SENTENZA N. 232
ANNO 1975
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Prof. Francesco Paolo BONIFACIO, Presidente
Dott. Luigi OGGIONI
Avv. Angelo DE MARCO
Avv. Ercole ROCCHETTI
Prof. Enzo CAPALOZZA
Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI
Prof. Vezio CRISAFULLI
Dott. Nicola REALE
Prof. Paolo ROSSI
Avv. Leonetto AMADEI
Dott. Giulio GIONFRIDA
Prof. Edoardo VOLTERRA
Prof. Guido ASTUTI
Dott. Michele ROSSANO,
Prof. Antonino DE STEFANO
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 13, secondo e terzo comma, del d.l. 20 febbraio 1968, n. 59, convertito in legge 18 marzo 1968, n. 224; degli artt. 15, 16 e 34 del d.l. 19 dicembre 1969, n. 947, convertito in legge 11 febbraio 1970, n. 23, recanti norme sull'organizzazione comune dei mercati nei settori dei cereali, carni suine, uova, pollame, riso ed altro, promossi con ordinanze emesse il 31 ottobre 1974 dalla Corte suprema di cassazione - sezioni unite civili - e il 10 aprile 1975 dalla Corte d'appello di Roma in quattro procedimenti civili vertenti tra la società Industrie chimiche Italia centrale (I.c.I.c.) e il Ministero del commercio con l'estero, iscritte ai nn. 50, 296, 297 e 298 del registro ordinanze 1975 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n.77 del 20 marzo 1975 e n.202 del 30 luglio 1975.
Visti gli atti di costituzione della società I.c.I.c. e del Ministero del commercio con l'estero;
udito nell'udienza pubblica dell'8 ottobre 1975 il Giudice relatore Guido Astuti;
uditi gli avvocati Massimo Severo Giannini, Leopoldo Elia e Nicola Catalano, per la società I.c.I.c., ed il sostituto avvocato generale dello Stato Michele Savarese, per il Ministero del commercio con l'estero.
Ritenuto in fatto
Nel corso di un giudizio civile vertente tra la società Industrie chimiche dell'Italia centrale ed il Ministero del commercio con l'estero, le sezioni unite civili della Corte suprema di cassazione, accogliendo l'eccezione proposta dalla difesa della società I.c.I.c., hanno sollevato, in riferimento agli articoli 10, primo comma, e 11 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 13, commi secondo e terzo, del decreto legge 20 febbraio 1968, n. 59, convertito nella legge 18 marzo 1968, n. 224.
Si rileva, preliminarmente, nell'ordinanza di rinvio, che la controversia ha avuto origine a seguito dell'incameramento parziale della cauzione versata dalla società I.c.I.c. all'atto del rilascio in suo favore di un titolo di importazione nella Comunità economica europea di 6.000 tonnellate di granturco, importazione poi non verificatasi. Secondo la società I.c.I.c. la misura dell'incameramento sarebbe stata eccessiva in relazione a quanto disposto dai regolamenti C.e.e. 120/1967 e 473/ 1967, sostanzialmente riprodotti nel d.l. 20 febbraio 1968, n. 59, convertito nella legge 18 marzo 1968, n. 224, e nel d.m. 28 maggio 1968. Tale tesi era stata disattesa nei primi due gradi di giurisdizione in base al rilievo che nella fattispecie, esistendo delle norme nazionali regolanti la materia, successive ai regolamenti, dovevano trovare applicazione le sole norme interne, interpretate dai giudici nazionali, con esclusione di ogni intervento della Corte di giustizia delle Comunità europee. Le sezioni unite della Corte suprema di cassazione osservano che la mera riproduzione delle disposizioni dei regolamenti C.e.e. in norme interne viola l'art. 189, comma secondo, del Trattato di Roma, ed inoltre che, pur essendo stata in più sedi ribadita la prevalenza del diritto comunitario sul diritto statale, non sono stati precisati i mezzi giuridici offerti dall'ordinamento interno per realizzare tale prevalenza. In proposito, andrebbe esclusa l'ipotesi di una nullità delle norme interne contrarie ai regolamenti C.e.e., sembrando difficile ammettere che la adesione al Trattato di Roma renda priva di effetto la volontà sovrana degli organi legislativi, con ciò introducendo un vizio della legge più grave dell'incostituzionalità. Viceversa, la violazione del Trattato a seguito della emanazione di leggi interne in contrasto con la normativa comunitaria, si porrebbe in urto con il principio di cui all'art. 10 della Costituzione, il quale avrebbe recepito il principio di diritto internazionale "pacta sunt servanda", o con l'art. 11 della Costituzione medesima, che conferirebbe valore costituzionale ai trattati stipulati per perseguire la pace e la giustizia tra le Nazioni.
Identica questione di legittimità costituzionale, estesa anche agli artt. 15,16 e 34 del d.l. 19 dicembre 1969, n. 947, convertito nella legge 11 febbraio 1970, n. 23, é stata sollevata dalla Corte di appello di Roma in altre tre controversie vertenti tra la società Industrie chimiche Italia centrale ed il Ministero del commercio con l'estero, e sempre relative all'incameramento di cauzioni versate all'atto del rilascio di titoli di importazione poi non utilizzati.
Nei giudizi di legittimità costituzionale si é costituita la società I.c.I.c., chiedendo l'accoglimento, se ed in quanto necessario, delle eccezioni proposte.
Si é, altresì, costituito, a mezzo dell'Avvocatura generale dello Stato, il Ministro per il commercio con l'estero, deducendo l'infondatezza delle questioni sollevate.
Considerato in diritto
1. - Il regolamento del Consiglio C.e.e. 13 giugno 1967, n. 120, sull'organizzazione comune dei mercati nel settore dei cereali, dispone all'art. 12 che il rilascio dei titoli di importazione o esportazione é subordinato alla costituzione di un deposito cauzionale a garanzia dell'impegno di compiere l'operazione durante il periodo di validità del titolo, deposito che resta acquisito in tutto o in parte se l'operazione non é realizzata entro tale termine, o se é realizzata solo parzialmente. Lo stesso regolamento attribuisce alla Commissione l'adozione delle misure di immediata applicazione (art. 26); conseguentemente, il regolamento della Commissione C.e.e. 21 agosto 1967, n. 473, ha tra l'altro determinato all'art. 8, n. 3 lett. b, l'importo da prendere in considerazione per il calcolo della cauzione o della parte di essa da incamerare, quando trattisi di titoli d'importazione o esportazione "per i quali il prelievo é stato fissato in anticipo".
Con decreto legge 20 febbraio 1968, n. 59, "ritenuta la straordinaria necessità ed urgenza di emanare norme per l'adattamento della vigente legislazione" in conformità del regolamento n. 120/67 e di altri regolamenti comunitari, é stata riprodotta, tra l'altro, la disposizione dell'art. 12 di quel regolamento (art. 13, secondo comma), autorizzandosi inoltre il Ministro per il commercio con l'estero a determinare, con decreto, previo concerto, "la misura della cauzione e le modalità per la costituzione della stessa o per la prestazione di fideiussione, nonché per lo svincolo o incameramento, totale o parziale" (art. 13, terzo comma). E con decreto ministeriale 28 maggio 1968 é stata, tra l'altro, riprodotta all'art. 3, lett. b, la disposizione dell'art. 8, n. 3 lett. b, del regolamento della Commissione C.e.e. n. 473/67, sopra ricordata.
Deve qui essere precisato che il testo dell'art. 8, n. 3 lett. b, del regolamento C.e.e. n. 473/67 é stato sostituito con l'art. 1 del regolamento della Commissione del 7 aprile 1970, n. 638. La nuova disposizione non deve peraltro essere presa in considerazione in questa sede perché, come disposto dall'art. 2, essa é entrata in vigore l'11 aprile 1970 ed é applicabile solo "ai titoli di importazione rilasciati a decorrere da tale giorno". Tutti i titoli o certificati di importazione cui si riferiscono i giudizi a quibus sono anteriori alla data suindicata.
2. - Nelle cause che hanno dato origine al presente giudizio si é discusso se ai fini del parziale incameramento delle cauzioni prestate da privati operatori, in relazione a titoli o certificati di importazione non interamente utilizzati nei termini di validità, dovessero applicarsi le richiamate disposizioni dei regolamenti C.e.e. n. 120/67 e 473/67, ovvero le successive disposizioni, di legge o regolamento, con le quali le prime erano state riprodotte e recepite nel nostro ordinamento interno. La questione assumeva rilevanza decisiva, in quanto trattavasi di stabilire se a base del calcolo della somma soggetta ad incameramento dovesse essere assunto, come richiesto dalla parte privata, secondo l'interpretazione data dalla Corte di giustizia delle Comunità all'art. 8, n. 3 lett. b, del regolamento C.e.e. n. 473/67, il prelievo in vigore nel mese per il quale l'importazione era stata prevista, ovvero, come preteso dalla pubblica amministrazione, il prelievo in vigore nell'ultimo mese di validità del titolo, giusta l'interpretazione che il giudice di merito aveva ritenuto di dare all'art. 3, lett. b, del decreto ministeriale 28 maggio 1968, dichiarando che dovevano applicarsi non le norme dei regolamenti comunitari ma le successive norme nazionali regolanti la materia, e che pertanto non poteva tenersi conto dell'interpretazione data alle prime dalla Corte di giustizia.
3. - Le sezioni unite della Corte di cassazione, nell'ordinanza di rimessione, prospettano l'alternativa se il giudice italiano abbia il potere di procedere alla diretta disapplicazione delle norme interne, riproduttive dei regolamenti C.e.e., e in specie di quella del decreto ministeriale 28 maggio 1968, ovvero debba sollevare questione di legittimità costituzionale delle norme di legge che hanno riprodotto le norme comunitarie, e autorizzato l'emanazione della norma regolamentare dianzi ricordata.
Respingendo la prima soluzione, l'ordinanza solleva, in riferimento agli artt. 10, primo comma, e 11 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 13, secondo e terzo comma, del d.l. 20 febbraio 1968, n. 59, convertito nella legge 18 marzo 1968, n.224.
Le tre ordinanze della Corte di appello di Roma, di identico contenuto, sollevano la medesima questione di costituzionalità, denunziando inoltre gli artt. 15, 16 e 34 del d.l. 19 dicembre 1969, n. 947, convertito nella legge 11 febbraio 1970, n. 23.
L'ordinanza della Corte di cassazione contiene esauriente motivazione circa la rilevanza della questione di legittimità ai fini della decisione della causa. Deve riconoscersi la rilevanza della medesima questione anche rispetto all'art. 16 del successivo d.l. 19 dicembre 1969, n. 947, convertito nella legge 11 febbraio 1970, n. 23, che nei suoi due commi riproduce le disposizioni dell'art. 13, secondo e terzo comma, del precedente decreto legge, abrogate con l'art. 34 dello stesso decreto. Appare invece non rilevante la questione per quanto concerne le disposizioni dell'art. 15 e dell'art. 34, che non debbono essere applicate per la decisione delle cause di merito pendenti davanti alla Corte di appello di Roma.
Avendo per oggetto la medesima questione, i giudizi possono essere riuniti e definiti con unica sentenza.
4. - Ai fini della decisione sembra anzitutto opportuno ricordare che sui rapporti tra ordinamento comunitario e ordinamento interno questa Corte ha già avuto occasione di enunciare i seguenti principi (sentenza 27 dicembre 1973, n. 183):
a) l'attribuzione di potestà normativa agli organi delle Comunità europee, con la corrispondente limitazione di quella propria dei singoli Stati membri, ha, quanto all'Italia, sicuro fondamento nell'art. 11 della Costituzione, che legittima le limitazioni dei poteri dello Stato a favore delle Comunità in ordine all'esercizio delle funzioni legislativa, esecutiva e giurisdizionale;
b) i regolamenti emanati dai competenti organi delle Comunità europee (Consiglio e Commissione), à sensi dell'art. 189 del Trattato di Roma, appartengono all'ordinamento proprio delle Comunità: il diritto di queste e il diritto interno dei singoli Stati membri possono configurarsi come sistemi giuridici autonomi e distinti, ancorché coordinati secondo la ripartizione di competenza stabilita e garantita dai trattati istitutivi delle Comunità e successivi;
c) esigenze fondamentali di eguaglianza e di certezza giuridica postulano che le norme comunitarie, - non qualificabili come fonte di diritto internazionale, né di diritto straniero, né di diritto interno dei singoli Stati -, debbano avere piena efficacia obbligatoria e diretta applicazione in tutti gli Stati membri, senza la necessità di leggi di recezione e adattamento, come atti aventi forza e valore di legge in ogni Paese della Comunità, sì da entrare ovunque contemporaneamente in vigore e conseguire applicazione uguale ed uniforme nei confronti di tutti i destinatari;
d) risponde altresì alla logica del sistema comunitario che i regolamenti delle Comunità, - sempreché abbiano completezza di contenuto dispositivo, quale caratterizza di regola le norme intersoggettive -, come fonte immediata di diritti ed obblighi sia per gli Stati sia per i loro cittadini in quanto soggetti delle Comunità, non debbano essere oggetto di provvedimenti statali a carattere riproduttivo, integrativo o esecutivo, che possono comunque differirne o condizionarne l'entrata in vigore, e tanto meno sostituirsi ad essi, derogarvi o abrogarli, anche parzialmente. ciò, beninteso, salva la necessità per gli Stati membri di emanare norme esecutive di organizzazione e concernenti modalità di applicazione, richieste dagli stessi regolamenti comunitari o comunque indispensabili, ovvero di provvedere alla copertura finanziaria di nuove o maggiori spese mediante variazioni di bilancio; fermo rimanendo peraltro che l'eventuale adempimento di simili obblighi da parte dello Stato non potrebbe costituire condizione o motivo di sospensione dell'applicabilità della normativa comunitaria.
5. - Posti questi principi, che la Corte conferma, si deve preliminarmente rilevare che i regolamenti comunitari n. 120/67 e 473/67 recano entrambi la clausola finale "il presente regolamento é obbligatorio in tutti i suoi elementi ed é direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri"; e che, in particolare, le disposizioni del primo come del secondo, che impongono la cauzione per l'importazione dei cereali e determinano la misura in cui essa deve essere incamerata, hanno, come già riconosciuto anche dalla Corte di cassazione, evidente completezza di contenuto dispositivo. Non sussisteva dunque motivo alcuno per recepire e riprodurre dette disposizioni del regolamento C.e.e. n. 120/67 nei decreti legge 20 febbraio 1968, n. 59, e 19 dicembre 1969, n. 947, né quelle del regolamento C.e.e. n. 473/67 nel regolamento ministeriale 28 maggio 1968. L'emanazione delle corrispondenti norme italiane, non dettata né giustificabile dalla esigenza di dare alle norme comunitarie attuazione nello Stato, ma dovuta - come ha notato la Corte di cassazione - al disconoscimento dell'efficacia immediata e diretta delle norme comunitarie in Italia, contrasta con i principi sanciti dal Trattato di Roma, la cui piena legittimità costituzionale é già stata da questa Corte riconosciuta con la ricordata decisione n. 183 del 1973.
6. - Di fronte a questo contrasto, che indubbiamente sussiste non solo nell'ipotesi di norme interne successive incompatibili con quelle emanate dai competenti organi delle Comunità europee, ma anche nell'ipotesi di norme interne, legislative o regolamentari, di contenuto puramente riproduttivo, si pone il problema della loro eventuale disapplicazione, prospettato e risolto negativamente dalla Corte di cassazione, e qui riproposto, sia pure in via alternativa, e con diverse impostazioni e motivazioni, da entrambe le parti costituite in giudizio.
Per quanto concerne le norme interne successive, emanate con legge o con atti aventi valore di legge ordinaria, questa Corte ritiene che il vigente ordinamento non conferisca al giudice italiano il potere di disapplicarle, nel presupposto d'una generale prevalenza del diritto comunitario sul diritto dello Stato. Certamente non può accogliersi la soluzione, prospettata e respinta dalla Corte di cassazione, di una declaratoria di nullità della legge successiva interna, dovendosi escludere che il trasferimento agli organi delle Comunità del potere di emanare norme giuridiche, sulla base d'un preciso criterio di ripartizione di competenze per determinate materie, "per l'assolvimento dei loro compiti e alle condizioni contemplate dai trattati" (cfr. art. 189 del Trattato di Roma), comporti come conseguenza una radicale privazione di efficacia della volontà sovrana degli organi legislativi degli Stati membri, pur manifestata nelle materie riservate dai trattati alla normazione comunitaria; tale trasferimento fa sorgere, invece, il diverso problema della legittimità costituzionale dei singoli atti legislativi.
Non sembra nemmeno possibile configurare la possibilità della disapplicazione come effetto di una scelta tra norma comunitaria e norma interna, consentita di volta in volta al giudice italiano sulla base di una valutazione della rispettiva resistenza. In tale ipotesi, dovrebbe riconoscersi al giudice italiano non già la facoltà di scegliere tra più norme applicabili, bensì quella di individuare la sola norma validamente applicabile, ciò che equivarrebbe ad ammettere il suo potere di accertare e dichiarare una incompetenza assoluta del nostro legislatore, sia pur limitatamente a determinate materie, potere che nel vigente ordinamento sicuramente non gli é attribuito.
Ne consegue che di fronte alla situazione determinata dalla emanazione di norme legislative italiane, le quali abbiano recepito e trasformato in legge interna regolamenti comunitari direttamente applicabili, il giudice é tenuto a sollevare la questione della loro legittimità costituzionale.
7. - Anche per quanto concerne le norme regolamentari interne, riproduttive di norme comunitarie, il riconoscimento della diretta ed immediata efficacia dei regolamenti C.e.e., allorché fra questi e le norme interne si frapponga una legge dello Stato non autorizza il giudice a disapplicare tali norme, in virtù dei principi sanciti dagli artt. 4 e 5 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, che concernono i rapporti tra leggi e provvedimenti amministrativi appartenenti all'ordinamento interno. Come ha osservato la Corte di cassazione, nella specie la norma regolamentare dell'art. 3, lett. b, del decreto ministeriale 28 maggio 1968, che ha riprodotto e sostituito l'art. 8, n. 3 lett. b, del regolamento C.e.e n. 473/67 é stata emanata in base alla disposizione dell'art. 13, secondo comma, del d.l. n. 59 del 1968, e la sua disapplicazione, che da ciò tragga motivo, significherebbe disapplicare la norma primaria che ne costituisce la fonte normativa.
Pertanto, solo a seguito della dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 13, secondo comma, del d.l. n. 59 del 1968, - nei limiti che saranno precisati qui appresso -, potrà il giudice disapplicare la disposizione regolamentare interna dianzi ricordata.
8. - Dopo queste considerazioni, che eliminano ogni dubbio circa la rilevanza della dedotta questione di legittimità costituzionale, appare forse superflua l'indicazione dei motivi per cui essa deve riconoscersi pienamente fondata. Per vero, la successiva emanazione di norme legislative interne, anche se aventi lo stesso contenuto sostanziale dei regolamenti comunitari, comporta non soltanto la possibilità di differirne, in tutto o in parte, l'applicazione, in aperto contrasto con l'articolo 189, secondo comma, del Trattato di Roma, ma anche una ben più grave conseguenza, in quanto la trasformazione del diritto comunitario in diritto interno ne sottrae l'interpretazione in via definitiva alla Corte di giustizia delle Comunità, con palese violazione del regime stabilito dall'art. 177 dello stesso Trattato quale necessaria e fondamentale garanzia di uniformità di applicazione in tutti gli Stati membri.
Entrambi questi effetti si sono verificati nel caso di specie. L'art. 29 del d.l. 20 febbraio 1968, n. 59, e l'art. 36 del d.l. 19 dicembre 1969, n. 947, pur prevedendo che alcuni articoli (diversi da quelli qui denunciati) avessero effetto dalla data di applicazione dei regolamenti comunitari ivi indicati, contengono l'ordine di entrata in vigore il giorno successivo a quello della loro pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica.
D'altra parte, i giudici di merito hanno ritenuto che la espressione "prelievo fissato in anticipo", contenuta nell'art. 8, n. 3 lett. b, del regolamento C.e.e. n. 473/67, e riprodotta nell'art.3, lett. b del decreto ministeriale 28 maggio 1968, dovesse essere interpretata in senso difforme dall'interpretazione già fornita in terminis dalla Corte di giustizia delle Comunità con sentenze 10 marzo 1971 in cause 38/70 e 58/70; e ciò precisamente con la motivazione che dovevano essere applicate non le norme dei regolamenti comunitari, ma le successive norme nazionali regolanti la materia, e che pertanto non v'era nemmeno ragione di chiedere o seguire la pronuncia della Corte di giustizia ai sensi dell'art. 177 del Trattato di Roma.
É dunque evidente il contrasto con i principi enunciati dagli artt. 189 e 177 del Trattato istitutivo della C.e.e., che comporta violazione dell'art. 11 della nostra Costituzione, in base al quale l'Italia ha aderito alla Comunità consentendo, in condizioni di parità con gli altri Stati, le limitazioni di sovranità richieste per la sua istituzione e per il conseguimento dei suoi fini di integrazione, solidarietà e comune sviluppo economico e sociale degli Stati europei, e quindi anche di pace e giustizia fra le Nazioni. La violazione dello specifico disposto dell'art. 11 rende superfluo accertare se sussista anche violazione del principio enunciato nel primo comma dell'art. 10.
9. - Occorre qui precisare che la declaratoria di illegittimità della disposizione contenuta nel terzo comma dell'art. 13 del d.l. n. 59 del 1968, e ripetuta nel secondo comma dell'art. 16 del successivo d.l. n. 947 del 1969, deve essere limitata alla parte in cui essa é stata assunta a fondamento dell'emanazione di norme regolamentari interne non indispensabili per l'applicazione in Italia dei regolamenti C.e.e. Infatti, le disposizioni con le quali é stata autorizzata la emanazione del decreto ministeriale 28 maggio 1968, e del successivo decreto ministeriale 8 aprile 1971 (che lo ha sostituito ed abrogato), non sono illegittime in toto, perché lo Stato ben poteva e doveva, mediante legge o regolamento, dettare le norme esecutive che fossero necessarie per l'applicazione in Italia dei regolamenti comunitari in questione. Tali sono, ad esempio, quelle concernenti le modalità di deposito delle cauzioni presso le tesorerie provinciali, le aziende di credito abilitate a prestare le fideiussioni bancarie sostitutive, ovvero gli organi ministeriali competenti a ricevere le cauzioni, ed a disporre la loro restituzione o l'eventuale incameramento.
L'illegittimità costituzionale dell'art. 13, terzo comma, del d.l. n. 59 del 1968, e dell'art. 16, secondo comma del d.l. n. 947 del 1969 (che ha sostituito l'abrogato art. 13 del precedente decreto, senza peraltro travolgere il decreto ministeriale 28 maggio 1968, abrogato solo dall'art. 6 del successivo decreto ministeriale 8 aprile 1971), deve pertanto essere dichiarata solo nei limiti in cui il legislatore ha reso possibile al Governo di emanare norme non strettamente necessarie per l'applicazione dei regolamenti comunitari da parte delle autorità amministrative e degli operatori nel nostro Paese.
Spetterà poi all'autorità giudiziaria di accertare quali norme regolamentari interne abbiano contenuto riproduttivo, e debbano quindi essere disapplicate à sensi dell'art. 5 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, in quanto illegittimamente autorizzate, e quali invece continuino ad avere piena validità ed efficacia, in quanto effettivamente necessarie per l'applicazione dei regolamenti C.e.e.
10. - La parte privata, nelle sue difese, ha sottolineato gli inconvenienti connessi alla necessità di sollevare la questione di costituzionalità delle norme legislative interne che riproducano o contrastino con quelle dei regolamenti comunitari direttamente applicabili, sia perché le decisioni di questa Corte non determinano cessazione di efficacia delle norme illegittime ex tunc, sia perché, potendosi adire questa Corte solo nel corso delle liti via via insorgenti, risulta tardiva quella certezza giuridica che é indispensabile per l'amministrazione come per gli operatori. E pertanto ha chiesto che, in applicazione dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, sia dichiarata, come conseguenza dell'adottata decisione, la illegittimità costituzionale derivata di una serie di disposizioni legislative, contenute anche in altri provvedimenti, aventi carattere riproduttivo sostitutivo, ovvero derogativo o abrogativo, di disposizioni dei regolamenti comunitari.
Gli effetti delle decisioni di questa Corte sono stabiliti dall'art. 136, primo comma, della Costituzione, e sarebbe quindi fuori luogo discuterne. D'altra parte, la richiesta di una declaratoria di illegittimità costituzionale derivata non può essere accolta, sia perché tale pronunzia non deriverebbe dalla declaratoria di illegittimità delle disposizioni oggi impugnate ma troverebbe spiegazione solo nell'identità dei vizi di legittimità, sia perché essa comporterebbe da parte di questa Corte un analitico ed integrale esame comparativo dei regolamenti comunitari e dei successivi provvedimenti interni, che presentano una normativa complessa e variamente articolata, di interpretazione spesso dubbia e non sorretta da decisioni della Corte di giustizia delle Comunità. Una declaratoria ai sensi dell'art. 27 della legge n. 87 del 1953 appare pertanto inammissibile, dal momento che essa dovrebbe essere giustificata, con analitica motivazione, per ciascuna delle disposizioni denunciate.
Questa Corte, può, piuttosto, auspicare che il Parlamento e il Governo italiano provvedano, per quanto possibile, ad eliminare i provvedimenti interni che riproducono norme dei regolamenti comunitari direttamente applicabili, o con essi contrastano, ed evitino per l'avvenire di procedere all'emanazione di provvedimenti non strettamente necessari per l'applicazione dei regolamenti stessi.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 13, secondo comma, del decreto legge 20 febbraio 1968, n. 59, convertito nella legge 18 marzo 1968, n. 224, e dell'art. 16, primo comma, del decreto legge 19 dicembre 1969, n. 947, convertito nella legge 11 febbraio 1970, n. 23;
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 13, terzo comma, del decreto legge 20 febbraio 1968, n. 59, convertito nella legge 18 marzo 1968, n. 224, e dell'art. 16, secondo comma, del decreto legge 19 dicembre 1969, n. 947, convertito nella legge 11 febbraio 1970, n. 23, limitatamente alla parte in cui hanno reso possibile al Governo di emanare norme regolamentari non necessarie per l'applicazione dei regolamenti C.e.e. 13 giugno 1967, n. 120, e 21 agosto 1967, n. 473;
dichiara inammissibile, per difetto di rilevanza, la questione di legittimità costituzionale degli artt. 15 e 34 del decreto legge 19 dicembre 1969, n. 947, convertito nella legge 11 febbraio 1970, n. 23.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 ottobre 1975.
Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Paolo ROSSI - Leonetto AMADEI - Edoardo VOLTERRA - Guido ASTUTI - Michele ROSSANO - Antonino DE STEFANO.
Arduino SALUSTRI - Cancelliere
Depositata in cancelleria il 30 ottobre 1975.