SENTENZA N. 304
ANNO 2011
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta
dai signori:
- Alfonso QUARANTA Presidente
- Alfio FINOCCHIARO Giudice
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
- Alessandro CRISCUOLO "
- Paolo GROSSI "
- Giorgio LATTANZI "
- Aldo CAROSI "
- Marta CARTABIA "
ha
pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli
8, comma 2, 77, 126, 127, 128, 129, 130 e 131 del decreto legislativo 2 luglio
2010, n. 104 (Attuazione dell’art. 44
della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino
del processo amministrativo); dell’articolo 7 del
regio decreto 30 dicembre 1923, n. 2840 (Modificazioni all’ordinamento
del Consiglio di Stato e della Giunta provinciale amministrativa in sede
giurisdizionale); degli articoli 41, 42 e 43 del
regio decreto 17 agosto 1907, n. 642 (Regolamento per la procedura
dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato); degli articoli 28, terzo comma, e 30, secondo comma, del
regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054 (Approvazione del testo unico
delle leggi sul Consiglio di Stato); degli articoli
7, terzo comma, ultima parte, e 8 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione
dei tribunali amministrativi regionali) e
dell’articolo 2700 del codice civile, promosso dal Consiglio di Stato nel
procedimento vertente tra Mercedes Bresso ed altra e
la Regione Piemonte ed altri, con ordinanza del 16 febbraio 2011, iscritta al
n. 73 del registro ordinanze 2011 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 18, prima serie speciale, dell’anno 2011.
Visti
gli atti di costituzione di Mercedes Bresso ed altra,
della Regione Piemonte, di Michele Giovine ed altra, di Rosanna Valle ed altri,
di Antonello Angeleri ed altri, nonché l’atto di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri e l’"atto di costituzione
e memoria” della Regione Lombardia, da considerare fuori termine;
udito nell’udienza pubblica del 4
ottobre 2011 il Giudice relatore Paolo Grossi;
uditi
gli avvocati Enrico Piovano, Federico Sorrentino e Gianluigi Pellegrino per
Mercedes Bresso ed altra, Angelo Clarizia
e Luca Procacci per la Regione Piemonte, Alberto Romano per Rosanna Valle ed
altri, Giorgio Strambi per Michele Giovine ed altro, Alfonso Celotto per Antonello Angeleri ed
altri, Beniamino Caravita di Toritto
per la Regione Lombardia e l’avvocato dello Stato Maurizio Borgo per il
Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in
fatto
1. – Il Consiglio di Stato in sede
giurisdizionale solleva, con ordinanza del 16 febbraio 2011, questione di
legittimità costituzionale degli articoli 8, comma 2, 77, 126, 127, 128, 129, 130 e 131 del decreto legislativo
2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’art. 44 della legge 18 giugno 2009, n.
69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo)
[c.d. codice del processo amministrativo] e delle previgenti disposizioni di
cui agli articoli 7 del regio decreto 30 dicembre 1923, n. 2840 (Modificazioni
all’ordinamento del Consiglio di Stato e della Giunta provinciale
amministrativa in sede giurisdizionale); 41, 42 e 43 del regio decreto 17
agosto 1907, n. 642 (Regolamento per la procedura dinanzi alle sezioni
giurisdizionali del Consiglio di Stato); 28, terzo comma, e 30, secondo comma,
del regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054 (Approvazione del testo unico delle
leggi sul Consiglio di Stato); 7, terzo comma, ultima parte, e 8 della legge 6
dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione dei tribunali amministrativi regionali);
nonché dell’art. 2700 del codice civile, in riferimento agli artt. 24, 76 –
parametro, questo, evocato con esclusivo riferimento alle norme del codice del
processo amministrativo –, 97, 103, 111, 113 e 117 della Costituzione, nella
parte in cui precludono al giudice amministrativo di accertare anche solo
incidentalmente la falsità degli atti pubblici nel giudizio amministrativo in
materia elettorale.
Premessa,
in linea di fatto, la descrizione delle vicende processuali svoltesi davanti al
Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte (e conclusesi, da un lato,
con la dichiarazione di infondatezza della domanda principale, tesa ad
accertare le dedotte falsità; e, dall’altro lato, con l’assegnazione di un
termine per la proposizione dell’incidente di falso davanti al competente
tribunale ordinario) e riferite le diverse posizioni espresse dai vari soggetti
intervenuti nel giudizio d’appello, il collegio ha ritenuto rilevante e non manifestamente
infondata la questione di costituzionalità della disciplina denunciata, atteso
il carattere pregiudiziale che essa assumerebbe ai fini della decisione sul
merito.
In
punto di non manifesta infondatezza, il collegio rimettente osserva come la riserva
al giudice ordinario dell’accertamento della falsità degli atti muniti di fede
privilegiata attraverso lo specifico rimedio della querela di falso, e la
connessa preclusione al giudice amministrativo di accertare incidenter tantum la falsità degli atti, si iscrive in una tradizione che si
giustificava alla luce della carenza di strumenti di accertamento nell’ambito
del processo amministrativo. Limite, questo, che si sarebbe progressivamente
attenuato, essendosi riconosciuta una gamma sempre più estesa di poteri
istruttori anche al giudice amministrativo, con la sola esclusione
dell’interrogatorio formale e del giuramento, che renderebbe ormai
ingiustificabile «la permanenza di preclusioni soprattutto in quei giudizi,
quali il contenzioso elettorale, caratterizzati da una esigenza "rafforzata” di
garantire il principio della ragionevole durata del processo».
La limitazione denunciata si porrebbe,
dunque, in contrasto anzitutto con gli artt. 24 e 113 Cost., in quanto, alla
luce anche dei princìpi affermati da questa Corte
nella sentenza
n. 236 del 2010 in tema di effettività e tempestività della tutela
giurisdizionale delle situazioni soggettive immediatamente lese, la necessaria
devoluzione al giudice ordinario dell’accertamento della falsità degli atti
pubblici del procedimento elettorale comprimerebbe fortemente la possibilità di
una effettiva tutela giurisdizionale, come si è verificato in diverse
circostanze, in cui il giudicato sulla falsità era intervenuto addirittura a consiliatura ormai conclusa e si erano da tempo svolte
nuove elezioni. Un sistema, quello censurato, che per di più preclude anche la
possibilità di una tutela cautelare.
Viene correlativamente ravvisata una
violazione anche dell’art. 111 Cost., in quanto la sospensione del giudizio
amministrativo non assicurerebbe la ragionevole durata del processo, nonché
dell’art. 117, primo comma, Cost., in riferimento agli artt. 6 e 13 della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, i quali riconoscono il diritto ad un ricorso effettivo.
Risulterebbe, inoltre, compromessa anche
la tutela degli interessi legittimi, assicurata dal giudice amministrativo e
garantita dagli artt. 103 e 113 Cost., conseguentemente vulnerati.
Si denuncia, poi, violazione dell’art.
97 Cost., non risultando coerente con il principio del buon andamento un
procedimento nel quale anche in presenza di evidenti falsità di atti pubblici,
gli organi preposti alla procedura non possono accertare tali falsità, né vi
sarebbe possibilità, per le ragioni già dette, di una tutela immediata.
Si prospetta poi, con esclusivo
riferimento alle norme del codice del processo amministrativo denunciate, la
violazione dell’art. 76, non essendo stati rispettati i criteri fissati dalla
legge delega di cui all’art. 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, fra i quali
vi era quello generale di «assicurare la snellezza, concentrazione ed
effettività della tutela, anche al fine di garantire la ragionevole durata del
processo».
Nel circoscrivere la portata del quesito
alla possibilità di svolgere un accertamento «anche solo incidentale» in ordine
alla falsità dei soli atti pubblici del procedimento elettorale, il giudice
rimettente sottolinea come gli stessi presentino rilevanza ed effetti solo in
quest’ultimo procedimento, con la conseguenza che non sussisterebbe «alcuna
esigenza di un accertamento con effetti generali ed erga omnes, quale l’accertamento del
falso in sede civile».
2. – Costituendosi in giudizio, Mercedes Bresso e Luigina Staunovo
Polacco, parti nel giudizio a quo,
hanno sollecitato l’accoglimento della questione, osservando, conclusivamente,
come essa sia imposta in particolare dal principio della durata ragionevole del
processo: «le norme vigenti finiscono col sottrarre al giudice amministrativo,
al quale pure appartiene la giurisdizione in ordine alle operazioni elettorali,
la giurisdizione stessa, allorché, come nella specie accade, la falsità di un
documento che esaurisce i suoi effetti nel procedimento elettorale costituisca
la ragione stessa della contestazione, onde la sua devoluzione al giudice
civile in un separato giudizio collide irragionevolmente con la giurisdizione
attribuita in materia di operazioni elettorali al giudice amministrativo».
In punto di rilevanza, la memoria
sottolinea come, essendosi il giudizio di primo grado celebrato prima della
entrata in vigore del nuovo codice del processo amministrativo, fosse
necessario coinvolgere, nel controllo della sentenza da parte del giudice
d’appello, le norme anteriormente vigenti. Quanto all’art. 2700 cod. civ.,
sarebbe proprio questa disposizione a
precludere al giudice amministrativo di valutare secondo il suo libero apprezzamento
l’autenticità degli atti pubblici.
Puntualizzati, poi, i diversi profili di
illegittimità posti a fondamento della ordinanza di rimessione, la memoria,
conclusivamente, sottolinea come: a) la materia elettorale non si presti «ad
una tutela per equivalente che possa minimamente ritenersi tale, sicché negare
una tutela pronta e correttiva vuol dire in radice negare tutela tout court»; b) «l’allargamento dei
soggetti titolari del potere di autentica, con l’attribuzione dello stesso
anche a soggetti "politici” in quanto titolari di "munus elettivo” (id est i consiglieri comunali), e
l’applicazione di tale allargamento proprio alla materia elettorale rende
tutt’altro che eccezionale l’ipotesi che la contestazione dell’esito del
procedimento elettorale sia fondata sulla dedotta falsità di tal tipo di
autentiche che peraltro […] proprio nel procedimento elettorale esauriscono i
loro effetti diretti». Non si ravviserebbero, dunque, esigenze di accertamento
della eventuale falsità autonome rispetto alla verifica della regolarità delle
operazioni elettorali.
In una memoria depositata in prossimità
dell’udienza, si è segnalato che il Tribunale di Torino, con sentenza del 30
giugno 2011, ha condannato Michele Giovine e Carlo Giovine come colpevoli dei
reati ad essi ascritti ed ha altresì dichiarato la falsità delle 17
autenticazioni della firma poste in calce alle rispettive «dichiarazioni di
accettazione di candidatura» oggetto di imputazione.
L’intervento richiesto alla Corte si
collocherebbe nella stessa linea della previsione che consente al giudice
penale di accertare autonomamente il falso, ex
art. 537 del codice di procedura penale, riguardando atti che non hanno effetti
al di fuori del procedimento elettorale e assegnando al giudice amministrativo
la possibilità di svolgere un accertamento incidenter tantum sulla loro eventuale falsità. Né varrebbe in contrario
l’argomento del possibile contrasto fra giudicati.
Evidente sarebbe anche la violazione
della norma di delega: non si tratterebbe di una mancata esecuzione di una
direttiva ma di un contrasto con la stessa, posto che si imponeva al
legislatore delegato di «garantire la concentrazione e la celerità della tutela
assegnata al giudice amministrativo in materia elettorale».
Si
deduce, infine, la inammissibilità del tentativo della difesa del Giovine di
introdurre nel giudizio di costituzionalità pretese contestazioni concernenti
le liste collegate con l’on. Bresso, trattandosi di
questioni estranee alla ordinanza di rimessione ed allo stesso giudizio a quo.
3.
– Si sono costituiti Rosanna Valle ed altri – tutti consiglieri regionali del
Piemonte eletti a seguito della consultazione elettorale del 28 e 29 marzo
2010, parti nel giudizio a quo –
chiedendo dichiararsi inammissibile o infondata la proposta questione, con
argomenti ulteriormente precisati nella memoria depositata in prossimità
dell’udienza.
L’incidente
di falso sarebbe un giudizio con una sua struttura tipica ed unitaria,
necessariamente attribuito, per l’esigenza generale di affidamento e di sicurezza
del traffico giuridico, alla giurisdizione del giudice ordinario. Tale esigenza
di unità della giurisdizione prevarrebbe su quella di concentrazione delle
tutele, secondo una linea costantemente adottata sin dai primi anni del
Novecento e che non ha formato oggetto di contestazione, neppure nei tempi più
recenti.
L’accertamento
sulla falsità dell’atto, peraltro, proprio perché destinato a riflettersi su
ogni rapporto e giudizio, mal si concilierebbe con un accertamento di tipo
incidentale, dovendo esso, proprio per svolgere la sua funzione, essere
effettuato in via principale; ciò anche nel giudizio elettorale amministrativo,
posto che anche per esso valgono gli evidenziati interessi primari. Né sarebbe
corretto dire che gli atti del procedimento amministrativo elettorale rilevano
solo in sede di giurisdizione amministrativa, considerato che, laddove coinvolgano rapporti tra soggetti,
partecipanti o meno alla competizione elettorale, appartengono alla
giurisdizione del giudice ordinario.
L’accoglimento della questione non
risolverebbe, d’altra parte, il problema prospettato, richiedendosi piuttosto
un intervento legislativo: le disposizioni denunciate costituiscono una mera
specificazione di una scelta compiuta dal legislatore con la disciplina del
processo civile, come stabilito dall’art. 1 del codice di rito. Una eventuale
declaratoria di illegittimità costituzionale non avrebbe, dunque, l’effetto di
attribuire al giudice amministrativo la competenza in materia. Quanto alla
questione relativa all’art. 2700 cod. civ., essa andrebbe dichiarata
inammissibile o infondata, in assenza dell’esposizione di plausibili ragioni
contrarie.
4.
– Antonello Angeleri ed altri, nella loro qualità di
consiglieri regionali della Regione Piemonte, parti nel giudizio a quo, hanno depositato atto di
costituzione, nel quale hanno chiesto dichiararsi inammissibile o infondata la
proposta questione.
Nella
successiva memoria, i medesimi hanno precisato che l’inammissibilità
deriverebbe, sotto un duplice profilo, dal carattere contraddittorio e
alternativo della questione sollevata nonché dalla sua irrilevanza nel giudizio
principale.
L’ordinanza non consentirebbe di
«individuare un petitum univoco» e di
«identificare in maniera chiara il thema
decidendum»; e il dubbio di legittimità costituzionale, rivolto sia alla
disciplina vigente sia a quella previgente, sarebbe fondato sull’«argomento
centrale» dell’evoluzione del processo amministrativo, ovviamente riferibile al
solo codice del processo amministrativo. D’altra parte, la normativa vigente
non sarebbe applicabile al giudizio a quo
(instaurato prima dell’entrata in vigore del codice stesso) e la relativa
questione sarebbe perciò irrilevante.
La contraddittorietà, o alternatività, della
prospettazione rileverebbe anche sotto un altro profilo: da un lato, la
questione riguarderebbe «in toto»
l’istituto in esame, in riferimento ai poteri del giudice amministrativo nel
suo processo; dall’altro essa si riferirebbe soltanto al giudizio elettorale,
restando peraltro imprecisato se si richieda un intervento caducatorio
o uno additivo.
La normativa denunciata sarebbe,
peraltro, applicabile al solo processo di primo grado: «ove mai la questione
qui in discussione venisse accolta, sarebbe il TAR Piemonte a dover effettuare
le autonome verifiche sul presunto falso materiale di cui si discute e non
certo il Consiglio di Stato». Difettando il carattere di incidentalità, si
sarebbe al limite della fictio litis, che
condurrebbe a una pronuncia di manifesta inammissibilità.
Quanto all’infondatezza della questione,
la memoria sottolinea che la disciplina in esame costituisce, in definitiva,
«un caposaldo del riparto di giurisdizione e come tale è stato puntualmente
riproposto e mantenuto fermo in tutte le successive modificazioni dell’assetto
della giurisdizione amministrativa», nonostante la progressiva estensione della
sua sfera anche con l’attribuzione della giurisdizione esclusiva. Si
pretenderebbe di «scardinare questo secolare modello in nome dei princìpi di concentrazione e celerità e dei nuovi poteri
istruttori del giudice amministrativo», in realtà dirigendo la contestazione
nei confronti dei tempi, eccessivamente lunghi, di svolgimento del processo
civile e dunque nei confronti di un «inconveniente di fatto», inidoneo ad essere
valutato nel giudizio costituzionale.
Del resto, «la garanzia del riparto
delle giurisdizioni costituisce un elemento con cui la ragionevole durata [del
processo] va contemperato», al pari del diritto di difesa e dell’effettività
della tutela giurisdizionale.
Inconferente risulterebbe il richiamo
dell’art. 97 Cost., attesa l’esclusione della riferibilità del principio del
buon andamento all’esercizio della funzione giurisdizionale.
Le previsioni relative all’accertamento
di diritti da parte del giudice amministrativo costituirebbero, del resto, una
«regola eccezionale e soggetta ad ulteriori limiti», identificati dalla stessa
giurisprudenza amministrativa, ferma tuttavia restando la scelta –
«discrezionale e non irragionevole» – di attribuire le questioni di falso al
giudice ordinario per la «salvaguardia di uno dei più importanti interessi
superindividuali, quello della fede pubblica, ossia della forza fidefacente di un atto pubblico, idoneo a produrre ex se effetti di certezza
privilegiata».
Quanto alla lamentata violazione
dell’art. 76 Cost., la censura sarebbe, da un lato, inammissibile per
irrilevanza, dall’altro non fondata, non potendosi ritenere che la delega
«ricomprendesse anche la possibilità di intaccare i capisaldi più tradizionali
dell’ambito di giurisdizione amministrativa».
5. – Ha depositato atto di costituzione
anche il Presidente della Regione Piemonte, chiedendo ugualmente dichiararsi
inammissibile o infondata la questione, e formulando riserva di ulteriori
deduzioni.
Con memoria depositata in prossimità
dell’udienza, la difesa ha insistito nelle richieste esponendo argomenti
sostanzialmente analoghi a quelli esposti dalla difesa Angeleri.
6. – Hanno depositato comparsa di
costituzione Michele Giovine e Sara Franchino, controinteressati
nel giudizio a quo, chiedendo
dichiararsi inammissibile o infondata la questione. Nel riservarsi di
presentare memoria illustrativa – poi, a quanto consta, non pervenuta – le
parti private anzidette hanno rilevato che, alla stregua della documentazione
prodotta, risulterebbe asseverata una non meglio precisata "prova di
resistenza”, che renderebbe irrilevante la proposta questione.
7. – Ha infine depositato atto di
intervento il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dalla Avvocatura generale dello Stato, chiedendo dichiararsi manifestamente
infondata la proposta questione.
La riserva di giurisdizione in tema di
querela di falso troverebbe la sua giustificazione nella «particolare
delicatezza del procedimento necessario per eliminare, dal mondo giuridico,
l’efficacia probatoria dei documenti assistiti da pubblica fede». Inoltre, se
si consentisse l’accertamento incidentale da parte di altro giudice, si
correrebbe il rischio di decisioni contrastanti: né si determinerebbe alcuna
irragionevole compressione del diritto di difesa.
D’altra parte, sul versante della durata
del procedimento, essendo l’incidente di falso proponibile anche in via
principale, le parti ricorrenti ben avrebbero potuto attivare ad un tempo sia
il giudice amministrativo che quello ordinario ai soli fini del giudizio di
falso, evitando di dover attendere la decisione del giudice amministrativo.
Generica e insufficiente sarebbe poi la
motivazione della ordinanza in merito alla supposta violazione dell’art. 97 Cost.,
posto che la eliminazione della preclusione non avrebbe conseguenze ai fini
della auspicata verifica della regolarità delle operazioni da parte degli
organi preposti, mentre non avrebbe senso giuridico il riferimento a situazioni
di "evidente falsità”, trattandosi di atti assistiti da fede pubblica
rimuovibile solo attraverso il relativo procedimento.
Infondato sarebbe anche il prospettato
dubbio di eccesso di delega, circa le norme del nuovo codice del processo
amministrativo, in quanto, contrariamente a ciò che afferma il giudice a quo, le deroghe alla disciplina
ordinaria stabilite dalla legge di delega devono ritenersi tassative.
8. – In prossimità dell’udienza ha
depositato "atto di costituzione e memoria” la Regione Lombardia, in persona
del Presidente della Giunta regionale pro
tempore, parte di altro giudizio rispetto a quello a quo, pendente, con oggetto asseritamente simile, presso il
medesimo giudice che ha rimesso la questione all’esame. Con detto atto la
Regione Lombardia ha chiesto di essere ammessa al presente giudizio incidentale
di legittimità costituzionale ed ha anche domandato di disporre il rinvio della
udienza pubblica fissata per la trattazione, al fine di poter «esercitare in
modo pieno e senza pregiudizio il proprio diritto di difesa», eccependo
l’inammissibilità e l’infondatezza della relativa questione di legittimità
costituzionale.
Con ordinanza pronunciata all’udienza, e qui allegata in appendice, il
richiesto intervento è stato dichiarato inammissibile.
Considerato
in diritto
1. – Il Consiglio di
Stato in sede giurisdizionale solleva questione di legittimità costituzionale
degli articoli 8, comma 2, 77, 126, 127, 128, 129,
130 e 131 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’art.
44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino
del processo amministrativo) [c.d. codice del processo amministrativo]; e delle
previgenti disposizioni di cui agli artt. 7 del regio decreto 30 dicembre 1923,
n. 2840 (Modificazioni all’ordinamento del Consiglio di Stato e della Giunta
provinciale amministrativa in sede giurisdizionale), 41, 42 e 43 del regio
decreto 17 agosto 1907, n. 642 (Regolamento per la procedura dinanzi alle
sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato); 28, terzo comma, e 30, secondo
comma, del regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054 (Approvazione del testo unico
delle leggi sul Consiglio di Stato); 7, terzo comma, ultima parte, e 8 della
legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione dei tribunali amministrativi
regionali), nonché dell’art. 2700 del codice civile, in riferimento agli artt.
24, 76 – parametro, questo, evocato con
esclusivo riferimento alle norme del codice del processo amministrativo – 97, 103, 111, 113 e 117 della Costituzione, nella
parte in cui precludevano e precludono al giudice amministrativo di accertare,
anche solo incidentalmente, la falsità degli atti pubblici nel giudizio
amministrativo in materia elettorale.
Osserva, in
particolare, il giudice rimettente che l’obbligo della devoluzione al giudice
ordinario della risoluzione dell’incidente di falso in riferimento agli atti
muniti di fede privilegiata a norma dell’art. 2700 cod. civ., si giustificava,
quanto al processo amministrativo, in ragione della carenza di strumenti di
accertamento che precludevano la possibilità di una verificazione incidentale
della falsità. Preclusione, quella accennata, che, invece, alla luce dei nuovi
poteri istruttori previsti dal codice del processo amministrativo, di recente
entrato in vigore, sarebbe venuta meno, quanto a ratio essendi originaria, così da
generare una irragionevole perdita di concentrazione della attività
processuale, contraria all’esigenza di speditezza del giudizio amministrativo e
alla corrispondente necessità di assicurare un effettivo e pronto ristoro delle
posizioni soggettive coinvolte dal falso, specie in ragione delle peculiarità
che caratterizzano il controllo della regolarità delle operazioni elettorali
nell’ambito del relativo contenzioso.
Sarebbero, dunque,
vulnerati, a parere del giudice rimettente, gli artt. 24 e 113 Cost., in quanto
la obbligatoria devoluzione al giudice ordinario della querela di falso in
ordine agli atti pubblici del procedimento elettorale, con l’attesa del
relativo giudicato, frustrerebbe, in concreto, la possibilità di una solerte ed
efficace tutela giurisdizionale, posto che la pronuncia irrevocabile sul falso
può intervenire a distanza di tempo tale da non presentare più alcuna reale
incidenza sulla stessa competizione elettorale. Risulterebbe al tempo stesso
compromesso il principio di ragionevole durata del processo e violato, anche,
l’art. 117, primo comma, Cost., in riferimento agli artt. 6 e 13 della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in quanto la preclusione anzidetta
vanificherebbe il diritto ad un ricorso effettivo, comprimendo pure la tutela
degli interessi legittimi, affidata al giudice amministrativo e garantita dagli
artt. 103 e 113 Cost.
Sarebbe, inoltre,
violato l’art. 97 Cost., in quanto, in
contrasto con il principio del buon andamento della pubblica amministrazione,
non sarebbe consentito agli organi preposti alla procedura elettorale di
accertare falsità di atti pubblici anche se evidenti, né sarebbe prevista, a
fronte di ciò, la possibilità di una tutela immediata.
Viene infine
prospettata, con riguardo esclusivo alle pertinenti disposizioni del nuovo
codice del processo amministrativo, la violazione dell’art. 76 Cost., in
quanto, per le ragioni innanzi evidenziate, attraverso la mancata previsione
della possibilità di accertare incidenter tantum
la falsità degli atti in materia elettorale, non sarebbero stati rispettati i princìpi ed i criteri direttivi sanciti dall’art. 44 della
legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la
semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), quali
quello di «assicurare la snellezza, concentrazione ed effettività della tutela,
anche al fine di garantire la ragionevole durata del processo» e, con specifico
riferimento ai giudizi in materia elettorale, di «razionalizzare e unificare le
norme vigenti per il processo amministrativo sul contenzioso elettorale,
prevedendo il dimezzamento, rispetto a quelli ordinari, di tutti i termini
processuali, il deposito preventivo del ricorso e la successiva notificazione
in entrambi i gradi».
2. – Si sono
costituiti in giudizio Mercedes Bresso e Luigina Staunovo Polacco;
Rosanna Valle ed altri; Antonello Angeleri ed
altri; Michele Giovine e Sara Franchino; nonché la Regione Piemonte, in persona
del Presidente della Giunta regionale pro
tempore, tutte parti nel giudizio a
quo.
È intervenuto il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura
generale dello Stato.
Gli argomenti
esposti negli atti e nelle memorie di costituzione o di intervento sono stati
descritti in narrativa.
3. – In prossimità
dell’udienza ha depositato "atto di costituzione e memoria” la Regione
Lombardia, in persona del Presidente della Giunta regionale pro tempore, parte di altro giudizio
rispetto a quello a quo, chiedendo di
essere ammessa al presente giudizio incidentale.
L’intervento è stato
dichiarato inammissibile con ordinanza letta all’udienza, allegata in
appendice, ed il cui contenuto si intende qui integralmente confermato.
4. – La questione
non è fondata.
5. – La
ultracentenaria tradizione – in vario modo risalente al primo impianto
codicistico postunitario, civile e di procedura civile, nonché alla stessa
legge di unificazione amministrativa (legge 20 marzo 1865, n. 2248 e, in
particolare, allegati E e D) ed espressamente
proseguita, via via, con le normative di riforma del
sistema e degli istituti di giustizia amministrativa degli anni 1889-1890, del
1907, del 1923-1924 e, dopo la Costituzione repubblicana, del 1971 – di
riservare al giudice civile la risoluzione delle controversie sullo stato e la
capacità delle persone, salvo la capacità di stare in giudizio, nonché la
risoluzione dell’incidente di falso, in tema di atti muniti di fede
privilegiata, risponde, come è noto, alla esigenza di assicurare in talune
peculiari materie – rispetto alle quali maggiore è la necessità di una certezza
erga omnes
e sulle quali possa dunque formarsi anche un giudicato – una sede e un modello
processuale unitari: così da evitare, ad un tempo, il rischio di contrastanti
pronunce – che minerebbero la fiducia verso determinati atti ovvero in ordine a
condizioni e qualità personali di essenziale risalto agli effetti dei rapporti
intersoggettivi – e il ricorso a modelli variegati di accertamento, dipendenti dalle
specificità dei procedimenti all’interno dei quali simili questioni
"pregiudicanti” possono intervenire.
La devoluzione al giudice civile della querela
di falso rappresenta, pertanto, una
(unanimemente condivisa) opzione di sistema, non soltanto, come si è accennato,
di risalente e costante tradizione – estesa poi al processo tributario (art. 39
del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, recante «Disposizioni sul
processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art.
30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413») ed ora trasfusa nell’art. 8, comma 2,
del nuovo codice del processo amministrativo, in una linea da considerare di
sostanziale e immutata continuità rispetto alla corrispondente disciplina di
cui alla serie delle disposizioni previgenti –, ma anche rispondente a
persistenti valori ed esigenze di primario risalto: tra questi va, anzitutto,
annoverata la necessaria tutela della fede pubblica, che in determinate ipotesi
– quale è quella degli atti muniti di valore fidefacente
privilegiato a norma dell’art. 2700 cod. civ. – deve essere assicurata a
prescindere dalla sede processuale in cui l’autenticità dell’atto sia stata,
incidentalmente, messa in dubbio. La certezza e la speditezza del traffico
giuridico – che rappresentano, come è noto, il bene finale presidiato dal
regime probatorio normativamente riservato a determinati atti – potrebbero
risultare, infatti, non adeguatamente assicurate ove l’accertamento sulla
autenticità dell’atto fosse rimesso ad un mero "incidente”, risolto all’interno
di un determinato procedimento giurisdizionale, senza che tale verifica avesse
effetti giuridici al di là delle parti e dell’oggetto dello specifico
procedimento.
Da ciò consegue che
la prevista disciplina della pregiudiziale di falso nel processo amministrativo
risponde ad una causa normativa del tutto in linea con la necessità di
assicurare la salvaguardia di esigenze, come si è detto, di primario rilievo: e
ciò, non soltanto nel quadro di una – pur doverosa – armonia nel sistema delle
giurisdizioni, ma – soprattutto – nell’ambito di una adeguata ponderazione
delle varie esigenze coinvolte. La "unitarietà” della giurisdizione in
specifiche materie ben può, dunque, costituire una necessità destinata a
prevalere su quella di concentrazione dei singoli e diversi giudizi, senza che
a tal proposito possa in qualche modo venire in discorso – come al contrario
mostra di ritenere il giudice a quo –
la maggiore o minore idoneità di questo o quello tra i modelli processuali ad
assicurare adeguata tutela in quelle stesse materie.
A fronte di ciò,
l’organo rimettente pone a fulcro della questione non un composito e ponderato
apprezzamento dei vari interessi e valori coinvolti, ma unicamente le esigenze
di speditezza del processo amministrativo in materia elettorale, pretendendo apoditticamente di desumere da esse la salvaguardia di una
effettività di tutela, sulla falsariga dei princìpi
affermati da questa Corte, proprio in tema di contenzioso elettorale, nella sentenza n. 236 del
2010, più volte evocata nella ordinanza di rimessione.
Ma tanto la premessa
argomentativa – fondata sulla presupposizione che alla eliminazione della
pregiudiziale di falso corrisponda una maggiore celerità del procedimento –
quanto il richiamo alla pronuncia di questa Corte non assumono portata
dirimente, non apparendo la prima condivisibile ed il secondo pertinente.
A proposito,
infatti, della sentenza
n. 236 del 2010, può subito osservarsi che in essa questa Corte dichiarò
l’illegittimità costituzionale dell’art. 83-undecies
del decreto del Presidente della Repubblica 16 maggio 1960, n. 570 (Testo unico
delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle
Amministrazioni comunali), introdotto dall’art. 2 della legge 23 dicembre 1966,
n. 1147 (Modificazioni alle norme sul contenzioso elettorale amministrativo),
nella parte in cui tale disposizione escludeva la possibilità di un’autonoma
impugnativa degli atti del procedimento preparatorio alle elezioni, ancorché
immediatamente lesivi, anteriormente alla proclamazione degli eletti. Nel
frangente, si ebbe a sottolineare come una simile compressione della tutela
giurisdizionale non potesse giustificarsi alla luce delle specifiche esigenze
di rango costituzionale che caratterizzano il procedimento in materia
elettorale, dovendosi distinguere tra procedimento preparatorio alle elezioni –
nel quale è inclusa la fase di ammissione delle liste o di candidati – e
procedimento elettorale, comprendente le operazioni elettorali e la successiva
proclamazione degli eletti. Gli atti relativi al primo procedimento – si
osservò –, quali la esclusione di liste o di candidati, debbono poter essere
impugnati immediatamente, «al fine di poter assicurare la piena tutela
giurisdizionale, ivi inclusa quella cautelare, garantita dagli artt. 24 e 113
Cost.».
Si trattava di un
contesto decisionale, quindi, affatto diverso da quello evocato dal giudice a quo a fondamento della proposta
questione, essendo il caso allora scrutinato riferito ad una preclusione della
azione di impugnativa e non – come per l’incidente di falso – ad una riserva di
giurisdizione.
Il valore della
effettività della tutela nell’ambito del contenzioso amministrativo in materia
elettorale va dunque preservato, quanto al vincolo della pregiudizialità che
scaturisce dall’incidente di falso, nel più ampio contesto delle esigenze di
certezza che la soluzione di quell’incidente ragionevolmente postula, non
potendo tali esigenze essere (questa volta sì irragionevolmente) totalmente pretermesse a vantaggio di una ipotetica maggiore
speditezza del procedimento.
Né va trascurato di
evidenziare che, pur prospettando la questione come di natura strettamente
"processuale”, intesa a rimuovere gli effetti preclusivi della pregiudiziale di
falso, il giudice rimettente si è trovato nella necessità di coinvolgere
espressamente nel dubbio di legittimità costituzionale anche il valore
"sostanziale” dell’art. 2700 cod. civ. Con la conseguenza, in ipotesi, che,
allo scopo di salvaguardare le esigenze di speditezza e di effettività della
tutela nel contenzioso elettorale, contraddittoriamente si produrrebbe, quale
naturale effetto, quello di "affievolire” l’efficacia e la qualità dell’atto
munito di fede privilegiata, proprio in materia elettorale: consentendo, in
altri termini, solo un accertamento incidentale da parte del giudice
amministrativo, si finirebbe ineluttabilmente per frustrare il valore probatorio
dell’atto pubblico, proprio perché non più fidefacente
"fino a querela di falso”. Il che, evidentemente, rende ancor più implausibile
la validità del costrutto logico posto a base della ordinanza di rimessione.
6. – Alla luce delle
suindicate considerazioni si può passare all’esame delle singole censure, con
riferimento agli specifici parametri costituzionali evocati.
6.1. – Il giudice
rimettente assume che la preclusione all’accertamento incidentale, da parte del
giudice amministrativo, della falsità degli atti pubblici vìoli
gli artt. 24 e 113 della Costituzione nonché il principio di effettività della
tutela giurisdizionale in riferimento anche all’art. 117, primo comma, Cost. e
agli artt. 6 e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali.
Le censure non
meritano accoglimento.
La giurisprudenza
costituzionale è costante nell’affermare che la disciplina degli istituti
processuali rientra nella discrezionalità del legislatore (ex multis, sentenze n. 221 del 2008
e n. 237 del
2007; ordinanza
n. 101 del 2006). Nell’esercizio di tale discrezionalità è necessario, tra
l’altro, che si rispetti il principio di effettività della tutela
giurisdizionale, il quale rappresenta un connotato rilevante di ogni modello
processuale.
Nella specie, non può
ritenersi che la conformazione dell’accertamento della falsità documentale, per
come discrezionalmente effettuata dal legislatore con la disciplina di cui al
complesso delle disposizioni denunciate, sia di per sé idonea a recare un vulnus
al predetto principio di effettività. La verifica della falsità da parte
del giudice ordinario – destinata a confluire nel processo amministrativo ai
fini della definizione della controversia – oltre a rinvenire la sua
giustificazione nel sistema delle tutele di cui alle linee di sviluppo
sommariamente indicate, è comunque in grado di assicurare un livello di
protezione conforme alle prescrizioni costituzionali e internazionali.
6.2. – Il Consiglio di
Stato assume, altresì, il contrasto delle disposizioni di cui si assume la
illegittimità con l’art. 111 Cost., atteso che la necessaria sospensione del
giudizio amministrativo non assicurerebbe la ragionevole durata del processo.
La censura non
merita accoglimento.
Deve, infatti,
rilevarsi, su un piano generale, come tutti i meccanismi di accertamento
pregiudiziale, comprese la pregiudizialità costituzionale e quella comunitaria,
possano, per se stessi, incidere sulla durata del processo, senza che ciò automaticamente
si risolva, com’è ovvio, nella violazione del principio di ragionevole durata
del processo medesimo. Non è, dunque, mediante la soppressione di fasi
processuali, essenziali ai fini della decisione, che si consegue l’obiettivo di
garantire la celerità dei processi, compreso quello amministrativo in materia
elettorale.
6.3. – Secondo il
giudice a quo le norme censurate violerebbero anche gli artt. 103 e 113
della Costituzione, in quanto la preclusione posta da tali norme comprimerebbe
la tutela degli interessi legittimi, assicurata dal giudice amministrativo,
«introducendo una limitazione della tutela, costituzionalmente non
compatibile».
Le censure non sono
fondate.
Sul punto può essere
sufficiente rilevare come il sistema di definizione delle questioni
pregiudiziali di falso, prefigurate dal legislatore, non limita in alcun modo,
per le ragioni sin qui esposte, le forme di tutela degli interessi legittimi.
6.4. – Si assume,
altresì, la violazione dell’art. 97 Cost., non risultando coerente con il
principio di buon andamento un procedimento, quale quello elettorale, «in cui,
anche in presenza di evidenti falsità di atti pubblici gli organi preposti alla
procedura elettorale non possono accertare tali falsità».
La censura non è
fondata.
Quanto previsto
nell’evocato parametro costituzionale opera esclusivamente con riguardo, come
riconosce lo stesso remittente, all’attività amministrativa e non anche a
quella giurisdizionale (da ultimo ordinanza n. 219
del 2011). Rimane, inoltre, oscura la connessione che il giudice a quo pone
tra i lamentati limiti alla tutela giurisdizionale e l’esigenza di osservare la
prescrizione posta dall’art. 97 della Costituzione.
6.5. – Infine, si
assume la violazione dell’art. 76 Cost., in quanto non sarebbero stati
rispettati dal codice del processo amministrativo i criteri fissati dalla legge
delega di cui all’art. 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, fra i quali quello
di «assicurare la snellezza, concentrazione ed effettività della tutela, anche
al fine di garantire la ragionevole durata del processo» nonché, con riguardo
ai giudizi elettorali, quello di «razionalizzare e unificare le norme vigenti
per il processo amministrativo sul contenzioso elettorale, prevedendo il
dimezzamento, rispetto a quelli ordinari, di tutti i termini processuali, il
deposito preventivo del ricorso e la successiva notificazione in entrambi i
gradi».
La censura non è
fondata.
La giurisprudenza
costituzionale è costante nel ritenere che la eventuale omissione del
legislatore delegato che non faccia in parte uso della delega conferitagli non
determina violazione del parametro costituzionale evocato (tra le tante,
sentenze n. 149
del 2005, n.
110 del 1982, n.
8 del 1977). Ma anche a prescindere da ciò, è assorbente il rilievo che,
una volta affermato il non contrasto delle norme censurate con i princìpi di effettività della tutela e di ragionevole
durata del processo, non potrebbe neanche prospettarsi la violazione dei
criteri direttivi, richiamati dal giudice rimettente, che a tali princìpi fanno riferimento.
per
questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara
non fondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 8, comma
2, 77, 126, 127, 128, 129, 130 e 131 del
decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’art. 44 della legge
18 giugno 2009, n. 69, recante delega al Governo per il riordino del processo
amministrativo); dell’articolo 7 del regio decreto 30 dicembre 1923, n. 2840
(Modificazioni all’ordinamento del Consiglio di Stato e della Giunta provinciale
amministrativa in sede giurisdizionale); degli articoli 41, 42 e 43 del regio
decreto 17 agosto 1907, n. 642 (Regolamento per la procedura dinanzi alle
sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato); degli articoli 28, terzo
comma, e 30, secondo comma, del regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054
(Approvazione del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato); degli
articoli 7, terzo comma, ultima parte, e 8 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034
(Istituzione dei tribunali amministrativi regionali); nonché dell’articolo 2700
del codice civile, sollevata, in riferimento agli articoli 24, 76, 97, 103,
111, 113 e 117 della Costituzione, dal Consiglio di Stato con l’ordinanza
indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 ottobre
2011.
F.to:
Alfonso QUARANTA, Presidente
Paolo GROSSI, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l'11 novembre 2011.
Allegato:
ordinanza letta
all’udienza del 4 ottobre 2011