Sentenza n. 7 del 1982
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SENTENZA N. 7

ANNO 1982

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Leopoldo ELIA

Prof. Edoardo VOLTERRA

Dott. Michele ROSSANO

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Avv. Alberto MALAGUGINI

Dott. Arnaldo MACCARONE

Prof. Antonio LA PERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

 

SENTENZA

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale degli artt. 1, 5, 16 e 18 della legge della Regione Veneto 17 aprile 1975, n. 36 (Norme per l'esercizio dell'attività estrattiva in ordine a cave e torbiere) e degli artt. 2, 3 e 22 della legge della Regione Lombardia 14 giugno 1975, n. 92 (Disciplina della coltivazione delle sostanze minerali di cava) promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 13 maggio 1977 dal Consiglio di Stato - Sez. VI giurisdizionale, sul ricorso proposto dalla Soc. fratelli Vudafieri contro la Regione Veneto ed altro, iscritta al n. 430 del registro ordinanze 1977 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 313 del 1977;

2) quattro ordinanze emesse il 3 dicembre 1976, il 5 luglio 1977 (due ordinanze) e il 14 giugno 1977 dal Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, sui ricorsi proposti da Ceotto Vittorio, dalla S.a.s. fornaci del Sile (due) e dalla S.p.a. Seganfreddo Giovanni contro la Regione Veneto, rispettivamente iscritte ai nn. 259, 320, 321 e 481 del registro ordinanze 1978 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 222 e 271 del 1978 e n. 10 del 1979;

3) ordinanza emessa il 27 aprile 1978 dal Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia sul ricorso proposto dalla Ditta Olivari Carlo Rosalino ed altri contro la Regione Lombardia ed altro, iscritta al n. 63 del registro ordinanze 1979 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 87 del 1979;

Visti gli atti di costituzione della Soc. f.lli Vudafieri, della Ditta Olivari Carlo Rosalino ed altri e della Regione Veneto e l'atto di intervento della Regione Lombardia;

udito nell'udienza pubblica del 7 ottobre 1981 il Giudice relatore Leopoldo Elia;

uditi l'avv. Feliciano Benvenuti, per la Soc. f.lli Vudafieri, l'avv. Gaetano Romanelli, per la Ditta Olivari Carlo Rosalino ed altri, gli avvocati Massimo Severo Giannini, Giangiacomo Pancino e Guido Viola, per la Regione Veneto e l'avv. Umberto Pototschnig, per la Regione Lombardia.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Con ordinanza emessa il 13 maggio 1977 il Consiglio di Stato sollevava questione di costituzionalità degli articoli 1, 5, ultimo comma, 16 della legge della Regione Veneto 17 aprile 1975, n. 36, recante "Norme per l'esercizio dell'attività estrattiva in ordine a cave e torbiere", per contrasto con l'art. 117 della Costituzione. Osservava che le norme impugnate configurano un potere della Regione di accordare o negare, con amplissima discrezionalità, l'autorizzazione per proseguire nella coltivazione di una cava, a tutela di generali interessi di protezione dell'ambiente. Le norme si porrebbero quindi in contrasto con i principi della legislazione dello Stato, che consentirebbe solo di imporre particolari cautele a tutela di specifici e puntuali interessi, ma non di escludere senza condizioni la possibilità di iniziare la coltivazione di una cava o di continuare nella stessa. Tale possibilità sarebbe anzi configurata dalla legislazione dello Stato come naturale esplicazione del diritto dominicale e solo il mancato soddisfacimento delle esigenze produttive potrebbe consentirne la perdita.

La questione sarebbe rilevante nel processo a quo in cui si discute di provvedimento amministrativo di rifiuto di autorizzazione a proseguire nella coltivazione di una cava, motivato in ragione dei danni che l'esercizio di tale coltivazione avrebbe potuto produrre alla falda freatica e al regime delle acque, nonché ai terzi. Tale questione tocca infatti il potere stesso di negare l'autorizzazione e non semplicemente i motivi che possono giustificare un intervento della pubblica autorità; la sua rilevanza potrebbe quindi essere affermata anche senza valutare se tali motivi sono in tutto o in parte comuni a quelli previsti dalla legislazione dello Stato.

Si costituiva la Regione Veneto, eccependo l'irrilevanza della questione sollevata e deducendo la sua infondatezza. Rilevava infatti che l'autorizzazione al proseguimento nell'attività di coltivazione della cava era stata rifiutata per motivi riconosciuti anche dalle leggi dello Stato: i più vasti poteri che la normativa regionale riconoscerebbe all'amministrazione non sarebbero quindi stati esercitati nella fattispecie. Nel merito osservava che, rientrando l'attività di coltivazione della cava nelle facoltà del proprietario, il provvedimento con cui la pubblica amministrazione ne controlla l'eventuale rispondenza alle esigenze della collettività non può non avere carattere di autorizzazione. La discrezionalità dell'amministrazione sarebbe dunque ancorata a numerosi termini di riferimento (individuazione e delimitazione delle aree suscettibili di attività estrattiva, valutazione dei fabbisogni dei materiali da estrarre, criteri per la localizzazione dell'autorizzazione e modalità di coltivazione), nonché limitata da pareri (degli organismi comprensoriali delle comunità montane, del Magistrato delle acque, del Magistrato del Po, del Distretto minerario, della Sopraintendenza alle antichità ed ai monumenti).

Si costituiva la società Fratelli Vudafieri, deducendo la fondatezza della questione, poiché la normativa regionale si ispirerebbe a principi che contrastano con quelli della legislazione statale. Questa infatti configura la facoltà di coltivare una cava come naturale esplicazione del diritto di proprietà ed é ispirata inoltre al criterio del massimo sfruttamento produttivo. La legislazione regionale invece, statuendo la necessità di un'autorizzazione ampiamente discrezionale al punto da potersi configurare come concessione, finirebbe con il sottrarre al proprietario del terreno il diritto di sfruttare le cave e comunque sarebbe ispirata ad esigenze del tutto diverse da quelle attinenti alla produzione.

2. - Con quattro ordinanze di analogo tenore, emesse una il 3 dicembre 1976, una il 14 giugno 1977, due il 5 luglio 1977, il Tribunale amministrativo regionale del Veneto sollevava questione di costituzionalità dell'art. 18 della legge della Regione Veneto 17 aprile 1975, n. 36, già menzionata, per contrasto con gli artt. 42 e 117 della Costituzione. Il potere discrezionale, amplissimo e correlato alla cura di interessi pubblici non specificamente predeterminati, sarebbe in contrasto con i principi della legislazione dello Stato e con la tutela della proprietà, specie in assenza di quel piano delle attività estrattive che dovrebbe delimitare tale discrezionalità. Nei vari casi di specie il Tribunale amministrativo ha ritenuto pertinente l'art. 18 e non l'art. 16 della legge regionale, giacché il provvedimento impugnato, nel negare l'autorizzazione alla coltivazione della cava, muoveva dalla constatazione che tale coltivazione, contrariamente a quanto asserito dai soggetti richiedenti, non era ancora iniziata al momento dell'entrata in vigore della legge o comunque non era stata denunziata ai sensi dell'art. 28 del d.P.R. 9 aprile 1959, n. 128.

Si costituiva in tutti i giudizi la Regione Veneto, eccependo l'irrilevanza delle questioni sollevate e deducendo nel merito la loro infondatezza. I provvedimenti della Regione concernevano domande di autorizzazione a proseguire nella coltivazione di cave ed erano stati adottati previa istruttoria consona alla domanda presentata. Il Tribunale amministrativo non potrebbe prescindere da questi dati di fatto e, anziché prendere in esame i provvedimenti adottati nell'esercizio dei poteri previsti dall'art. 16 della legge regionale, ipotizzare l'inesistente esercizio dei poteri previsti dall'art. 18 della stessa legge, per di più senza aver annullato i provvedimenti, peraltro neppure censurati sotto questo profilo nei motivi di impugnazione. Nel merito le questioni sarebbero infondate perché gli interessi geologici, idrogeologici e ambientali in relazione ai quali é possibile negare l'autorizzazione all'apertura delle cave risulterebbero puntualmente individuati nella legge regionale e sarebbero conformi ai principi della stessa legislazione dello Stato.

3. - Con ordinanza emessa il 27 aprile 1978, il Tribunale amministrativo regionale della Lombardia sollevava questione di costituzionalità degli artt. 2, 3, 22 della legge della Regione Lombardia 14 giugno 1975, n. 92, recante "Disciplina della coltivazione delle sostanze minerali di cava", per contrasto con l'art. 117 della Costituzione. Osservava che la citata disciplina, secondo cui l'attività di coltivazione di cava é subordinata ad una valutazione complessiva di interessi pubblici, che si esprime in un atto di autorizzazione, contrasta con i principi della legislazione dello Stato, secondo cui solo in situazioni particolari e con riferimento a specifiche esigenze é previsto un intervento autorizzatorio della pubblica autorità, il quale peraltro deve risolversi piuttosto nel prescrivere i modi di esercizio della attività di coltivazione di una cava che non nel precludere l'esercizio medesimo. Nel caso di specie, le imprese interessate avevano proposto ricorso contro il provvedimento del Presidente della Regione Lombardia che rifiutava l'autorizzazione al proseguimento dei lavori di coltivazione di cava in atto esercitati ed imponeva lavori di sistemazione e di ripianamento.

Si costituivano i ricorrenti, sviluppando le censure contenute nell'ordinanza di rimessione e rilevando in particolare che il potere riconosciuto all'amministrazione regionale ed ai comuni costituisce esercizio di una discrezionalità non sufficientemente delimitata e non tale dunque da offrire idonee garanzie al privato.

Si costituiva anche la Regione Lombardia, deducendo l'infondatezza della questione. Nel nostro ordinamento - osservava - non esiste un principio di libera coltivazione delle cave senza autorizzazione. Tale coltivazione potrebbe anzi essere impedita, senza indennizzo, in presenza di vari interessi pubblici. L'autorizzazione, prevista dalla legge lombarda, dovrebbe uniformarsi ad un generale piano delle cave, con conseguente delimitazione della discrezionalità. In attesa che tale piano sia approvato, l'eventuale diniego di autorizzazione dovrebbe essere motivato sulla base di precisi e riscontrabili interessi di tutela ambientale, di ricettività del territorio, di difesa dagli inquinamenti, in guisa da escludere ogni arbitrio. Rientrerebbe comunque nell'ampia competenza urbanistica della Regione, che comprende ogni forma di utilizzazione del suolo e tutela ogni esigenza di salvaguardia dell'ambiente, a norma dell'art. 80 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, la cura di interessi ecologici anche con riferimento all'attività di coltivazione di cave e torbiere.

 

Considerato in diritto

 

1. - Le questioni sollevate dal Consiglio di Stato e dai Tribunali regionali amministrativi del Veneto e della Lombardia hanno contenuto identico o analogo e possono pertanto essere decise con unica pronuncia.

É stato eccepito dalla Regione Veneto che la questione sollevata dal Consiglio di Stato a proposito degli articoli 1, 5 ultimo comma, e 16 della legge regionale 17 aprile 1975 non é rilevante in quanto il provvedimento amministrativo contenente il rifiuto di autorizzazione a proseguire nella coltivazione della cava da parte della Società f.lli Vudafieri costituirebbe, in sostanza, esercizio di poteri previsti negli artt. 104, 105, 110 e 119 del d.P.R. 9 aprile 1959, n. 128. Ma il giudice a quo ha ritenuto che i poteri esercitati fossero quelli previsti nell'art. 16 della citata legge regionale, e cioé nella disposizione che aveva determinato la richiesta da parte della società Vudafieri dell'autorizzazione a continuare la coltivazione di una cava. Tra l'altro, l'ipotesi di diniego dell'autorizzazione è espressamente contemplata nell'ultimo comma del precisato art. 16. Sicché l'eccezione di inammissibilità per irrilevanza della questione deve essere respinta.

Egualmente non suscettibile di accoglimento risulta l'eccezione di irrilevanza mossa dalla Regione Veneto a proposito della questione sollevata con l'ordinanza n. 259 Reg. ord. 1978, perché, se il ricorrente aveva chiesto un provvedimento relativo a coltivazione già in atto secondo il disposto dell'art. 16 della legge della Regione Veneto, l'autorità regionale, ritenendo insussistente il presupposto di una attività estrattiva già in corso, si era avvalsa del potere di diniego conferitole dall'art. 18 della stessa legge.

2. - Le questioni sollevate riguardano quelle norme delle leggi regionali del Veneto e della Lombardia che hanno introdotto il regime autorizzatorio su scala generale per la coltivazione dei giacimenti di cave e torbiere o per il proseguimento delle coltivazioni già in atto al momento della entrata in vigore delle leggi stesse. Tale innovazione contrasterebbe con l'art. 117 della Costituzione in quanto dall'ordinamento statale (art. 45, primo e secondo comma, del r.d. 29 luglio 1927, n. 1443 sulla ricerca e coltivazione delle miniere) si ricaverebbe un principio della materia incompatibile con la generalizzazione del regime autorizzatorio. Inoltre, eccessiva sarebbe la latitudine del potere discrezionale delle amministrazioni regionali in ordine al rilascio delle autorizzazioni, specie quando il diniego di queste, nella fase precedente l'adozione dei piani regionali per l'attività estrattiva, risulterebbe in pratica a tempo indeterminato (e ciò in contrasto, secondo il Tribunale amministrativo del Veneto, anche con l'art. 42 della Costituzione).

3. - Le questioni così proposte non sono fondate.

L'ordinanza del Consiglio di Stato prospetta la questione in termini molto generali, sottolineando come sia dubbio, nell'attuale fase evolutiva dell'ordinamento statale, che si sia già costituito un principio di carattere generale secondo cui il legittimo esercizio di attività economiche sia di regola subordinato ad un potere "in virtù del quale la Pubblica Amministrazione sia facultata non solo ad imporre specifiche modalità di esercizio ma anche a valutare discrezionalmente l'opportunità di rilasciare o meno il provvedimento (concessione o autorizzazione che sia), che costituisce necessario presupposto dell'attività stessa".

Il thema decidendum va peraltro ricondotto alla specifica materia "cave e torbiere", autonomamente prevista dall'articolo 117, primo comma, della Costituzione, tra quelle rientranti nella competenza legislativa concorrente delle Regioni a Statuto ordinario; senza che sia necessario, dunque, procedere ad una disamina delle numerose autorizzazioni che condizionano, nella disciplina legislativa statuale vigente, l'inizio di attività economiche - industriali e commerciali - pur garantite dall'art. 41 della Costituzione.

In questa più limitata prospettiva si deve ricordare quanto fu enunziato da questa Corte, e non certo in guisa di obiter dictum, nella sentenza n. 20 del 1967. In tale pronunzia si sottolineava la "comune ispirazione" della disciplina sulle cave e sulle miniere, assolvendo in entrambi i casi l'attività estrattiva "a fini di utilità generale"; si affermava poi che "nel diritto accordato al proprietario del fondo sulla cava che vi affiora, si immedesima una destinazione che lo fa divenire mezzo di realizzazione di un interesse pubblico, e sostanzialmente lo affievolisce"; e si concludeva osservando che, quale che fosse la natura del diritto del privato sulla cava, questo sarebbe attribuito "con i limiti impressi dalla rilevanza pubblica del bene, e questi limiti si inseriscono nella struttura del diritto, comunque esso si qualifichi, caratterizzandolo nella sua giuridica essenza, vincolandolo indissolubilmente ad un esercizio che svolga quella funzione d'interesse generale cui la cava é, di per sé, destinata".

Tali affermazioni, poste a sostegno della dichiarazione di non fondatezza della questione di legittimità costituzionale del quarto comma dell'art. 45 del r.d. 29 luglio 1927, n. 1443, non sono certo risolutive a favore della non fondatezza delle questioni ora proposte, perché l'interesse generale cui si riferisce questa legge delegata é senza dubbio l'interesse della produzione, applicata alla estrazione dei materiali contenuti nei giacimenti di cava; tuttavia le proposizioni citate sono significative in quanto sottolineano come, ancor prima dell'ingresso nell'ordinamento dell'art. 41 della Costituzione, il diritto dominicale sulla cava fosse geneticamente condizionato ad intra dalla tutela di un interesse pubblico, cui l'evoluzione legislativa e costituzionale potrebbe affiancare altri, diversi interessi della stessa natura.

Del resto non va trascurato che divieti o limiti puntuali, da farsi valere in taluni casi mediante interventi preventivi di tipo autorizzatorio, erano previsti da varie fonti normative. Così la regolamentazione amministrativa della attività cavatoria che provochi emungimento di acque si ricava dall'art. 169 legge 20 marzo 1865, n. 2244, all. F (successivamente art. 97 del r.d. 25 luglio 1904, n. 523), dall'art. 93 del Testo unico sulle acque n. 1775 del 1933 nonché dall'art. 104 del d.P.R. 9 aprile 1959, n. 128, che vieta gli scavi a cielo aperto in prossimità di sorgenti, di corsi d'acqua senza opere di difesa, di opere di difesa dei corsi d'acqua, salva l'eventuale autorizzazione del Prefetto, poi di spettanza delle Regioni secondo l'art. 1 del d.P.R. 14 gennaio 1972, n. 2 (il potere di autorizzare la escavazione di sabbia e ghiaia nell'alveo dei corsi d'acqua è stato trasferito alle Regioni dall'art. 62, comma secondo, lett. a) del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616). Gli artt. 104 e 105 del d.P.R. n. 128 del 1959, si applicano, oltrechè ai corsi d'acqua, alle zone in prossimità di strade o di edifici; mentre per le zone sottoposte a vincolo idrogeologico il regime autorizzatorio é disposto dall'art. 7 del r.d. 30 dicembre 1923, n. 3267, per quelle sottoposte a vincolo alberghiero o forestale l'art. 62, secondo comma, lett. b del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 prevede ora che spetti alle Regioni il relativo potere di autorizzazione (altre limitazioni connesse alle bonifiche di terreni paludosi erano disposte dall'art. 133, lett. d del regolamento approvato con r.d. 8 maggio 1904, n. 368).

Né va trascurata la possibilità di interventi di quest'ultimo tipo a suo tempo previsti dall'art. 8 della legge 29 giugno 1939, n. 1497 (Norme sulla protezione delle bellezze naturali) e dall'art. 30 del regolamento per l'applicazione di questa legge (r.d. 3 giugno 1940, n. 1357). Nemmeno la previsione di questi limiti, per il loro carattere puntuale (e di eventuale applicazione), potrebbe fondare il potere delle Regioni di disporre un regime generale di autorizzazione per l'attività cavatoria; tuttavia, da questo insieme di disposizioni si trae pur sempre l'indicazione di una pluralità di interessi pubblici presi in considerazione dal legislatore a proposito di coltivazione dei giacimenti di cava, interessi che non possono dunque ridursi a quello della massimizzazione produttiva di cui all'art. 45 del r.d. n. 1443 del 1927.

Ma é con la legge 29 novembre 1971, n. 1097 (Norme per la tutela delle bellezze naturali ed ambientali e per le attività estrattive nel territorio dei Colli Euganei) che fa ingresso nel nostro ordinamento il principio secondo il quale la tutela di un interesse pubblico, considerato in relazione all'attività di coltivazione dei giacimenti di cava, può dar luogo a regime generalizzato di autorizzazione. É evidente infatti, per qualsiasi lettore di questo testo legislativo, che la sottoposizione del progetto di coltivazione all'esame del sovrintendente ai monumenti (ed ora all'autorità regionale) é considerato il mezzo necessario per accertare se la prosecuzione dell'attività estrattiva "risulti di pregiudizio all'ambiente paesaggistico e naturale" (art. 3, ultimo comma). Si noti inoltre che il terzo comma del citato articolo precisa nella sua ultima parte: "Resta salva, al riguardo, e per tutta la materia afferente alle cave, la competenza della Regione ad emanare apposite norme legislative"; una formula che pare ammettere interventi regionali legislativi (e perciò amministrativi), regolanti l'attività estrattiva e trascendenti il quadro della legislazione nazionale fino allora vigente.

E che non si trattasse di normativa necessariamente circoscritta alla fattispecie territoriale dei Colli Euganei era ben rilevato da questa Corte nella sent. n. 9 del 1973 (n. 8 del considerato in diritto), con questa affermazione: "La Corte osserva che i limiti di localizzazione della legge in esame non costituiscono trattamento singolare e differenziato da quello di situazioni che, altrove, siano ritenute, di volta in volta, sottoponibili ad eguale tutela". É naturale che, generalizzandosi la necessità della tutela di questo e di altri interessi pubblici riconosciuti dall'ordinamento, si generalizzasse anche il ricorso al tipo di intervento preventivo, ritenuto dalla legge statale strumento necessario per realizzare la salvaguardia di quegli interessi. Tanto più che il regime autorizzatorio si presenta nelle leggi regionali del Veneto e della Lombardia non soltanto come mezzo di controllo del rispetto, tra le altre, delle esigenze di ricettività del territorio, di tutela dagli inquinamenti, di dimensionamento del materiale estraibile alle necessità obbiettive di impiego del materiale estratto; ma come mezzo necessario per l'attuazione di un piano regionale di attività estrattiva. Più in particolare, dalla legge statale per la protezione dei Colli Euganei si ricava anche che, nella valutazione degli interessi pubblici, il legislatore prima ed entro limiti ovviamente più ristretti l'amministratore poi possono subordinare l'interesse della produzione, da soddisfare con l'attività estrattiva, ad altri interessi pubblici, riconosciuti dall'ordinamento. Né al potere regionale di disporre legislativamente in ordine al provvedimento di autorizzazione in tema di apertura di cave o di proseguimento nella loro coltivazione é di ostacolo il particolare regime di delega delle funzioni amministrative previste dall'art. 82 del d.P.R. n. 616 del 1977, in quanto la ratio di questa disposizione é limitata alla protezione dei beni ambientali.

Va da sé che sarebbe stato auspicabile, a fini di certezza del diritto e di disciplina più omogenea nelle Regioni a statuto ordinario, che il legislatore statale avesse da tempo adottato una legge contenente i principi fondamentali della materia (ed é lecito sperare che le difficoltà incontrate nell'iter legislativo possano essere finalmente superate). Ma, in attesa di una aggiornata legislazione, non si può affermare che manchi, a proposito di cave e torbiere, un principio il quale consenta di dire rispettato l'art. 117 della Costituzione, (secondo l'art. 17, terzo comma, della legge 16 maggio 1970, n. 281), da parte delle leggi regionali Veneto e Lombardia, nelle disposizioni sottoposte al sindacato di questa Corte.

Che poi l'art. 42 della Costituzione non sia violato risulta chiaramente da quanto é disposto nel secondo comma di questo articolo circa i limiti della proprietà, in corrispondenza con il precetto dell'art. 41 della Costituzione, secondo cui l'iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale. Ed il pacifico accoglimento del regime autorizzatorio per le attività estrattive delle cave nelle leggi di alcune regioni a Statuto speciale e delle province autonome della Regione Trentino-Alto Adige conferma che esso non é stato ritenuto in contrasto né con l'art. 42 della Costituzione né con i principi dell'ordinamento giuridico dello Stato (legge Regione Friuli - Venezia Giulia 16 agosto 1974, n. 42; legge Regione siciliana 9 dicembre 1980, n. 127; legge provinciale di Bolzano 12 agosto 1976, n. 32 e legge provinciale di Trento 12 dicembre 1978, n. 59).

Circa le censure mosse in tema di giusto procedimento, nel senso che le leggi de quibus attribuirebbero un potere discrezionale troppo lato alle autorità regionali, é da dire che in nessun caso dovrebbe trattarsi di valutazioni riducibili a giudizi di opportunità; tra l'altro, la motivazione dei provvedimenti dovrebbe riferirsi alla tutela degli specifici interessi pubblici, cui fanno esplicitamente cenno le leggi contestate. Ulteriori limiti alla discrezionalità degli amministratori regionali dovrebbero poi discendere dalle indicazioni del piano regionale delle attività estrattive, se queste riusciranno ad essere sufficientemente specifiche. Nell'attesa - certo non a tempo indeterminato - del piano, anche i divieti di carattere generale all'apertura di nuove cave o al proseguimento della coltivazione già in atto dovrebbero avere una operatività di durata circoscritta, a finalità di salvaguardia per un tempo limitato.

Se però il diritto vivente (e non semplici deviazioni applicative) dovesse formarsi in violazione del principio del giusto procedimento, esercitandosi dall'autorità regionale poteri a discrezionalità non limitata, allora, al di là delle opinabili distinzioni tra carattere autorizzatorio o concessorio dei provvedimenti, muterebbero i termini normativi delle questioni attualmente sottoposte all'esame di questa Corte (che restano invece integri, per la legge della Regione Veneto, malgrado il sopravvenire delle leggi regionali 22 gennaio 1980, n. 5 e 20 agosto 1981, n. 50).

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondate:

a) le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, 5, ultimo comma, e 16 della legge 17 aprile 1975, n. 36 della Regione Veneto, sollevate dal Consiglio di Stato con l'ordinanza in epigrafe in riferimento all'art. 117, primo comma, della Costituzione;

b) la questione di legittimità costituzionale dell'art. 18 della legge 17 aprile 1975, n. 36, della Regione Veneto, sollevata dal Tribunale amministrativo regionale per il Veneto con le ordinanze in epigrafe in riferimento agli artt. 117 e 42 della Costituzione;

c) le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 2, 3 e 22 della legge 14 giugno 1975, n. 92 della Regione Lombardia, sollevate dal Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia con l'ordinanza in epigrafe in riferimento all'art. 117, primo comma, della Costituzione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 gennaio 1982.

 

Leopoldo ELIA - Edoardo VOLTERRA - Michele ROSSANO - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI - Alberto MALAGUGINI – Arnaldo MACCARONE - Antonio LA PERGOLA - Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI.

GIOVANNI

 

Depositata in cancelleria il 1 febbraio 1982.