SENTENZA N. 20
ANNO 1967
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Prof. Gaspare AMBROSINI, Presidente
Prof. Antonino PAPALDO
Prof. Giovanni CASSANDRO
Prof. Biagio PETROCELLI
Dott. Antonio MANCA
Prof. Aldo SANDULLI
Prof. Giuseppe BRANCA
Prof. Michele FRAGALI
Prof. Costantino MORTATI
Prof. Giuseppe CHIARELLI
Dott. Giuseppe VERZÌ
Dott. Giovanni Battista BENEDETTI
Prof. Francesco Paolo BONIFACIO
Dott. Luigi OGGIONI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 45 del R.D. 29 luglio 1927, n. 1443, sulla ricerca e la coltivazione delle miniere, promosso con ordinanza emessa il 1 luglio 1965 dalla sezione di Corte di appello di Reggio Calabria nel procedimento civile vertente tra Barreca Demetrio, Antonio e Domenico e la Società Laterizi Fratelli Antonino e Valentino Neri, iscritta al n. 159 del Registro ordinanze 1965 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 216 del 28 agosto 1965.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri e di costituzione di Barreca Demetrio, Antonio e Domenico;
udita nell'udienza pubblica del 9 novembre 1966 la relazione del Giudice Michele Fragali;
uditi l'avv. Vincenzo Mazzei, per i Barreca, e il sostituto avvocato generale dello Stato Giorgio Azzariti, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.
Ritenuto in fatto
1. - L'odierna controversia trae origine da una ordinanza emessa il 1 luglio 1965 dalla sezione di Corte di appello di Reggio Calabria che rimetteva a questa Corte una questione di legittimità costituzionale concernente l'art. 45 del R.D. 29 luglio 1927, n. 1443, sulla ricerca e la coltivazione delle miniere, in riferimento agli artt. 42, comma terzo, e 43 della Costituzione. Rilevava la Cortedi appello che non vi sono opinioni concordi sulla condizione giuridica delle cave e delle torbiere prima che, secondo la norma denunciata, la loro disponibilità venga sottratta al proprietario del fondo; e che alcuni orientamenti di dottrina e di giurisprudenza scorgono, nell'attribuzione allo Stato del potere di sottrarre al proprietario del suolo quella disponibilità, un'espropriazione senza indennità, giustificata come sanzione contro il proprietario che non ha adempiuto ad esercitare convenientemente la cava o la torbiera.
L'ordinanza é stata notificata alle parti in causa il 14 luglio 1965, e al Presidente del Consiglio dei Ministri il giorno 15 successivo; é stata comunicata in quest'ultima data ai Presidenti delle Camere, ed é stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica del 28 agosto 1965, n. 216.
Innanzi a questa Corte si sono costituiti soltanto gli attori del giudizio che ha dato luogo all'ordinanza di rimessione; É intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri.
2. - La parte comparsa ritiene che le cave e le torbiere, prima del provvedimento previsto nella norma denunziata, siano nella proprietà privata: esse non sono oggetto di una originaria concessione ex lege al proprietario del suolo, perché é riconosciuto che sulle medesime quest'ultimo può esercitare tutti i diritti che gli provengono dalla sua qualità e si é financo ammesso che esse siano espropriabili per pubblico interesse sulla base delle disposizioni di carattere generale. É stato qualificato potere di espropriazione senza indennizzo quello consentito allo Stato quando le cave e le torbiere non siano coltivate nell'interesse dell'economia generale, donde il contrasto con le norme costituzionali invocate dalla Corte di appello.
3. - Il Presidente del Consiglio osserva in contrario che il sistema vigente per le cave e le torbiere é quello di una demanialità attenuata, che ha portato l'ordinamento ad attribuire al proprietario del suolo la concessione ex lege della coltivazione, per la minore importanza dei materiali che si estraggono nelle cave e nelle torbiere rispetto al materiale minerario e per la maggiore facilità dei lavori di estrazione.
Non si può ritenere che, avendone lasciata al proprietario del suolo la disponibilità, se ne sia mantenuta a lui la proprietà, perché ciò che caratterizza il contenuto del diritto di proprietà non é soltanto il godimento o la disponibilità, ma la pienezza ed esclusività, nella specie esclusa, dato che lo Stato può ingerirsi nei rapporti fra il proprietario del fondo e la cava o la torbiera. Si aggiunga che l'ultimo comma della norma denunciata rende applicabili in ogni caso, e cioè anche prima che la disponibilità sia tolta al proprietario del suolo, norme ed istituti caratteristici del rapporto di concessione, confermando, in tal modo, che quel proprietario é sostanzialmente un concessionario: l'art. 826 del Codice civile sta a significare soltanto che le cave e le torbiere, finché vengono lasciate nella disponibilità del proprietario del suolo non sono soggette alle norme sull'amministrazione del patrimonio indisponibile, non che sulle stesse non esiste un dominio dello Stato.
Il provvedimento di concessione a terzi della cava e della torbiera fa decadere il proprietario del suolo da ogni diritto sulla stessa per inosservanza degli obblighi derivanti dalla concessione ex lege: l'ipotesi che giustifica la sottrazione del bene alla disponibilità del proprietario del fondo é infatti quella stessa che legittima la pronuncia di decadenza dalle concessioni minerarie e in genere dalle concessioni su beni demaniali. Si giustifica come decadenza anche fuori dal campo del diritto pubblico, come può desumersi dall'art. 972 del Codice civile, per il quale l'enfiteuta che non adempie all'obbligo di migliorare il fondo decade senza indennizzo dal suo diritto. In modo che, anche per il suo contenuto sanzionatorio, rimane escluso un contrasto tra la norma denunciata e gli artt. 42 e 43 della Costituzione.
4. - In una sua memoria, la parte privata ribadisce che il diritto del proprietario del suolo sulla cava é un vero e proprio diritto di proprietà, e fa risalire questa convinzione a ragioni storiche, risalenti al diritto romano, all'epoca feudale e alla legislazione mineraria preunitaria, a ragioni tecniche inerenti al fatto che la cava é intimamente incorporata alla crosta superficiale, a ragioni giuridiche attinenti all'interpretazione delle norme vigenti.
L'art. 826, secondo comma, del Codice civile, attribuendo le cave e le torbiere al patrimonio indisponibile dello Stato quando la disponibilità é sottratta al proprietario del fondo, a contrario fa intendere che, prima del provvedimento ablativo, le une e le altre sono jure proprio nella disponibilità di quel proprietario; accanto a tale disponibilità successivamente si affianca ed aggiunge la facoltà di godimento, il che vuol dire che il proprietario del suolo ha la pienezza del diritto di proprietà sulla cava o sulla torbiera e può esercitare ogni potere che ne deriva: il rinvio fatto dall'art. 840 del Codice civile, alle norme delle leggi speciali significa che, in materia di cave e di torbiere, si debbono osservare, oltre alle norme di carattere generale, quelle particolarmente dettate sulla materia.
Al diritto del proprietario delle cave e delle torbiere la giurisprudenza ha riconosciuto carattere originario al pari degli altri diritti del proprietario del suolo; e non ne riduce l'esclusività e l'assolutezza l'ingerenza che su di esso é attribuita allo Stato, dato che l'art. 836 del Codice civile, ammette l'esistenza di diritti e di obblighi in ogni proprietario.
É un virtuosismo letterale quello che propugna l'opinione della concessione ex lege; la legge lascia le cave e le torbiere alla disponibilità del "proprietario" e non di "colui che ne era precedentemente proprietario", e la legge mineraria ha parlato di concessione al proprietario solo nell'art. 54 e nell'art. 63. Peraltro, le concessioni nel nostro ordinamento sono tipiche e non possono ammettersi senza una espressa previsione legislativa; sarebbe strana l'idea della concessione, perché il proprietario non é tenuto a pagare allo Stato alcun canone e alcuna tassa e perché le concessioni possono aversi soltanto su beni di cui gli enti pubblici abbiano la esclusiva disponibilità. così essendo, l'illegittimità della norma che esclude un indennizzo appare, secondo la parte comparsa, indiscutibile; e lo é se pure si volesse seguire quella teoria secondo la quale il diritto sulla cava e sulla torbiera é simile all'usufrutto, perché la Corte costituzionale ha ritenuto che la tutela accordata dall'art. 42 della Costituzione riguarda anche i diritti parziali o frazionari.
É inaccoglibile l'opinione che scorge nella norma denunziata una sanzione o una decadenza per l'inerzia del proprietario. Il nostro ordinamento non conosce sanzioni o decadenze dal diritto di proprietà, e del resto, la stessa espropriazione sanzionatoria non può ammettersi senza indennità. Che, del resto, non si tratti di decadenza o di sanzione si può desumere dalla constatazione che la valutazione deferita all'amministrazione come presupposto della misura ablativa ha per oggetto le pubbliche esigenze e non una colpa del proprietario; riguarda cioè l'opportunità del trasferimento, che é una indagine preliminare propria dell'atto di espropriazione, attenendo all'apprezzamento specifico del vantaggio procurato alla collettività. Ripugna all'istituto espropriativo una configurazione sanzionatoria, e non potrebbe nemmeno trattarsi di confisca, perché la confisca, essendo di natura punitiva, va riferita ad attività pericolose o illecite. L'ipotesi si pone sullo stesso piano dell'art. 838 del Codice civile, che consente la espropriazione di beni interessanti la produzione nazionale quando il proprietario ne abbandona la conservazione, la coltivazione e l'esercizio in modo da nuocere gravemente alle esigenze della produzione stessa; e, nel caso, si impone il pagamento di un'indennità al proprietario inerte, altresì confermandosi, in tal modo, che non é ammissibile una espropriazione senza indennizzo nemmeno in via eccezionale.
Affermare che, terminata la coltivazione della cava e della torbiera, il proprietario può esercitare tutti i suoi poteri di disponibilità e di godimento sui fondi rimasti, vuoi dire equiparare la situazione delle cave e delle torbiere a quella delle miniere e non avvertire che la cava o la torbiera torna al proprietario del tutto svuotata di valore per la coltivazione avvenuta; cosicché la fattispecie rientra in quella che la Corte costituzionale ha ritenuto comprese nell'art. 42, terzo comma, della Costituzione, in quanto implichino limitazioni tali da svuotare di contenuto il diritto di proprietà.
Non é esatto che l'espropriazione colpisce solo il materiale estratto dalla cava o dalla torbiera: cava o torbiera v'é pure con riferimento ai materiali che affiorano alla superficie. E non basta dire che la cava e la torbiera vanno viste come strumento per la realizzazione di un pubblico interesse, in modo che esse non sono comprese fra i beni indicati nell'art. 42 della Costituzione: la proprietà, nella definizione dell'art. 832 del Codice civile, ha in germe il perseguimento di un interesse generale, ha i limiti di questo interesse; e comunque l'esistenza di esso non esclude l'indennità, nel caso di espropriazione, tanto vero che essa é imposta, come si é detto, pure nel caso di espropriazione causata da inerzia del proprietario dei beni interessanti la produzione nazionale.
Il risultato pratico dell'applicazione della norma denunciata é che essa sancisce un indebito arricchimento a favore di un soggetto privato e a danno di un altro.
5. - All'udienza del 9 novembre 1966 le difese delle parti hanno ribadito i rispettivi argomenti.
Considerato in diritto
Che l'art. 45, quarto comma, del R.D. 29 luglio 1927, n. 1443, non abbia illegittimamente negato l'indennità reclamata innanzi al giudice a quo, può arguirsi dalla constatazione che il trattamento giuridico fatto alle cave e quello adottato per le miniere hanno una comune ispirazione, e che la coltivazione delle cave assolve a fini di utilità generale come quella delle miniere; per cui, nel diritto accordato al proprietario del fondo sulla cava che vi affiora, si immedesima una destinazione che lo fa divenire mezzo di realizzazione di un interesse pubblico, e sostanzialmente lo affievolisce.
Le cave formano, é vero, una categoria di beni distinta dalle miniere. Ma l'art. 2 del predetto R.D. 29 luglio 1927, n. 1443, le riunisce alle miniere sotto la denominazione di lavorazioni minerarie, delle quali le cave costituiscono la seconda classe. Tale unificazione trova conforto nella legge di delegazione 14 aprile 1927, n. 571, la quale autorizzava il Governo ad emanare norme aventi carattere legislativo per disciplinare la ricerca e la coltivazione delle miniere, intendendo riferirsi anche all'assetto delle cave, e indusse a dare un comune fondo alla disciplina delle due categorie di beni: lo si rileva fin nel primo atto illustrativo dell'ordinamento vigente, la fondamentale relazione Fadda, ove il sistema della concessione proposto per le miniere lo si qualificava demaniale, e l'altro progettato per le cave, di disponibilità privata limitata dal potere statale di concessione, lo si definiva di demanialità attenuata o potenziale: si riteneva che implicasse una generale e preventiva concessione ope legis, la quale non escludesse un altro dominio dello Stato sul bene, e che attuasse una graduazione nel regime di pubblica utilità cui era conveniente assoggettare la proprietà del suolo e del sottosuolo. La riducibilità dei due regimi ad unità fu ammessa anche da chi, all'indomani dell'emanazione della legge delegata, nel contestare, per la prima volta, che le miniere e le cave fossero state inquadrate insieme nell'ambito della demanialità, sostenne che tuttavia nessun inconveniente avrebbe potuto venire se si fosse parlato di sistema demaniale qualora, con ciò, si fosse inteso alludere ad un ordinamento che implicasse, rispetto a determinate cose, poteri della pubblica Amministrazione, e addirittura il potere di essa di fare la cosa oggetto di concessione; e si soggiunse, in tale occasione, che il principio demaniale, nel senso proposto, dominava anche il trattamento approntato per le cave, trovando in esso una differenza di intensità, per modo che la pubblica Amministrazione, e non il privato, era costituita arbitra della ricerca e della coltivazione delle miniere e delle cave. S'intuiva cioè, fin d'allora, che un potere di concedere queste coltivazioni risultava attribuito allo Stato per entrambi i due beni, ma era esercitabile per le miniere subito dopo la scoperta, e, per le cave, era differito al tempo in cui si fosse accertato che il privato non imprimeva alla cosa quella destinazione all'utilità generale che é nella sua essenza. Ancora oggi si può dire che la funzione economico-sociale delle cave, secondo la valutazione fattane dall'ordinamento giuridico, si differenzia solo quantitativamente da quella che svolgono le miniere; e che l'attribuzione al proprietario del fondo di un diritto sulla cava che vi esiste, fino a quando l'interesse della produzione cui essa specificatamente serve non ne renda opportuna la concessione a terzi, rispecchia la minore intensità del vantaggio generale che le cave possono rendere, secondo la loro natura, essendosi ritenuta sproporzionata una sottrazione originaria del bene al proprietario del fondo, e viceversa congrua l'assegnazione di un limite al diritto di quel proprietario. Così essendo, questo diritto risulta accordato per fare, dell'iniziativa privata, uno strumento d'attuazione del pubblico interesse, e perché si é ravvisato che l'iniziativa privata avrebbe potuto egualmente attendere alla realizzazione di questo interesse; e dovrà riconoscersi, in conseguenza, che quel diritto convive con un potere dell'Amministrazione, tanto vero che la coltivazione delle cave é assoggettata alla sua vigilanza, e ad una vigilanza tendente a mantenere il rispetto delle esigenze pubbliche nel modo del suo svolgimento, quella stessa alla quale é soggetta la coltivazione della miniera (art. 29), perché essa, dall'art. 45, ultimo comma, é estesa alla cava. Venuta meno la fiducia nell'iniziativa del proprietario del fondo, l'Amministrazione pubblica provvede alla tutela dell'interesse generale senza il tramite del procedimento tipico di espropriazione per pubblico interesse così come senza ricorrere a questo procedimento concede originariamente la miniera; in una guisa cioè che, se non toglie al proprietario del fondo garanzia di difesa, nell'ipotesi di atto illegittimo, si profila quale espressione di una relazione immediata con la cava.
Non importa individuare la natura del diritto del privato sulla cava: la proprietà, l'usufrutto, o che altro sia, sarebbero attribuiti con i limiti impressi dalla rilevanza pubblica del bene, e questi limiti si inseriscono nella struttura del diritto, comunque esso si qualifichi, caratterizzandolo nella sua giuridica essenza, vincolandolo indissolubilmente ad un esercizio che svolga quella funzione d'interesse generale cui la cava é, di per sé, destinata.
Nemmeno importa discutere, ai fini della questione da decidere, se la concessione della cava al terzo sulla base della disposizione denunciata sia un atto di carattere ablativo; l'atto incide sul diritto del privato per l'attivarsi del limite cui sottostava, il che basta a far ritenere che la fattispecie esula dal tenore del terzo comma dell'art. 42 della Costituzione. Questo comma contempla l'ipotesi del sacrificio di una situazione patrimoniale per un interesse pubblico che essenzialmente sta fuori di essa e ad essa si sovrappone: se però l'interesse pubblico é limite della situazione, la sua tutela preferenziale é sviluppo naturale o normale del rapporto da cui il diritto del privato trae origine e non induce acquisizione aliena di un valore. Infatti il diritto sacrificato, in tal caso, non contiene il valore di quello prevalso; e deve stimarsi avendo presente la coesistenza di un altro diritto capace di assorbirlo, quindi con detrazione del valore di questo.
La fattispecie regolata dall'art. 838 del Codice civile, cui la parte privata si é richiamata per dar maggior vigore alla sua denuncia di illegittimità, é del tutto diversa da quella in esame. In tale articolo si prevede un indennizzo per l'espropriazione di beni che interessano la produzione nazionale e che il proprietario usa in modo da nuocere alle esigenze della produzione stessa; si ha cioè riguardo ad un diritto su beni che sono utili alla produzione, non che sono ad essa necessari, come i prodotti delle cave, per loro natura insostituibili: in quel caso l'interesse generale é toccato di riflesso dal comportamento del privato, il diritto sul bene non essendo dato perché con esso possa realizzarsi un interesse pubblico, come é invece per il diritto sulla cava.
Questa Corte ha già osservato (sentenza 19 gennaio 1966, n. 6) che la legge può non disporre indennizzi quando segna modi e limiti che attengano al regime di appartenenza o a quello di godimento dei beni in generale o di intere categorie di beni, ovvero quando regoli la situazione che i beni stessi abbiano, rispetto a beni o ad interessi della pubblica Amministrazione: é necessario, in tal caso, soltanto che la legge sia destinata alla generalità dei soggetti i cui beni si trovino nelle accennate situazioni, vale a dire che l'imposizione di limiti abbia carattere obiettivo, quindi scaturisca da disposizioni che diano un certo carattere a determinate categorie di beni, identificabili a priori per contrassegni intrinseci. Da quanto si é esposto appare indiscutibile che la sottrazione delle cave alla disponibilità privata ex art. 45 del R.D. 29 luglio 1927, n. 1443, svolge il limite connesso al regime di quei beni come categorie, per la loro inerenza ad un interesse della pubblica Amministrazione; rientra cioè fra le ipotesi genericamente descritte dalla Corte, per le quali la Costituzione non dà garanzia d'indennizzo.
Per le stesse ragioni é infondata la questione di legittimità costituzionale proposta in relazione all'art. 43 della Costituzione.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione proposta con ordinanza 1 luglio 1965 della sezione della Corte di appello di Reggio Calabria, sulla legittimità costituzionale della norma contenuta nell'art. 45 del R. D. 29 luglio 1927, n. 1443, relativo alla ricerca e alla coltivazione delle miniere, in riferimento agli artt. 42, terzo comma, e 43 della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 febbraio 1967.
Gaspare AMBROSINI - Antonino PAPALDO - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI
Depositata in cancelleria il 9 marzo 1967.