SENTENZA N. 28
ANNO 2010
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME DEL
POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta
dai signori:
- Francesco AMIRANTE Presidente
- Ugo
DE SIERVO Giudice
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
- Giuseppe FRIGO "
- Alessandro CRISCUOLO "
- Paolo GROSSI "
ha
pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità
costituzionale dell’art. 183, comma 1, lettera n), quarto periodo, del decreto
legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia di ambiente) – nel testo
antecedente alle modifiche introdotte con l’art. 2, comma 20, del decreto
legislativo 16 gennaio 2008, n. 4 (Ulteriori disposizioni correttive ed
integrative del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, recante norme in materia
ambientale) – promossi dal Tribunale ordinario di Venezia, sezione distaccata
di Dolo, con ordinanze del 29 settembre e del 13 ottobre 2008, iscritte,
rispettivamente, ai nn. 2 e 140 del registro
ordinanze 2009 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 4 e 20, prima serie speciale, dell’anno 2009.
Visti l’atto di costituzione di P. S., nonché gli atti di intervento del
Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 12 gennaio 2010 e nella camera di consiglio del
13 gennaio 2010 il Giudice relatore Gaetano Silvestri;
uditi l’avvocato Giampaolo Maria Cogo per P.S. e
l’avvocato dello Stato Giuseppe Fiengo per il
Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in
fatto
1. – Con ordinanza del 29
settembre 2008 il Tribunale ordinario di Venezia, sezione distaccata di Dolo,
ha sollevato, in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, della
Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 183, comma 1,
lettera n), quarto periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152
(Norme in materia di ambiente) – nel testo antecedente alle modifiche
introdotte con l’art. 2, comma 20, del decreto legislativo 16 gennaio 2008, n.
4 (Ulteriori disposizioni correttive ed integrative del d.lgs. 3 aprile 2006,
n. 152, recante norme in materia ambientale) – nella parte in cui prevede che
le ceneri di pirite rientrano tra i sottoprodotti non soggetti alle disposizioni
contenute nella parte quarta del medesimo d.lgs. n. 152 del 2006.
Dall’ordinanza indicata
risulta che lo stesso rimettente, nell’ambito del medesimo giudizio a quo,
aveva sollevato una questione identica a quella odierna, definita dalla Corte
costituzionale con un provvedimento di restituzione degli atti in forza di
variazioni normative sopravvenute (ordinanza n. 83 del
2008). L’odierno atto di promovimento riproduce, in gran parte, il testo di
quello precedente.
1.1. – Il Tribunale
riferisce di essere chiamato a giudicare due imputati nei cui confronti è stato
emesso decreto di citazione a giudizio per la violazione, tra l’altro, degli
artt. 51, commi 1 e 5, e 51-bis del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22
(Attuazione della direttiva 91/156/CEE sui rifiuti, della direttiva 91/689/CEE
sui rifiuti pericolosi e della direttiva 94/62/CE sugli imballaggi e sui
rifiuti di imballaggio), trasfusi rispettivamente nell’art. 256, commi 1 e 5, e
nell’art. 257 del d.lgs. n. 152 del 2006.
Il procedimento penale è
stato instaurato in relazione al sequestro preventivo, in data 22 marzo 2002,
di un deposito di ceneri di pirite (in quantità pari a circa un milione di
tonnellate), sito in località Gambarare del Comune di
Mira. Secondo l’accusa, nell’area in sequestro, di estensione pari a circa
80.000 metri quadrati, la società Veneta Mineraria S.p.A. (di cui uno dei due
imputati risultava all’epoca legale rappresentante) e la ditta individuale
appaltatrice dei lavori di movimentazione e carico delle ceneri (il cui
titolare è l’altro imputato) avrebbero effettuato attività di gestione di
rifiuti pericolosi in assenza di autorizzazione, ovvero sulla base di
un’autorizzazione scaduta, in violazione dell’art. 57 del d.lgs. n. 22 del
1997, in particolare «espletando, su tale discarica non più attiva, realizzata
negli anni ’70, la messa in riserva di tali rifiuti in vista del loro avvio a
recupero presso cementifici». Inoltre, la gestione e messa in riserva delle
ceneri di pirite sarebbe stata effettuata in carenza di misure precauzionali
atte a tutelare l’integrità dell’ambiente; in particolare, l’area sarebbe stata
sottoposta ad attività di escavazione, con conseguente esposizione delle ceneri
di pirite agli agenti atmosferici e al dilavamento, «senza che fossero stati
adottati presidi idonei ad intercettare le acque di percolazione, dal che
sarebbe derivata una grave compromissione dei terreni confinanti […] delle
falde acquifere sotterranee e dell’area lagunare circostante».
Il rimettente precisa che,
sempre in tesi accusatoria, gli imputati, autorizzati dalla Provincia di
Venezia a «miscelare le ceneri di pirite del deposito con altro materiale
sempre a base di ceneri di pirite», avrebbero eseguito dette operazioni con
modalità tali da determinare pericolo per la salute e per l’integrità
dell’ambiente – in particolare provocando una «prolungata esposizione delle
ceneri al dilavamento delle acque meteoriche» – in violazione del disposto
degli artt. 2, comma 2, e 9, comma 2, del d.lgs. n. 22 del 1997.
È contestato agli imputati,
inoltre, di non aver proceduto alla bonifica dei terreni circostanti la
discarica dopo aver cagionato, o comunque incrementato, l’inquinamento delle
predette aree.
Il Tribunale di Venezia
precisa infine che nel processo, ormai giunto alla fase decisoria (è stato
dichiarato chiuso il dibattimento), si sono costituiti parti civili la
Provincia di Venezia, il Comune di Mira ed i proprietari di uno dei fondi
confinanti con il deposito in oggetto.
Tanto premesso in fatto, il
giudice a quo procede ad esporre le ragioni a sostegno del sollevato dubbio di
costituzionalità, a partire dalla ricostruzione del quadro normativo di
riferimento, ponendo in evidenza, in primo luogo, che il d.lgs. n. 152 del
2006, entrato in vigore il 29 aprile 2006, ha inteso tra l’altro riordinare,
nella parte quarta, la materia della gestione dei rifiuti e della bonifica dei
siti contaminati, con espressa abrogazione delle disposizioni contenute nel
d.lgs. n. 22 del 1997 (così l’art. 264 dello stesso d.lgs. n. 152 del 2006).
I fatti di reato contestati
nel giudizio principale sono dunque disciplinati dal nuovo decreto legislativo:
in particolare, il testo dell’art. 256, commi 1 e 5, corrisponde a quello del
previgente art. 51 del d.lgs. n. 22 del 1997, pur con una lieve modifica nella
previsione delle pene pecuniarie; diversamente, la fattispecie in precedenza
sanzionata dall’art. 51-bis del citato d.lgs. n. 22 del 1997, oggi prevista
dall’art. 257 del d.lgs. n. 152 del 2006, ha subito una modifica significativa,
con l’introduzione, in qualità di elemento costitutivo del reato, del
superamento delle concentrazioni soglia di rischio.
Successivamente, prosegue il
rimettente, in data 15 maggio 2006 è entrata in vigore la direttiva comunitaria
5 aprile 2006, n. 2006/12/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del
Consiglio), che sostituisce ed abroga la precedente direttiva 15 luglio 1975,
n. 75/442/CEE (Direttiva del Consiglio relativa ai rifiuti) e le successive
modifiche. La nuova disciplina comunitaria, che costituisce l’attuale punto di
riferimento normativo in ambito europeo per il trattamento dei rifiuti,
riproduce, lasciando sostanzialmente invariati i precetti, le definizioni e le
nozioni del precedente assetto normativo.
In particolare, l’art. 1,
comma 1, della direttiva 2006/12/CE definisce rifiuto «qualsiasi sostanza od
oggetto che rientri nelle categorie riportate nell’allegato I e di cui il
detentore si disfi o abbia l’intenzione di disfarsi o l’obbligo di disfarsi».
Definizione analoga è contenuta nella norma interna, l’art. 183, comma 1,
lettera a), del d.lgs. n. 152 del 2006, che qualifica come rifiuto «qualsiasi
sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell’Allegato A alla
parte quarta del presente decreto e di cui il detentore si disfi o abbia deciso
o abbia l’obbligo di disfarsi».
Quest’ultima norma, nella
versione antecedente alle modifiche apportate con il d.lgs. n. 4 del 2008,
comprendeva anche le definizioni di sottoprodotto e di materia prima
secondaria, le quali, come è noto, non sono contemplate dalle direttive
comunitarie. Per quanto di interesse nel procedimento in esame, il rimettente
esamina la previsione contenuta nel testo originario della lettera n) del comma
1 dell’art. 183, che definiva sottoprodotto «i prodotti dell’attività dell’impresa
che, pur non costituendo l’oggetto dell’attività principale, scaturiscono in
via continuativa dal processo industriale dell’impresa stessa e sono destinati
ad un ulteriore impiego o al consumo». La disposizione proseguiva prevedendo
che i sottoprodotti sono sottratti alla normativa sui rifiuti a condizione che
si tratti di «sottoprodotti di cui l’impresa non si disfi, non sia obbligata a
disfarsi e non abbia deciso di disfarsi ed in particolare» di «sottoprodotti
impiegati direttamente dall’impresa che li produce o commercializzati a
condizioni economicamente favorevoli per l’impresa stessa direttamente per il
consumo o per l’impiego, senza la necessità di operare trasformazioni
preliminari in un successivo processo produttivo». Inoltre era stabilito che
«l’utilizzazione del prodotto deve essere certa e non eventuale […]. L’utilizzo
del sottoprodotto non deve comportare per l’ambiente o la salute condizioni
peggiorative rispetto a quelle delle normali attività produttive».
Dopo aver definito in via
generale la nozione di sottoprodotto, il legislatore nazionale aveva previsto,
nella medesima disposizione, che «Rientrano altresì tra i sottoprodotti non
soggetti alla parte quarta del presente decreto le ceneri di pirite, polveri di
ossido di ferro, provenienti dal processo di arrostimento del minerale noto
come pirite o solfuro di ferro per la produzione di acido solforico e ossido di
ferro, depositate presso stabilimenti di produzione dismessi, aree industriali
e non, anche se sottoposte al procedimento di bonifica o di ripristino
ambientale».
Il giudice a quo, in
relazione alle definizioni appena richiamate, evidenzia i requisiti e le
condizioni necessari affinché un residuo di produzione fosse sottratto alla
disciplina sui rifiuti: esso doveva provenire da attività di produzione (e non
di consumo); doveva scaturire da tale attività in via continuativa (come
residuo tipico di quella produzione); non doveva essere abbandonato
dall’impresa (che dunque non se ne disfaceva); doveva poter essere reimpiegato
direttamente, o commercializzato a condizioni economicamente vantaggiose, senza
attività di trasformazione preliminare (che ne modificasse l’identità); il
riutilizzo del residuo in altro ciclo produttivo doveva essere certo ed
effettivo (circostanza che a sua volta doveva essere attestata con
dichiarazioni scritte delle imprese di "partenza” e di "destinazione”); tale
riutilizzo non doveva comportare condizioni peggiorative per l’ambiente o per
la salute rispetto a quelle che derivavano dalle normali attività produttive.
Il rimettente rammenta che
la richiamata nozione di sottoprodotto ha sostituito quella contenuta nell’art.
14 del decreto-legge 8 luglio 2002, n. 138 (Interventi urgenti in materia
tributaria, di privatizzazioni, di contenimento della spesa farmaceutica e per
il sostegno dell’economia anche nelle aree svantaggiate), convertito in legge,
con modificazioni, dall’art. 1 della legge 8 agosto 2002, n. 178, «già oggetto
di aspre critiche e di plurimi rilievi di sospetta incostituzionalità per
l’inopinata restrizione della nozione comunitaria di rifiuto».
Tuttavia il rimettente
precisa che l’odierna questione non riguarda la compatibilità con il diritto
comunitario della nozione generale di sottoprodotto introdotta dal legislatore
nazionale, prima con l’art. 14 del d.l. n. 138 del 2002 e, successivamente, in
termini più puntuali e precisi, con il richiamato art. 183, comma 1, lettera
n), del d.lgs. n. 152 del 2006, bensì la qualificazione espressa delle ceneri
di pirite come sottoprodotto.
È quindi richiamata
diffusamente la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea ed
in particolare la sentenza
11 novembre 2004, in C-457/02, Niselli, in cui si
ammette, in linea con i precedenti di analogo oggetto, che i materiali
derivanti da processi di fabbricazione o estrazione non principalmente
destinati a produrli possono costituire non residui ma sottoprodotti, di cui
l’impresa non ha intenzione di disfarsi, ma si precisa anche che tale
qualificazione «deve essere circoscritta alle situazioni in cui il riutilizzo
di un bene, di un materiale o di una materia prima non sia solo eventuale ma
certo senza previa trasformazione e avvenga nel corso del processo di
produzione» [punti 44 e 45].
Il Tribunale di Venezia
richiama ulteriori, successive pronunce della Corte del Lussemburgo, assunte
nell’ambito di procedure di infrazione (sentenza
8 settembre 2005, in cause C-4167/02 e C-121/03, Commissione c. Regno di Spagna),
nelle quali si trova affermato che i residui dell’attività zootecnica,
accumulati dall’impresa in attesa di successivo utilizzo, avrebbero potuto
essere utilizzati anche «per il fabbisogno di operatori economici diversi» dal
produttore originario.
Le richiamate sentenze,
prosegue il giudice a quo, erano state di poco precedute da un’altra pronuncia,
resa in forma di ordinanza,
il 15 aprile 2004 nella causa C-235/02, Saetti Freudiani, nella quale la
Corte ha enunciato il principio secondo cui un residuo di produzione (il coke
da petrolio di Gela) utilizzato con certezza «per il fabbisogno di energia
della stessa impresa produttrice e di altre industrie non costituisce rifiuto
ai sensi della direttiva del consiglio 15 luglio 1975, n. 75/442/CEE, relativa
ai rifiuti, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, n.
91/156/CEE». In tali decisioni, osserva il rimettente, sembrerebbe quindi
ravvisarsi un’apertura del giudice comunitario sulla estensione della nozione
di sottoprodotto all’utilizzo del residuo di produzione da parte di soggetti
terzi rispetto all’impresa produttrice.
1.2. – Così definito il
quadro normativo di riferimento, il Tribunale di Venezia passa ad esaminare lo
specifico residuo di produzione costituito dalle ceneri di pirite, oggetto del
giudizio a quo, esponendo quanto emerso all’esito del dibattimento.
Le ceneri di pirite sono un
residuo di produzione (necessario ed inevitabile) del procedimento industriale
di fabbricazione dell’acido solforico, cioè di uno dei più importanti prodotti
intermedi dell’industria chimica di base. Il procedimento in parola, consistente
nel cosiddetto arrostimento in forni speciali del minerale denominato pirite, è
stato utilizzato fino ai primi anni ’70, epoca in cui alla materia prima pirite
è stato sostituito lo zolfo. In Italia erano stati realizzati circa 100
stabilimenti, di varia potenzialità, per la produzione dell’acido solforico con
l’utilizzo della pirite, ed ancora oggi esistono depositi delle relative ceneri
in varie zone del Paese. Il deposito sito in località Gambarare
di Mira, posto sotto sequestro nel procedimento a quo, era stato attivo fino ai
primi anni ’70, per essere poi "messo in sicurezza”, mediante ricopertura dei
cumuli di cenere con uno strato di terra successivamente piantumata. Dopo circa
venti anni, a partire dal 1994, «il deposito è stato riaperto e coltivato dalla
Veneta Mineraria S.p.A. che aveva appaltato a M.E. i lavori materiali di
movimentazione delle ceneri ed il loro successivo carico su camion per il […]
conferimento del materiale a cementifici italiani ed esteri». Le ceneri di
pirite costituiscono, infatti, un additivo fondamentale nella produzione del
cemento, nel quale sono impiegate senza attività preliminare di trasformazione.
Ciò detto, ad avviso del
Tribunale di Venezia sarebbe proprio la particolare origine del residuo di
produzione in esame a rendere impossibile la sottrazione dello stesso dal
novero dei rifiuti. Posto infatti che, secondo la definizione di cui all’art.
1, comma 1, lettera a), della direttiva 2006/12/CE, si ha sempre rifiuto quando
il produttore/detentore "si disfa” di un determinato residuo produttivo e non
lo reimpiega né lo commercializza, «stabilire che un residuo va considerato
sottoprodotto […] a prescindere dal fatto che l’impresa produttrice se ne è già
disfatta è operazione che contrasta con il diritto comunitario».
Tale conclusione, secondo il
rimettente, non potrebbe essere superata dalla considerazione che assume a
riferimento il produttore originario e non l’attuale detentore, cioè il
soggetto il quale si trova, come nella vicenda in esame, a gestire depositi e
commercializzare le ceneri di pirite, alienandole a cementifici.
Del resto, osserva il
giudice a quo, è la stessa normativa nazionale a porre alla base della
disciplina generale dei sottoprodotti l’impresa che li produce, facendo
riferimento a questa per tutto quanto concerne i presupposti che debbono
ricorrere per sottrarre il residuo di produzione all’applicazione della parte
quarta del d.lgs. n. 152 del 2006.
In senso contrario, prosegue
il rimettente, nemmeno si potrebbe sostenere che gli accumuli di ceneri di
pirite distribuiti sul territorio nazionale, compreso quello oggetto del
procedimento principale, non siano mai stati "abbandonati” dagli originari
produttori, e ciò in quanto negli anni in cui per la produzione dell’acido
solforico era impiegata la pirite, le ceneri residue erano oggetto di
conferimenti ai cementifici «a piè di impianto», sicché l’accantonamento
riguardava solo il surplus di produzione, in vista del futuro utilizzo. Al
contrario, il dato fattuale –puntualmente recepito dal legislatore che, nella
norma censurata, menziona «stabilimenti dismessi» ed «aree industriali e non» –
dal quale emerge che tale accantonamento è assai risalente nel tempo (di almeno
trent’anni), dimostrerebbe come, per un lungo periodo, l’utilizzo del residuo
non sia stato affatto certo o probabile.
Tutto ciò renderebbe
evidente, secondo il Tribunale di Venezia, come la normativa interna, di cui si
chiede lo scrutinio di costituzionalità, si ponga in contrasto non solo con il
requisito del «non disfarsi» del residuo da parte del produttore originario –
il che avviene se il materiale è raccolto in una determinata area, che viene
chiusa o messa in sicurezza, ed è lasciato in loco per molti anni – ma anche
con l’ulteriore requisito della certezza ed effettività dell’utilizzo del
residuo di produzione al momento in cui esso è originato, come ripetutamente
affermato dalla giurisprudenza comunitaria.
Inoltre, la previsione
censurata, nella parte in cui sottrae le ceneri di pirite all’applicazione
della parte quarta del d.lgs. n. 152 del 2006, «anche se sottoposte a bonifica
o ripristino ambientale», appare in contrasto con il principio secondo cui
l’utilizzo di un sottoprodotto deve avvenire senza arrecare pregiudizio per
l’ambiente e per la salute (art. 4 della direttiva 2006/12/CE), posto che nelle
indicate evenienze è probabile che i materiali raccolti possano essere
contaminati, così da risultare pericolosi per la salute e per l’ambiente.
In definitiva, secondo il
rimettente, la disposizione contenuta nell’art. 183, comma 1, lettera n),
quarto periodo, del d.lgs. n. 152 del 2006 contrasterebbe con gli artt. 11 e
117, primo comma, Cost.
Inoltre, ai sensi dell’art.
174, n. 2, del Trattato 25 marzo 1957 (Trattato che istituisce la Comunità
europea), nella versione in vigore fino al 30 novembre 2009, ora trasfuso
nell’art. 191 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, in vigore dal
1° dicembre 2009, la politica comunitaria in materia ambientale mira ad un
elevato livello di tutela ed è fondata, in particolare, sui principi «della
precauzione e dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in via
prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio
"chi inquina paga”». Pertanto, secondo il giudice a quo, il legislatore
italiano, nell’introdurre una norma in contrasto con siffatti principi, avrebbe
anche violato il generale obbligo di leale collaborazione di cui all’art. 10
del Trattato che istituisce la Comunità europea (articolo successivamente
abrogato dall’art. 2, punto 22, del Trattato 13 dicembre 2007 – Trattato di
Lisbona che modifica il Trattato sull’Unione europea e il Trattato che
istituisce la Comunità europea), il quale prevede che gli Stati «si astengono
da qualsiasi misura che rischi di compromettere la realizzazione degli scopi
del presente trattato».
1.3. – Il rimettente esamina
quindi il profilo dei rimedi alla rilevata antinomia tra diritto interno e
diritto comunitario, escludendo di poter procedere alla disapplicazione della
norma interna, come invece sostenuto dal pubblico ministero, secondo il quale
la direttiva 75/442/CEE e successive modifiche e la direttiva 2006/12/CE
sarebbero "autoapplicative”, quanto meno con
riferimento alla nozione di rifiuto.
Sul punto sono richiamate
espressamente le argomentazioni esposte dalla Corte di cassazione (ordinanza n.
1414 del 2006), secondo cui il giudice può procedere alla disapplicazione della
norma nazionale contrastante con il diritto comunitario quando la norma
comunitaria abbia efficacia diretta nell’ordinamento interno, e quindi solo nei
casi di alcune norme del Trattato istitutivo, dei regolamenti, delle direttive
che non richiedono, ai fini dell’applicazione, alcun provvedimento ulteriore da
parte degli Stati membri, e delle decisioni rivolte ai singoli o agli Stati
membri.
1.4. – Per concludere, il
giudice a quo esamina la tematica degli effetti in malam
partem che deriverebbero dall’accoglimento della
sollevata questione, osservando come l’eventuale caducazione
della norma più favorevole, contenuta nell’art. 183, comma 1, lettera n), del
d.lgs. n. 152 del 2006, riguardante le ceneri di pirite, non comporterebbe una
violazione del principio di irretroattività della norma penale previsto
dall’art. 25, secondo comma, Cost., posto che, per un verso, le ceneri di
pirite costituivano senz’altro rifiuto all’epoca delle condotte contestate, non
essendo ancora entrato in vigore l’art. 14 del d.l. n. 138 del 2002, recante
l’interpretazione autentica e restrittiva della nozione di rifiuto, e, per
altro verso, la norma incriminatrice, contenuta
nell’art. 51 del d.lgs. n. 22 del 1997, era già in vigore prima della
commissione dei reati contestati.
La rilevanza della questione
sarebbe in ogni caso assicurata, secondo l’insegnamento della Corte
costituzionale (è richiamata la sentenza n. 148 del
1983), dalla incidenza che l’accoglimento della stessa potrebbe esercitare
sulle formule di proscioglimento o sui dispositivi della sentenza penale,
riflettendosi comunque sullo schema argomentativo della motivazione.
1.5. – Dopo l’integrale
richiamo al precedente atto di promovimento, il Tribunale di Venezia riesamina
il profilo della rilevanza della questione, secondo l’indicazione espressa
nella citata ordinanza
n. 83 del 2008 di questa Corte. La restituzione degli atti era stata
disposta per lo ius superveniens costituito dal
d.lgs. n. 4 del 2008, con il quale il legislatore nazionale ha riformulato
l’art. 183 del d.lgs. n. 152 del 2006, introducendo una nuova definizione di
sottoprodotto ed eliminando il riferimento specifico alle ceneri di pirite.
Il rimettente evidenzia come
la materia sia stata caratterizzata da numerose modifiche normative intervenute
nel corso del procedimento principale: in particolare, al momento in cui è
stato effettuato il sequestro preventivo del deposito di ceneri di pirite, era
vigente l’art. 6, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 22 del 1997, il quale
recepiva la nozione comunitaria secondo cui è rifiuto «qualsiasi sostanza od
oggetto che rientra nelle categorie riportate nell’allegato A e di cui il
detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi». In quel
contesto normativo, prosegue il giudice a quo, non vi era dubbio che «le ceneri
di pirite, in quanto raccolte ed accantonate per un trentennio in un’area
ricoperta di terra successivamente piantumata, rientrassero a pieno titolo nel
concetto di rifiuto in quanto residuo di produzione di cui l’originario
detentore si era disfatto o aveva deciso di disfarsi».
Nelle more del procedimento
principale, era poi entrato in vigore l’art. 14 del d.l. n. 138 del 2002, che
aveva fornito la cosiddetta interpretazione autentica dell’art. 6 del d.lgs. n.
22 del 1997. Il citato art. 14, pur nella indubbia portata "restrittiva” della
nozione di rifiuto, tuttavia ancora consentiva una applicazione che tenesse
conto del criterio generale di interpretazione della materia dei rifiuti,
quello cioè di non pregiudicare l’efficacia del diritto comunitario. Per un
verso, infatti, la già evidenziata notevole distanza temporale tra il momento
di produzione delle ceneri di pirite e quello del loro impiego in un diverso
ciclo produttivo portava a ritenere che tale residuo fosse stato sottoposto –
tramite deposito al suolo e copertura con strato di terreno piantumato – ad
«attività di smaltimento o di recupero», e dunque rientrasse nella nozione di
rifiuto di cui al comma 1 del richiamato art. 14. Per altro verso, il comma 2
del medesimo art. 14 richiedeva, ai fini della configurabilità del
sottoprodotto, che i materiali residuali di produzione (o di consumo) potessero
essere e fossero «effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o
in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo», sicché il loro riutilizzo
doveva essere attuale rispetto al momento originario, e non solo potenziale.
Pertanto, a parere del
rimettente, anche dopo l’entrata in vigore dell’art. 14 del d.l. n. 138 del
2002, le ceneri di pirite continuavano ad essere disciplinate dalla normativa
in materia di gestione dei rifiuti.
Ad analoghe conclusioni il
giudice a quo perviene avuto riguardo al successivo intervento del legislatore,
attuato con la legge 15 dicembre 2004, n. 308 (Delega al Governo per il
riordino, il coordinamento e l’integrazione della legislazione in materia ambientale
e misure di diretta applicazione), il quale ha confermato, all’art. 1, comma 26
(successivamente abrogato dall’art. 2, comma 46, del d.lgs. n. 4 del 2008), la
vigenza dell’art. 14 del d.l. n. 138 del 2002, sebbene la Corte di giustizia,
con la richiamata sentenza Niselli, avesse già
ritenuto tale disposizione in contrasto con la nozione comunitaria di rifiuto.
La disciplina dettata dall’art. 14 è dunque rimasta in vigore fino a quando, in
attuazione della delega, è entrato in vigore il d.lgs. n. 152 del 2006, che
all’art. 183, comma 1, lettera n), quarto periodo, ha esplicitamente statuito
che le ceneri di pirite rientrano tra i sottoprodotti, così introducendo una
norma di favore nei confronti degli odierni imputati, ai quali, in applicazione
del principio codificato nell’art. 2, quarto comma, del codice penale, dovrebbe
essere applicata quest’ultima previsione, con conseguente assoluzione con
formula di insussistenza del fatto, difettando la qualità di "rifiuto”
nell’oggetto materiale della condotta.
Il rimettente segnala in
proposito che, nelle more del precedente giudizio di costituzionalità, la Corte
di giustizia, con la sentenza
18 dicembre 2007, in causa C-263/05, ha accolto il ricorso per
inadempimento, proposto, ai sensi dell’art. 266 del Trattato 25 marzo 1957
(Trattato sul funzionamento dell’Unione europea), dalla Commissione contro la
Repubblica italiana, per avere adottato e mantenuto in vigore l’art. 14 del
d.l. n. 138 del 2002. Nella richiamata sentenza la Corte del Lussemburgo, dopo
aver ribadito ancora una volta che il termine «disfarsi», e quindi la nozione
di rifiuto, non possono essere interpretati in senso restrittivo [punto 33], ha
svolto un excursus delle pronunce adottate in materia e dei principi in esse
individuati, in esito al quale ha precisato, tra l’altro, che «in determinate
situazioni, un bene, un materiale o una materia prima che deriva da un processo
di estrazione o di fabbricazione che non è principalmente destinato a produrlo
può costituire non tanto un residuo, quanto un sottoprodotto, del quale il
detentore non cerca di "disfarsi” […] ma che intende sfruttare o
commercializzare […] a condizioni ad esso favorevoli, in un processo
successivo, a condizione che tale riutilizzo sia certo, senza trasformazione
preliminare e intervenga nel processo di produzione o di utilizzazione». Nel
prosieguo della pronuncia la Corte ha affermato che «se per tale riutilizzo
occorrono operazioni di deposito che possono avere una certa durata, e quindi
rappresentare un onere per il detentore nonché essere potenzialmente fonte di
quei danni per l’ambiente che la direttiva mira specificamente a limitare, esso
non può essere considerato certo ed è prevedibile solo a più medio o lungo
termine, cosicché la sostanza di cui trattasi deve essere considerata, in linea
di principio, come rifiuto».
Il giudice a quo osserva
come tale pronuncia conforti l’interpretazione dell’art. 14, sopra prospettata,
ed i limiti di applicabilità al caso in esame, una volta chiarito che il
riutilizzo del materiale residuo deve avvenire «nel corso del processo di
produzione».
Sul fronte della normativa
nazionale, infine, la novità è costituita, dal d.lgs. n. 4 del 2008, che ha
introdotto modifiche e correzioni al d.lgs. n. 152 del 2006, in particolare
riscrivendo interamente la nozione di sottoprodotto ed eliminando il
riferimento alle ceneri di pirite.
Il rimettente evidenzia come
la "nuova” definizione di sottoprodotto, contenuta nell’art. 183, comma 1,
lettera p), del d.lgs. n. 152 del 2006, rispetto alle precedenti formulazioni,
risulti senz’altro più rispettosa della normativa comunitaria, là dove
stabilisce che: «sono sottoprodotti le sostanze ed i materiali di cui il
produttore non intende disfarsi ai sensi dell’art. 183, comma 1, lettera a),
che soddisfino tutti i seguenti criteri, requisiti e condizioni: 1) siano
originati da un processo non direttamente destinato alla loro produzione; 2) il
loro impiego sia certo, sin dalla fase della produzione, integrale e avvenga
direttamente nel corso del processo di produzione o di utilizzazione
preventivamente individuato e definito; 3) soddisfino requisiti merceologici e
di qualità ambientale idonei a garantire che il loro impiego non dia luogo ad
emissioni e ad impatti ambientali qualitativamente e quantitativamente diversi
da quelli autorizzati per l’impianto dove sono destinati ad essere utilizzati;
4) non debbano essere sottoposti a trattamenti preventivi o a trasformazioni
preliminari per soddisfare i requisiti merceologici e di qualità ambientale di
cui al punto 3), ma posseggano tali requisiti sin dalla fase della produzione;
5) abbiano un valore economico di mercato».
La predetta definizione,
secondo il rimettente, non consente in alcun modo di collocare le ceneri di
pirite tra i sottoprodotti, sicché, in esito alla disamina diacronica della
normativa in materia, si dovrebbe concludere che le ceneri di pirite sono un
rifiuto in forza sia delle disposizioni che hanno preceduto quella oggetto di
censura, sia della disposizione attualmente in vigore. Soltanto l’applicazione
della norma oggetto di censura, che ha avuto una vigenza quasi biennale,
condurrebbe al risultato di sottrarre il predetto materiale alla disciplina dei
rifiuti.
Tale norma peraltro, finché
non espunta dall’ordinamento, continua ad essere la previsione più favorevole,
tra le varie succedutesi nel tempo, e dunque deve trovare applicazione nel
giudizio a quo, con la conseguenza che, a parere del giudice a quo, la
questione di costituzionalità risulta ancora rilevante.
2. – È intervenuto in
giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per
l’inammissibilità e, comunque, per l’infondatezza della questione.
Dopo aver ripercorso, in
sintesi, l’iter argomentativo del rimettente, la difesa erariale evidenzia come
il nucleo della questione afferisca alla nota problematica della cosiddetta
«legge intermedia», che si pone quando tra due fattispecie normative – nel caso
di specie, il d.lgs. n. 22 del 1997 e il d.lgs. n. 4 del 2008 – che
qualificano, sia pure indirettamente, una condotta come reato, se ne inserisce
una terza – il d.lgs. n. 152 del 2006, nel testo previgente – la quale
considera quella stessa condotta pienamente lecita.
La dottrina prevalente è
dell’opinione che tali situazioni debbano essere regolate alla luce del
disposto dell’art. 2, secondo comma, del codice penale, secondo cui «nessuno
può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non
costituisce reato».
In altri termini, l’effetto
depenalizzante retroagirebbe a prescindere dalla circostanza che
successivamente sia entrata in vigore una legge che abbia ripristinato la
rilevanza penale della condotta.
Tale soluzione, a parere
dell’Avvocatura generale, sarebbe in tutto ragionevole, posto che, in caso
contrario, la punibilità dell’imputato verrebbe a dipendere dalla circostanza
che il processo penale si sia concluso in vigenza della (nuova) norma incriminatrice anziché nella vigenza della legge
depenalizzante.
Il rimettente, prosegue la
difesa dello Stato, intenderebbe eliminare la norma depenalizzante attraverso
una pronuncia di illegittimità costituzionale per contrasto della stessa con le
norme comunitarie ed, in via derivata, con gli artt. 11 e 117, primo comma,
Cost. Tuttavia tale pretesa contrasta con il principio di legalità, sancito
dall’art. 25, secondo comma, Cost., che, secondo la costante giurisprudenza
costituzionale, nell’affermare il principio per cui nessuno può essere punito
se non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso,
esclude che la Corte costituzionale possa introdurre in via additiva nuovi
reati, o che, comunque, per effetto di una sentenza costituzionale, possano
essere ampliate o aggravate figure di reato già esistenti, trattandosi di
interventi riservati in via esclusiva alla discrezionalità del legislatore
(sono richiamate le sentenze della
Corte costituzionale n. 161 del 2004, n. 49 del 2002,
nn. 508 e 183 del 2000, n. 411 del 1995,
e l’ordinanza n.
580 del 2000).
Secondo l’Avvocatura generale,
l’assunto risulterebbe ancor più valido se si considera che «è comune in
dottrina e in giurisprudenza un principio esattamente opposto all’obiettivo,
perseguito dal giudice remittente, di giungere ad una dichiarazione di
colpevolezza anche in deroga al principio del favor rei: un’interpretazione
sistematica degli articoli 25 e 136 della Costituzione fa infatti
ragionevolmente ritenere che la norma dichiarata costituzionalmente
illegittima, se più favorevole, potrà essere applicata al caso specifico anche
a rischio di mettere in dubbio il principio di certezza del diritto».
Infine e indipendentemente
dai rilievi fin qui svolti, la difesa erariale evidenzia la singolare scelta
compiuta dal rimettente Tribunale di Venezia, il quale intende perseguire la
verifica di conformità della norma interna al diritto comunitario attraverso
una strada diversa dalla rimessione della questione pregiudiziale alla Corte di
giustizia, senza considerare che nessuna fonte dell’Unione europea impone che
gli Stati membri perseguano penalmente le violazioni sulla disciplina dei
rifiuti.
3. – Con memoria depositata
il 16 febbraio 2009, si è costituito in giudizio uno degli imputati del
processo a quo, prospettando l’inammissibilità, l’irrilevanza e l’infondatezza
della questione, e in ogni caso la preclusione connessa agli effetti in malam partem che deriverebbero
dall’eventuale accoglimento, in violazione dell’art. 25, secondo comma, Cost.
Dopo avere richiamato
diffusamente gli argomenti prospettati dal Tribunale di Venezia, la difesa
della parte privata evidenzia, in primo luogo, come la pretesa del rimettente
di risolvere la questione di conformità all’ordinamento comunitario di una
norma interna, attraverso l’incidente di costituzionalità, risulti
inammissibile.
La soluzione della questione
«pertiene alla giurisdizione della Corte di giustizia
a norma dell’art. 234 del Trattato CE, sotto la specie della competenza a
risolvere in via pregiudiziale le questioni di interpretazione della normativa
comunitaria quanto alla compatibilità della normativa interna con la medesima».
A tale riguardo, rammenta la
parte privata, la Corte costituzionale si è espressa di recente (è richiamata l’ordinanza n. 103
del 2008), affermando che nel giudizio pendente davanti al giudice comune,
al fine dell’interpretazione delle norme comunitarie necessarie per
l’accertamento della conformità delle norme interne con l’ordinamento
comunitario, lo stesso giudice deve avvalersi, all’occorrenza, del rinvio
pregiudiziale alla Corte di giustizia.
La questione sarebbe poi
irrilevante, in ragione della genericità delle conseguenze prospettate dal
rimettente circa l’incidenza di una eventuale pronuncia di accoglimento nel
giudizio principale, che è un giudizio penale, ancorché fondato su nozioni
extrapenali che entrano a far parte della norma incriminatrice.
In particolare, la parte
privata sottolinea come la tesi della reviviscenza della pregressa normativa di
per sé ponga, in sede di responsabilità penale, «questioni insormontabili»,
attesa la prevalenza assoluta del principio del favor rei, e come proprio su
tali problematiche il rimettente non abbia adeguatamente motivato.
Nel merito, infine, la
questione risulterebbe infondata.
La difesa della parte
privata procede all’esame della disposizione contenuta nel censurato art. 183,
comma 1, lettera n), del d.lgs. n. 152 del 2006, evidenziando come la stessa –
suddivisa in sei periodi, inseriti in un unico contesto – introduca la nozione
di sottoprodotto, stabilisca le condizioni ed i requisiti in presenza dei quali
i sottoprodotti sono sottratti alle disposizioni della parte quarta del d.lgs.
n. 152 del 2006, includa le ceneri di pirite tra i sottoprodotti, stabilisca,
infine, le regole che ne disciplinano l’utilizzabilità, senza che derivino
condizioni peggiorative per l’ambiente o la salute rispetto a quelle delle
normali attività produttive.
Ad avviso della stessa
parte, il tenore letterale e la ratio della norma, da valutare con riferimento
alla definizione di rifiuto contenuta nel medesimo art. 183, comma 1, lettera
a), del d.lgs. n. 152 del 2006, «non possono significare altro che in difetto
dei requisiti, delle regole e delle condizioni da essa stabilite (prima tra
tutte, ed in via generale non derogata, quella del "non disfarsi”), i prodotti
di cui trattasi, non escluse le ceneri di pirite, sono naturalmente soggette
alla normativa, anche sanzionatoria, dettata per i rifiuti nella parte quarta
del d.lgs. n. 152/2006».
Il dubbio di legittimità
costituzionale, sempre secondo la parte privata, sarebbe stato prospettato dal
rimettente presupponendo una portata derogatoria, rispetto al contesto di
riferimento, che la norma censurata non presenta, né dal punto di vista
letterale, né alla luce del significato che ragionevolmente deve esserle
attribuito, in coerenza e rispondenza con il predetto contesto.
Inoltre, costituirebbe una
petizione di principio l’affermazione del giudice a quo, secondo cui il lungo
tempo trascorso dalla produzione delle ceneri di pirite renderebbe ineluttabile
che il produttore se ne fosse già disfatto, sicché la previsione censurata
necessariamente derogherebbe al requisito del "non disfarsi”.
Analoghe considerazioni,
sempre a parere della parte costituita, varrebbero per gli altri profili di
censura prospettati dal rimettente, attinenti, in particolare, all’incertezza
ed alla dubbia effettività dell’utilizzo delle ceneri di pirite – stante il
lungo tempo trascorso tra la loro produzione ed il passaggio dal produttore
originario al detentore che ne cura la commercializzazione – ed alla sicurezza
dell’utilizzo.
Quanto al primo aspetto, lo
stesso rimettente dà atto della progressiva apertura della giurisprudenza
comunitaria circa la possibilità che l’alienazione dei sottoprodotti avvenga
anche per il tramite di soggetti diversi dal produttore, i quali provvedano in
un tempo successivo alla commercializzazione, senza subordinare a precisi
limiti temporali la durata del deposito, l’epoca della commercializzazione e
l’effettivo utilizzo (è richiamata la sentenza della Corte
di giustizia 8 settembre 2005, in causa C-416/02, Commissione c. Regno di
Spagna). Non troverebbe perciò conferma, in ambito comunitario, «l’asserto
secondo cui il requisito dell’utilizzo certo ed effettivo può essere garantito
soltanto allorché "il sottoprodotto” viene utilizzato nella fase in cui esso
viene alla luce», per quanto sia innegabile che questa fosse l’interpretazione
originariamente seguita dalla giurisprudenza comunitaria.
Con riguardo poi al
significato dell’inciso «anche se sottoposte a procedimento di bonifica o di
ripristino ambientale», la difesa della parte privata osserva come erroneamente
il rimettente riferisca tale espressione al materiale ceneri di pirite, anziché
alle aree ove lo stesso si trova depositato, così ravvisando anche un contrasto
tra la norma censurata ed il principio generale secondo cui l’utilizzo del
sottoprodotto deve avvenire senza che ciò arrechi pregiudizio per l’ambiente e
per la salute.
Per smentire l’assunto
sarebbe sufficiente considerare che l’ultimo periodo del censurato art. 183,
comma 1, lettera n), prevede espressamente che «l’utilizzo del sottoprodotto
non deve comportare per l’ambiente o la salute condizioni peggiorative rispetto
a quelle delle normali attività produttive».
Secondo la parte privata
anche la ricostruzione del quadro normativo comunitario, come prospettata dal
rimettente, risulterebbe opinabile, incompleta ed errata sotto molteplici
profili.
La definizione di rifiuto
costituisce una delle questioni più controverse nell’ambito del diritto interno
dell’ambiente e di quello comunitario, ed è stata oggetto di numerose e
complesse decisioni della Corte di Lussemburgo, che hanno espresso orientamenti
non sempre univoci.
Da ultimo, la parte privata
segnala il contributo fornito dalla Commissione con la Comunicazione
interpretativa sui rifiuti e sui sottoprodotti del 21 febbraio 2007, che in
premessa ha evidenziato la complessità della distinzione tra rifiuto e
sottoprodotto per il conflitto di interessi che ruota attorno ad essa. In linea
generale, la Commissione ha ritenuto che un’interpretazione troppo ampia della
nozione di rifiuto finisca per gravare le imprese di «costi superflui, rendendo
meno interessante un materiale che avrebbe potuto invece rientrare nel circuito
economico», così chiarendo la ratio della disciplina comunitaria e della
controversa distinzione, la cui finalità è di evitare che i rifiuti si
producano.
In una simile prospettiva
verrebbe valorizzata al massimo la possibilità di «generare prodotti che
risultino idonei ad un proficuo riutilizzo e che siano dotati di
caratteristiche merceologiche definite e di valore economico determinabile». In
termini analoghi, già la direttiva 2006/12/CE, al quinto e sesto considerando e
poi all’art. 3, ha sollecitato gli Stati membri a favorire il recupero dei
rifiuti e l’utilizzazione dei materiali di recupero come materie prime, a
limitare la formazione dei rifiuti, promuovendo le tecnologie "pulite” e i
prodotti riciclabili e riutilizzabili.
Nella direzione di una
nozione "condivisa” di rifiuto, la Commissione ha sottolineato la centralità
dell’elemento soggettivo – il concetto di "disfarsi” –, ribadendo il carattere
meramente indicativo delle elencazioni comunitarie. Ciò che, del resto,
emergerebbe già dalla direttiva 2006/12/CE, ove si legge, al quarto
considerando, che «una regolamentazione efficace e coerente dello smaltimento e
del recupero dei rifiuti dovrebbe applicarsi, fatte salve talune eccezioni, ai
beni mobili di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o l’obbligo di
disfarsi».
Quanto al profilo
soggettivo, la difesa della parte privata richiama l’ordinanza
della Corte di giustizia 15 gennaio 2004, in causa C-235/02 Saetti Freudiani,
nella quale si trova affermato che, poiché il materiale in questione (il coke
da petrolio di Gela) era «il risultato di una scelta tecnica» volta
deliberatamente a produrlo, non poteva essere considerato residuo di
produzione. Ciò significa che, al fine di stabilire se un materiale costituisca
un rifiuto, occorre verificare se il fabbricante abbia deliberatamente scelto
di produrlo.
Altro indice che il prodotto
derivi da una scelta tecnica si può ricavare dalla modifica del sistema di
produzione tale da conferire allo stesso caratteristiche specifiche che lo
rendano idoneo ad essere utilizzato e commercializzato: in base a tali indici,
la richiamata ordinanza ha concluso che il coke da petrolio, in quanto è il
risultato di una scelta tecnica, nell’ambito di un processo destinato
principalmente a produrre un diverso materiale, va considerato prodotto (petrolifero)
e non residuo di produzione, dal momento in cui vi è certezza che l’intera
produzione verrà utilizzata.
La difesa della parte
costituita evidenzia come un ulteriore importante indice di valutazione sia
rappresentato dal vantaggio finanziario che deriva dalla vendita del prodotto.
Nella già richiamata sentenza Niselli la Corte di
giustizia ha affermato che «se, oltre alla mera possibilità di riutilizzare la
sostanza, il detentore consegue un vantaggio economico nel farlo, la
probabilità di tale riutilizzo è alta. In un’ipotesi del genere la sostanza in
questione non potrà più essere considerata un ingombro di cui il detentore
cerchi di "disfarsi”, bensì un autentico prodotto» [punto 46].
Importanti indicazioni in
materia provengono inoltre, secondo la parte, dalle pronunce rese in cause
C-416/02 e C-121/03
(Commissione c. Regno di Spagna), nelle quali la Corte di Lussemburgo ha
escluso che dovesse considerarsi rifiuto il letame utilizzato come
fertilizzante nell’ambito di una pratica legale di spargimento, e ciò pur se
detto materiale è destinato ad essere utilizzato da soggetti terzi, in un
contesto produttivo del tutto diverso, ed anche se prima dell’utilizzo deve
essere depositato e lasciato essiccare. Lo spostamento dal luogo o stabilimento
di produzione «da solo non basta a costituire una prova» per affermare che si
tratti di un residuo anziché di un prodotto.
La parte privata richiama
ancora le sentenze
della Corte di giustizia in cause C-9/00, Palin Granit Oy, e C-114/01,
Avesta Polarit Chrome Oy, nelle quali è
stata negata la qualificazione di rifiuti ai residui di roccia depositati in
vista di un ulteriore utilizzo, come materiale di riempimento, senza necessità
di alcuna misura di recupero e senza alcun pericolo per la salute o per
l’ambiente. La Corte di giustizia ha ritenuto, nella specie, che non è
giustificato assoggettare alla disciplina in tema di rifiuti «beni materiali o
materie prime che dal punto di vista economico hanno valore di prodotti
indipendentemente da qualsiasi trasformazione, e che, in quanto tali, sono
soggetti alla normativa applicabile a tali prodotti».
Analoghe considerazioni
dovrebbero valere per le ceneri di pirite, le quali sono destinate ad essere
utilizzate, senza alcuna trasformazione, per la produzione di cemento, non
ostando a ciò la loro provenienza da produzioni industriali cessate e la
specificità dei luoghi ove le stesse sono depositate.
Del resto, prosegue la
difesa della parte, nessuno dei comportamenti posti in essere dagli imputati dimostrerebbe
la volontà di disfarsi di questi materiali, «oggettivamente dotati di
interessante valore commerciale e perciò degni di essere acquistati e
rivenduti», sicché l’assunto del rimettente risulterebbe, anche sotto tale
profilo, infondato.
4. – Con ordinanza del 13
ottobre 2009, il Tribunale di Venezia, sezione distaccata di Dolo, ha
sollevato, in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., questione di
legittimità costituzionale dell’art. 183, comma 1, lettera n), quarto periodo,
del d.lgs. n. 152 del 2006, nel testo antecedente alle modifiche introdotte con
l’art. 2, comma 20, del d.lgs. n. 4 del 2008, nella parte in cui prevede che le
ceneri di pirite rientrano tra i sottoprodotti non soggetti alle disposizioni
contenute nella parte quarta del medesimo d.lgs. n. 152 del 2006.
Il rimettente riferisce che
oggetto del procedimento principale è l’accertamento della responsabilità
penale di quattro persone, imputate del reato già previsto dall’art. 53-bis del
d.lgs. n. 22 del 1997, ora trasfuso nell’art. 260 del d.lgs. n. 152 del 2006.
Secondo l’accusa gli imputati, «in concorso tra loro, attraverso l’allestimento
di mezzi ed attività continuativa organizzata, avrebbero effettuato un traffico
illecito di rifiuti tossico-nocivi, nella fattispecie costituti da un ingente
quantitativo di ceneri di pirite (8.084 tonnellate) provenienti dall’ex
cantiere Perfosfati di Portogruaro, destinandole ad attività non consentita,
cioè al miscelamento con altre ceneri di pirite site in un impianto di Mira, invece
di destinarle in discarica di II categoria, tipo C».
Tanto premesso in fatto, il
rimettente procede all’esame del quadro normativo interno e comunitario, nonché
della giurisprudenza comunitaria in materia di rifiuti, in particolare
soffermandosi sull’evoluzione della nozione di sottoprodotto, ed espone, a
sostegno della non manifesta infondatezza e della rilevanza della questione,
argomenti in tutto identici a quelli prospettati nell’ordinanza n. 2 del 2009,
già sopra illustrata.
5. – Con atto depositato il
9 giugno 2009 è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale
ha concluso per l’inammissibilità o, comunque, per l’infondatezza della
questione.
Dopo aver richiamato i fatti
oggetto del procedimento a quo ed aver ripercorso, in sintesi, l’iter
argomentativo del rimettente, la difesa dello Stato illustra le ragioni a
sostegno delle indicate conclusioni in termini in tutto identici a quelli
rappresentati nell’atto di intervento depositato l’11 febbraio 2009, nel
giudizio introdotto dall’ordinanza reg. ord. n. 2 del
2009, sopra sintetizzato.
Considerato
in diritto
1. – Il Tribunale ordinario
di Venezia, sezione distaccata di Dolo, con due ordinanze di analogo tenore, ha
sollevato, in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, della Costituzione,
questione di legittimità costituzionale dell’art. 183, comma 1, lettera n),
quarto periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia
di ambiente), nel testo antecedente alle modifiche introdotte con l’art. 2,
comma 20, del decreto legislativo 16 gennaio 2008, n. 4 (Ulteriori disposizioni
correttive ed integrative del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, recante norme in
materia ambientale), nella parte in cui prevede che le ceneri di pirite
rientrano tra i sottoprodotti non soggetti alle disposizioni contenute nella
parte quarta del medesimo d.lgs. n. 152 del 2006.
2. – Preliminarmente, in
ragione della identità della questione, i giudizi devono essere riuniti per
essere decisi con un’unica pronuncia.
3. – La questione di
legittimità costituzionale dell’art. 183, comma 1, lettera n), quarto periodo,
del d.lgs. n. 152 del 2006, nel testo antecedente alle modifiche apportate dal
d.lgs. n. 4 del 2008, è fondata.
3.1. – L’oggetto del
giudizio principale – l’asserita violazione delle norme che disciplinano
l’attività di gestione di rifiuti pericolosi in assenza di autorizzazione o con
autorizzazione scaduta – dipende strettamente dalla definizione di rifiuto e
dalla differenza tra tale nozione e quella di sottoprodotto, secondo la
normativa comunitaria e nazionale.
3.2. – La direttiva 15
luglio 1975, n. 75/442/CEE (Direttiva del Consiglio relativa ai rifiuti), come
modificata dalla direttiva 18 marzo 1991, n. 91/156/CEE (Direttiva del
Consiglio che modifica la direttiva 75/442/CEE relativa ai rifiuti), definisce
"rifiuto” «qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate
nell’allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo
di disfarsi» (art. 1, lettera a).
Sulla base di tale normativa
(confermata sostanzialmente dalla direttiva 5 aprile 2006, n. 2006/12/CE –
Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa ai rifiuti – che l’ha
abrogata), la Corte di giustizia dell’Unione europea ha stabilito alcuni punti
fermi interpretativi: a) la nozione di rifiuto deve essere intesa in senso
estensivo ed in tal modo devono essere interpretate le norme che contengono
riferimenti alla stessa; b) dalla suddetta nozione sono escluse le sostanze
suscettibili di utilizzazione economica, nel caso in cui non si tratta di
prodotti di cui il detentore si disfa; c) in tale nozione non sono compresi i
sottoprodotti, intesi come beni, materiali o materie prime, che derivano da un
processo di estrazione o fabbricazione, che non è destinato principalmente a
produrli, a condizione che la loro utilizzazione sia certa e non eventuale,
avvenga senza trasformazioni preliminari ed al fine di commercializzare il
materiale, anche eventualmente per destinarlo a soggetti diversi dal produttore
(ex plurimis, sentenze
18 aprile 2002, in causa C-9/00, Palin Granit Oy, e 11
settembre 2003, in causa C-114/01, Avesta Polarit Chrome Oy).
Successivamente, nella
medesima materia, è stata emanata la direttiva 19 novembre 2008, n. 2008/98/CE
(Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa ai rifiuti e che
abroga alcune direttive), il cui termine di recepimento scadrà il 12 dicembre
2010.
3.3. – In attuazione delle
citate direttive, il legislatore italiano ha proceduto, in un primo tempo, ad
emanare il decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 (Attuazione della
direttiva 91/156/CEE sui rifiuti, della direttiva 91/689/CEE sui rifiuti
pericolosi e della direttiva 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di
imballaggio), che riproduceva quasi testualmente la definizione comunitaria e
prevedeva sanzioni penali per le attività poste in essere in violazione della
disciplina sul trattamento dei rifiuti.
Il successivo d.lgs. n. 152
del 2006 ("Codice dell’ambiente”) ha disciplinato ex novo l’intera materia con
una serie di norme contenute nell’art. 183, che, da una parte, riproponevano la
definizione comunitaria e, dall’altra, definivano i sottoprodotti come quei
«prodotti dell’attività dell’impresa che, pur non costituendo l’oggetto
dell’attività principale, scaturiscono in via continuativa dal processo
industriale dell’impresa stessa e sono destinati ad un ulteriore impiego o al
consumo». I sottoprodotti vengono sottratti alla disciplina dei rifiuti, a condizione
che di essi l’impresa non si disfi, né intenda o abbia l’obbligo di disfarsi,
che siano impiegati direttamente dall’impresa che li produce ovvero
commercializzati a condizioni economicamente favorevoli per l’impresa stessa,
che siano riutilizzati senza operare trasformazioni preliminari del materiale e
che il riutilizzo sia certo e non eventuale e non comporti condizioni
peggiorative per l’ambiente o per la salute, rispetto a quelle delle normali
attività produttive (art. 183, comma 1, lettera n).
La disposizione da ultimo
citata contiene anche la norma censurata nel presente giudizio, secondo cui:
«Rientrano altresì tra i sottoprodotti non soggetti alle disposizioni di cui
alla parte quarta del presente decreto le ceneri di pirite, polveri di ossido
di ferro, provenienti dal processo di arrostimento del minerale noto come
pirite o solfuro di ferro per la produzione di acido solforico e ossido di
ferro, depositate presso stabilimenti di produzione dismessi, aree industriali
e non, anche se sottoposte a procedimenti di bonifica o di ripristino
ambientale».
Infine, con il d.lgs. n. 4
del 2008 è stato eliminato il riferimento alle ceneri di pirite ed è stata
introdotta una definizione più restrittiva di sottoprodotto (art. 183, comma 1,
lettera p, del d.lgs. n. 152 del 2006, nel testo attualmente vigente).
4. – La norma censurata – in
contrasto con la definizione comunitaria sopra richiamata, che qualifica
rifiuto ogni sostanza di cui il produttore si disfi – esclude dalla categoria
dei rifiuti un materiale, le ceneri di pirite, indipendentemente dal fatto che
l’impresa produttrice se ne sia disfatta. Nel caso specifico, oggetto del
processo principale, le suddette ceneri, al momento del sequestro, si trovavano
in un sito da circa trent’anni. Il lungo tempo trascorso fa venir meno uno dei
requisiti richiesti dalle direttive e dalla giurisprudenza comunitaria per
l’identificazione del sottoprodotto, che cioè il riutilizzo del materiale sia
certo ed effettivo e non solo eventuale.
Si deve porre in rilievo, ai
fini del presente giudizio, che la norma censurata introduce una presunzione
assoluta, in base alla quale le ceneri di pirite, quale che sia la loro
provenienza e il trattamento ricevuto da parte del produttore, sono sempre e
comunque da qualificare "sottoprodotto”. Al contrario, la normativa comunitaria
fa leva anche su fatti estrinseci e sui comportamenti dei soggetti produttori
ed utilizzatori e non si arresta pertanto alla mera indicazione della natura
intrinseca del materiale. Per effetto della presunzione assoluta, al giudice è
inibito l’accertamento in fatto delle circostanze in cui si è formato il
materiale e che hanno caratterizzato la gestione dello stesso, una volta
prodotto. Tale preclusione si pone in contrasto con l’esigenza, derivante dalla
disciplina comunitaria, di verificare in concreto l’esistenza di un rifiuto o
di un sottoprodotto. In questo senso si è espressa la Corte di giustizia
dell’Unione europea, la quale ha sottolineato come l’effettiva esistenza di un
rifiuto debba essere accertata «alla luce del complesso delle circostanze,
tenuto conto della finalità della direttiva e in modo da non pregiudicarne
l’efficacia» (sentenza
18 dicembre 2007, in causa C-194/05, Commissione c. Repubblica italiana).
Lo stesso legislatore
nazionale ha recepito le direttive comunitarie sul punto, sia con il d.lgs. n.
22 del 1997, sia con il d.lgs. n. 4 del 2008. Solo per un periodo di circa due
anni è rimasta in vigore la norma censurata, che ha espunto ope
legis le ceneri di pirite dalla categoria dei
rifiuti, con l’indiretta conseguenza di rendere penalmente irrilevante la loro
gestione al di fuori delle regole stabilite dalla legge.
La parte privata costituita
ha proposto una interpretazione della norma censurata, dalla quale si
evincerebbe l’inesistenza di una presunzione assoluta di non appartenenza del
materiale in questione alla categoria dei rifiuti, e quindi l’esperibilità dell’accertamento, caso per caso, della natura
di rifiuto o di sottoprodotto. Tale interpretazione porterebbe alla naturale
conclusione dell’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale,
per non avere il giudice rimettente valutato la possibilità di una
interpretazione della disposizione censurata conforme al parametro di
costituzionalità, che, nel caso di specie, è rappresentato dalle direttive in
tema di rifiuti, per il tramite degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.
L’interpretazione conforme
proposta non è però plausibile, in quanto contraddice ciò che chiaramente
emerge dal testo della disposizione censurata. Nella stessa infatti, dopo
l’enunciazione delle condizioni di fatto che devono sussistere perché un
determinato materiale possa qualificarsi sottoprodotto, si aggiunge che
rientrano «altresì» tra i sottoprodotti le ceneri di pirite. Si tratta quindi di
una previsione, diversa da quella che precede, volta ad assoggettare il
materiale in questione ad una disciplina differenziata. Se si fosse trattato di
una mera esemplificazione, il legislatore non avrebbe usato l’avverbio
«altresì», che vale invece ad identificare un’ipotesi ulteriore, rispetto alla
quale la norma opera una inclusione autoritativa –
fatta palese dal valore imperativo del predicato verbale «rientrano» – nella
categoria dei sottoprodotti. Il contrasto con la normativa comunitaria di riferimento
è pertanto evidente.
5. – Non è implausibile la motivazione con cui il giudice rimettente
esclude di poter fare diretta applicazione delle direttive comunitarie,
disapplicando di conseguenza la norma censurata, in quanto ritenuta in
conflitto con le prime. La prevalente giurisprudenza di legittimità nega,
infatti, il carattere "autoapplicativo” delle
direttive de quibus, con la conseguenza che le
disposizioni nazionali, ancorché ritenute in contrasto con le stesse, hanno
efficacia vincolante per il giudice (ex plurimis,
Corte di cassazione, ordinanza n. 1414 del 2006). Più in generale, l’efficacia
diretta di una direttiva è ammessa – secondo la giurisprudenza comunitaria e
italiana – solo se dalla stessa derivi un diritto riconosciuto al cittadino, azionabile
nei confronti dello Stato inadempiente. Gli effetti diretti devono invece
ritenersi esclusi se dall’applicazione della direttiva deriva una
responsabilità penale (ex plurimis, Corte
di giustizia, ordinanza 24 ottobre 2002, in causa C-233/01, RAS; sentenza
29 aprile 2004, in causa C-102/02, Beuttenmüller;
sentenza
3 maggio 2005, in cause C-387, 391, 403/02, Berlusconi e altri; Corte di
cassazione, sentenza n. 41839 del 2008).
L’impossibilità di non
applicare la legge interna in contrasto con una direttiva comunitaria non
munita di efficacia diretta non significa tuttavia che la prima sia immune dal
controllo di conformità al diritto comunitario, che spetta a questa Corte,
davanti alla quale il giudice può sollevare questione di legittimità costituzionale,
per asserita violazione dell’art. 11 ed oggi anche dell’art. 117, primo comma,
Cost. (ex plurimis, sentenze n. 170 del
1984, n. 317
del 1996, n.
284 del 2007).
6. – Da escludere altresì è
il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea, come
richiesto dall’Avvocatura dello Stato e dalla parte privata costituita. Il
rinvio pregiudiziale non è necessario quando il significato della norma
comunitaria sia evidente, anche per essere stato chiarito dalla giurisprudenza
della Corte di giustizia, e si impone soltanto quando occorra risolvere un
dubbio interpretativo (ex plurimis, Corte di
giustizia, sentenza
27 marzo 1963, in causa C-28-30/62, Da Costa; Corte costituzionale, ordinanza n. 103
del 2008). Nella specie, dalle norme e dalla giurisprudenza comunitarie
emergono con chiarezza le nozioni di "rifiuto” e di "sottoprodotto”, sulle
quali non residuano margini di incertezza. Pertanto, il parametro interposto,
rispetto agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., può considerarsi sufficientemente
definito nei suoi contenuti, ai fini del controllo di costituzionalità.
7. – Rilevato il contrasto
tra la norma censurata e le direttive comunitarie sui rifiuti, nonché
l’impossibilità di disapplicare la stessa da parte del giudice rimettente e la
non necessità del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione
europea, resta da risolvere il problema degli effetti della declaratoria di
illegittimità costituzionale di una norma extrapenale, che, sottraendo
temporaneamente le ceneri di pirite dalla categoria dei rifiuti, ha escluso,
durante il periodo della sua vigenza, precedente all’abrogazione ad opera del d.lgs n. 4 del 2008, l’applicabilità delle sanzioni penali
previste per la gestione illegale dei rifiuti alla fattispecie oggetto del
giudizio principale.
Nella verifica della
successione delle leggi nel tempo, si deve notare che quando furono commessi i
fatti per cui si procede nel giudizio a quo la norma di esclusione non esisteva,
ed era pertanto pacifico che si applicassero le sanzioni penali previste dal
legislatore italiano per l’inosservanza delle norme introdotte in ossequio alle
direttive comunitarie sui rifiuti. Durante lo svolgimento del processo è
entrata in vigore la norma di esclusione, di cui s’è detto nei precedenti
paragrafi, che è stata successivamente abrogata nelle more del giudizio
incidentale davanti a questa Corte.
Secondo il disposto
dell’art. 2, quarto comma, del codice penale, se la legge del tempo in cui fu
commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui
disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata
sentenza irrevocabile. La legge più mite pertanto retroagisce, secondo il
principio del favor rei, che caratterizza l’ordinamento italiano e che oggi
trova conferma e copertura europea nell’art. 49 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea (cosiddetta Carta di Nizza), recepita dal
Trattato di Lisbona, modificativo del Trattato sull’Unione europea e del
Trattato che istituisce la Comunità europea, entrato in vigore il 1° dicembre
2009. Il citato art. 49 stabilisce: «Se, successivamente alla commissione del
reato, la legge prevede l’applicazione di una pena più lieve, occorre applicare
quest’ultima».
Questa Corte ha già
chiarito, tuttavia, che la retroattività della legge più favorevole non esclude
l’assoggettamento di tutte le norme giuridiche di rango primario allo scrutinio
di legittimità costituzionale: «Altro […] è la garanzia che i principi del
diritto penale-costituzionale possono offrire agli imputati, circoscrivendo
l’efficacia spettante alle dichiarazioni d’illegittimità delle norme penali di
favore; altro è il sindacato cui le norme stesse devono pur sempre sottostare,
a pena di istituire zone franche del tutto impreviste dalla Costituzione,
all’interno delle quali la legislazione ordinaria diverrebbe incontrollabile» (sentenza n. 148 del
1983 e sul punto, sostanzialmente nello stesso senso, sentenza n. 394 del
2006).
Nel caso di specie, se si
stabilisse che il possibile effetto in malam partem della sentenza di questa Corte inibisce la verifica
di conformità delle norme legislative interne rispetto alle norme comunitarie –
che sono cogenti e sovraordinate alle leggi ordinarie
nell’ordinamento italiano per il tramite degli artt. 11 e 117, primo comma,
Cost. – non si arriverebbe soltanto alla conclusione del carattere non autoapplicativo delle direttive comunitarie sui rifiuti, ma
si toglierebbe a queste ultime ogni efficacia vincolante per il legislatore
italiano, come effetto del semplice susseguirsi di norme interne diverse, che
diverrebbero insindacabili a seguito della previsione, da parte del medesimo
legislatore italiano, di sanzioni penali.
La responsabilità penale,
che la legge italiana prevede per l’inosservanza delle fattispecie penali
connesse alle direttive comunitarie, per dare alle stesse maggior forza,
diverrebbe paradossalmente una barriera insuperabile per l’accertamento della
loro violazione.
Per superare il paradosso sopra
segnalato, occorre quindi distinguere tra controllo di legittimità
costituzionale, che non può soffrire limitazioni, se ritualmente attivato
secondo le norme vigenti, ed effetti delle sentenze di accoglimento nel
processo principale, che devono essere valutati dal giudice rimettente secondo
i principi generali che reggono la successione nel tempo delle leggi penali.
Questa Corte ha già chiarito
che l’eventuale accoglimento delle questioni relative a norme più favorevoli
«verrebbe ad incidere sulle formule di proscioglimento o, quanto meno, sui
dispositivi delle sentenze penali»; peraltro, «la pronuncia della Corte non
potrebbe non riflettersi sullo schema argomentativo della sentenza penale
assolutoria, modificandone la ratio decidendi: poiché
in tal caso ne risulterebbe alterato […] il fondamento normativo della
decisione, pur fermi restando i pratici effetti di essa» (sentenza n. 148 del
1983).
Occorre precisare inoltre
che, nel caso di specie, il giudice rimettente ha posto un problema di
conformità di una norma legislativa italiana ad una direttiva comunitaria,
evocando i parametri di cui agli artt. 11 e 117 Cost., senza denunciare, né nel
dispositivo né nella motivazione dell’atto introduttivo del presente giudizio,
la violazione dell’art. 3 Cost. e del principio di ragionevolezza intrinseca
delle leggi. Ciò esclude che la questione oggi all’esame di questa Corte
comprenda la problematica delle norme penali di favore, quale affrontata dalla sentenza n. 394 del
2006.
Infine va ricordato che,
posti i principi di cui all’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea, all’art. 25, secondo comma, Cost. ed all’art. 2, quarto
comma, del codice penale, la valutazione del modo in cui il sistema normativo
reagisce ad una sentenza costituzionale di accoglimento non è compito di questa
Corte, in quanto la stessa spetta al giudice del processo principale, unico
competente a definire il giudizio da cui prende le mosse l’incidente di
costituzionalità.
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 183, comma 1, lettera n), del
decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), nel
testo antecedente alle modiche introdotte dall’art. 2, comma 20, del decreto legislativo
16 gennaio 2008, n. 4 (Ulteriori disposizioni correttive ed integrative del
d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, recante norme in materia ambientale), nella parte
in cui prevede: «rientrano altresì tra i sottoprodotti non soggetti alle
disposizioni di cui alla parte quarta del presente decreto le ceneri di pirite,
polveri di ossido di ferro, provenienti dal processo di arrostimento del
minerale noto come pirite o solfuro di ferro per la produzione di acido
solforico e ossido di ferro, depositate presso stabilimenti di produzione
dismessi, aree industriali e non, anche se sottoposte a procedimento di
bonifica o di ripristino ambientale».
Così deciso in Roma, nella
sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 gennaio 2010.
F.to:
Francesco AMIRANTE,
Presidente
Gaetano SILVESTRI, Redattore
Giuseppe DI
PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il
28 gennaio 2010.