiziaria in materia penale (c.d. terzo pilastro), esercitate con modalità
(metodo intergovernativo) e strumenti normativi almeno formalmente diversi da
quelli comunitari. In particolare, per il ravvicinamento delle disposizioni
legislative e regolamentari degli Stati membri in questa materia, il Consiglio
adottava, su iniziativa di uno o più Stati membri o della Commissione, una
decisione quadro. L’atto vincolava gli Stati membri «quanto al risultato da
ottenere, salva restando la competenza delle autorità nazionali quanto alla
forma e ai mezzi» (art. 34 TUE), con una formula che ripeteva quella da sempre
utilizzata per le direttive. Sul versante dell’Unione, la decisione quadro
richiedeva l’unanimità del Consiglio, quindi degli Stati membri; sul versante
interno, richiedeva, in quanto espressamente sprovvista della diretta
applicabilità ed efficacia, gli adempimenti dovuti per la sua puntuale
attuazione.
Con il Trattato di
Lisbona, entrato in vigore il 1° dicembre del 2009 e precedentemente oggetto
della legge italiana di adattamento 2 agosto 2008, n. 130 (Ratifica ed
esecuzione del Trattato di Lisbona che modifica il Trattato sull’Unione europea
e il Trattato che istituisce
6.– Alla decisione quadro sul MAE è stata
data attuazione nel nostro ordinamento con la legge 22 aprile 2005, n. 69.
L’articolo 18 prevede
una serie di motivi che rendono obbligatorio il rifiuto della consegna; il
comma 1, lettera r), è la
disposizione che ha inteso dare specifica attuazione all’art. 4, punto 6, della
decisione quadro. Oggetto della presente questione di legittimità
costituzionale è la limitazione del rifiuto al solo cittadino italiano.
7.– I giudici rimettenti hanno evocato il
parametro dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, facendo applicazione,
peraltro, dei principi della giurisprudenza costituzionale in ordine al
complessivo rapporto tra l’ordinamento giuridico italiano e il diritto
dell’Unione europea affermati e ribaditi in forza dell’art. 11 Cost. Secondo la
costante giurisprudenza di questa Corte, la questione di legittimità
costituzionale va «scrutinata avendo riguardo anche ai parametri costituzionali
non formalmente evocati […], qualora tale atto faccia ad essi chiaro
riferimento, sia pure implicito […], mediante il richiamo dei principi da
questi enunciati» (ex multis sentenze
n. 170 del 2008,
n. 26 del 2003,
n. 69 del 1999,
n. 99 del 1997).
Questa Corte, fin dalle prime occasioni nelle quali è stata chiamata a definire il rapporto tra ordinamento nazionale e diritto comunitario, ne ha individuato il "sicuro fondamento” nell’art. 11 Cost. (in particolare, sentenze n. 232 del 1975 e n. 183 del 1973; ma già in precedenza, le sentenze n. 98 del 1965 e n. 14 del 1964). È in forza di tale parametro, collocato non senza significato e conseguenze tra i principi fondamentali della Carta, che si è demandato alle Comunità europee, oggi Unione europea, di esercitare in luogo degli Stati membri competenze normative in determinate materie, nei limiti del principio di attribuzione. È sempre in forza dell’art. 11 Cost. che questa Corte ha riconosciuto il potere-dovere del giudice comune, e prima ancora dell’amministrazione, di dare immediata applicazione alle norme comunitarie provviste di effetto diretto in luogo di norme nazionali che siano con esse in contrasto insanabile in via interpretativa; ovvero di sollevare questione di legittimità costituzionale per violazione di quel parametro costituzionale quando il contrasto fosse con norme comunitarie prive di effetto diretto (sentenze n. 284 del 2007 e n. 170 del 1984). È, infine, in forza delle limitazioni di sovranità consentite dall’art. 11 Cost. che questa Corte ha riconosciuto la portata e le diverse implicazioni della prevalenza del diritto comunitario anche rispetto a norme costituzionali (sentenza n. 126 del 1996), individuandone il solo limite nel contrasto con i principi fondamentali dell’assetto costituzionale dello Stato ovvero dei diritti inalienabili della persona (sentenza n. 170 del 1984).
Quanto all’art. 117,
primo comma, Cost., nella formulazione novellata dalla riforma del titolo
quinto, seconda parte della Costituzione, questa Corte ne ha precisato la
portata, affermando che tale disposizione ha colmato la lacuna della mancata
copertura costituzionale per le norme internazionali convenzionali, ivi
compresa
7.1.– Nel caso in esame,
i rimettenti hanno correttamente valutato, in primo luogo, l’esistenza del
contrasto tra la norma impugnata e la decisione quadro, esplicitando le ragioni
che precludono l’interpretazione conforme. La motivazione sul punto è
plausibile, in quanto numerose decisioni della stessa Corte di cassazione
configurano un "diritto vivente” in ordine all’applicabilità nella specie ed
alla portata dell’art. 18, comma 1, lettera r),
in particolare alla non riferibilità di questa norma allo straniero dimorante o
residente in Italia. Peraltro, tale interpretazione risulta suffragata sia
dalla lettera della disposizione, che dai lavori preparatori, espressivi
dell’intento specifico di escludere per il MAE in executivis il rifiuto di consegna dei cittadini di altri Paesi
dell’UE, esclusione oggetto di uno specifico emendamento.
Ne consegue,
anzitutto, che il contrasto tra la
normativa di recepimento e la decisione quadro, insanabile in via
interpretativa, non poteva trovare rimedio nella disapplicazione della norma nazionale
da parte del giudice comune, trattandosi di norma dell’Unione europea priva di
efficacia diretta, ma doveva essere sottoposto alla verifica di
costituzionalità di questa Corte. In secondo luogo, gli atti nazionali che
danno attuazione ad una decisione quadro con base giuridica nel TUE, ed in
particolare nell’ex terzo pilastro
relativo alla cooperazione giudiziaria in materia penale, non sono sottratti
alla verifica di legittimità rispetto alle conferenti norme del Trattato CE,
ora Trattato FUE, che integrano a loro volta i parametri costituzionali – artt.
11 e 117, primo comma, Cost. – che a quelle norme fanno rinvio.
Nella specie rileva,
infatti, oltre alla decisione quadro sul MAE, l’art. 12 del TCE, oggi art. 18
del TFUE, che vieta ogni discriminazione in base alla nazionalità nel campo di
applicazione del Trattato. Anche sotto tale profilo è corretto il ricorso al
giudice delle leggi, dal momento che il contrasto della norma con il principio
di non discriminazione di cui all’art. 12 del Trattato CE, non è sempre di per
sé sufficiente a consentire la "non applicazione” della confliggente norma
interna da parte del giudice comune. Invero, il divieto in esame, come si
evince anche dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, pur essendo in
linea di principio di diretta applicazione ed efficacia, non è dotato di una
portata assoluta tale da far ritenere sempre e comunque incompatibile la norma
nazionale che formalmente vi contrasti. Al legislatore dello Stato membro,
infatti, è consentito di prevedere una limitazione alla parità di trattamento
tra il proprio cittadino e il cittadino di altro Stato membro, a condizione che
sia proporzionata e adeguata, come, ad esempio, in una fattispecie quale quella
che ci occupa, la previsione di un ragionevole limite temporale al requisito
della residenza del cittadino di uno Stato membro diverso da quello di
esecuzione (Corte
di giustizia, sentenza Wolzenburg).
Non solo, ma a precludere al giudice comune la disapplicazione della norma
interna in ipotesi incompatibile, vale anche la circostanza che nella specie si
verte in materia penale e che un provvedimento straniero che dispone la
privazione della libertà personale a fini di esecuzione della pena nello Stato
italiano non potrebbe essere eseguito in forza di una norma dell’Unione alla
quale non corrisponda una valida norma interna di attuazione (sentenza n. 28 del
2010, punto 5).
L’ipotesi di
illegittimità della norma nazionale per non corretta attuazione della decisione
quadro è riconducibile, pertanto, ai casi nei quali, secondo la giurisprudenza
di questa Corte, non sussiste il potere del giudice comune di «non applicare»
la prima, bensì il potere–dovere di sollevare questione di legittimità
costituzionale, per violazione degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.,
integrati dalla norma conferente dell’Unione, laddove, come nella specie, sia
impossibile escludere il detto contrasto con gli ordinari strumenti ermeneutici
consentiti dall’ordinamento.
8.– La questione di
costituzionalità va dunque scrutinata alla luce dei principi sopra richiamati e
della giurisprudenza della Corte di giustizia in ordine all’interpretazione
della decisione quadro. Al riguardo, infatti, rileva che le sentenze della
Corte di giustizia vincolano il giudice nazionale all’interpretazione da essa
fornita, sia in sede di rinvio pregiudiziale, che in sede di procedura
d’infrazione (sentenze n. 168 del 1991,
n. 389 del 1989
e n. 113 del
1985).
Ora,
Se questa è la ratio della norma della decisione quadro
così come interpretata dalla Corte di giustizia, è agevole dedurre che il
criterio per individuare il contesto sociale, familiare, lavorativo e altro,
nel quale si rivela più facile e naturale la risocializzazione del condannato,
durante e dopo la detenzione, non è tanto e solo la cittadinanza, ma la
residenza stabile, il luogo principale degli interessi, dei legami familiari,
della formazione dei figli e di quant’altro sia idoneo a rivelare la
sussistenza di quel «radicamento reale e non estemporaneo dello straniero in
Italia» che costituisce la premessa in fatto delle ordinanze di rimessione.
Utilizzando il criterio esclusivo della cittadinanza, escludendo qualsiasi
verifica in ordine alla sussistenza di un legame effettivo e stabile con lo
Stato membro dell’esecuzione, la norma impugnata tradisce, in definitiva, non
solo la lettera, ma anche e soprattutto la ratio
della norma dell’Unione europea alla quale avrebbe dovuto dare corretta
attuazione.
Gli Stati membri
certamente avevano la facoltà di prevedere o di non prevedere il rifiuto di
consegna (di «potere discrezionale certo» si legge al riguardo nella sentenza Wolzenburg della Corte di giustizia),
non rientrando l’ipotesi di cui all’art. 4, punto 6, qui rilevante tra le
ipotesi di rifiuto obbligatorio prefigurate dalla decisione quadro. Tuttavia,
una volta operata la scelta di prevedere il rifiuto, andava rispettato il
divieto di discriminazione in base alla nazionalità sancito dall’art. 12 del
TCE (art. 18 del TFUE a partire dall’entrata in vigore del Trattato di riforma
di Lisbona), peraltro pienamente osservato dal citato art. 4, punto 6, della
decisione quadro, che espressamente recita: «se il mandato d’arresto europeo è
stato rilasciato ai fini dell’esecuzione di una pena o di una misura di
sicurezza privative della libertà, qualora
la persona ricercata dimori nello Stato membro di esecuzione, ne sia cittadino
o vi risieda, se tale Stato si impegni a eseguire esso stesso tale pena o
misura di sicurezza conformemente al suo diritto interno» [corsivi aggiunti].
Il divieto di discriminazione in base alla nazionalità consente sì di
differenziare la situazione del cittadino di uno Stato membro dell’Unione
rispetto a quella del cittadino di un altro Stato membro, ma la differenza di
trattamento deve avere una giustificazione legittima e ragionevole, sottoposta
ad un rigoroso test di proporzionalità rispetto all’obiettivo perseguito. La
previsione, in particolare, di una residenza per la durata di 5 anni per il non
cittadino è stata ritenuta dalla Corte di giustizia non andare oltre quanto è
necessario per conseguire l’obiettivo volto a garantire il reinserimento nello
Stato membro di esecuzione (sentenza Wolzenburg, punto 73). A differenza,
tuttavia, della legge olandese di recepimento della decisione quadro sul MAE,
oggetto del caso appena ricordato, la disposizione qui censurata non opera una
limitazione alla parità di trattamento del cittadino di un altro Stato membro
dell’Unione rispetto al cittadino italiano con riguardo, ad esempio, alla
durata della residenza aut similia,
ma esclude radicalmente l’ipotesi che il cittadino di altro Stato membro possa
beneficiare del rifiuto di consegna e dunque dell’esecuzione della pena in
Italia. Ciò si traduce in una discriminazione soggettiva, del cittadino di
altro Paese dell’Unione in quanto straniero, che, in difetto di una ragionevole
giustificazione, non è proporzionata.
Va in proposito
precisato, poi, che le nozioni di residenza e di dimora utilizzate dalla decisione
quadro, nonché per altra ipotesi dalla legge italiana di recepimento, sono
nozioni comunitarie, che richiedono una interpretazione autonoma ed uniforme, a
ragione della esigenza e della finalità di applicazione uniforme che è alla
base della decisione quadro. Ebbene, la Corte di giustizia non ha mancato,
nella ricordata sentenza
Kozlowski, di fornire la sua
interpretazione al giudice nazionale; e gli ha fornito indicazioni utili anche
su un piano più generale. In particolare, ha identificato la nozione di
"residenza” con una residenza effettiva nello Stato dell’esecuzione; e la
nozione di "dimora” con un soggiorno stabile di una certa durata in quello
Stato, che consenta di acquisire con tale Stato legami d’intensità pari «a
quelli che si instaurano in caso di residenza» (punto 46). Ad esempio, e per
quanto qui rileva, il giudice comunitario ha sottolineato l’esigenza che il
giudice nazionale proceda ad una valutazione complessiva degli elementi
oggettivi che caratterizzano la situazione del ricercato, come la durata, la
natura e le modalità del suo soggiorno, nonché i legami familiari ed economici
che ha stabilito nello Stato dell’esecuzione (punti 48 e 54). Ed ha
sottolineato, nell’ipotesi che lo straniero risieda o abbia dimora nello Stato
dell’esecuzione, l’esigenza che il giudice valuti anche l’esistenza di un
interesse legittimo del condannato a che la pena sia scontata in quello Stato
(punto 44).
9. – Alla stregua dei rilievi svolti, va dichiarata l’illegittimità
costituzionale dell’art. 18, comma 1, lettera r), della legge di attuazione della decisione quadro sul MAE,
limitatamente alla parte in cui non prevede il rifiuto di consegna anche del
cittadino di un altro Paese membro dell’UE, che legittimamente ed
effettivamente risieda o abbia dimora nel territorio italiano, ai fini
dell’esecuzione della pena detentiva in Italia conformemente al diritto
interno.
All’autorità
giudiziaria competente spetta, pertanto, accertare la sussistenza del
presupposto della residenza o della dimora, legittime ed effettive, all’esito
di una valutazione complessiva degli elementi caratterizzanti la situazione
della persona, quali, tra gli altri, la durata, la natura e le modalità della
sua presenza in territorio italiano, nonché i legami familiari ed economici che
intrattiene nel e con il nostro Paese, in armonia con l’interpretazione fornita
dalla Corte di giustizia dell’Unione europea. Resta riservata, poi, al
legislatore la valutazione dell’opportunità di precisare le condizioni di
applicabilità al non cittadino del rifiuto di consegna ai fini dell’esecuzione
della pena in Italia, in conformità alle conferenti norme dell’Unione europea,
così come interpretate dalla Corte di giustizia.
La pronuncia di
illegittimità costituzionale con riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma,
Cost., determina l’assorbimento delle questioni poste con riferimento agli
artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.
per
questi motivi
riuniti i giudizi,
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, comma
1, lettera r), della legge 22 aprile
2005, n. 69 (Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione
quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato
d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri), nella parte
in cui non prevede il rifiuto di consegna anche del cittadino di un altro Paese
membro dell’Unione europea, che legittimamente ed effettivamente abbia
residenza o dimora nel territorio italiano, ai fini dell’esecuzione della pena
detentiva in Italia conformemente al diritto interno.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 giugno
2010.
F.to:
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in