SENTENZA N. 119
ANNO 2012
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Alfonso QUARANTA Presidente
- Franco GALLO Giudice
- Luigi MAZZELLA ”
- Gaetano SILVESTRI ”
- Sabino CASSESE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo
3, commi 2 e 3, del decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229 (Norme per la
razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale, a norma dell’articolo 1
della legge 30 novembre 1998, n. 419), dell’art. 3-bis, comma 11, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502
(Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della
legge 23 ottobre 1992, n. 421), e dell’art. 2, comma 1, lettera t), della legge 30 novembre 1998, n. 419
(Delega al Governo per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale e
per l’adozione di un testo unico in materia di organizzazione e funzionamento
del Servizio sanitario nazionale. Modifiche al decreto legislativo 30 dicembre
1992, n. 502), promosso dal Tribunale di Monza nel procedimento vertente tra
F.R. e INPDAP, con ordinanza del 26 gennaio 2011, iscritta al n. 237 del
registro ordinanze 2011, pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell’anno 2011.
Visti gli atti di
costituzione di F.R. e dell’INPS, successore ex lege dell’INPDAP, nonché gli atti di
intervento di G.D.P. e della Federazione italiana delle aziende sanitarie e
ospedaliere (FIASO);
udito nell’udienza pubblica del 3 aprile 2012 il Giudice
relatore Gaetano Silvestri;
uditi gli avvocati Rosaria Russo Valentini per F.R. e
Dario Marinuzzi per l’INPS.
Ritenuto in fatto
1. – Con ordinanza del 26
gennaio 2011, il Tribunale di Monza, sezione lavoro, ha sollevato, in riferimento
all’articolo 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale
dell’art. 3, commi 2 e 3, del decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229 (Norme
per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale, a norma
dell’articolo 1 della legge 30 novembre 1998, n. 419), dell’art. 3-bis, comma 11, del decreto legislativo
30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a
norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), e dell’art. 2,
comma 1, lettera t), della legge 30
novembre 1998, n. 419 (Delega al Governo per la razionalizzazione del Servizio
sanitario nazionale e per l’adozione di un testo unico in materia di
organizzazione e funzionamento del Servizio sanitario nazionale. Modifiche al
decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502).
La normativa censurata ha
disciplinato il trattamento assistenziale e previdenziale dei dipendenti
pubblici e privati nominati direttore generale di unità sanitarie locali e
aziende ospedaliere, prevedendo che i contributi previdenziali e assistenziali
– da versarsi da parte dall’amministrazione di appartenenza del dipendente
collocato in aspettativa senza assegni – sono computati sul trattamento
economico corrisposto per l’incarico conferito, con conseguente aumento della base
di calcolo dei trattamenti di fine servizio dovuti in caso di collocamento a
riposo del dipendente.
1.1. – Il rimettente riferisce
che il giudizio principale è stato introdotto dal ricorso proposto nei
confronti dell’INPDAP da un lavoratore, già dipendente del servizio sanitario
nazionale dal 1971, collocato in aspettativa nel 2004 per svolgere l’incarico
di direttore generale dell’Azienda USL di Bologna. Tale situazione si è
protratta fino al 2008, data del pensionamento del ricorrente, il quale ha ricevuto
l’indennità premio di servizio, prevista dalla legge 8 marzo 1968, n. 152
(Nuove norme in materia previdenziale per il personale degli Enti locali), non
sulla base del trattamento economico percepito negli ultimi dodici mesi di
lavoro, bensì sulla cosiddetta retribuzione virtuale, cioè sul trattamento in
atto nel 2004, prima del collocamento in aspettativa concesso per
l’espletamento dell’incarico di direttore generale.
Il ricorrente chiede dunque
l’accertamento del diritto alla diversa liquidazione dell’indennità premio di
servizio e la condanna dell’INPDAP al pagamento della differenza.
Riferisce ancora il giudice a quo che l’INPDAP si è costituto ed ha
chiesto il rigetto del ricorso, proponendo eccezione di illegittimità
costituzionale della normativa in oggetto per contrasto con l’art. 3 Cost.
1.2. – Su queste premesse in
fatto, il rimettente osserva come oggetto della controversia sia l’inclusione,
nella base di calcolo dell’indennità premio di fine servizio, della
retribuzione percepita dal ricorrente mentre ricopriva l’incarico di direttore
generale di USL.
È richiamata la disciplina
dell’indennità premio di servizio, prevista negli artt. 4 e 11, quinto comma,
della legge n. 152 del 1968, i quali prevedono, rispettivamente, che la misura
dell’indennità in questione è «pari a un quindicesimo della retribuzione
contributiva degli ultimi dodici mesi, considerata in ragione dell’80 per cento
ai sensi del successivo art. 11, per ogni anno di iscrizione all’Istituto. Le
frazioni superiori a sei mesi si computano per anno intero; quelle pari o
inferiori sono trascurate», e che «la retribuzione contributiva è costituita
dallo stipendio o salario comprensivo degli aumenti periodici, della
tredicesima mensilità e del valore degli assegni in natura, spettanti per legge
o regolamento e formanti parte integrante ed essenziale dello stipendio
stesso».
Secondo il giudice a quo, nel contesto in esame non sarebbe
rilevante tanto «la natura retributiva o meno dell’indennità in questione […]
quanto il fatto che essa faccia parte integrante della "retribuzione
contributiva” sulla quale va effettuato il calcolo ai fini della determinazione
della indennità premio di fine servizio».
Ancora a proposito della
nozione di retribuzione annua contributiva, il rimettente evidenzia come – in
base agli artt. 4 della legge n. 152 del 1968 e 30, comma 3, del decreto-legge
28 febbraio 1983, n. 55 (Provvedimenti urgenti per il settore della finanza
locale per l’anno 1983), convertito, con modificazioni, dall’art. 1 della legge
26 aprile 1983, n. 131 – essa comprenda la somma degli emolumenti fissi e
continuativi dovuti come remunerazione dell’attività lavorativa e, tra questi,
l’indennità per mansioni superiori, «stante la sua fissità, predeterminazione e
continuatività, in quanto collegata ad incarico che,
ancorché temporaneo, si protrae nel tempo e, peraltro, come nella fattispecie
fino alla cessazione del servizio del dipendente interessato».
Il giudice a quo sottolinea come il dibattito giurisprudenziale intorno alla
nozione di «stipendio annuo complessivo», rilevante in ambito contributivo, sia
stato definito dalla sentenza n. 3673 del 1997 delle Sezioni unite della Corte
di cassazione in senso restrittivo, analogamente a quanto avvenuto nella
giurisprudenza amministrativa (sono richiamate le sentenze del Consiglio di
Stato n. 1121 del 1998 e n. 121 del 1985). La giurisprudenza di legittimità ha
quindi costantemente escluso dalla base di computo del trattamento di fine
servizio indennità di varia natura, che pure costituivano parte fissa del
trattamento retributivo (sono richiamate le sentenze n. 19377 del 2007, n.
19427 del 2006, n. 16634 del 2004, n. 15906 del 2004 e n. 9901 del 2003).
Peraltro, prosegue il
rimettente, la Corte di cassazione si è diversamente espressa proprio con
riguardo alla disciplina oggetto dell’odierna questione (è richiamata la
sentenza n. 12325 del 2008), riconoscendo che la disposizione contenuta
nell’art. 3-bis, comma 11, del d.lgs.
n. 502 del
1.3. – Il giudice a quo dà atto che l’art. 3, commi 2 e 3,
del d.lgs. n. 229 del 1999, modificativo della disciplina nel senso sopra
indicato, è già stato sottoposto a scrutinio di costituzionalità, in
riferimento all’art. 76 Cost., e che la Corte
costituzionale, con la sentenza n. 351 del
2010, ha dichiarato la relativa questione non fondata.
Residuerebbe tuttavia, secondo
il rimettente, il dubbio di conformità della normativa indicata all’art. 3
Cost., sotto il profilo della manifesta irragionevolezza di una disciplina che,
«nell’ambito dei dipendenti pubblici non soggetti a t.f.r., introduce per una
ristretta categoria di essi, vale a dire i dipendenti che hanno assunto
temporaneamente l’incarico di direttori generali di USL con contratto di lavoro
autonomo e, per questo, sono stati posti in aspettativa […], un computo del
trattamento previdenziale (nella specie l’indennità premio di servizio di cui
alla legge n. 152 del 1968) più vantaggioso nella base di calcolo (o
retribuzione contributiva) rispetto a quello della generalità».
La manifesta irragionevolezza
segnerebbe anche la diversità del trattamento di fine rapporto determinata
all’interno della ristretta categoria dei dipendenti pubblici che abbiano
rivestito l’incarico di direttore generale di USL: il computo dell’indennità
premio di servizio su una base di calcolo più cospicua avviene soltanto per
coloro che contestualmente cessino dall’incarico dirigenziale e dal rapporto di
pubblico impiego, non anche per coloro i quali riprendano servizio presso
l’amministrazione di provenienza, una volta cessato l’incarico.
1.4. – Quanto alla prima disparità
di trattamento prospettata, il rimettente osserva come, per la generalità dei
dipendenti pubblici non soggetti a trattamento di fine rapporto, la
retribuzione contributiva sia rigorosamente circoscritta agli emolumenti
percepiti nell’ultimo anno di servizio, in stretta correlazione con
l’inquadramento del dipendente, senza che abbiano alcun rilievo gli emolumenti
correlati alle mansioni o agli incarichi di volta in volta assegnati, anche se
svolti per un lungo periodo, «con o senza aspettativa dal rapporto di pubblico
impiego».
L’unica eccezione sarebbe
costituita proprio dalla categoria dei dipendenti pubblici nominati direttore
generale di USL, per i quali il censurato art. 3-bis, comma 11, del d.lgs. n. 502 del 1992 prevede che la
retribuzione contributiva non sia quella virtuale, corrispondente agli
emolumenti che gli interessati avrebbero percepito nell’ultimo anno di
servizio, qualora non fossero stati posti in aspettativa, bensì il compenso
significativamente più cospicuo percepito «nell’ultimo anno in qualità non di
pubblici dipendenti ma di lavoratori autonomi incaricati di direzione generale
delle USL».
A proposito della seconda
disparità di trattamento, il giudice a
quo ribadisce quanto già evidenziato a proposito del vantaggio che si
determina soltanto per il dipendente pubblico che cessi contestualmente sia
dall’incarico di direzione di USL sia dal rapporto di pubblico impiego, con la
conseguenza che gli emolumenti percepiti nell’ultimo anno di attività, prima
del collocamento a riposo, costituiscono retribuzione contributiva e quindi
base di calcolo dell’indennità premio di servizio.
1.5. – Con riferimento al
precedente scrutinio di costituzionalità della normativa oggetto di censura, il
rimettente evidenzia come «l’affermata conformità della disciplina al principio
di ragionevolezza esaminata dalla Corte costituzionale al punto 4 della pronuncia n. 351
del 2010, presenta punti di rilevanza sotto altro profilo, vale a dire per
la fiscalità generale, sulla quale sostanzialmente si regge il bilancio
dell’Istituto, e pone quindi l’altra questione ossia quella di tenuta rispetto
al principio di cui all’art. 3 Cost., alla luce dei continui interventi da
parte del legislatore volti sia al contenimento della spesa pubblica, anche nel
settore previdenziale, che ad una razionalizzazione delle risorse a fini
retributivi» (è richiamato il d.P.R. 5 ottobre 2010,
n. 195, - Regolamento recante determinazione dei limiti massimi del trattamento
economico onnicomprensivo a carico della finanza pubblica per i rapporti di
lavoro dipendente o autonomo).
Il giudice a quo sottolinea, infine, come la Corte costituzionale abbia più
volte riconosciuto che, in un contesto di progressivo deterioramento della
finanza pubblica, si pone la necessità di una più adeguata ponderazione
dell’interesse collettivo al contenimento della spesa pubblica, e che detto
interesse non si pone in contrasto con l’art. 38 Cost., il quale «di per sé non
esclude la possibilità di un intervento legislativo che, per una inderogabile
esigenza di contenimento della spesa pubblica, riduca in maniera definitiva un
trattamento pensionistico in precedenza spettante» (sono richiamate le sentenze n. 361 del
1996, n. 240
del 1994, n.
119 del 1991, n.
822 e n. 220
del 1988).
Il rimettente invoca dunque un
intervento che, come accaduto in altre occasioni (è richiamata la sentenza n. 316 del
2010 della Corte costituzionale), individui «il punto di bilanciamento tra
principi di uguale rango costituzionale, ossia quello di cui all’art. 38 Cost. e quello della solidarietà sociale ex art. 3 Cost., sotteso
alle esigenze di contenimento della spesa pubblica e di tenuta finanziaria del
sistema previdenziale».
2. – Con atto depositato il 1°
dicembre 2011 si è costituito nel giudizio incidentale F.R., ricorrente nel
procedimento principale, ed ha chiesto il rigetto della questione, riservandosi
di argomentare con separata memoria.
2.1. – Nella memoria depositata
il 1° marzo 2012 la parte ricorrente richiama la vicenda sottostante il
giudizio a quo, precisando di avere
prestato servizio come dipendente del Servizio sanitario nazionale a far tempo
dal 1971, di essere divenuto dirigente amministrativo di ruolo presso l’Azienda
ospedaliera di Lecco nel 1996, di avere quindi ricoperto l’incarico di
direttore generale dell’USL prima di Reggio Emilia e poi di Bologna fino al
pensionamento, avvenuto nel 2008, versando all’INPDAP i contributi sulla
retribuzione percepita come direttore generale.
Dopo il collocamento a riposo,
prosegue il ricorrente, l’INPDAP ha riconosciuto il trattamento pensionistico
assumendo nella base di calcolo anche la retribuzione percepita e "contribuita”
come direttore generale, mentre per il calcolo dell’indennità premio di fine
servizio, ex art. 4 della legge n.
152 del 1968, l’Istituto ha considerato la retribuzione cosiddetta virtuale,
cioè quella che sarebbe stata percepita se il ricorrente non avesse mai
lasciato il suo posto di dirigente amministrativo a tempo indeterminato.
La difesa della parte privata
segnala l’erroneità della valutazione, in considerazione del fatto che la posizione
del dirigente amministrativo è data dalle funzioni svolte in concreto, non in
ragione del posto di ruolo ma per effetto di incarichi a termine, per i quali
sono corrisposte specifiche indennità che dipendono da tale concreto esercizio,
come previsto dall’art. 19, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n.
165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche) e dall’allegato n. 3 al CCNL del 3 novembre 2005,
per la dirigenza medica e per quella sanitaria, tecnica e amministrativa delle
aree III e IV di contrattazione. Evidentemente, prosegue la stessa difesa, a
partire dal 1996 il ricorrente non ha potuto ricevere alcun incarico perché
svolgeva l’incarico di direttore generale di USL.
Il criterio adottato
dall’INPDAP per la quantificazione dell’indennità premio di fine servizio
sarebbe in realtà artificioso, come del resto acclarato anche dalla
giurisprudenza di legittimità (sono richiamate le ordinanze della Corte di
cassazione n. n. 18225 e 17944 del 2011).
2.2. – Con riguardo al merito
delle questioni sollevate dal Tribunale di Monza, la parte ricorrente richiama
la sentenza n.
351 del 2010 della Corte costituzionale, che ha già deciso sul quesito se,
ai fini del calcolo ex art. 4 della
legge n. 152 del 1968 dell’indennità premio di servizio del direttore generale
di USL, che sia pubblico dipendente in aspettativa, debba essere considerata la
retribuzione effettivamente percepita oppure la retribuzione "ipotetica”, che
il soggetto avrebbe percepito qualora fosse rimasto in servizio nella qualità
di impiegato amministrativo. La Corte avrebbe ritenuto che la base di calcolo
debba essere costituita dalla retribuzione effettivamente percepita, e ciò
implica che quella retribuzione dovrebbe essere considerata «retribuzione
contributiva».
La normativa in materia, che in
passato poteva suscitare dubbi interpretativi, è stata modificata nel senso
indicato in attuazione della delega contenuta nell’art. 2, comma 1, lettera t), della legge n. 419 del 1998.
Nel giudizio di legittimità
costituzionale, definito con la sentenza n. 351 del
2010, l’art. 3, commi 2 e 3, del d.lgs. n. 229 del 1999 era censurato in
riferimento all’art. 76 Cost., per un presunto eccesso di delega, sul
presupposto che la legge n. 419 del 1998 si limitasse a chiedere
l’equiparazione del trattamento assistenziale e previdenziale spettante ai
lavoratori dipendenti, pubblici e privati, i quali fossero nominati direttori
generali di USL.
La Corte costituzionale ha
invece ritenuto che l’obiettivo della equiparazione del trattamento
previdenziale richiedesse, preliminarmente, l’individuazione di una base di
calcolo valida a fronte di qualsiasi provenienza del lavoratore incaricato, con
la precisazione che «sarebbe stato, peraltro, in contraddizione con la ratio della delega, se la omologazione
dei trattamenti previdenziali si fosse limitata ad estendere, puramente e
semplicemente, il trattamento preesistente, fonte di disparità – dovuta alle
diverse carriere e status dei
soggetti – anche ai dipendenti privati».
Ancora è richiamata
l’affermazione della sentenza n. 351 del
2010, secondo cui «l’individuazione della base di calcolo nella
contribuzione goduta per l’incarico di direttore generale, amministrativo e
sanitario di azienda sanitaria, e non invece sul compenso "virtuale” legato
all’ultima prestazione lavorativa effettuata presso l’ente di provenienza, è
stata operata dal legislatore delegato scegliendo uno dei mezzi possibili per
realizzare quell’unificazione delle tutele imposta dalla legge di delega».
A parere della difesa del
ricorrente, la motivazione citata renderebbe evidente che la Corte si è già
pronunciata sull’applicazione del principio di uguaglianza alla materia in
esame, ritenendo che l’equiparazione dei lavoratori provenienti dal settore
pubblico e dal settore privato fosse individuabile proprio nel dato di realtà
della retribuzione effettivamente percepita in qualità di direttore generale di
USL da quanti sono chiamati a ricoprire l’incarico, e sulla quale tutti versano
i contributi che l’INPDAP, a sua volta, percepisce.
2.3. – La difesa della parte
privata esamina le censure prospettate dal giudice a quo, secondo cui i dipendenti pubblici che hanno assunto
l’incarico temporaneo di direttore generale di USL sarebbero favoriti rispetto
alla generalità degli altri dipendenti pubblici, e tra di essi sarebbero
favoriti soltanto coloro i quali, dopo la conclusione dell’incarico, vanno in
quiescenza, senza tornare al posto di ruolo. In contrario si osserva che i
pubblici dipendenti nominati direttore generale di USL sono pochi, raggiungono
vertici di particolare responsabilità e prestigio, ed hanno una diversa
retribuzione, cui corrisponde anche una diversa contribuzione. Essi, dunque,
non si trovano nelle stesse condizioni dei colleghi che rimangono negli
ordinari ruoli dei dipendenti pubblici, e ciò giustificherebbe la diversità del
trattamento.
Inoltre, la norma che consente
di assumere a base di calcolo dell’indennità premio di servizio «un
quindicesimo della retribuzione contributiva degli ultimi dodici mesi […]», e
cioè l’art. 4 della legge n. 152 del 1968, trova applicazione nei confronti di
tutti i dipendenti pubblici degli enti locali, e perciò anche di coloro i quali
siano stati nominati direttore generale di asl. Sarebbe dunque questa norma a
produrre l’effetto lamentato dal rimettente, e non il censurato art. 3-bis, comma 11, del d.lgs. n. 502 del
1992, con il quale il legislatore si sarebbe limitato, in ossequio al principio
di uguaglianza, a garantire l’applicazione della norma stessa anche in favore
dei dipendenti chiamati a svolgere l’incarico di direttori generale,
amministrativo e sanitario di USL.
In tutto il settore del lavoro
pubblico, infatti, la retribuzione contributiva presa a base di calcolo ai fini
della liquidazione dell’indennità premio di servizio è quella degli ultimi
dodici mesi, e del resto, come previsto dall’art. 19 del d.lgs. n. 165 del
2001, gli incarichi dirigenziali e la conseguente retribuzione superiore sono
per definizione «a termine».
In questa diversa prospettiva,
i profili di incostituzionalità prospettati dal rimettente potrebbero al più
riguardare la disciplina contenuta nella legge n. 152 del 1968.
3. – Con atto depositato il 31
ottobre 2011, si è costituito nel giudizio incidentale l’INPDAP, già resistente
nel giudizio a quo, ed ha concluso
per l’accoglimento della questione, riservandosi di argomentare con successiva
memoria.
3.1. – In data 5 marzo
L’Istituto, dopo aver
ripercorso i termini essenziali della controversia e dell’ordinanza di
rimessione, procede all’esame della questione osservando, innanzitutto, che la
stessa sarebbe sicuramente ammissibile. Le norme censurate sono state oggetto
di scrutinio di costituzionalità, nella sentenza n. 351 del
2010, con riferimento all’art. 76 Cost., e dunque
sotto il diverso profilo «di natura formale, di tecnica legislativa».
Le questioni odierne, che
ripetono l’eccezione di illegittimità costituzionale sollevata dal medesimo
Istituto nel giudizio principale, sarebbero del tutto diverse, richiedendo di
verificare «se le nuove disposizioni, nella parte in cui introducono una
disciplina di favore per una sola e ristrettissima categoria di lavoratori
rispetto alla intera platea dei dipendenti pubblici, siano o non manifestamente
irragionevoli, ovvero possano ritenersi conformi o non all’art. 3 Cost.».
3.2. – Nel merito, dopo aver
esaminato la disciplina dell’indennità premio di servizio, contenuta nella
legge n. 152 del 1968, la difesa dell’INPS richiama l’orientamento costante
della giurisprudenza di legittimità – a partire dalla sentenza delle Sezioni
unite n. 3673 del 1997 –, secondo il quale l’ordinamento non conosce una
nozione di retribuzione utile onnicomprensiva, ai fini del calcolo
dell’indennità premio di servizio, potendosi considerare a tal fine soltanto
gli emolumenti indicati espressamente dall’art. 11 della legge n. 152 del 1968.
Nella medesima direzione,
prosegue l’Istituto, la Corte di cassazione ha precisato che il particolare
regime di favore che connota l’indennità premio di fine servizio, pari
all’ultima e quindi più alta retribuzione annua, da moltiplicarsi per tutti gli
anni di lavoro, viene contemperato dalla ristretta valorizzazione dei soli
emolumenti previsti dalla legge come utili (sono richiamate le sentenze n.
15906 del 2004 e n. 9901 del 2003).
Diversamente, le norme che
disciplinano il trattamento di fine rapporto, ora spettante alla generalità dei
dipendenti pubblici, assumono a riferimento «le retribuzioni via via percepite,
e dunque anche quelle più basse, nel corso della intera vita lavorativa».
Sarebbe dunque evidente,
secondo la difesa dell’INPS, l’ingiustificata disparità di trattamento che, per
effetto delle norme censurate, si realizzerebbe nell’ambito della categoria di
dipendenti delle pubbliche amministrazioni ancora beneficiari dell’indennità
premio di fine servizio.
In proposito andrebbe
considerato che i dipendenti del comparto enti locali i quali, in costanza di
rapporto di pubblico impiego, quindi senza essere collocati in aspettativa,
svolgono «mere funzioni dirigenziali» non hanno diritto, in sede di calcolo
dell’indennità premio di servizio, al riconoscimento delle somme percepite per
le funzioni dirigenziali, in quanto non previste dalla legge n. 152 del 1968
(sono richiamate sul punto la sentenza n. 10160 del 2001 e nuovamente le
sentenze n. 9901 del 2003 e n. 3673 del 1997 della Corte di cassazione), né ai
compensi percepiti per la direzione o reggenza di fatto, anch’essi non utili ai
fini del calcolo dell’indennità premio di servizio (è richiamata la sentenza n.
15498 del 2008 della Corte di cassazione).
In definitiva, osserva la
difesa dell’INPS, secondo la giurisprudenza di legittimità non è ammesso, in
generale, il computo di ogni emolumento o aumento retributivo conseguito in
prossimità della cessazione del rapporto di lavoro, ai fini della liquidazione
dell’indennità premio di servizio. Da ciò la manifesta irragionevolezza della
norma contenuta nell’art. 3-bis,
comma 11, del d.lgs. n. 502 del 1992, che, invece, consente di ottenere la
liquidazione di detta indennità «con il computo di tutti i notevoli emolumenti
percepiti per lo svolgimento dell’incarico di direzione generale, solo ed
esclusivamente a favore di colui che è chiamato a dirigere una azienda
sanitaria».
L’irragionevolezza emergerebbe
in modo ancor più marcato ove si ponga mente al fatto che l’incarico di
direttore generale di USL è svolto in regime di aspettativa e con contratto di
lavoro autonomo, ancorché coordinato con i fini dell’ente di appartenenza (è
richiama la sentenza n. 3882 del 1998 delle Sezioni unite della Corte di
cassazione).
3.3. – La normativa censurata
risulterebbe illegittima anche sotto l’ulteriore e diverso profilo, pure
prospettato dal rimettente, della ingiustificata disparità di trattamento
all’interno della stessa categoria di dipendenti pubblici chiamati a svolgere
l’incarico di direttore generale di asl. Tra costoro, infatti, sarebbero
privilegiati, ai fini della liquidazione dell’indennità premio di servizio,
soltanto quei lavoratori che decidono di andare in pensione senza riprendere la
precedente attività: in tal caso la retribuzione dell’ultimo anno di attività,
sulla quale è parametrata l’indennità premio di servizio, coincide con gli
emolumenti percepiti per l’incarico di direttore generale.
Nel diverso caso in cui il
lavoratore riprenda l’attività presso l’ente locale di appartenenza, al momento
del collocamento a riposo percepirà una indennità premio di servizio nettamente
inferiore, perché parametrata alla retribuzione che avrà percepito in qualità
di dipendente pubblico nell’ultimo anno di attività.
A parere della difesa dell’INPS
«tale differenziazione non appare sostenibile, non solo perché è legata ad un
evento futuro e incerto, ovvero la scelta […] di rientrare o non in servizio
alle dipendenze dell’ente locale, ma anche e soprattutto perché, in modo
assolutamente irragionevole, non consente di commisurare la entità totale della
prestazione previdenziale alla qualità ed alla durata della intera attività
svolta».
Per questi motivi, l’Istituto
ritiene non condivisibile quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 351 del
2010 (punto 5 del Considerato in
diritto), e cioè che «il pensionamento, e quindi il diritto alla indennità
di cui sopra del lavoratore pubblico dipendente in costanza dell’incarico
esterno è una evenienza di fatto, che determina coerenti conseguenze giuridiche
ed economiche, mentre diversa è la situazione di chi rientri
nell’amministrazione di provenienza una volta cessato dall’incarico cui
ugualmente si applica l’art. 4 della legge n. 152 del 1968». Il pensionamento,
secondo la difesa dell’INPS, non può essere ridotto ad una mera evenienza di
fatto.
Nella specie, poi, per i
dipendenti pubblici che al termine dell’incarico dirigenziale in esame non
hanno raggiunto i limiti massimi anagrafici e contributivi, il pensionamento è
il risultato di una scelta di mera convenienza, che troverebbe causa proprio
nella disciplina introdotta dal censurato art. 3-bis, comma 11, del d.lgs. n. 502 del 1992.
L’effetto premiale che consegue
alla cessazione anticipata dal servizio, peraltro, costituirebbe un deterrente,
per i soggetti dotati di esperienza e professionalità tali da aver assunto
incarichi di dirigenza delle aziende sanitarie, a prestare ulteriormente la
propria esperienza lavorativa al servizio delle amministrazioni di provenienza.
3.4. – La difesa dell’INPS
osserva ulteriormente come l’ingiustificata disparità di trattamento,
introdotta dalla normativa censurata, risulti «inaccettabile anche alla luce
della recentissima normativa previdenziale, tutta orientata nella direzione del
contenimento della spesa».
Sono richiamati, tra gli altri,
gli interventi legislativi finalizzati al differimento dei termini per il
pagamento dei trattamenti di fine servizio (art. 1, commi 22 e 23, del
decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, recante «Ulteriori misure urgenti per la
stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo», convertito in legge, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 14 settembre 2011, n. 148),
che vanno ad aggiungersi ai precedenti, aventi ad oggetto le modalità di
liquidazione rateale dell’indennità premio di servizio (art. 12, commi da
3.5. – Conclusivamente, la
difesa dell’Istituto segnala la disparità di trattamento che, per effetto delle
norme censurate, si realizzerebbe a favore della ristretta categoria dei
dipendenti pubblici indicati e richiama numerose disposizioni che
disciplinerebbero fattispecie in tutto analoghe a quella in esame, di
aspettativa dei dipendenti pubblici e privati, in termini diametralmente
opposti a quelli previsti nelle norme censurate.
In particolare, l’INPS segnala
che, con l’art. 1, comma 32, del d.l. n. 138 del 2011, il legislatore ha
aggiunto il periodo finale all’art. 19, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001,
prevedendo che, per la liquidazione del trattamento di fine servizio dei
funzionari ai quali è stato attribuito un incarico dirigenziale, l’ultimo
stipendio va individuato nell’ultima retribuzione percepita prima del
conferimento dell’incarico dirigenziale avente durata inferiore a tre anni.
Ancora, in tema di calcolo
della retribuzione annua pensionabile, l’Istituto cita l’art. 40 della legge 4
novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di
riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori
sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di
apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro
sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di
lavoro), il quale stabilisce, ai fini della contribuzione figurativa per
aspettative e permessi, che il valore retributivo da attribuire per ciascuna
settimana ai periodi riconosciuti figurativamente, ai fini del calcolo della
retribuzione annua pensionabile, è pari all’importo della normale retribuzione
che sarebbe spettata al lavoratore, in caso di prestazione lavorativa, nel mese
in cui si colloca l’evento.
È poi richiamato l’art. 8,
ottavo comma, della legge 23 aprile 1981, n. 155 (Adeguamento delle strutture e
delle procedure per la liquidazione urgente delle pensioni e per i trattamenti
di disoccupazione, e misure urgenti in materia previdenziale e pensionistica),
secondo il quale, ai lavoratori collocati in aspettativa ai sensi dell’art. 31
della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità
dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di
lavoro e norme sul collocamento), le retribuzioni da riconoscere ai fini del
calcolo della pensione sono commisurate alla retribuzione della categoria e
qualifica professionale posseduta dall’interessato al momento del collocamento
in aspettativa, adeguate in relazione alla dinamica salariale e di carriera
della stessa categoria e qualifica.
Le predette disposizioni
renderebbero evidente che le norme oggetto dell’odierno scrutinio contengono
una disciplina, del tutto eccentrica ed irragionevole, del trattamento
previdenziale dei dipendenti pubblici del comparto enti locali, nominati
direttori generali di USL.
4. – Con atto depositato in
data 29 novembre 2011, è intervenuto nel giudizio incidentale G.D.P. per
sostenere le ragioni del rigetto delle questioni. L’interesse all’intervento
risiederebbe nella qualità di parte, che l’interveniente riveste, in un
giudizio nel quale l’INPDAP ha chiesto che siano sollevate questioni di
legittimità costituzionale in tutto analoghe alle odierne.
L’interveniente G.D.P. ha
depositato, in data 9 febbraio 2012, memoria illustrativa nella quale ribadisce
le argomentazioni sviluppate nell’atto di intervento.
5. – Con atto depositato il 1°
dicembre 2011, è intervenuta nel giudizio incidentale la Federazione italiana
delle aziende sanitarie e ospedaliere (FIASO) per sostenere le ragioni del
rigetto delle questioni.
L’interveniente F.I.A.S.O. ha
depositato, in data 1° marzo 2012 memoria illustrativa nella quale sono svolti
argomenti per dimostrare la non fondatezza delle predette questioni.
Considerato in diritto
1. – Con ordinanza del 26
gennaio 2011, il Tribunale di Monza, sezione lavoro, ha sollevato, in
riferimento all’articolo 3 della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale dell’art. 3, commi 2 e 3, del decreto legislativo 19 giugno
1999, n. 229 (Norme per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale,
a norma dell’articolo 1 della legge 30 novembre 1998, n. 419), dell’art. 3-bis, comma 11, del decreto legislativo
30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a
norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), e dell’art. 2,
comma 1, lettera t), della legge 30
novembre 1998, n. 419 (Delega al Governo per la razionalizzazione del Servizio
sanitario nazionale e per l’adozione di un testo unico in materia di
organizzazione e funzionamento del Servizio sanitario nazionale. Modifiche al
decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502).
2. – Preliminarmente, deve
essere dichiarata l’inammissibilità degli interventi spiegati da G.D.P., parte
di un procedimento nel quale l’INPDAP ha proposto eccezione di legittimità
costituzionale finalizzata al promovimento di questioni analoghe a quelle
oggetto del presente giudizio, e dalla Federazione italiana delle aziende
sanitarie e ospedaliere (FIASO).
Si tratta, in entrambi i casi,
di soggetti estranei al giudizio principale e che non possono risultare
direttamente pregiudicati dalla presente decisione.
Deve quindi essere ribadita la
costante giurisprudenza di questa Corte, secondo cui nel giudizio incidentale
sono ammessi a partecipare – oltre che il Presidente del Consiglio dei ministri
o, nel caso si discuta di legge regionale, il Presidente della Giunta regionale
– soltanto le parti del procedimento principale ed i terzi portatori di un
interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto
nel giudizio, e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma
oggetto di censura (ex plurimis, sentenze n. 304 del
2011 e n. 96
del 2008).
3. – La questione non è
fondata.
3.1 – È utile ricostruire l’evoluzione
del quadro normativo, anche in rapporto alla sentenza n. 351 del
2010 di questa Corte.
L’art. 3 del d.lgs. n. 502 del
1992 prevede, sin dal suo testo originario, che, per i pubblici dipendenti
nominati direttori generali, amministrativi o sanitari di unità sanitarie
locali e aziende ospedaliere, il periodo di aspettativa sia «utile ai fini del
trattamento di quiescenza e di previdenza e dell’anzianità di servizio».
L’art. 2, comma 1, lettera t), della legge n. 419 del
In attuazione di detta delega
legislativa, l’art. 3, comma 3, del d.lgs. n. 229 del 1999, ha inserito, nel
citato d.lgs. n. 502 del 1992, l’art. 3-bis,
il quale, al comma 11, nel ribadire che il periodo di aspettativa è utile ai
fini del trattamento di quiescenza e di previdenza, stabilisce: «le
amministrazioni di appartenenza provvedono ad effettuare il versamento dei
contributi previdenziali e assistenziali comprensivi delle quote a carico del
dipendente, calcolati sul trattamento economico corrisposto per l’incarico
conferito nei limiti dei massimali di cui all’art. 3, comma 7, del decreto
legislativo 24 aprile 1997, n. 181, e a richiedere il rimborso di tutto l’onere
da esse complessivamente sostenuto all’unità sanitaria locale o all’azienda ospedaliera
interessata, la quale procede al recupero della quota a carico
dell’interessato».
La disposizione sopra riportata
è stata oggetto di una questione di legittimità costituzionale, per presunta
violazione dell’art. 76 Cost., definita da questa
Corte, nel senso della non fondatezza, con sentenza n. 351 del
2010.
4. – Il giudice rimettente
evoca nel presente giudizio – nei confronti della stessa disposizione già
scrutinata nel procedimento conclusosi con la citata sentenza n. 351 del
2010 – l’art. 3 Cost., assumendo che la norma censurata prevederebbe
un trattamento irragionevolmente privilegiato per una ristretta categoria di
«dipendenti pubblici non soggetti a t.f.r.» – coloro che hanno assunto
temporaneamente l’incarico di direttori generali delle USL – per i quali il
computo del trattamento previdenziale (nella specie, l’indennità premio di
servizio) sarebbe più vantaggioso nella base di calcolo (o retribuzione
contributiva) rispetto a quello della generalità dei dipendenti pubblici. La
norma censurata avrebbe inoltre favorito, all’interno di tale categoria, coloro
che contestualmente cessano dall’incarico di direttore generale e dal rapporto
di pubblico impiego, discriminando irragionevolmente coloro i quali, dopo la
cessazione dell’incarico e dell’aspettativa, hanno invece ripreso servizio
presso le amministrazioni di provenienza.
Il giudice a quo rileva che, alla stregua della legislazione vigente e della
giurisprudenza di legittimità, per la generalità dei dipendenti pubblici non
soggetti a t.f.r., la retribuzione contributiva sarebbe rigorosamente limitata
agli emolumenti percepiti nell’ultimo anno di servizio in stretta correlazione
all’inquadramento, senza che abbiano alcun rilievo gli emolumenti correlati
alle mansioni o incarichi di volta in volta assegnati, anche se eventualmente
svolti per un notevole periodo di tempo, con o senza aspettativa dal rapporto di
pubblico impiego. Lo stesso giudice ritiene di poter superare quanto affermato
da questa Corte nella sentenza n. 351 del
2010, relativa al profilo dell’eccesso di delega, chiedendo che, nella
definizione del presente giudizio, questa Corte stabilisca «il punto di
bilanciamento tra principi di uguale rango costituzionale, ossia quello di cui
all’art. 38 Cost. e quello della solidarietà sociale ex art. 3 Cost. sotteso
alle esigenze di contenimento della spesa pubblica e di tenuta finanziaria del
sistema previdenziale».
5. – Le argomentazioni del
rimettente sono prive di fondamento, poiché la norma censurata non istituisce
una irragionevole differenza di trattamento previdenziale – con riferimento
all’indennità premio di servizio – a favore di una categoria di soggetti, bensì
prevede una base di calcolo unitaria per tutti coloro che si trovino ad
esercitare determinate funzioni alla fine della loro carriera. Il punto di
riferimento non sono quindi le qualità soggettive dei dipendenti presi in
considerazione, ma le funzioni di direttore generale, amministrativo o
sanitario di USL.
5.1. – Come è stato chiarito
nella sentenza
n. 351 del 2010 di questa Corte, l’individuazione della retribuzione
contributiva in quella percepita nell’ultimo anno di esercizio dell’incarico
prende le mosse dalla delega legislativa contenuta nella legge n. 419 del 1998,
che perseguiva proprio l’obiettivo di eliminare le diversità di trattamento tra
soggetti che avevano esercitato, nell’ultimo anno di attività, le medesime
funzioni, ma provenivano da carriere e settori diversi della pubblica
amministrazione. L’unificazione di trattamento così ottenuta doveva essere resa
applicabile anche ai dipendenti privati. Con l’attuazione della delega, il
legislatore delegato ha scelto uno dei possibili mezzi per realizzare
l’obiettivo indicato nella legge di delegazione, partendo da un dato, la
retribuzione percepita per l’incarico, sicuramente comune a tutti i dipendenti,
pubblici e privati. Non si tratta dell’unica scelta possibile, ma la stessa non
può essere considerata manifestamente irragionevole dal momento che realizza
una completa parificazione di tutti i soggetti, dipendenti pubblici e privati,
che si trovino ad esercitare una certa funzione, quale che sia
l’amministrazione di provenienza o il lavoro svolto nel settore privato.
5.2. – Con riferimento alla
presunta violazione del principio di uguaglianza, determinata dall’asserito
trattamento privilegiato dei soggetti in questione, rispetto alla generalità
degli altri dipendenti pubblici, si deve osservare che la situazione dei
soggetti chiamati a svolgere l’incarico di direttore generale, amministrativo o
sanitario di USL non è identica né assimilabile a quella di coloro che tali
funzioni non svolgono, mentre rimane intatto il principio generale secondo cui
l’indennità dovuta al dipendente alla fine della sua vita lavorativa è sempre
commisurata all’ultima retribuzione annua percepita, calcolata in ragione
dell’ottanta per cento, divisa per quindici, se si tratta di dipendenti di enti
locali (art. 4 della legge 8 marzo 1968, n. 152, recante «Nuove norme in
materia previdenziale per il personale degli Enti locali») o per dodici, se si
tratta di dipendenti civili e militari dello Stato (art. 3 d.P.R.
29 dicembre 1973, n. 1032, recante «Approvazione del testo unico delle norme
sulle prestazioni previdenziali a favore dei dipendenti civili e militari dello
Stato»). Non trova pertanto riscontro nel diritto positivo l’affermazione della
difesa dell’INPS, che fa riferimento «alle norme che disciplinano il
trattamento di fine rapporto ora spettante alla generalità dei dipendenti delle
pubbliche amministrazioni, pari alle retribuzioni via via percepite, e dunque
anche [a] quelle più basse, nel corso dell’intera vita lavorativa».
A tale principio si deve
aggiungere l’altro – chiaramente enunciato dalla giurisprudenza di legittimità,
in conformità all’indirizzo di questa Corte – «di tendenziale corrispondenza
proporzionale fra entità della retribuzione ed entità della contribuzione,
atteso che l’opposta opzione interpretativa determinerebbe un ulteriore
squilibrio fra trattamento di quiescenza e indennità premio di servizio, sebbene
la stessa abbia natura previdenziale» (ex
plurimis, Corte di cassazione, sezione lavoro,
ordinanza n. 28510 del 2011). È appena il caso di ricordare che tale squilibrio
è concreto ed attuale, giacché l’ente previdenziale, interveniente nel presente
giudizio, sin dal 1999 tiene conto, ai fini della determinazione del
trattamento pensionistico, degli emolumenti percepiti per gli incarichi di
direttore generale, amministrativo o sanitario di USL, ma ritiene di non dover
osservare uguale criterio per la determinazione dell’indennità premio di
servizio, pur avendo introitato, dal 1999 ad oggi, la maggior contribuzione
corrispondente agli emolumenti medesimi.
5.3. – Non è condivisibile
l’argomentazione della difesa INPS, secondo cui la norma censurata introdurrebbe
una deroga irragionevole al principio generale, formulato da una consolidata
giurisprudenza di legittimità, in base al quale la retribuzione contributiva
non è onnicomprensiva, ma è costituita, per i dipendenti degli enti locali,
solo dagli emolumenti tassativamente indicati dall’art. 11, quinto comma, della
legge n. 152 del 1968 (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza
n. 16634 del 2004).
A prescindere dalla
considerazione che la stessa giurisprudenza di legittimità ha ritenuto –
proprio in relazione alla disposizione censurata nel presente giudizio –
compatibile con l’art. 4 della legge n. 152 del 1968 il computo di aumenti
retributivi conseguiti in prossimità della cessazione del rapporto di lavoro
(Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza n. 11925 del 2008), si deve
rilevare che la ratio della non
onnicomprensività della retribuzione contributiva deve essere rinvenuta nella
considerazione, ricorrente nella giurisprudenza di legittimità, che «intanto un
compenso può entrare a far parte della retribuzione-parametro sulla cui base
viene liquidata l’indennità premio di servizio in quanto sia preventivamente
incluso nel coacervo su cui devono essere versati i contributi» (Corte di
cassazione, Sezioni unite civili, sentenza n. 3673 del 1997).
Con riferimento al presente
giudizio, si deve porre in rilievo che la norma censurata include gli
emolumenti relativi agli incarichi di direttore generale, amministrativo o
sanitario di USL tra quelli assoggettati a contribuzione previdenziale, in
coerenza con il principio generale prima richiamato, in base al quale non può
entrare nella base di calcolo per l’indennità dovuta al dipendente alla
cessazione del rapporto di lavoro alcun emolumento che non sia stato
preventivamente assoggettato alla detta contribuzione. Anche sotto tale
profilo, la disposizione censurata dal rimettente non può essere ritenuta
manifestamente irragionevole, salvo naturalmente ogni possibile intervento del
legislatore, volto ad individuare criteri diversi di computo, secondo scelte di
politica economica e sociale non spettanti a questa Corte.
5.4. – Quanto alla presunta
posizione di svantaggio dei dipendenti che rientrino nelle amministrazioni di
provenienza o nell’impiego privato prima della cessazione del loro rapporto di
lavoro, si deve in questa sede ribadire quanto già osservato nella sentenza n. 351 del
2010, che si tratta cioè di «una evenienza di fatto, che determina coerenti
conseguenze giuridiche ed economiche». L’attuale sistema generale di
liquidazione dell’indennità di fine rapporto per tutti i dipendenti pubblici
(dello Stato o degli enti locali) fa esclusivo riferimento all’ultima
retribuzione annua percepita. Che poi questa evenienza di fatto possa essere
frutto di un «calcolo di convenienza» del dipendente, come osserva la difesa
dell’INPS, non smentisce, anzi conferma, il precedente assunto, giacché le
scelte individuali, operate avvalendosi di una normativa generale, non sono
effetto necessario delle norme, ma di private volizioni, che non rilevano ai
fini della valutazione della legittimità costituzionale delle norme stesse.
Contrastare simili eventualità richiede, in ogni caso, l’introduzione di
specifiche discipline, che solo il legislatore può formulare.
5.5. – Proprio allo scopo di
evitare che calcoli opportunistici dei singoli soggetti possano determinare
effetti iniqui e ingiustificatamente gravosi per la finanza pubblica, l’art.
19, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali
sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche),
come modificato dal comma 32 dell’art. 1 del decreto-legge 13 agosto 2011, n.
138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo),
convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 14 settembre
2011, n.
Con riferimento alla
fattispecie oggetto del presente giudizio, si deve rilevare che l’art. 3-bis, comma 8, del d.lgs. n. 502 del
1992, prescrive che il rapporto di lavoro del direttore generale, del direttore
amministrativo e del direttore sanitario di USL è regolato da contratto di
durata non inferiore a tre anni e non superiore a cinque, rinnovabile. La
cautela sottesa alla norma limitativa di cui al precedente capoverso è pertanto
pienamente assicurata dalla legislazione in materia sanitaria. Anche sotto
questo profilo non si riscontra quindi una particolare situazione di
irragionevole privilegio per i soggetti in questione, rispetto alla generalità
dei dipendenti pubblici.
6. – Il giudice rimettente
ritiene inoltre che «soltanto la Corte Costituzionale, come in altre occasioni
ha fatto (sentenza
n. 316 del 2010) può stabilire il punto di bilanciamento tra princìpi di
uguale rango costituzionale, ossia quello di cui all’art. 38 Cost. e quello di solidarietà sociale ex art. 3 Cost. sotteso alle esigenze di
contenimento della spesa pubblica e di tenuta finanziaria del sistema
previdenziale».
Il giudice a quo chiede a questa Corte ciò che solo il legislatore può fare,
nella ponderata considerazione delle risorse disponibili e delle spese
destinabili al soddisfacimento dei diritti assistenziali e previdenziali
tutelati dall’art. 38 Cost. Quanto al principio di solidarietà sociale –
riferito dal rimettente all’art. 3 e non invece all’art. 2 Cost.,
nel quale è menzionato espressamente, e comunque sotteso allo stesso art. 38
Cost. (sentenza n. 240 del 1994, punto 6 del Considerato in diritto) – la
finalizzazione "sociale” delle somme risultanti dall’eventuale accoglimento
della odierna questione sarebbe del tutto generica e rientrerebbe, in ogni
caso, nell’ampio spettro di possibilità che si aprono dinanzi alle scelte
politiche del Parlamento e del Governo, con il solo limite della non manifesta irragionevolezza.
Il rimettente cita alcune
pronunce di questa Corte, che si riferiscono ad interventi legislativi volti a
contemperare i diritti di cui all’art. 38 Cost. e le
esigenze di contenimento della spesa pubblica. La giurisprudenza costituzionale
costante è nel senso che l’art. 38 Cost. non esclude la possibilità di un
intervento legislativo che, per una inderogabile esigenza di contenimento della
spesa pubblica, riduca un trattamento previdenziale prima spettante in base
alla legge (ex plurimis,
sentenze n. 316
del 2010, n.
361 del 1996, n.
240 del 1994, n.
119 del 1991, n.
822 del 1988), fermo il controllo di ragionevolezza sulle singole norme
riduttive. Si deve escludere, viceversa, che possa essere la stessa Corte
costituzionale a statuire siffatte riduzioni di spesa per l’attuazione di
diritti ex art. 38 Cost.,
in nome di un generico principio di solidarietà sociale, superando e
addirittura ponendosi in contrasto con le determinazioni del legislatore. Solo
a quest’ultimo spettano le valutazioni di politica economica attinenti alle
risorse disponibili nei diversi momenti storici, mentre è compito di questa
Corte vigilare sul rispetto del nucleo essenziale dei diritti fondamentali, in
ipotesi incisi da interventi riduttivi dello stesso legislatore. Il
rovesciamento di ruoli ipotizzato dal giudice rimettente si pone in contrasto
con il sistema costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibili gli interventi di G.D.P. e della Federazione italiana
aziende sanitarie e ospedaliere (FIASO);
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli
3, commi 2 e 3, del decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229 (Norme per la
razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale, a norma dell’articolo 1
della legge 30 novembre 1998, n. 419), dell’art. 3-bis, comma 11,
del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in
materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n.
421), e dell’art. 2, comma 1, lettera t), della legge 30 novembre 1998,
n. 419 (Delega al Governo per la razionalizzazione del Servizio sanitario
nazionale e per l’adozione di un testo unico in materia di organizzazione e
funzionamento del Servizio sanitario nazionale. Modifiche al decreto
legislativo 30 dicembre 1992, n. 502), sollevata, in riferimento all’art. 3
della Costituzione, dal Tribunale di Monza, con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella
sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 maggio 2012.
F.to:
Alfonso QUARANTA,
Presidente
Gaetano SILVESTRI,
Redattore
Gabriella MELATTI,
Cancelliere
Depositata in
Cancelleria il 10 maggio 2012.