Sentenza n. 90 del 1966
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SENTENZA N. 90

ANNO 1966

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Gaspare AMBROSINI, Presidente

Prof. Nicola JAEGER

Prof. Giovanni CASSANDRO

Prof. Biagio PETROCELLI

Dott. Antonio MANCA

Prof. Aldo SANDULLI

Prof. Giuseppe BRANCA

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO, 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale della legge regionale siciliana 19 febbraio 1951, n. 20, promosso con ordinanza emessa il 4 giugno 1965 dal Tribunale di Palermo nel procedimento civile vertente tra l'Istituto di assistenza e beneficenza "Principe di Palagonia e Conte di Ventimiglia" e la Regione siciliana, iscritta al n. 180 del Registro ordinanze 1965 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 242 del 25 settembre 1965 e nella Gazzetta Ufficiale della Regione siciliana n. 40 del 18 settembre 1965.

Visto l'atto di costituzione del Presidente della Regione siciliana e dell'Assessore regionale per le finanze;

udita nell'udienza pubblica del 1 giugno 1966 la relazione del Giudice Aldo Sandulli;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Giuseppe Guglielmi, per il Presidente della Regione siciliana e per l'Assessore regionale per le finanze.

 

Ritenuto in fatto

 

Nel giudizio civile promosso dall'Istituto di assistenza e beneficenza "Principe di Palagonia e Conte di Ventimiglia" contro la Regione siciliana per ottenere la retrocessione di un complesso immobiliare espropriato nel dicembre 1953 in forza della legge regionale 19 febbraio 1951, n. 20, in vista della costruzione di un edificio da destinare a sede degli uffici della Regione, il Tribunale di Palermo, con ordinanza emessa il 4 giugno 1965, dopo avere ritenuto manifestamente infondate talune eccezioni di legittimità costituzionale dell'anzidetta legge regionale proposte dalla difesa dell'Istituto, sospendeva il giudizio rimettendo a questa Corte una diversa questione di legittimità costituzionale, sollevata d'ufficio.

Tale questione investe l'art. 1 della legge pel fatto che questo, nel dichiarare la pubblica utilità dell'opera da realizzare e nel prevedere l'espropriazione di taluni immobili specificamente individuati, non stabiliva i termini entro cui l'espropriazione e l'opera dovevano essere cominciate e compiute. Ciò autorizzerebbe a dubitare della conformità di essa all'art. 42 della Costituzione e ai "principi (costituzionali) da tale norma presupposti, di cui si ritrova la più completa enunciazione legislativa negli artt. 13 e 63 della legge 25 giugno 1865, n. 2359". L'anzidetto vizio, sussistendo, comporterebbe poi la ulteriore violazione del limite fissato dall'art. 14 dello Statuto regionale al potere legislativo della Regione.

Ricorda in proposito l'ordinanza che in base alla vigente legislazione la prefissione dei termini di inizio e di compimento del procedimento espropriativo - destinata a evitare l'indefinito prolungarsi dell'incertezza circa la sorte dei beni soggetti a espropriazione - é condizione della legittimità della dichiarazione della pubblica utilità di un'opera. Ciò ha la sua spiegazione nel fatto che, ove essa manchi, l'interesse, al servizio del quale l'espropriazione é autorizzata, viene a risultare privo dei requisiti di attualità e determinatezza, i quali sono in essenziale corrispondenza col noto carattere elastico della proprietà, e cioè con l'attitudine di questa a riespandersi automaticamente appena cessino le compressioni ad essa imposte. A tale carattere - che, essendo connaturale all'essenza della proprietà, è da ritenere garantito dalla Costituzione nel momento stesso che questa garantisce la proprietà - si collegano, da un lato l'esigenza che l'interesse pubblico espropriativo abbia carattere attuale; dall'altro l'istituto della decadenza della dichiarazione di pubblica utilità delle opere non realizzate nei termini e quello della retrocessione dei beni espropriati in vista della loro realizzazione: istituti i quali, collegati come sono intimamente all'attributo di elasticità proprio del diritto di proprietà, hanno anch'essi rilievo costituzionale.

Né - aggiunge l'ordinanza - l'esigenza della fissazione del termine per le espropriazioni potrebbe considerarsi, nel caso in esame, soddisfatto attraverso lo stanziamento nel bilancio della Regione delle necessarie somme, dati i "noti caratteri di permanenza degli impegni di spesa pubblica e di istituzionale prorogabilità delle imputazioni nei bilanci successivi a quello del disposto impegno".

D'altro canto sarebbe impossibile ammettere che la determinazione dei termini possa aver luogo per atto dell'autorità amministrativa: se la dichiarazione di pubblica utilità é stata effettuata mediante una legge, la necessaria inscindibilità tra essa e la fissazione dei termini escluderebbe la legittimità di una siffatta soluzione.

Pertanto il Tribunale ha rimesso a questa Corte la riferita questione, in relazione all'art. 42, secondo e terzo comma, della Costituzione e "ai principi costituzionali da questa norma presupposti, di cui si trova enunciazione nell'art. 834 del Codice civile e negli artt. 13, primo e terzo comma, e 63 della legge 25 giugno 1865, n. 2359", e inoltre in relazione all'art. 14 dello Statuto della Regione siciliana.

L'ordinanza é stata notificata il 13 e 14 agosto 1965 alle parti in causa e al Presidente dell'Assemblea regionale e il 16 agosto al Presidente della Regione. Essa é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Regione n. 40 del 18 settembre e nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 242 del 25 settembre.

Davanti a questa Corte si sono costituiti tempestivamente il Presidente della Regione e l'Assessore regionale per le finanze, rappresentati dall'Avvocatura generale dello Stato, con un unico atto di deduzioni, depositato l'8 settembre 1965, nel quale chiedono che la questione sia dichiarata infondata.

Si é anche costituito l'Istituto di assistenza e beneficenza, con deduzioni depositate il 28 dicembre 1965, e perciò fuori termine.

Tutte le parti hanno altresì presentato memorie illustrative.

Nelle deduzioni dell'Avvocatura dello Stato si premette in fatto che la procedura espropriativa fu condotta a compimento nel 1953, mentre la esecuzione delle opere - il cui progetto risulta approvato nel 1955, e confermato dal piano regolatore della città di Palermo approvato nel 1963 - non ha potuto ancora avere inizio a causa di "sopravvenute difficoltà di ordine politico, tecnico, finanziario". Si osserva poi, in diritto, che la disciplina costituzionale della proprietà non può esser ricercata nelle leggi ordinarie, ma va rinvenuta soltanto nella Costituzione, la quale all'art. 42 pone solo due condizioni per l'espropriazione: che essa sia disposta per motivi di pubblico interesse, e che il proprietario riceva un indennizzo. Si nota ancora che la Regione siciliana dispone, in materia di espropriazione, ai sensi dell'art. 14, lett. s, del suo Statuto, di potestà legislativa esclusiva, e non é tenuta a osservare se non le leggi costituzionali e gli obblighi internazionali assunti dallo Stato. Onde ben poteva - come fece - derogare alla regola sulla fissazione dei termini enunciata nell'art. 13 della legge 25 giugno 1865, n. 2359, la quale non solo non esprime un principio costituzionale, ma nemmeno un principio fondamentale dell'ordinamento, tanto é vero che vi derogano, per es., la legge urbanistica e quella sulle opere idrauliche.

Nella memoria depositata il 19 aprile 1966 l'Avvocatura aggiunge che, dato il carattere esclusivo della propria potestà legislativa in materia, la Regione non era tenuta nemmeno ad osservare il principio del giusto procedimento; nondimeno la legge denunciata ebbe a disciplinare ampiamente la procedura espropriativa. É vero che essa ebbe a derogare agli artt. 13 e 63 della legge fondamentale sulle espropriazioni per pubblica utilità; ma nessuna regola costituzionale la obbligava a uniformarsi a tali disposizioni. Del resto, la fissazione del termine di compimento delle espropriazioni e dei lavori fu voluta dalla legge del 1865 per imporre un limite al potere discrezionale dell'Amministrazione nel compimento di opere pubbliche: perciò essa non é necessaria quando - come nel caso in esame - sia una legge a imporre il compimento di un'opera. Inoltre nella specie la complessità e il costo dell'opera - che ne esigono una realizzazione graduata nel tempo - ben giustificavano la mancata fissazione di termini di rigore.

All'udienza di trattazione della causa l'Avvocatura dello Stato ha insistito nelle precedenti conclusioni.

 

Considerato in diritto

 

1. - Deve essere preliminarmente dichiarata inammissibile per tardività, in conformità della giurisprudenza (ordinanze 27 marzo e 12 giugno 1957 e sentenza 24 maggio 1960 n. 35), la costituzione in giudizio dell'Istituto di assistenza e beneficenza "Principe di Palagonia e Conte di Ventimiglia", avvenuta soltanto il 28 dicembre 1965, e cioè al di là del termine consentito dall'art. 25 della legge 11 marzo 1953, n. 87, e dall'art. 3 delle Norme integrative emanate da questa Corte il 16 marzo 1956.

2. - Nel merito, la Corte ritiene fondata la questione sottopostale dal Tribunale di Palermo.

La legge della Regione siciliana 19 febbraio 1951, n. 20, é una legge singolare, con la quale, al fine di consentire "le costruzioni del palazzo della Regione siciliana", veniva "autorizzata l'espropriazione" di un'area della città di Palermo specificamente individuata attraverso la delimitazione e i dati risultanti nel catasto urbano. L'ordinanza del Tribunale ha ritenuto di non dover rimettere alla Corte la questione proposta davanti ad esso, circa la possibilità che la Regione adotti leggi singolari di espropriazione; e ha sottoposto alla Corte unicamente la questione di legittimità derivante dal fatto che, nell'autorizzare l'espropriazione dell'anzidetta area, la legge non ebbe a fissare alcun termine per l'espletamento della procedura espropriativa e per l'esecuzione dei lavori. La disamina va pertanto limitata a quest'ultima questione.

La Regione siciliana dispone in materia di espropriazione per pubblica utilità di potestà legislativa esclusiva (art. 14, lett. s, dello Statuto regionale): potestà da esercitare peraltro "nei limiti delle leggi costituzionali dello Stato". Anche le leggi siciliane non possono quindi consentire l'espropriazione di beni se non alle condizioni indicate dall'art. 42, terzo comma, della Costituzione, e cioè se non "per motivi d'interesse generale" (concetto corrispondente, del resto, alla "pubblica utilità", cui si richiama il ricordato art. 14, lett. s) e "salvo indennizzo".

Il precetto costituzionale, secondo cui una espropriazione non può essere consentita dalla legge se non per "motivi di interesse generale" (o - il che é lo stesso - per "pubblica utilità"), e cioè se non quando lo esigano ragioni importanti per la collettività, comporta, in primo luogo, la necessità che la legge indichi le ragioni per le quali si può far luogo all'espropriazione; e inoltre che quest'ultima non possa essere autorizzata se non nella effettiva presenza delle ragioni indicate dalla legge.

Orbene, all'esigenza della presenza di siffatte ragioni inerisce che una espropriazione non può essere autorizzata per far fronte a bisogni ipotetici ed eventuali, bensì solo quando appaia indispensabile per far fronte a bisogni che, pure se destinati a concretarsi in futuro o a essere soddisfatti soltanto col decorso del tempo, presentino tuttavia fin dal momento attuale quel sufficiente punto di concretezza che valga a far considerare necessario e tempestivo il sacrificio della proprietà privata nell'ora presente. La medesima esigenza comporta inoltre che anche la possibilità di far luogo alla soddisfazione del bisogno deve essere caratterizzata, fin dal momento in cui l'espropriazione viene autorizzata, da un sufficiente punto di effettività e di concretezza.

Il vigente ordinamento costituzionale riconosce e garantisce l'istituto della proprietà privata (art. 42, secondo comma, della Costituzione). Il precetto dell'art. 42, terzo comma, della Costituzione, secondo cui la proprietà privata non può essere espropriata che per motivi di interesse generale, si riconnette immediatamente a tale riconoscimento e non può essere inteso se non nel senso che l'espropriazione deve necessariamente collegarsi - e cioè deve essere in rapporto immediato - con la soddisfazione di effettive e specifiche esigenze rilevanti per la comunità. Da ciò discende, tra l'altro, che non potrebbe esser ritenuta giustificata da ragioni di interesse generale una espropriazione ordinata non a far fronte a specifiche e puntuali esigenze di interesse della comunità, bensì semplicemente a operare il trasferimento di un bene. Né la situazione sarebbe diversa quando tale trasferimento venisse provocato in vista di una futura - ma attualmente soltanto ipotetica - utilizzazione al servizio di specifici fini di interesse generale.

In tal modo inteso, il precetto costituzionale in esame (il quale sul punto non si discosta sostanzialmente dal corrispondente precetto dell'art. 29 dello statuto Albertino) é pienamente coerente con la tradizione legislativa del nostro paese, in cui le leggi autorizzative della espropriazione di beni per ragioni di interesse pubblico sono state sempre ispirate alle anzidette esigenze di attualità e concretezza.

Nelle leggi della materia - la cui fondamentale espressione é rappresentata dalla legge 25 giugno 1865, n. 2359 - si trova infatti costantemente affermato il concetto (e anche lì dove esso non risulta espressamente enunciato, é stata la giurisprudenza a proclamare l'inderogabilità del principio) che fin dal primo atto della procedura espropriativa debbono risultare definiti non soltanto l'oggetto, ma anche le finalità, i mezzi e i tempi di essa; e, lì dove l'espropriazione sia volta a soddisfare un interesse pubblico attraverso la realizzazione di opere, o attraverso una particolare destinazione dei beni, debbono risultare altresì definiti il programma e i tempi delle realizzazioni, essendo disposto che, ove queste non abbiano luogo, l'originario proprietario possa pretendere la retrocessione dei beni.

Le anzidette indicazioni - e in particolare quelle relative ai tempi delle espropriazioni e delle realizzazioni, che specificamente interessano nel presente giudizio - rappresentano, nel sistema, una garanzia essenziale per la verifica, nella esigenza di interesse pubblico addotta per giustificare il sacrificio imposto alla proprietà privata, di quei caratteri di concretezza ed attualità, che, come si é visto, necessariamente contraddistinguono una legittima espropriazione.

Da quanto precede risulta chiara l'illegittimità della legge denunciata. Essa indica, sì, nella realizzazione di un'opera pubblica, la ragione dell'espropriazione; ma non fissa alcun termine per il compimento della procedura espropriativa e dei lavori, rendendo in tal modo possibile una espropriazione per esigenze non attuali, o addirittura venute meno.

3. - Né varrebbe obiettare che, pur essendo avvenuta per legge l'autorizzazione all'espropriazione, l'indicazione dei termini avrebbe potuto essere effettuata (anche in virtù del richiamo alla legge 25 giugno 1865, n. 2359, contenuto nell'art. 2 della legge denunciata) dall'autorità amministrativa, così come la giurisprudenza ritiene debba avvenire in tutti quei casi in cui una legge dichiari di pubblica utilità intere categorie di opere, facendo così dipendere l' espropriabilità dei beni occorrenti dalla approvazione dei progetti da parte dell'autorità amministrativa o addirittura dal semplice riscontro, da parte della stessa, nelle opere per l'esecuzione delle quali venga avanzata richiesta di espropriazione, dei caratteri propri della categoria ipotizzata dal legislatore. Negli anzidetti casi l'assoggettamento del singolo bene a procedura espropriativa dipende infatti sempre da un atto di un'autorità amministrativa; con la conseguenza che, non osservati i termini da questa imposti, la proprietà viene a riacquistare la sua libertà (occorrendo, per sottoporla eventualmente a una nuova procedura espropriativa, un nuovo provvedimento da adottare sulla base di nuove valutazioni). Quando invece - come nel caso in esame - l'autorizzazione alla espropriazione sia stata disposta dalla legge nei confronti di singoli beni, individualmente determinati, l'indicazione dei termini non può essere idonea ad assicurare la garanzia voluta dalla Costituzione, se non in quanto sia contenuta nella stessa legge. Infatti, in un caso del genere, quando la legge non indichi alcun termine, e i termini vengano fissati dall'autorità amministrativa, la scadenza di essi non potrebbe fare venir meno gli effetti della legge; con la conseguenza che, perdurando la possibilità dell'espropriazione autorizzata legislativamente, l'autorità amministrativa (pur ammesso che in siffatte condizioni una fissazione di termini da parte di essa potesse esser necessaria ed utile) ben potrebbe in qualsiasi momento stabilire termini nuovi e diversi, in tal modo frustrando le garanzie della proprietà.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara inammissibile la costituzione in giudizio dell'Istituto di assistenza e beneficenza "Principe di Palagonia e Conte di Ventimiglia";

dichiara l'illegittimità costituzionale della legge della Regione siciliana 19 febbraio 1951, n. 20, recante "espropriazione per pubblica utilità dell'area per il costruendo palazzo della Regione".

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 giugno 1966.

 

Gaspare AMBROSINI - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO

 

Depositata in cancelleria il 6 luglio 1966.