SENTENZA N. 253
ANNO 2019
Commenti alla
decisione di
I. Marco Ruotolo, Reati
ostativi e permessi premio. Le conseguenze della sent.
n. 253 del 2019 della Corte costituzionale, per g.c.
di Sistema Penale
II. Silvia Talini, Presunzioni assolute e assenza
di condotta collaborativa: una nuova sentenza additiva ad effetto sostitutivo
della Corte costituzionale, in questa ,
Studi 2019/III, 729.
III. Silvia Bernardi, Per
la Consulta la presunzione di pericolosità dei condannati per reati ostativi
che non collaborano con la giustizia è legittima solo se relativa: cade la
preclusione assoluta all’accesso ai permessi premio ex art. 4-bis
comma 1 ord. pen., per g.c.
di Sistema Penale
IV. Andrea Pugiotto,
La
sent. n. 253/2019 della Corte costituzionale: una
breccia nel muro dell’ostatività penitenziaria,
per g.c. di Forum di Quaderni
Costituzionali
V. Marco Cerase, La
Corte costituzionale sui reati ostativi: una sentenza, molte perplessità,
per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali
VI. Mario Chiavario, La
sentenza sui permessi-premio: una pronuncia che non merita inquadramenti unilaterali,
per g.c. dell’Osservatorio AIC
VII. Antonia Menghini, La
Consulta apre una breccia nell’art. 4 bis o.p. Nota a
Corte cost. n. 253/2019, per g.c.
dell’Osservatorio AIC
VIII. Silvia
Bernardi, Sull’incompatibilità
con la Costituzione della presunzione assoluta di pericolosità dei condannati
per reati ostativi che non collaborano con la giustizia: in margine a Corte cost.,
sentenza del 23 ottobre 2019 (dep. 4 dicembre 2019),
n. 253, per g.c. dell’Osservatorio AIC
IX. Marta Mengozzi, Il
meccanismo dell’ostatività alla sbarra. Un primo
passo da Roma verso Strasburgo, con qualche inciampo e altra strada da
percorrere (nota a Corte Cost., sent. n. 253 del 2019), per
g.c. dell’Osservatorio
AIC
X. II. Andrea Pugiotto, Due
decisioni radicali della Corte costituzionale in tema di ostatività
penitenziaria: le sentenze nn. 253 e 263 del 2019, per g.c.
di Rivista AIC
XI. Giuseppe Della
Monica, La
irragionevolezza delle presunzioni che connotano il modello differenziato di
esecuzione della pena per i condannati pericolosi. Riflessioni a margine della
sentenza n. 253/2019 della Corte costituzionale, per g.c.
di Diritti fondamentali.it
XII. Jessica Mazzuca,
Reati
ostativi e benefici premiali: l’emergere di un nuovo paradigma ermeneutico (Commento
a C. Cost. 23 Ottobre2019,
n. 253), per g.c. di Federalismi.it
XIII. Giacinto Cirioli, Bertoldo
e la presunzione assoluta di pericolosità sociale: entrambi impiccati a una
pianta di fragole? Un breve commento alla sentenza n. 253/2019 della Corte
Costituzionale, per g.c. dell’Osservatorio AIC
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Giorgio LATTANZI;
Giudici: Aldo CAROSI, Marta CARTABIA,
Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA,
Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO,
Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni
AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis,
comma 1, della legge
26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione
delle misure privative e limitative della libertà), promossi dalla Corte di
cassazione e dal Tribunale di sorveglianza di Perugia con ordinanze del 20
dicembre 2018 e del 28 maggio 2019, rispettivamente iscritte ai nn. 59
e 135
del registro ordinanze 2019 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica nn. 17 e 34, prima serie speciale, dell’anno 2019.
Visti gli atti di costituzione di S. C. e P. P., gli atti di intervento ad adiuvandum di M. D., dell’Associazione Nessuno Tocchi
Caino, del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della
libertà personale e dell’Unione camere penali italiane, nonché gli atti di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 22 ottobre 2019 il Giudice
relatore Nicolò Zanon;
uditi gli avvocati Ladislao Massari per M. D., Andrea Saccucci
per l’Associazione Nessuno Tocchi Caino, Emilia Rossi per il Garante nazionale
dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Vittorio
Manes per l’Unione camere penali italiane, Valerio Vianello Accorretti
per S. C., Mirna Raschi e Michele Passione per P. P. e gli avvocati dello Stato
Marco Corsini e Maurizio Greco per il Presidente del
Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 20 dicembre 2018 (r.o. n. 59
del 2019), la Corte di cassazione ha sollevato questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, della legge
26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione
delle misure privative e limitative della libertà), in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione,
«nella parte in cui esclude che il condannato all’ergastolo, per delitti
commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis
cod. pen., ovvero al fine di agevolare l’attività
delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la
giustizia, possa essere ammesso alla fruizione di un permesso premio».
1.1.– Il collegio rimettente premette di essere investito del
ricorso avente ad oggetto il provvedimento con cui il Tribunale di sorveglianza
dell’Aquila ha rigettato il reclamo proposto da S. C. avverso il decreto con il
quale il magistrato di sorveglianza dell’Aquila aveva dichiarato inammissibile
la richiesta di permesso premio avanzata dal medesimo condannato.
Espone il rimettente che il condannato si trova in espiazione della pena
dell’ergastolo con isolamento diurno per la durata di un anno, irrogatagli «per
i delitti di associazione mafiosa, omicidio, soppressione di cadavere, porto e
detenzione illegale di armi», eseguiti tra il 1996 e il 1998 «per agevolare
l’attività» di un’associazione mafiosa, come desumibile dalla sentenza di
condanna per i reati di omicidio, per i quali è stata applicata l’aggravante
dei motivi abietti, «individuati nel fine di affermare l’egemonia e il
prestigio della consorteria alla quale l’imputato era affiliato».
Precisa il giudice a quo che il Tribunale di sorveglianza dell’Aquila ha
ritenuto non concedibile il beneficio richiesto in quanto precluso dai titoli
di reato, trattandosi di delitti tutti ricompresi nell’elenco dei reati
ostativi ai sensi dell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit.
– pur in assenza di una contestazione formale dell’aggravante speciale di cui
all’art. 7 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in
tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento
dell’attività amministrativa), convertito, con modificazioni, nella legge 12
luglio 1991, n. 203 – e non sussistendo condotte di collaborazione con la
giustizia rilevanti ai sensi dell’art. 58-ter ordin. penit., richiamato dal medesimo art. 4-bis.
Ricorda la Corte rimettente che l’art. 4-bis ordin. penit.
stabilisce il divieto di concessione di benefici
penitenziari in assenza di collaborazione con la giustizia, sia per le ipotesi
di reato previste dagli artt. 416-bis (Associazioni
di tipo mafioso anche straniere) e 416-ter (Scambio
elettorale politico-mafioso) del codice penale, sia per i reati commessi
avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis
cod. pen. ovvero al fine di
agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo.
Espone, quindi, che il condannato S. C. ha sostenuto, per quanto qui
interessa, che «la preclusione assoluta stabilita dalla norma censurata» si
porrebbe «in contrasto con la funzione rieducativa della pena
costituzionalmente garantita», sia perché impedirebbe «il raggiungimento delle
finalità riabilitative proprie del trattamento penitenziario», sia perché
sarebbe «disarmonica rispetto ai principi affermati dall’art. 3 CEDU», invitando quindi la Corte di cassazione a sollevare
questione di legittimità costituzionale, «dell’art. 4-bis,
comma 1, Ord. Pen., con riferimento agli articoli 17,
18 e 22 cod. pen., per violazione degli artt. 27,
comma terzo, 117 Cost., in relazione all’art. 3 CEDU».
1.2.– Ciò premesso, il collegio rimettente ritiene rilevante e
non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale
prospettata in relazione all’art. 4-bis ordin. penit.
1.2.1.– In punto di rilevanza, ricorda come
l’art. 30-ter ordin. penit.,
nel disciplinare la concessione dei permessi premio, considera decisivo
l’apprezzamento di pericolosità sociale, ai fini dell’accoglimento o del
rigetto della domanda di permesso premio, ed evidenzia che tale profilo «non è
stato oggetto di specifica valutazione ad opera del Tribunale di sorveglianza
che ha ritenuto impeditivo di un concreto esame il disposto normativo dell’art.
4-bis, comma 1, Ord. Pen.».
A giudizio del collegio a quo, tuttavia, ciò non priva di rilevanza la
questione, «perché la rimozione dell’ostacolo costituito dalla presunzione
assoluta di pericolosità sarebbe l’unico modo per consentire la rimessione al giudice
del merito, come giudice del rinvio, del compito di verificare in concreto la
ricorrenza dei presupposti richiesti dall’art. 30-ter
Ord. Pen. per la concessione
del beneficio, in particolare l’assenza di pericolosità sociale».
1.2.2.– In ordine alla non manifesta
infondatezza della questione di legittimità costituzionale, la Corte rimettente
osserva, in primo luogo, che il tema della pericolosità sociale di indagati o
imputati per reati di criminalità organizzata è già stato vagliato dalla
giurisprudenza costituzionale in relazione ai criteri che devono orientare il
giudice nell’applicazione delle misure cautelari personali previste dall’art.
275, comma 3, del codice di procedura penale.
A tale proposito, viene richiamata la sentenza n. 57 del
2013, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 275, comma
3, secondo periodo, cod. proc. pen., come modificato
dall’art. 2, comma 1, del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti
in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché
in tema di atti persecutori) convertito, con modificazioni, nella legge 23
aprile 2009, n. 38, nella parte in cui prevedeva, per coloro per i quali
sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine a delitti commessi
avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis
cod. pen. ovvero al fine di
agevolare l’attività delle associazioni mafiose, l’applicazione della custodia
cautelare in carcere come unica misura adeguata a soddisfare le esigenze
cautelari, senza fare salva – rispetto al concorrente esterno – l’ipotesi in
cui fossero stati acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto,
dai quali risultasse che le esigenze cautelari potevano essere soddisfatte con
altre misure. Il collegio rimettente ricorda che, secondo la Corte
costituzionale, le presunzioni assolute, ove limitative di diritti
fondamentali, violano il principio di eguaglianza se sono arbitrarie e
irrazionali ovvero «se non rispondono a dati di esperienza generalizzati,
riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit» e che, al
contempo, la possibile estraneità dell’autore di tali delitti a un’associazione
mafiosa fa escludere che si sia sempre in presenza di un reato che presupponga
la necessità di un vincolo di appartenenza alla consorteria considerata.
Il collegio rimettente richiama, altresì, la sentenza della
Corte costituzionale n. 48 del 2015, che ha analogamente eliminato la
presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere
per gli imputati o indagati di concorso esterno in associazione mafiosa. Anche
in tal caso, rammenta la Corte rimettente, secondo la giurisprudenza
costituzionale non sarebbe ravvisabile, nei confronti del concorrente esterno,
quel vincolo di adesione permanente al sodalizio mafioso necessario a
legittimare, sul piano giurisdizionale, il ricorso esclusivo alla custodia
cautelare in carcere, quale unico strumento idoneo a recidere i rapporti
dell’indiziato con l’ambiente associativo, neutralizzandone la pericolosità.
In questo contesto, secondo il giudice a quo, l’art. 4-bis
ordin. penit.
si inserirebbe «problematicamente», dal momento che,
in relazione alla concessione del permesso premio, «ne preclude l’accesso, in
senso assoluto, a tutte le persone condannate per delitti ostativi che non
hanno fornito una collaborazione con la giustizia rilevante ai sensi dell’art. 58-ter Ord. Pen.». Tale preclusione
assoluta, «non distinguendo tra gli affiliati di un’organizzazione mafiosa» e
gli autori di delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni
previste dalla stessa norma, appare al rimettente confliggente con
«l’incompatibilità costituzionale» delle presunzioni assolute di pericolosità
sociale, quando applicate alle condotte illecite che non presuppongono
l’affiliazione a un’associazione mafiosa, secondo i principi che sarebbero
stati affermati dalla Corte costituzionale nelle sentenze in precedenza
richiamate.
Il giudice a quo, ancora, richiama ulteriori pronunce della Corte
costituzionale in materia di compatibilità tra il divieto di concessione dei
benefici penitenziari previsto dall’art. 4-bis, comma
1, ordin. penit., e i principi che governano l’esecuzione della pena. In
particolare, evidenzia che, con la sentenza n. 239 del
2014, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale
dell’art. 4-bis, comma 1, ordin.
penit., nella parte «in cui non esclude dal divieto
di concessione dei benefici penitenziari, da esso stabilito, la misura della
detenzione domiciliare speciale prevista dall’art. 47-quinquies
della medesima legge» nonché nella parte in cui «non esclude dal divieto di
concessione dei benefici penitenziari, da esso stabilito, la misura della
detenzione domiciliare prevista dall’art. 47-ter,
comma 1, lettere a) e b), della medesima legge, ferma restando la condizione
dell’insussistenza di un concreto pericolo di commissione di ulteriori
delitti». Per la Corte costituzionale, la scelta legislativa di accomunare nel
regime detentivo prefigurato dall’art. 4-bis, comma
1, ordin. penit.
fattispecie e misure alternative tra loro eterogenee sarebbe lesiva dei
parametri costituzionali evocati (si trattava degli artt. 3, 29, 30 e 31 Cost.), in quanto illogica rispetto all’obiettivo di
incentivare la collaborazione processuale quale strategia di contrasto alla
criminalità organizzata: la subordinazione dell’accesso ai benefici
penitenziari a un effettivo ravvedimento del condannato sarebbe giustificata
solo quando si discuta di misure alternative che mirano alla rieducazione del
condannato e non quando «al centro della tutela si collochi un interesse
"esterno” ed eterogeneo».
La Corte rimettente attribuisce «[a]nalogo
rilievo ermeneutico» alla sentenza n. 76 del
2017, con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale dell’art. 47-quinquies, comma 1-bis, ordin. penit.,
limitatamente all’inciso «salvo che nei confronti delle madri condannate per
taluno dei delitti indicati nell’art. 4-bis», evidenziando,
con riferimento alla detenzione domiciliare speciale di cui alla disposizione
allora censurata, l’inammissibilità di presunzioni assolute che neghino
l’accesso della madre alle modalità agevolate di espiazione della pena,
impedendo al giudice di valutare in concreto la pericolosità sociale e facendo
ricorso a indici presuntivi che comportano «il totale sacrificio dell’interesse
del minore».
Infine, il giudice a quo richiama la sentenza n. 149 del
2018, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale dell’art. 58-quater, comma 4, ordin. penit., nella parte in cui si applica ai condannati all’ergastolo
per i delitti di cui agli artt. 289-bis e 630 cod. pen. che abbiano cagionato la
morte del sequestrato, ribadendo i principi della progressività trattamentale e della flessibilità della pena «radicati
nell’art. 27, comma terzo, Cost., che garantisce il
graduale inserimento del condannato all’ergastolo nel contesto sociale».
Tutto ciò premesso, la Corte rimettente espone che, che nel caso sottoposto
al suo scrutinio, il condannato risulta ininterrottamente detenuto dal 27
giugno 1998 e ha sempre mantenuto un comportamento carcerario rispettoso del
programma rieducativo attivato nei suoi confronti.
Per il giudice a quo, subordinare l’accesso ai benefici penitenziari alla
collaborazione con la giustizia, indistintamente per tutte le categorie di
condannati per uno dei reati contemplati nell’elenco dell’art. 4-bis, ordin. penit., avrebbe «l’effetto
di valorizzare la scelta collaborativa, come momento di rottura e di definitivo
distacco dalle organizzazioni criminali, anche nei confronti di detenuti non
inseriti in contesti associativi». Al contempo, se l’obiettivo prioritario
della norma censurata è individuato nell’incentivazione alla collaborazione,
quale strategia di contrasto della criminalità organizzata attraverso la
rescissione definitiva dei legami con le associazioni di appartenenza, a
giudizio del rimettente appare priva di ragionevolezza una disposizione che
assimili condotte delittuose tanto diverse tra loro, precludendo ad una
categoria così ampia e diversificata di condannati il diritto di ricevere un
trattamento penitenziario rivolto alla risocializzazione, senza che sia data al
giudice la possibilità di verificare in concreto la permanenza o meno di
condizioni di pericolosità sociale tali da giustificare percorsi penitenziari
non aperti alla realtà esterna.
Il giudice a quo considera «dato consolidato» – conformemente alla costante
giurisprudenza di legittimità – che la scelta di fornire un contributo
collaborativo, rilevante ai sensi dell’art. 58-ter ordin. penit., rappresenta, per un detenuto appartenente a una
consorteria mafiosa, una manifestazione inequivocabile «del suo definitivo
distacco dal sodalizio in cui gravitava». Ritiene però che non possa assumere
«valore incontrovertibile e assurgere a canone valutabile in termini di
presunzione assoluta, a prescindere dalle emergenze concrete», l’affermazione
che la cessazione dei legami di un detenuto con il gruppo criminale di
riferimento possa essere dimostrata, durante la fase di esecuzione della pena,
soltanto attraverso le condotte collaborative di cui all’art. 58-ter ordin. penit., dato che tale
assunto non troverebbe «copertura» nella giurisprudenza costituzionale in
precedenza illustrata che, «come ha bandito dal sistema le presunzioni assolute
di pericolosità, così non può avallare la conclusione che la scelta
collaborativa costituisca prova legale esclusiva di ravvedimento».
A parere del collegio rimettente, peraltro, la scelta del condannato
all’ergastolo di non collaborare con la giustizia non risulterebbe univocamente
dimostrativa dell’attualità della pericolosità sociale e non necessariamente
implicherebbe la volontà di restare legato al sodalizio mafioso di
appartenenza, potendo essere determinata anche da altri fattori, estranei al
percorso rieducativo, quali: il «rischio per l’incolumità propria e dei propri
familiari»; il «rifiuto morale di rendere dichiarazioni di accusa nei confronti
di un congiunto o di persone legate da vincoli affettivi»; il «ripudio di una
collaborazione di natura meramente utilitaristica».
I dubbi di costituzionalità aumentano, a parere del rimettente, se si considerano
le peculiarità del permesso premio previsto dall’art. 30-ter
ordin. penit,
che possiede «una connotazione di contingenza che non ne consente
l’assimilazione integrale alle misure alternative alla detenzione», perché non
modifica le condizioni restrittive del condannato: soltanto rispetto a queste
ultime le ragioni di politica criminale sottese alla «preclusione assoluta di
cui all’art. 4-bis, comma 1, Ord.
Pen.», potrebbero apparire rispondenti alle esigenze di contrasto alla
criminalità organizzata.
A parere del giudice a quo, in particolare, i permessi premio
costituirebbero parte essenziale del trattamento rieducativo, sicché, ove non
concessi a causa di una «presunzione di pericolosità non altrimenti vincibile»,
sarebbero compromesse le stesse finalità costituzionali della pena detentiva.
Tale tipologia di beneficio penitenziario, infatti, troverebbe fondamento
anzitutto nella realizzazione di una finalità immediata, costituita dalla cura
di interessi affettivi, culturali e di lavoro, caratterizzandosi «come
strumento di soddisfazione di esigenze anche molto limitate seppure non
rientranti nella portata meno ampia del permesso di necessità».
In ragione di questa peculiare funzione, il collegio rimettente ritiene che
sussista la possibilità, anche in assenza di collaborazione con la giustizia,
di verificare in concreto «la mancanza di elementi significativi di
collegamenti con la criminalità organizzata» o di accertare «addirittura»
elementi denotanti «un significativo distacco dal sistema subculturale
criminale».
Per la Corte di cassazione, del resto, «anche una concessione premiale per
una finalità limitata e contingente potrebbe sortire l’effetto di incentivare
il detenuto a collaborare con l’istituzione carceraria».
2.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la
questione sia dichiarata non fondata.
Ad avviso della difesa statale, la questione sollevata sarebbe
manifestamente infondata sotto più punti di vista.
Premette l’Avvocatura che, al fine di contrastare «l’odioso fenomeno della
criminalità organizzata», il legislatore avrebbe stabilito di subordinare la
concessione dei benefici per gli autori di tali delitti «ad una e una sola
condizione»: che il condannato decida, quando sia materialmente possibile, di
collaborare con la giustizia. Con tale disciplina speciale si sarebbe scelto di
«divaricare nettamente la posizione dei "collaboratori” da quella degli
"irriducibili”», privilegiando, per una serie di reati «tassativamente
elencati», le finalità di prevenzione generale e di sicurezza della
collettività.
La soluzione prefigurata dall’art. 4-bis, ordin. penit., in ogni caso, non rappresenterebbe «un automatismo che
opera incondizionatamente, in quanto la collaborazione del condannato
restituisce al giudice i poteri di valutare discrezionalmente la sussistenza
dei presupposti "normali” per accordare il permesso premio». In sostanza, il
detenuto che ha collaborato verrebbe posto sullo stesso piano del condannato
nei cui riguardi opera l’art. 30-ter, ordin. penit.
Si tratterebbe di una scelta discrezionale del legislatore connessa a
valutazioni di politica criminale, secondo le quali l’unico mezzo con il quale
il detenuto può dimostrare l’assenza di pericolosità – che nel caso di detenuti
per delitti previsti dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., consiste nella persistenza di legami con la criminalità
organizzata – è quello di scegliere la via della collaborazione.
In tal modo, a parere dell’Avvocatura, sarebbe stata incentivata la stessa
collaborazione, che «nell’esperienza giudiziaria della storia nazionale» si
sarebbe rivelata come «mezzo insostituibile» della ricerca della prova e del
perseguimento dei responsabili.
A parere dell’interveniente, il rigore che connota il sistema delineato
dall’art. 4-bis, ordin. penit., si applica anche ai permessi premio, «apparendo del
tutto irrilevante la sua natura contingente piuttosto che di alternativa vera e
propria alla pena detentiva», poiché la ratio della norma è quella «di evitare
l’uscita dal carcere – anche solo per poche ore – di condannati verosimilmente
ancora pericolosi, in particolare in ragione dei loro persistenti legami con la
criminalità organizzata» (si cita la sentenza n. 149 del
2018). Lo stesso legislatore, «nel circoscrivere l’ambito oggettivo della
preclusione», pur consapevole delle diversità strutturali, affianca
espressamente i permessi premio alle misure alternative alla detenzione, per
l’esigenza di evitare che i condannati per tali reati siano rimessi, anche solo
temporaneamente, in libertà.
Secondo l’Avvocatura, la stessa giurisprudenza costituzionale avrebbe
ritenuto che «la collaborazione con la giustizia assuma "non irragionevolmente,
la diversa valenza di criterio di accertamento della rottura dei collegamenti
con la criminalità organizzata, che a sua volta è condizione necessaria, sia
pure non sufficiente, per valutare il venir meno della pericolosità sociale ed
i risultati del percorso di rieducazione e di recupero del condannato”» (sentenza n. 273 del
2001). La scelta collaborativa sarebbe stata assunta dal legislatore a
criterio legale di valutazione del comportamento del detenuto, rappresentando
una condotta necessaria ai fini dell’accertamento del «sicuro ravvedimento» del
condannato.
Dunque, l’opzione legislativa sarebbe frutto di un potere discrezionale in
materia di politica penitenziaria, come tale sindacabile nei soli limiti in cui
risulti esercitato in modo arbitrario. A tale proposito, l’Avvocatura generale
richiama la sentenza
della Corte costituzionale n. 306 del 1993, secondo cui «certamente
risponde all’esigenza di contrastare una criminalità organizzata aggressiva e
diffusa la scelta del legislatore di privilegiare finalità di prevenzione
generale e di sicurezza della collettività, attribuendo determinati vantaggi ai
detenuti che collaborano con la giustizia».
3. – In data 13 maggio 2019 si è costituito in giudizio S. C., parte
ricorrente nel giudizio a quo, per chiedere l’accoglimento delle questioni di
legittimità costituzionale, sviluppando gli argomenti già esibiti nell’ordinanza
della Corte di cassazione.
Secondo S. C., inoltre, la disposizione censurata violerebbe non soltanto
gli artt. 3 e 27 Cost., ma anche l’art. 117 Cost., in relazione all’art. 3 della Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa
esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, in base alla giurisprudenza della
Corte europea dei diritti dell’uomo (viene citata la sentenza della Grande Camera
9 luglio 2013, Vinter e altri contro Regno Unito).
3.1.– In data 1° ottobre 2019 S. C. ha depositato una memoria
in cui ribadisce quanto sostenuto nell’atto di costituzione, in particolare in
merito alle caratteristiche peculiari del permesso premio in relazione agli
altri benefici penitenziari, ai quali ultimi non potrebbe essere omologato,
pena la violazione dei principi costituzionali evocati.
La parte richiama, inoltre, la sentenza pronunciata dalla
Corte EDU il 13 giugno 2019, nel caso Viola contro
Italia, di cui vengono riprodotti ampi stralci di motivazione.
Aggiunge la parte che appare «inammissibile» che il «diritto di non
collaborare», garantito processualmente come espressione del principio nemo tenetur se detegere, possa trasformarsi in fase esecutiva in un vero e
proprio dovere, necessario per poter usufruire di «strumenti che dovrebbero
essere invece gli ordinari risultati della partecipazione proficua al
trattamento penitenziario».
Infine, la parte reputa «certamente discutibile» che una condotta di tipo
meramente utilitaristico sia proposta dallo stesso legislatore come requisito
per evitare il «danno aggiuntivo» della preclusione ai benefici, trasformandosi
così in «una vera e propria costrizione», ricordando che la Corte
costituzionale ha di recente affermato (è richiamata l’ordinanza n. 117
del 2019) che il diritto a mantenere il silenzio da parte degli imputati o
condannati costituisce un «corollario essenziale dell’inviolabilità del diritto
di difesa, riconosciuto dall’art. 24 Cost.».
4.– In data 30 aprile 2019 il detenuto M. D. ha depositato
atto di intervento ad adiuvandum, sostenendo di avere
uno specifico interesse ad intervenire nel giudizio attesa la posizione
processuale di «perfetta sovrapponibilità» rispetto a quella di S. C.,
trovandosi in esecuzione – da oltre ventisette anni – della pena dell’ergastolo
cosiddetto ostativo, con diniego di accesso alle misure alternative alla
detenzione, in assenza di collaborazione con la giustizia. M. D., in data 19
settembre 2019, ha depositato una memoria per riaffermare il suo interesse
qualificato connesso alla circostanza che la Corte di cassazione, nel giudizio
che lo riguarda (celebrato innanzi alla medesima sezione che ha sollevato la
questione di legittimità costituzionale da cui origina il giudizio r.o. n. 59 del 2019), ha disposto il rinvio della
trattazione in attesa della «decisione della Corte Costituzionale sulla
legittimità dell’art. 4 bis ord. pen. – per quanto riguarda la concedibilità
dei permessi premio per il detenuto non collaborante».
Ha concluso, dunque, per l’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale
sollevate dalla Corte di cassazione, sezione prima penale.
5.– In data 13 maggio 2019 ha depositato atto di intervento ad adiuvandum l’associazione Nessuno Tocchi Caino,
argomentando di essere «portatrice di un interesse "qualificato” nella questione
relativa alla legittimità costituzionale» prospettata, in quanto associazione
senza fini di lucro fondata con lo scopo di condurre una campagna volta a far
abrogare in tutto il mondo le norme che prevedono la pena di morte ovvero che
costituiscono «una sorta di pena di morte "mascherata”», come l’ergastolo
cosiddetto ostativo previsto dall’art. 4-bis, ordin. penit.
In vista dell’udienza pubblica del 22 ottobre 2019, l’associazione ha
depositato, in data 1° ottobre 2019, una memoria in cui richiama e sviluppa gli
argomenti già esibiti nell’atto di costituzione, con la quale si chiede
l’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla
Corte di cassazione, sezione prima penale.
6.– Con ordinanza del 28 maggio 2019 (r.o.
n. 135 del 2019), il Tribunale di sorveglianza di Perugia ha sollevato
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis,
comma 1, ordin. penit., in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost.,
«nella parte in cui esclude che il condannato all’ergastolo per delitti
commessi al fine di agevolare l’attività dell’associazione a delinquere ex art.
416 bis cod. pen. della
quale sia stato partecipe, possa essere ammesso alla fruizione di un permesso
premio».
6.1.– Il collegio rimettente premette di essere investito del
ricorso avverso il provvedimento con cui il Magistrato di sorveglianza di
Spoleto ha dichiarato inammissibile l’istanza diretta ad ottenere un permesso
premio ai sensi dell’art. 30-ter, ordin.
penit. avanzata
da P. P., in espiazione della pena dell’ergastolo con isolamento diurno in
relazione ad un provvedimento di cumulo comprendente condanne tutte per delitti
rientranti nel disposto dell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., perciò ostative alla concessione del permesso richiesto.
Aggiunge che la difesa del condannato ha, quindi, proposto reclamo dinanzi
al tribunale di sorveglianza rimettente, chiedendo la sospensione della
decisione in attesa della pronuncia sulla questione di legittimità
costituzionale sollevata dalla Corte di cassazione, sezione prima penale, con
l’ordinanza 20 dicembre 2018.
6.2.– Ciò posto, il Tribunale di sorveglianza di Perugia ha
ritenuto di sospendere il procedimento per sollevare, a sua volta, le questioni
di legittimità costituzionale innanzi descritte.
6.2.1.– Il giudice a quo ripercorre,
richiamandoli integralmente, anche con riferimento alla citazione della
giurisprudenza costituzionale ritenuta pertinente, i passaggi essenziali
dell’ordinanza con cui la prima sezione penale della Corte di cassazione (r.o. n. 59 del 2019) ha sollevato le innanzi illustrate
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis,
comma 1, ordin. penit., sia perché dichiara di condividerli, sia «per
evidenziarne tratti di non completa sovrapponibilità» con la fattispecie
sottoposta al suo scrutinio, ma che pure ritiene di sottoporre all’esame della
Corte costituzionale.
Ancora con riferimento al profilo della rilevanza delle questioni
sollevate, il rimettente evidenzia che, in entrambi i procedimenti da cui sono
scaturite le questioni oggi all’esame della Corte costituzionale, viene in
rilievo la richiesta di un condannato alla pena dell’ergastolo di fruire di un
permesso premiale, rigettata dal magistrato di sorveglianza competente – e, nel
caso vagliato dalla Corte di cassazione, con decisione confermata in sede di
reclamo dal Tribunale di sorveglianza – poiché soltanto la scelta di collaborare
con la giustizia, «invece non avvenuta, potrebbe comportare la fuoriuscita dal
regime di assoluta ostatività».
Ne consegue che nessuna valutazione può essere condotta in concreto sulla
pericolosità sociale del condannato, perché «la magistratura di sorveglianza
deve, di fronte a tale assoluta ostatività,
dichiarare soltanto l’inammissibilità dell’istanza, con la conseguenza della
rilevanza per il giudizio sottopostole della questione di legittimità
costituzionale prospettata che, in caso di accoglimento, consentirebbe la
rimessione al giudice del merito, come giudice di rinvio, con il compito di
verificare l’eventuale meritevolezza del beneficio
premiale».
Per il rimettente, in sostanza, soltanto l’eventuale declaratoria di
illegittimità costituzionale della «preclusione assoluta» alla concessione del
permesso premio consentirebbe al tribunale di sorveglianza «di non provvedere
con rigetto del reclamo per inammissibilità dell’istanza di permesso premio e
di vagliarne invece la meritevolezza nel caso concreto»,
e cioè di verificare se sussistano i requisiti di merito indicati nell’art. 30-ter ordin. penit. in ordine al
mantenimento di una regolare condotta da parte del condannato nel corso della
sua detenzione nonché, trattandosi di condannato per delitti compresi nell’art.
4-bis, comma 1, ordin. penit.,
di accertare «il requisito dell’acquisizione di elementi tali da escludere
l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata».
Il giudice a quo, in ogni caso, riferisce che il reclamante è ininterrottamente
detenuto dal marzo 1995, sicché ha «vissuto oltre ventiquattro anni di pena
effettiva», fruendo di 2160 giorni di liberazione anticipata per aver
partecipato all’opera rieducativa condotta nei suoi confronti, e soddisfa
dunque l’altro requisito di ammissibilità (raggiunto nell’anno 2005) per la
concessione di un permesso premio al condannato alla pena dell’ergastolo,
consistente nell’aver espiato la quota di pena di almeno dieci anni indicata
dall’art. 30-ter, comma 4, lettera d), ordin. penit.
6.2.2.– In punto di non manifesta
infondatezza, il rimettente evidenzia che, sebbene si tratti in entrambi i casi
di condannati all’ergastolo per reati ricompresi nell’elenco dell’art. 4-bis, ordin. penit., che hanno chiesto di
ottenere un permesso premio, la posizione all’esame del Tribunale di
sorveglianza di Perugia differisce da quella esaminata dalla Corte di
cassazione, poiché il ricorrente è stato condannato per delitti commessi al
fine di agevolare il gruppo criminale organizzato ex art. 416-bis
cod. pen. del quale è stato
riconosciuto partecipe, con ruolo sviluppatosi nel corso del tempo nelle
diverse vicende criminose che lo hanno visto protagonista.
Tuttavia, ritiene il rimettente che anche la situazione del condannato
ricorrente nel giudizio a quo «meriti un vaglio circa la pericolosità sociale
realizzato in concreto dal competente magistrato di sorveglianza e non precluso
assolutamente», come invece accade in ragione della disposizione di ordinamento
penitenziario della cui legittimità costituzionale si dubita.
Grande rilievo viene attribuito alla giurisprudenza della Corte
costituzionale relativa al superamento degli automatismi e delle preclusioni
assolute per la concessione dei benefici penitenziari alle detenute madri di
prole in tenera età (sentenza n. 239 del
2014) e ai condannati alla pena dell’ergastolo per sequestro di persona a
scopo di estorsione che abbiano cagionato la morte del sequestrato (sentenza n. 149 del
2018). Pronunce di cui vengono riprodotti ampi passaggi, seguendo la
traccia della motivazione disegnata dalla Corte di cassazione nel sollevare le
analoghe questioni in precedenza illustrate.
Il rimettente sottolinea in modo particolare che, in materia di permessi
premio, «i dubbi si accrescono», alla luce della peculiarità del beneficio, per
ottenere il quale sono sufficienti requisiti diversi e meno pregnanti del
ravvedimento, richiesto per ottenere la liberazione condizionale (fattispecie
scrutinata in passato dalla Corte costituzionale «rispetto alle ostatività dell’art. 4-bis, comma
1, ord. penit.»:
è richiamata la sentenza
n. 135 del 2003), e della sua «necessità» per favorire ulteriori
progressioni trattamentali e soddisfare esigenze di
cura di interessi affettivi, culturali o lavorativi.
Il Tribunale di sorveglianza di Perugia ritiene, dunque, di condividere i
dubbi sulla legittimità costituzionale dell’art. 4-bis,
comma 1, ordin. penit.
già espressi dalla Corte di cassazione con l’ordinanza
in precedenza ampiamente illustrata e di cui riporta ampi stralci, estendendo
però la questione di legittimità costituzionale «alla preclusione alla
possibilità di essere ammesso alla fruizione di un permesso premio per il
condannato alla pena dell’ergastolo che abbia commesso delitti con la finalità
di agevolazione di un gruppo criminale ex art. 416-bis
cod. pen. del quale sia
stato riconosciuto partecipe».
Anche in relazione a tale posizione, infatti, il giudice a quo dubita che
sia compatibile con gli artt. 3 e 27 Cost. «l’elevazione della collaborazione con la giustizia a prova
legale del venir meno della pericolosità sociale del condannato», impedendo che
la magistratura di sorveglianza vagli nel caso concreto la sussistenza di tale
«comportamento (di sicura centrale importanza), ma al fianco di altri che
possono avere particolare importanza». Ricorda il rimettente, del resto, che
anche oggi, pur in presenza di una condotta di collaborazione rilevante ai
sensi dell’art. 58-ter ordin.
penit.,
il tribunale di sorveglianza è chiamato a verificare in concreto l’evoluzione
personologica del condannato e anche le ragioni che lo hanno condotto alla
collaborazione, sicché, con la proposizione delle questioni di legittimità
costituzionale in esame, si chiede «che ciò possa farsi anche per l’opzione
opposta», al fine di valutare nel caso concreto le ragioni che hanno indotto
l’interessato a mantenere il silenzio.
A quest’ultimo proposito, ricorda ancora il Tribunale di sorveglianza di
Perugia che il diritto a mantenere il silenzio è stato di recente scrutinato,
pur su altra materia, dalla Corte costituzionale (è citata l’ordinanza n. 117
del 2019), che lo avrebbe considerato principio fondamentale
dell’ordinamento costituzionale e descritto come «corollario essenziale
dell’inviolabilità del diritto di difesa, riconosciuto dall’art. 24 Cost.», in quanto tale «appartenente al novero dei diritti
inalienabili della persona umana», quando le proprie dichiarazioni possano
rivelarsi autoaccusatorie, sicché esso entrerebbe «in significativa frizione
con un meccanismo che impedisce l’accesso a ogni misura extramuraria
se non vi si rinuncia». Per questo motivo, sarebbe necessario poter valutare le
ragioni che, «anche al di là delle propalazioni autoaccusatorie», incidono
sulla scelta di non collaborare attivamente, quali: i timori per la propria e
l’altrui incolumità, in particolare di congiunti e familiari che, ad esempio,
non possano sradicarsi dai luoghi di origine in cui furono commessi i reati; il
rifiuto di causare la carcerazione di altri, con i quali, ancora in via
esemplificativa, si abbia o si sia avuto un legame familiare o affettivo; il
rifiuto di accedere alla collaborazione perché non si vuole essere tacciati di
averlo fatto soltanto per calcolo utilitaristico, per una riduzione di pena o
per ottenere un beneficio penitenziario.
Inoltre, il giudice a quo ritiene che il comma 1 dell’art. 4-bis, ordin. penit., non distinguendo tra
i differenti benefici penitenziari, non consenta di valutare le peculiarità di
ciascun istituto, richiedendo, piuttosto, la collaborazione tanto come prova necessaria
per dimostrare il ravvedimento del condannato (requisito proprio della sola
liberazione condizionale), quanto per un permesso premio che presuppone,
invece, «la più modesta regolare condotta».
Nella prospettiva del rimettente, il permesso premio costituisce uno
«strumento fondamentale» per consentire al condannato di progredire «nel senso
di responsabilità e nella capacità di gestirsi nella legalità», e allo stesso
magistrato di sorveglianza di vagliare i progressi trattamentali
compiuti e la capacità di reinserirsi, per quanto brevemente, nel tessuto
sociale.
Anzi, proprio la possibilità di fruirne nel tempo e con regolarità, «in
assenza di eventuali involuzioni comportamentali», potrebbe far emergere «un
sempre più convinto allontanamento dal sistema di vita criminale in precedenza
abbracciato», producendo uno «sradicamento da eventuali contesti sociali
controindicati», stimolando condotte collaborative e fungendo da «sprone verso
il reinserimento», necessariamente prodromico alla concessione di misure
alternative.
Sotto una diversa angolazione, il rimettente evidenzia che il permesso
premio persegue anche l’obbiettivo peculiare di «garantire all’interessato
l’esercizio pieno di diritti, altrimenti legittimamente compressi dalla
condizione detentiva», e in particolare il mantenimento o il ristabilimento,
dopo anche lungo tempo, delle relazioni, anche intime, con la famiglia. Per il
rimettente, considerazioni legate alla pericolosità sociale individuale del
condannato «ben possono, e debbono, condurre al rigetto di un beneficio
premiale», che le esigenze da ultimo illustrate potrebbe soddisfare, ma la
sussistenza di una preclusione assoluta, sganciata da una valutazione del caso
concreto «e nel tempo comunque rivedibile», appare «maggiormente stridente a
fronte dei diritti fondamentali compressi», anche tenuto conto degli interessi
«esterni ed eterogenei», costituiti dalle aspirazioni al mantenimento
dell’unità familiare da parte del coniuge o convivente e dei figli, ma anche
dei genitori di età avanzata.
Ancora, l’ordinanza di rimessione concede ampio spazio alle affermazioni di
principio – in tema di progressività trattamentale e
flessibilità della pena – contenute nella sentenza n. 149 del
2018 della Corte costituzionale, di cui vengono riportati numerosi passaggi
motivazionali, per evidenziare come l’art. 4-bis,
comma 1, ordin. penit.
svuoterebbe di significato anche la disciplina della liberazione anticipata,
che nel caso di condannato all’ergastolo ha come effetto principale quello di
anticipare i termini per la concessone dei singoli benefici, rappresentando uno
stimolo per il detenuto a partecipare al programma rieducativo: nel caso di
ergastolo ostativo si avrebbe, infatti, un reale disincentivo a partecipare al
trattamento, non potendo il condannato in alcun modo avvantaggiarsene, neppure
per anticipare il momento di fruizione di benefici extramurari.
Il rimettente è ben consapevole che la posizione soggettiva del reclamante
nel giudizio principale è quella di un «intraneo ad
un gruppo criminale organizzato ex art. 416-bis cod. pen.», autore di omicidi volti a consentirne la
sopravvivenza e agevolarne gli scopi illeciti, e che, dunque, si tratta di un
soggetto per il quale «è particolarmente rilevante l’eventuale collaborazione
con la giustizia che, secondo regole di esperienza trasfuse in una costante
giurisprudenza», di legittimità e costituzionale, costituisce «la più forte
prova della rescissione del vincolo associativo e dunque del venir meno della
pericolosità sociale dell’interessato». Ritiene, tuttavia, che, anche in tal
caso, nella peculiare fase dell’esecuzione penale, la preclusione assoluta alla
concessione di un beneficio penitenziario, in assenza di una condotta collaborativa,
si ponga in contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost.,
poiché impedisce «il vaglio di altri elementi che nel caso concreto potrebbero
condurre ugualmente ad un giudizio di cessata pericolosità sociale e di meritevolezza dell’invocato beneficio», secondo un giudizio
individualizzato e costantemente attualizzato, nel rispetto dei principi di
umanizzazione e funzione rieducativa delle pene.
Secondo il collegio rimettente, dalla stessa giurisprudenza costituzionale
immediatamente successiva all’introduzione dell’assoluta ostatività
di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin.
penit. (sono richiamate le sentenze n. 137 del
1999, n. 445
del 1997 e n.
504 del 1995), emergerebbe la «consapevolezza» che l’opzione utilizzata dal
legislatore, «espressione di una scelta di politica criminale», abbia
comportato una «rilevante compressione della finalità rieducativa della pena»,
con una tendenza alla configurazione di «tipi d’autore per i quali la
rieducazione non sarebbe possibile o potrebbe non essere perseguita» (è
richiamata la sentenza
n. 306 del 1993). Da allora, però, la Corte costituzionale avrebbe
continuato nell’opera di disvelamento del «volto costituzionale della pena»,
passando, con riferimento alla finalità rieducativa della stessa, da una lettura
che collocava tale finalità paritariamente tra le altre, di prevenzione
generale e difesa sociale, alla considerazione che la particolare gravità del
reato commesso, con la connessa esigenza di lanciare un robusto segnale di
deterrenza nei confronti della generalità dei consociati, non possano, nella
fase di esecuzione della pena, «operare in chiave distonica rispetto
all’imperativo costituzionale della funzione rieducativa della pena medesima»
(è richiamata, ancora, la sentenza n. 149 del
2018, di cui viene sottolineato, in particolare, il passaggio argomentativo
relativo al «principio della non sacrificabilità
della funzione rieducativa sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione
della pena»).
Per il giudice a quo, risulterebbero «[c]ompatibili
con il quadro costituzionale» soltanto valutazioni individualizzate, «che
accolgano l’elemento della collaborazione con la giustizia quale segnale
eminente della rescissione del vincolo con il contesto criminale organizzato di
appartenenza, ma non esclusivo», in modo da garantire alla magistratura di
sorveglianza lo spazio per un vaglio «approfondito e globale» del percorso
rieducativo eventualmente condotto dal richiedente i benefici penitenziari,
alla luce della peculiarità della fase dell’esecuzione penale, che si sviluppa
in un tempo che progressivamente si allontana dal reato e, mediante gli effetti
del trattamento penitenziario, consente di «verificare l’evoluzione
personologica del condannato a partire dai pur gravissimi fatti commessi»,
peraltro a notevole distanza temporale da questi ultimi, tenuto conto dei
lunghi tempi previsti dal legislatore per un simile riesame.
7.– Anche nel giudizio r.o. n. 135
del 2019 è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato
e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia
dichiarata inammissibile o, in subordine, infondata.
L’Avvocatura, oltre a richiamare quanto sostenuto nel proprio atto di intervento
nel giudizio r.o. n. 59 del 2019, osserva, per
sostenere il difetto di rilevanza della questione, che il condannato non ha mai
addotto a sostegno della sua mancata collaborazione con la giustizia nessuna
delle ragioni astrattamente ipotizzate nella ordinanza di rimessione come
possibili motivazioni del suo silenzio. Anzi, emergerebbe dagli atti richiamati
anche dal giudice rimettente che il condannato avrebbe chiesto che la possibile
collaborazione venisse dichiarata impossibile o inesigibile, ma che tale
richiesta sarebbe stata rigettata con motivata ordinanza del tribunale di
sorveglianza nell’anno 2012.
Secondo l’Avvocatura generale, dunque, se pure è vero che la rimozione
della preclusione, attualmente disposta dall’art. 4-bis,
ordin. penit., potrebbe
consentire al condannato di fruire di un permesso premio, previa valutazione da
parte del tribunale di sorveglianza dell’evoluzione della sua personalità, è
vero anche che l’ordinanza non spiega quali siano i motivi «in ordine
all’effettiva concreta sussistenza, nella vicenda de qua, di quelle ragioni
alternative, rispetto alla collaborazione richiesta dall’art. 4 bis primo comma
Ord. Pen., che, ad avviso del Giudice rimettente, non
consentirebbero di ritenere la mancata collaborazione idonea a rivelare – di
per sé solo – la perdurante pericolosità sociale del soggetto».
Ritiene ancora l’Avvocatura generale che la disciplina censurata
riguarderebbe «scelte di opportunità in materia di politica penitenziaria», su
cui la Corte costituzionale non potrebbe incidere, rientrando esse nella
discrezionalità riservata al legislatore, ove non esercitata in modo
arbitrario. A questo proposito viene richiamata la sentenza n. 306 del
1993, che avrebbe esplicitato le ragioni di politica criminale che stanno
alla base della scelta legislativa, allora ritenuta dalla Corte non in
conflitto con l’art. 27 Cost. (vengono
citate altresì le sentenze
n. 135 del 2001, n. 68 del 1995 e
n. 357 del 1994).
L’Avvocatura conclude affermando che la scelta del legislatore di
subordinare per i condannati per delitti particolarmente gravi l’accesso ai
benefici penitenziari alla collaborazione con la giustizia, quale unica forma
di superamento della presunzione di pericolosità sociale, non appare viziata da
irragionevolezza o contrastante con il principio rieducativo della pena, per
cui un eventuale intervento della Corte, incidendo su valutazioni affidate alla
discrezionalità del legislatore, «risulterebbe eccedente rispetto ai poteri
alla stessa attribuiti».
8.– In data 9 settembre 2019 si è costituito in giudizio il
detenuto P. P., ricorrente nel giudizio a quo, chiedendo l’accoglimento delle
questioni prospettate.
La parte ripercorre, condividendolo, il percorso motivazionale
dell’ordinanza di rimessione ed evidenzia che, successivamente al deposito
della stessa, è stata pronunciata dalla Corte EDU la sentenza 13 giugno 2019,
Viola contro Italia, di cui richiama i contenuti e che viene definita
«quasi-pilota, considerati i numeri e il dato strutturale dell’ergastolo
ostativo».
P. P. chiede, inoltre, alla Corte «di valutare l’opportunità di estendere
la sua pronuncia, ex art. 27, L. n. 87 del 1953, all’art. 4 bis, comma 1, o.
p., nella parte in cui subordina alla collaborazione utile ed esigibile con la
giustizia l’accesso alle misure alternative alla detenzione previste dal capo
VI dell’o.p. (e tra esse, la liberazione
condizionale, secondo il consolidato diritto vivente)».
8.1.– In data 1° ottobre 2019, la parte ha depositato una memoria in cui
evidenzia, in risposta al rilievo dell’Avvocatura generale dello Stato per cui
il detenuto non avrebbe esplicitato le ragioni della mancata collaborazione,
che il Tribunale di sorveglianza di Perugia, nel sollevare le questioni di
legittimità costituzionale, ha richiamato l’ordinanza della
Corte costituzionale n. 117 del 2019 sulla inviolabilità del diritto di
difesa e del diritto al silenzio, sottolineando che non poteva pretendersi dal
condannato la violazione del principio nemo tenetur se detegere.
Richiama poi il percorso del programma trattamentale
tracciato per il detenuto, insieme ai risultati conseguiti, dai quali ultimi il
giudice potrebbe valutare, una volta superata la preclusione di legge,
l’effettiva persistenza, o non, della pericolosità del condannato.
Contesta, poi, la deduzione dell’Avvocatura generale, secondo cui
l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale sollevata
determinerebbe una irragionevole disparità di trattamento tra detenuti
condannati all’ergastolo e detenuti condannati, per i medesimi titoli di reato,
a pene temporanee, sostenendo che spetterebbe al legislatore individuare gli
opportuni rimedi (come già riconosciuto dalla sentenza n. 149 del
2018).
La parte conclude ritenendo che alcun sostegno potrebbe apportare alla tesi
dell’Avvocatura generale dello Stato la (pur da quest’ultima richiamata) sentenza n. 188 del
2019, che, nell’evidenziare la disomogeneità delle scelte di politica
criminale che, nel corso del tempo, hanno ampliato il catalogo delle
fattispecie ostative per finalità di prevenzione generale, si sarebbe limitata
a scattare «una fotografia dell’attuale situazione normativa». In ogni caso,
evidenzia la parte, vi sarebbe differenza tra «il rimuovere una fattispecie dai
delitti di prima fascia (l’art. 630 c.p., ove sia stata ritenuta l’ipotesi
gradata […]) e, invece, rimuovere una preclusione assoluta per l’accesso ai
benefici».
9.– Nel giudizio è intervenuto, con atto del 4 settembre
2019, il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della
libertà personale, assumendo, in primo luogo, di essere titolare di un
interesse qualificato, tale da integrare il requisito richiesto dalla
giurisprudenza costituzionale per ammettere l’intervento in giudizio.
In ordine alla titolarità di un interesse qualificato, il Garante nazionale
rappresenta di essere stato istituito per «la necessità di rafforzare la tutela
dei diritti delle persone detenute» ed è caratterizzato da «specifici requisiti
di autonomia e indipendenza nonché di competenza riservata nelle discipline
concernenti i diritti umani e la loro tutela». Sempre allo stesso scopo,
vengono richiamati i compiti espressamente attribuiti dalla legge istitutiva.
L’interveniente conclude per l’accoglimento delle questioni di legittimità
costituzionale sollevate dal Tribunale di sorveglianza di Perugia, associandosi
alla richiesta, avanzata dalla parte P. P., di estendere la pronuncia di
accoglimento all’art. 4-bis, ordin.
penit.,
nella parte in cui subordina alla collaborazione utile ed esigibile con la giustizia
l’accesso alle misure alternative alla detenzione.
10.– Nel giudizio è intervenuta, infine, l’Unione camere penali italiane (UCPI), con atto depositato in data 10 settembre 2019,
assumendo di essere titolare di un interesse specifico e qualificato ad
intervenire quale soggetto terzo nel giudizio, in quanto associazione
rappresentativa dell’avvocatura penale che ha come scopo statutario quello di
«promuovere la conoscenza, la diffusione, la concreta realizzazione e la tutela
dei valori fondamentali del diritto penale e del giusto processo», nonché di
«vigilare sulla corretta applicazione della legge».
L’UCPI ha concluso chiedendo l’accoglimento delle
questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di sorveglianza
di Perugia.
In data 1° ottobre 2019, l’UCPI ha depositato una
memoria in cui ha sviluppato gli argomenti in base ai quali ha rivendicato la
sussistenza di un interesse specifico e qualificato ad intervenire quale
soggetto terzo nel giudizio a quo.
Considerato in diritto
1.– Con ordinanza del 20 dicembre 2018 (r.o. n.
59 del 2019), la Corte di cassazione ha sollevato questioni di legittimità
costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, dell’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme
sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e
limitative della libertà), «nella parte in cui esclude che il condannato
all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui
all’art. 416-bis cod. pen.,
ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che
non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla fruizione di
un permesso premio».
Il giudice rimettente ritiene, in primo luogo, che l’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. violi
l’art. 3 Cost. sotto il
profilo della ragionevolezza. Esso conterrebbe, infatti, una «preclusione
assoluta» di accesso ai benefici penitenziari, e in particolare al permesso
premio, per il condannato – non collaborante con la giustizia – per reati cosiddetti
di "contesto mafioso”, che non presuppongono l’affiliazione ad una associazione
mafiosa. Tale preclusione impedirebbe al magistrato di sorveglianza qualunque
valutazione in concreto sulla pericolosità del condannato, determinando in
limine l’inammissibilità di ogni richiesta di quest’ultimo di accedere ai
benefici penitenziari.
La Corte di cassazione opera un richiamo alla giurisprudenza di questa
Corte sugli "automatismi” nell’applicazione delle misure cautelari personali,
secondo la quale la presunzione di pericolosità, che impone l’applicazione
della misura custodiale in carcere, trova
giustificazione – sulla base di dati d’esperienza generalizzati, riassumibili
nella formula dell’id quod plerumque
accidit – solo per l’affiliato all’associazione
mafiosa, ma la stessa giustificazione non trova in relazione ai condannati per
reati che tale affiliazione non presuppongono.
Trasponendo questa giurisprudenza alla fase dell’esecuzione della pena,
ritiene, appunto, irragionevole la «preclusione assoluta» contenuta nella
disposizione censurata, poiché essa non consentirebbe di distinguere tra gli
affiliati a un’organizzazione mafiosa, da una parte, e, dall’altra, gli autori
di delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis del codice penale, ovvero al fine di agevolare
l’attività delle associazioni previste dalla stessa norma.
L’art. 4-bis, comma 1, ordin.
penit. non
si baserebbe, per questo aspetto, su dati d’esperienza generalizzati,
riassumibili nella formula dell’id quod plerumque accidit, e perciò
impedirebbe incongruamente al magistrato di sorveglianza di svolgere una
valutazione in concreto sulla pericolosità del condannato che richiede il
permesso premio.
In secondo luogo, il rimettente ritiene violato l’art. 27, terzo comma, Cost., in quanto la disposizione censurata frustrerebbe,
impedendo in radice al condannato l’accesso ai benefici penitenziari, gli
obiettivi di risocializzazione evocati dal parametro costituzionale in
questione, anche in virtù dei principi della progressività trattamentale
e della flessibilità della pena (sono evocate, in particolare, le sentenze n. 149 del
2018, n. 76
del 2017 e n.
239 del 2014 di questa Corte).
Infine – premesse considerazioni critiche sul rilievo attribuito dalla
disposizione censurata alla scelta di collaborare con la giustizia quale «prova
legale esclusiva di ravvedimento», e soprattutto dell’assenza di pericolosità
sociale del condannato – il giudice a quo ritiene che i dubbi di legittimità
costituzionale sollevati aumentino «sol che si considerino le peculiarità del
permesso premio ex art. 30-ter Ord.
Pen.», finalizzato alla cura di interessi affettivi, culturali e di lavoro, la
concessione del quale è legata a valutazioni del tutto specifiche.
2.– Con ordinanza del 28 maggio 2019 (r.o.
n. 135 del 2019), il Tribunale di sorveglianza di Perugia ha a sua volta
sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost.,
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis,
comma 1, ordin. penit.
«nella parte in cui esclude che il condannato
all’ergastolo per delitti commessi al fine di agevolare l’attività
dell’associazione a delinquere ex art. 416 bis cod. pen.
della quale sia stato partecipe, possa essere ammesso
alla fruizione di un permesso premio».
Chiamato a decidere il reclamo di un detenuto condannato alla pena
dell’ergastolo per il delitto di cui all’art. 416-bis
cod. pen. e per vari delitti
di "contesto mafioso”, al quale il magistrato di sorveglianza aveva negato la
concessione di un permesso premio in assenza di collaborazione con la
giustizia, il rimettente dubita che l’obbligo di collaborare con la giustizia
per poter accedere ai benefici previsti dall’ordinamento penitenziario (e, in
particolare, ai permessi premio) sia compatibile con gli artt. 3 e 27 Cost., a prescindere dal tipo di reato commesso dal
detenuto.
Trovandosi al cospetto di un condannato, oltre che per reati di "contesto
mafioso”, anche per il delitto di associazione mafiosa, il giudice a quo segue
un percorso argomentativo diverso da quello dell’ordinanza illustrata in
precedenza.
Ritiene infatti il Tribunale di sorveglianza di Perugia che, anche nel caso
dell’associato ex art. 416-bis cod. pen., nella peculiare fase dell’esecuzione penale, la
preclusione assoluta alla concessione di un beneficio penitenziario, in assenza
di una condotta collaborativa, collida con i principi costituzionali deducibili
dagli artt. 3 e 27 Cost., poiché impedirebbe il
vaglio di elementi che, in concreto, potrebbero condurre ugualmente a un
giudizio, individualizzato e attualizzato, di cessata pericolosità sociale.
Osserva che non si comprende per quale motivo sia precluso al giudice di
sorveglianza, chiamato a verificare l’evoluzione del detenuto, di verificare,
in concreto, «le ragioni che hanno indotto l’interessato a non collaborare,
cioè a mantenere il silenzio», evocato non quale mero atteggiamento, ma nel suo
significato di diritto inviolabile a non accusare sé stessi (è richiamata l’ordinanza n. 117
del 2019 di questa Corte).
Analogamente all’ordinanza della Corte di cassazione, il rimettente
evidenzia inoltre come la finalità rieducativa della pena sarebbe vanificata
dall’impossibilità di ottenere permessi premio, i quali costituiscono «uno
strumento fondamentale per consentire al condannato di progredire nel senso di
responsabilità e di capacità di gestirsi nella legalità, e al magistrato di
sorveglianza di vagliare i progressi trattamentali
compiuti e la capacità di reinserirsi, per quanto brevemente, nel tessuto
sociale» (sono richiamate le sentenze n. 149 del
2018 e n.
403 del 1997 di questa Corte). I permessi premio, ricorda il rimettente, consentono
anche «l’esercizio pieno di diritti», tra i quali «il mantenimento o il
ristabilimento, dopo anche lungo tempo, delle relazioni con la famiglia».
Il Tribunale di sorveglianza di Perugia sottolinea, quindi, con ulteriore
richiamo alla sentenza
n. 149 del 2018, che la disposizione colliderebbe con l’art. 27 Cost. anche perché l’impossibilità
di ottenere un qualsiasi beneficio premiale in assenza di collaborazione
costituirebbe un disincentivo alla stessa partecipazione del condannato al
percorso rieducativo connesso al trattamento penitenziario, con evidente
mortificazione degli obiettivi che la norma costituzionale si pone.
Infine – anche su questo aspetto distinguendosi dall’ordinanza della Corte
di cassazione – il rimettente sottolinea la peculiarità dell’esecuzione penale
rispetto alla fase cautelare: mentre quest’ultima potrebbe infatti tollerare
qualche presunzione, la prima, sviluppandosi lungo un arco temporale più
esteso, richiederebbe una valutazione costante dell’evoluzione personologica
del condannato, che tenga conto del trascorrere del tempo e della distanza dal
reato commesso.
3.– Sebbene presentino profili di parziale differenziazione
nei percorsi argomentativi, le due ordinanze di rimessione censurano la stessa
disposizione ed evocano i medesimi parametri costituzionali. I relativi giudizi
vanno perciò riuniti, per essere decisi con un’unica pronuncia.
4.– In via preliminare, va confermata l’ordinanza
dibattimentale allegata alla presente sentenza, che ha dichiarato inammissibili
tutti gli interventi spiegati da soggetti diversi dalle parti dei giudizi
principali.
5.– Sempre in via preliminare, devono essere correttamente
definiti il thema decidendum
e i termini delle questioni di legittimità costituzionale portate
all’attenzione di questa Corte dalle ordinanze di rimessione illustrate.
5.1.– In primo luogo, nel giudizio r.o.
n. 59 del 2019, la parte S. C. ha prospettato, nell’atto di costituzione, anche
la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in
relazione all’art. 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU),
firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4
agosto 1955, n. 848.
Trattasi, però, di censura che il collegio rimettente non ha inteso
proporre nell’atto di promovimento. Secondo la costante giurisprudenza di
questa Corte, non possono essere presi in considerazione ulteriori profili di
illegittimità costituzionale dedotti dalle parti oltre i limiti dell’ordinanza
di rimessione; e ciò, sia che siano stati eccepiti, ma non fatti propri dal
giudice a quo, sia che siano diretti ad ampliare o modificare successivamente
il thema decidendum, una
volta che le parti si siano costituite nel giudizio incidentale di
costituzionalità (ex multis, da ultimo, sentenze n. 226,
n. 206, n. 141, n. 96 e n. 78 del 2019).
Di tale censura questa Corte non deve perciò occuparsi.
5.2.– In secondo luogo, le questioni di legittimità
costituzionale sollevate non riguardano la legittimità costituzionale della
disciplina relativa al cosiddetto ergastolo ostativo, sulla cui compatibilità
con la CEDU si è, di recente, soffermata la Corte
europea dei diritti dell’uomo, sentenza 13 giugno 2019,
Viola contro Italia.
Questo sarebbe stato l’oggetto delle presenti questioni se le ordinanze di
rimessione avessero censurato – oltre che l’art. 4-bis,
comma 1, ordin. penit.
– anche la previsione contenuta nell’art. 2, comma 2, del decreto-legge 13
maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità
organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa),
convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203, che,
richiamando l’art. 176 cod. pen., non consente di
concedere la liberazione condizionale al condannato all’ergastolo che non
collabora con la giustizia e che abbia già scontato ventisei anni effettivi di
carcere, così trasformando la pena perpetua de iure in una pena perpetua anche
de facto.
Le questioni di legittimità costituzionale ora in esame attengono, invece,
non alla condizione di chi ha subito una condanna a una determinata pena, bensì
a quella di colui che ha subito condanna (all’ergastolo, in entrambi i giudizi
a quibus) per reati cosiddetti ostativi, in specie i
delitti di associazione di tipo mafioso ai sensi dell’art. 416-bis
cod. pen., e quelli commessi avvalendosi delle
condizioni previste dallo stesso articolo, ovvero al fine di agevolare
l’attività delle associazioni in esso previste.
Infatti, è portato all’attenzione di questa Corte l’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit.,
ai sensi del quale la condanna per i delitti che esso elenca – si tratti di
condanna a pena perpetua oppure a pena temporanea – impedisce l’accesso ai
benefici penitenziari, e in special modo al permesso premio, in assenza di
collaborazione con la giustizia ai sensi dell’art. 58-ter
ordin. penit.
(secondo cui l’utile collaborazione, anche dopo la
condanna, consiste nell’essersi adoperati per evitare che l’attività delittuosa
sia portata a conseguenze ulteriori ovvero nell’aiutare concretamente
l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi
decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura
degli autori dei reati).
I giudici a quibus, per parte loro, hanno
"costruito” le questioni di legittimità costituzionale modellandole sulle
fattispecie portate alla loro attenzione, nelle quali la richiesta di accesso
al permesso premio riguardava due condannati alla pena dell’ergastolo, per i
delitti prima specificati. Ma questa Corte non deve risolvere tali specifici
giudizi, bensì pronunciarsi sulla disposizione di legge censurata, decidendo
questioni di legittimità costituzionale rilevanti in quei giudizi.
Tali questioni riguardano perciò l’art. 4-bis,
comma 1, ordin. penit., in quanto recante una disciplina da applicarsi a tutti i
condannati, a pena perpetua o temporanea, per i reati di partecipazione ad
associazione mafiosa e di "contesto mafioso”. Per tutti costoro, infatti, la
disposizione censurata dai rimettenti richiede la collaborazione con la
giustizia quale condizione per l’accesso alla valutazione, in concreto, circa
la concedibilità dei benefici penitenziari.
5.3.– Infine, nei processi a quibus
si fa questione della sola possibilità di concessione, ai detenuti, di un
permesso premio, non di altri benefici.
Coerentemente con tale circostanza, i dispositivi di entrambe le ordinanze
di rimessione precisano che l’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit.
è censurato nella sola parte in cui esclude che i
condannati per i reati descritti, che non collaborano con la giustizia, possano
essere ammessi alla fruizione dello specifico beneficio di cui all’art. 30-ter ordin. penit.
Del resto, non solo i rimettenti, come si diceva, limitano le proprie
censure alla impossibilità – determinata dall’art. 4-bis,
comma 1, ordin. penit.
– di accedere al permesso premio, ad esclusione, perciò, di qualunque
riferimento agli altri benefici penitenziari; ma è lo stesso art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. ad
elencare distintamente i benefici che non possono essere concessi ai detenuti
per determinati reati (nonché agli internati, la cui posizione non è in
discussione nel presente giudizio) che non collaborano con la giustizia: sicché
unicamente del permesso premio si fa qui questione.
5.4.– Entrambe le ordinanze, alla luce degli artt. 3 e 27 Cost., censurano l’art. 4-bis,
comma 1, ordin. penit., in quanto introduce una presunzione assoluta di mancata
rescissione dei legami con la criminalità organizzata a carico del condannato –
per i reati precisati – che non collabori con la giustizia ai sensi dell’art. 58-ter del medesimo ordin. penit.
Proprio in virtù di tale presunzione, assoluta in quanto non superabile se
non dalla collaborazione stessa, la disposizione attualmente vigente fa sì che
le richieste di un tale detenuto di accedere allo specifico beneficio del
permesso premio debbano dichiararsi in limine inammissibili, senza poter essere
oggetto di un vaglio in concreto da parte del magistrato di sorveglianza (in
disparte i casi di collaborazione impossibile o irrilevante).
Se tutto ciò sia conforme ai parametri costituzionali evocati è, in
definitiva, il thema decidendum
posto dalle presenti questioni di legittimità costituzionale.
6.– Ancora in via preliminare, deve essere vagliata
l’eccezione di inammissibilità per difetto di rilevanza prospettata
dall’Avvocatura generale dello Stato con specifico riferimento al giudizio
instaurato dall’ordinanza (r.o. n. 135 del 2019) del
Tribunale di sorveglianza di Perugia.
Lamenta, in particolare, l’Avvocatura dello Stato che il rimettente non
avrebbe indicato le specifiche ragioni che motivano la scelta del detenuto di
non collaborare con la giustizia.
Il giudice a quo, in effetti, pur dando atto che la condotta collaborativa
costituisce manifestazione del distacco del detenuto dal gruppo criminale di
riferimento, ritiene che non possa per ciò solo dirsi che tale condotta «sia
davvero l’unica "prova legale esclusiva di ravvedimento”, perché sono plurime
le ragioni che possono indurre un condannato a non collaborare». Tra queste
ragioni enumera, trattandone in astratto e in via di mera ipotesi: «il rischio
per la propria incolumità e per quella dei propri congiunti, il rifiuto morale
di rendere dichiarazioni accusatorie nei confronti di persone a lui legate da
vincoli affettivi o amicali, o il ripudio di una collaborazione che rischi di
apparire strumentale alla concessione di un beneficio».
L’Avvocatura lamenta proprio il carattere ipotetico e astratto di tali
ragioni, sottolineando come il reclamante nel giudizio a quo non abbia mai
addotto alcuna di queste motivazioni per giustificare la propria mancata
collaborazione. Dal che deriverebbe, appunto, il difetto di rilevanza delle
questioni sollevate, poiché, anche nel caso di una pronuncia di accoglimento,
una tale decisione non spiegherebbe effetti nel processo a quo.
L’eccezione non è fondata.
Sostiene, invero, il rimettente che solo se questa Corte accogliesse le
questioni – "smontando” il carattere assoluto della presunzione di pericolosità
del detenuto che non collabora, e permettendo così che la prova dell’avvenuto
distacco dal sodalizio criminale sia fornita altrimenti – il magistrato di
sorveglianza, investito della richiesta di accesso al beneficio, potrebbe
allora, in concreto, verificare le vere ragioni che hanno condotto il detenuto
alla scelta di non collaborare.
Questa affermazione si pone, in effetti, nel solco della giurisprudenza
costituzionale in tema di rilevanza, ove (ex plurimis,
sentenze n. 20
del 2016, n.
46 e n. 5
del 2014, n.
294 del 2011) è ricorrente l’affermazione secondo cui, per l’ammissibilità
delle questioni di legittimità costituzionale sollevate in via incidentale, è
sufficiente che la disposizione censurata sia applicabile nel giudizio a quo,
senza che rilevino gli effetti di una eventuale pronuncia di illegittimità
costituzionale per le parti in causa (da ultimo, sentenza n. 170 del
2019).
Del resto, anche nella prospettiva di un più diffuso accesso al sindacato
di costituzionalità (messa in risalto, tra le pronunce più recenti, dalla sentenza n. 77 del
2018) e di una più efficace garanzia della conformità a Costituzione della
legislazione (profilo valorizzato, da ultimo, nella sentenza n. 174 del
2019), il presupposto della rilevanza non si identifica con l’utilità
concreta di cui le parti in causa potrebbero beneficiare a seguito della
decisione (sentenza
n. 20 del 2018).
Soprattutto, con specifico riferimento alle presenti questioni, va
considerato che, secondo la disposizione censurata, il giudice è chiamato a
fare applicazione di una disciplina che predetermina l’esito del processo, nel
senso dell’inammissibilità della richiesta di accesso al beneficio del permesso
premio da parte del condannato non collaborante. Invece, nell’ipotesi di
accoglimento delle sollevate questioni, il giudice a quo dovrebbe decidere
secondo una diversa regola di giudizio, attingendola dalla disciplina di
riferimento, privata della norma in ipotesi dichiarata incostituzionale. E
quand’anche l’esito del giudizio a quo sia il medesimo – la non concessione del
permesso premio – la pronuncia di questa Corte influirebbe di certo sul
percorso argomentativo che il rimettente dovrebbe a questo punto seguire per
decidere sulla richiesta del detenuto (tra le molte, sentenza n. 28 del
2010, nonché, con riferimento alle questioni relative alle cosiddette norme
penali di favore, sentenze
n. 394 del 2006, n. 161 del 2004
e n. 148 del
1983).
7.– Venendo al merito, questa Corte ritiene opportuno
scrutinare in primo luogo le questioni sollevate dal Tribunale di sorveglianza
di Perugia, in quanto, riferendosi alla posizione del condannato sia per
partecipazione all’associazione di cui all’art. 416-bis
cod. pen., sia per reati di "contesto mafioso”, la
decisione su di esse potrebbe assorbire quelle sollevate dalla Corte di
cassazione esclusivamente in riferimento al condannato per questi ultimi
delitti.
Le questioni sono fondate, nei termini di seguito precisati.
7.1.– «Sono fin troppo note le ragioni di politica criminale
che indussero il legislatore dapprima ad introdurre e poi a modificare, secondo
una linea di progressivo inasprimento, l’art. 4-bis
della legge 26 luglio 1975, n. 354» (sentenza n. 68 del
1995), riversando così tali ragioni all’interno dell’ordinamento
penitenziario e dell’esecuzione della pena.
Nella prima versione – introdotta dall’art. 1 del d.l. n. 152 del 1991,
come convertito – l’art. 4-bis ordin.
penit. prevedeva
due distinte "fasce” di condannati, a seconda della riconducibilità, più o meno
diretta, dei titoli di reato a fatti di criminalità organizzata o eversiva.
Per i reati "di prima fascia” – comprendenti l’associazione di tipo
mafioso, i relativi "delitti-satellite”, il sequestro di persona a scopo di
estorsione e l’associazione finalizzata al narcotraffico – l’accesso a taluni
benefici previsti dall’ordinamento penitenziario era possibile, alla stregua di
un parametro probatorio particolarmente elevato, solo se fossero stati
acquisiti «elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la
criminalità organizzata o eversiva».
Per i reati "di seconda fascia” (omicidio, rapina ed estorsione aggravate,
nonché produzione e traffico di ingenti quantità di stupefacenti: «delitti,
questi, per i quali le connessioni con la criminalità organizzata erano, nella
valutazione del legislatore, meramente eventuali», come affermato nella sentenza n. 149 del
2018) si richiedeva – in termini inversi, dal punto di vista probatorio –
l’insussistenza di elementi tali da far ritenere attuali detti collegamenti.
Accanto a questa distinzione di fondo, singole previsioni stabilivano,
quale ulteriore requisito per l’ammissione a specifici benefici (tra i quali il
permesso premio), che i condannati avessero espiato un periodo minimo di pena
più elevato dell’ordinario, a meno che non si trattasse di persone che avevano
collaborato con la giustizia, secondo la nuova previsione dell’art. 58-ter ordin. penit., che lo stesso d.l.
n. 152 del 1991, come convertito, aveva introdotto nella legge penitenziaria
del 1975.
In questa prima fase, dunque, il trattamento di maggior rigore per i
condannati per reati di criminalità organizzata veniva realizzato su due piani,
fra loro complementari. Come spiega la sentenza n. 68 del
1995: da un lato «si stabiliva, quale presupposto generale per
l’applicabilità di alcuni istituti di favore, la necessità di accertare (alla
stregua di una graduazione probatoria differenziata a seconda delle "fasce” di
condannati) l’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata o
eversiva; dall’altro, si postulava, attraverso l’introduzione o l’innalzamento
dei livelli minimi di pena già espiata, un requisito specifico per l’ammissione
ai singoli benefici, fondato sulla necessità di verificare per un tempo più
adeguato l’effettivo percorso di risocializzazione di quanti si fossero
macchiati di delitti iscrivibili nell’area della criminalità organizzata o
eversiva. Requisito, a sua volta, dal quale il legislatore riteneva di poter
prescindere in tutti i casi in cui fosse lo stesso condannato ad offrire prova
dell’intervenuto distacco dal circuito criminale attraverso la propria condotta
collaborativa».
Subito dopo la strage di Capaci del 23 maggio 1992, si produce un evidente
mutamento di prospettiva, nettamente ispirato «a finalità di prevenzione
generale e di tutela della sicurezza collettiva» (sentenza n. 306 del
1993).
L’art. 15 del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al
nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità
mafiosa), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 1992, n. 356,
apporta decisive modifiche all’art. 4-bis della legge
n. 354 del 1975. Per quel che più direttamente ora interessa, nei confronti dei
condannati per i reati appartenenti alla prima "fascia”, si stabilisce che
l’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative
alla detenzione, ad eccezione della liberazione anticipata, possono essere
concessi solo nei casi di collaborazione con la giustizia (fatte salve alcune
ipotesi per le quali i benefici sono applicabili anche se la collaborazione
offerta risulti oggettivamente impossibile o irrilevante e sempre che
sussistano, in questi casi, elementi tali da escludere in maniera certa
l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata).
Restano sullo sfondo i diversi parametri probatori, alla cui stregua
condurre l’accertamento circa la permanenza, nel condannato che aspira ai
benefici penitenziari, di legami con la criminalità organizzata; e acquisisce
invece risalto esclusivo una condotta, quella della collaborazione con la
giustizia, assunta come la sola idonea a dimostrare, per facta
concludentia, l’intervenuta rescissione di quei
collegamenti. Ancora la sentenza n. 68 del
1995: si passa «da un sistema fondato su di un regime di prova rafforzata
per accertare l’inesistenza di una condizione negativa (assenza dei
collegamenti con la criminalità organizzata), ad un modello che introduce una
preclusione per certi condannati, rimuovibile soltanto attraverso una condotta
qualificata (la collaborazione)».
Come mette in luce la sentenza n. 239 del
2014, la nuova disciplina poggia insomma sulla presunzione legislativa che
la commissione di determinati delitti dimostri l’appartenenza dell’autore alla
criminalità organizzata, o il suo collegamento con la stessa, e costituisca,
quindi, un indice di pericolosità sociale incompatibile con l’ammissione del
condannato ai benefici penitenziari extramurari. La
scelta di collaborare con la giustizia viene correlativamente assunta come la
sola idonea a rimuovere l’ostacolo alla concessione dei benefici indicati, in
ragione della sua valenza "rescissoria” del legame con il sodalizio criminale.
Si coniuga a ciò – assumendo, in fatto, un rilievo preminente – l’obiettivo di
incentivare, per ragioni investigative e di politica criminale generale, la
collaborazione con la giustizia dei soggetti appartenenti o "contigui” ad
associazioni criminose, che appare come strumento essenziale per la lotta alla
criminalità organizzata.
Per converso, la mancata collaborazione con la giustizia fonda la
presunzione assoluta che i collegamenti con l’organizzazione criminale siano
mantenuti ed attuali, ricavandosene la permanente pericolosità del condannato,
con conseguente inaccessibilità ai benefici penitenziari normalmente
disponibili agli altri detenuti.
Infine, recependo le indicazioni di questa Corte (sentenze n. 68 del
1995, n. 357
del 1994 e n.
306 del 1993), il comma 1-bis dell’art. 4-bis ordin. penit. estende la possibilità di accesso ai benefici
ai casi in cui un’utile collaborazione con la giustizia risulti inesigibile,
per la limitata partecipazione del condannato al fatto criminoso accertata
nella sentenza di condanna, ovvero impossibile, per l’integrale accertamento
dei fatti e delle responsabilità, operato con la sentenza irrevocabile; nonché
ai casi in cui la collaborazione offerta dal condannato si riveli «oggettivamente
irrilevante», sempre che, in questa evenienza, sia stata applicata al
condannato taluna delle circostanze attenuanti di cui agli artt. 62, numero 6),
114 o 116 cod. pen. In tutte le ipotesi dianzi
indicate occorre, peraltro, che «siano stati acquisiti elementi tali da
escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata,
terroristica o eversiva».
7.2.– La presunzione dell’attualità di collegamenti con la
criminalità organizzata, così introdotta nell’art. 4-bis,
comma 1, ordin. penit.
è assoluta, nel senso che non può essere superata da
altro se non dalla collaborazione stessa. Quest’ultima, per i condannati per i
delitti ricordati, è l’unico elemento che può consentire l’accesso ai benefici
previsti dall’ordinamento penitenziario. È così introdotto un trattamento
distinto rispetto a quello che vale per tutti gli altri detenuti.
In questi specifici termini deve essere precisata la precedente
giurisprudenza di questa Corte, che ha sostenuto non potersi qualificare questa
disciplina come «"costrizione” alla delazione», poiché spetta al detenuto
adottare o meno quel comportamento (sentenza n. 39 del
1994).
A ben guardare, l’inaccessibilità ai benefici penitenziari, per il detenuto
che non collabora, non è un vero automatismo, poiché è lo stesso detenuto,
scegliendo di collaborare, a poter spezzare la consequenzialità della
disposizione censurata. L’inaccessibilità ai benefici penitenziari è insomma
una preclusione che non discende automaticamente dall’art. 4-bis,
comma 1, ordin. penit.
«ma deriva dalla scelta del condannato di non
collaborare, pur essendo nelle condizioni di farlo» (sentenza n. 135 del
2003).
Purtuttavia, la presunzione della mancata rescissione dei collegamenti con
la criminalità organizzata, che incombe sul detenuto non collaborante, è
assoluta, perché non può essere superata da altro, se non dalla collaborazione
stessa. E, come si chiarirà, è proprio questo carattere assoluto a risultare in
contrasto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.
7.3.– Nella sentenza n. 306 del
1993, che questa Corte pronunciò a breve distanza dall’entrata in vigore
della disciplina introdotta dal d.l. n. 306 del 1992, come convertito, si
riconosce che il requisito della collaborazione, quale condizione per l’accesso
ai benefici penitenziari, «è essenzialmente espressione di una scelta di politica
criminale», adottata per finalità di prevenzione generale e di sicurezza
collettiva.
Sottolineando che la scelta legislativa costituiva risposta alla necessità
di contrastare una criminalità organizzata «aggressiva e diffusa», la sentenza
non condivide la tesi, sostenuta nella relazione alla legge di conversione del
d.l. n. 306 del 1992, secondo cui la decisione di collaborare è la sola ad
esprimere con certezza la «volontà di emenda» del condannato, sicché essa
assumerebbe una valenza anche "penitenziaria”, non estranea al principio della
funzione rieducativa della pena («è solo la scelta collaborativa ad esprimere
con certezza quella volontà di emenda che l’intero ordinamento penale deve
tendere a realizzare»: così la relazione presentata in Senato in sede di
conversione del d.l. n. 306 del 1992 – atto n. 328).
Su questo profilo, la sentenza sottolineò che l’art. 4-bis,
comma 1, ordin. penit.
non può essere presentato sotto le vesti di una disposizione di natura
"penitenziaria”, giacché la collaborazione con la giustizia non necessariamente
è sintomo di credibile ravvedimento, così come il suo contrario (la mancata
collaborazione) non può assurgere a insuperabile indice legale di mancato
ravvedimento o "emenda”, secondo una lettura "correzionalistica”
della rieducazione: «non può non convenirsi con i giudici a quibus
quando sostengono che la condotta di collaborazione ben può essere frutto di
mere valutazioni utilitaristiche in vista dei vantaggi che la legge vi
connette, e non anche segno di effettiva risocializzazione».
Sono argomenti, questi ultimi, considerati, sia pur con riferimento a un
diverso beneficio, dalla Corte EDU nella già
ricordata sentenza Viola,
nelle parti espressamente dedicate alla collaborazione con la giustizia, ove
viene sottoposta a critica una disposizione che assume iuris
et de iure la permanenza di collegamenti con associazioni criminali del non
collaborante ed eleva aprioristicamente la collaborazione al rango di sintomo
eloquente di abbandono della scelta di vita originaria, quando in realtà essa
potrebbe essere dovuta a molte altre ragioni, non sempre commendevoli.
Quel che più conta, la sentenza n. 306 del
1993 – pur dichiarando, tra l’altro, non fondate le questioni allora
sollevate sull’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit,
in relazione all’art. 27, terzo comma, Cost. –
osservò che inibire l’accesso ai benefici penitenziari ai condannati per
determinati gravi reati, i quali non collaborino con la giustizia, comporta una
«rilevante compressione» della finalità rieducativa della pena: «la
tipizzazione per titoli di reato non appare consona ai principi di proporzione
e di individualizzazione della pena che caratterizzano il trattamento
penitenziario, mentre appare preoccupante la tendenza alla configurazione
normativa di "tipi d’autore”, per i quali la rieducazione non sarebbe possibile
o potrebbe non essere perseguita» in caso di mancata collaborazione.
8.– Queste ultime valutazioni vanno sviluppate, e conducono
oggi all’accoglimento delle questioni sollevate, nei termini che ora si
chiariranno.
Non è la presunzione in sé stessa a risultare costituzionalmente
illegittima. Non è infatti irragionevole presumere che il condannato che non
collabora mantenga vivi i legami con l’organizzazione criminale di originaria
appartenenza, purché si preveda che tale presunzione sia relativa e non già
assoluta e quindi possa essere vinta da prova contraria.
Mentre una disciplina improntata al carattere relativo della presunzione si
mantiene entro i limiti di una scelta legislativa costituzionalmente
compatibile con gli obbiettivi di prevenzione speciale e con gli imperativi di
risocializzazione insiti nella pena, non regge, invece, il confronto con gli
artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. – agli specifici e
limitati fini della fattispecie in questione – una disciplina che assegni
carattere assoluto alla presunzione di attualità dei collegamenti con la
criminalità organizzata.
Ciò sotto tre profili, distinti ma complementari.
In un primo senso, perché all’assolutezza della presunzione sono sottese
esigenze investigative, di politica criminale e di sicurezza collettiva che
incidono sull’ordinario svolgersi dell’esecuzione della pena, con conseguenze
afflittive ulteriori a carico del detenuto non collaborante.
In un secondo senso, perché tale assolutezza impedisce di valutare il
percorso carcerario del condannato, in contrasto con la funzione rieducativa
della pena, intesa come recupero del reo alla vita sociale, ai sensi dell’art.
27, terzo comma, Cost.
In un terzo senso, perché l’assolutezza della presunzione si basa su una
generalizzazione, che può essere invece contraddetta, a determinate e rigorose
condizioni, dalla formulazione di allegazioni contrarie che ne smentiscono il
presupposto, e che devono poter essere oggetto di specifica e individualizzante
valutazione da parte della magistratura di sorveglianza.
8.1.– Dal primo punto di vista, il congegno normativo inserito
nell’art. 4-bis, comma 1, ordin.
penit. dal
d.l. n. 306 del 1992, come convertito, è espressione di una trasparente opzione
di politica investigativa e criminale. In quanto tale, essa immette nel
percorso carcerario del condannato – attraverso il decisivo rilievo attribuito
alla collaborazione con la giustizia anche dopo la condanna – elementi estranei
ai caratteri tipici dell’esecuzione della pena.
La disposizione in esame, infatti, prefigura una sorta di scambio tra
informazioni utili a fini investigativi e conseguente possibilità per il
detenuto di accedere al normale percorso di trattamento penitenziario.
Per i condannati per i reati elencati nella disposizione censurata,
infatti, è costruita una disciplina speciale (sentenza n. 239 del
2014), ben diversa da quella prevista per la generalità degli altri
detenuti.
Essi possono accedere ai benefici previsti dall’ordinamento penitenziario
solo qualora collaborino con la giustizia, ai sensi dell’art. 58-ter ordin. penit. Se tale collaborazione non assicurino, ai
benefici in questione non potranno accedere mai, neppure dopo aver scontato le
frazioni di pena richieste quale ordinario presupposto per l’ammissione a
ciascun singolo beneficio (previste per il permesso premio dall’art 30-ter, comma 4, ordin. penit.). E se invece collaborino
secondo le modalità contemplate dal citato art. 58-ter,
a tali benefici potranno accedere senza dover previamente scontare la frazione
di pena ordinariamente prevista, in forza della soluzione interpretativa già
individuata, sia da questa Corte (sentenze n. 174 del
2018 e n. 504
del 1995), sia dalla giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione,
sezione prima penale, sentenze 3 febbraio 2016, n. 37578 e 12 luglio 2006, n.
30434).
La disciplina in esame, quindi, a seconda della scelta compiuta dal
soggetto, aggrava il trattamento carcerario del condannato non collaborante
rispetto a quello previsto per i detenuti per reati non ostativi, oppure, al
contrario, lo agevola, giacché, in presenza di collaborazione, introduce a
favore del detenuto elementi premiali rispetto alla disciplina ordinaria.
Ma, alla stregua dei principi di ragionevolezza, di proporzionalità della
pena e della sua tendenziale funzione rieducativa, un conto è l’attribuzione di
valenza premiale al comportamento di colui che, anche dopo la condanna, presti
una collaborazione utile ed efficace, ben altro è l’inflizione di un
trattamento peggiorativo al detenuto non collaborante, presunto iuris et de iure quale persona radicata nel crimine organizzato
e perciò socialmente pericolosa.
Il valore "premiale” della collaborazione – che rende immediatamente
accessibili tutti i benefici, senza necessità di raggiungere le soglie di pena
previste ordinariamente – si giustifica sia considerando che essa è ragionevole
indice del presumibile abbandono dell’originario sodalizio criminale, sia in
virtù della determinante utilità che ha mostrato sul piano del contrasto alle
organizzazioni mafiose.
Del resto, nel più ampio contesto del comportamento intramurale, la
collaborazione assume rilievo, oltre che come dimostrazione della rottura con
il circuito criminale, anche ai fini della complessiva valutazione dell’iter
rieducativo.
Invece, alla luce degli artt. 3 e 27 Cost., l’assenza di collaborazione con la giustizia dopo la
condanna non può tradursi in un aggravamento delle modalità di esecuzione della
pena, in conseguenza del fatto che il detenuto esercita la facoltà di non
prestare partecipazione attiva a una finalità di politica criminale e
investigativa dello Stato.
Come configurata dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., la mancata collaborazione infligge ulteriori conseguenze
negative, che non hanno diretta connessione con il reato commesso, ma derivano
unicamente, appunto, dal rifiuto del detenuto di prestare la collaborazione in
parola, nella sostanza aggravando le condizioni di esecuzione della pena già
inflittagli al termine del processo.
In disparte ogni considerazione – su cui insiste il rimettente – circa il
rilievo del diritto al silenzio nella fase di esecuzione della pena (la
giurisprudenza costituzionale ha affermato che esso è corollario essenziale
dell’inviolabilità del diritto di difesa riconosciuto dall’art. 24 Cost. e «si esplica in ogni
procedimento secondo le regole proprie di questo»: sentenza n. 165 del
2008; ordinanze
n. 282 del 2008 e n. 33 del 2002),
questa Corte non può esimersi dal rilevare che l’attuale formulazione dell’art.
4-bis, comma 1, ordin. penit.,
anche in nome di prevalenti esigenze di carattere investigativo e di politica
criminale, opera una deformante trasfigurazione della libertà di non
collaborare ai sensi dell’art. 58-ter ordin. penit., che certo l’ordinamento penitenziario non può
disconoscere ad alcun detenuto.
Garantita nel processo nella forma di vero e proprio diritto, espressione
del principio nemo tenetur
se detegere, la libertà di non collaborare, in fase
d’esecuzione, si trasforma infatti – quale condizione per consentire al
detenuto il possibile accesso all’ordinario regime dei benefici penitenziari –
in un gravoso onere di collaborazione che non solo richiede la denuncia a
carico di terzi (carceratus tenetur
alios detegere), ma rischia
altresì di determinare autoincriminazioni, anche per fatti non ancora
giudicati.
Ciò non risulta conforme agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.
8.2.– In secondo luogo, contrasta con l’art. 27, terzo comma, Cost. la circostanza che la
richiesta di ottenere il permesso premio debba essere in limine dichiarata
inammissibile, senza che al magistrato di sorveglianza sia consentita una
valutazione in concreto della condizione del detenuto.
Il permesso premio, almeno per le pene medio-lunghe, rappresenta un
peculiare istituto del complessivo programma di trattamento. Esso consente «al
detenuto, a fini rieducativi, i primi spazi di libertà» (sentenza n. 188 del
1990), mostrando perciò una «funzione "pedagogico-propulsiva”» (sentenza n. 504 del
1995, poi sentenze
n. 445 del 1997 e n. 257 del 2006),
e permette l’osservazione da parte degli operatori penitenziari degli effetti
sul condannato del temporaneo ritorno in libertà (sentenza n. 227 del
1995).
La giurisprudenza di questa Corte (in particolare sentenza n. 149 del
2018) ha del resto indicato come criterio costituzionalmente vincolante
quello che richiede una valutazione individualizzata e caso per caso nella
materia dei benefici penitenziari (in proposito anche sentenza n. 436 del
1999), sottolineando che essa è particolarmente importante al cospetto di
presunzioni di maggiore pericolosità legate al titolo del reato commesso (sentenza n. 90 del
2017). Ove non sia consentito il ricorso a criteri individualizzanti,
l’opzione repressiva finisce per relegare nell’ombra il profilo rieducativo (sentenza n. 257 del
2006), in contrasto con i principi di proporzionalità e individualizzazione
della pena (sentenza
n. 255 del 2006).
La presunzione assoluta in esame impedisce proprio tale verifica secondo
criteri individualizzanti, non consentendo nemmeno – come sottolinea il
Tribunale di sorveglianza di Perugia – di valutare le ragioni che hanno indotto
il detenuto a mantenere il silenzio.
In definitiva, l’inammissibilità in limine della richiesta del permesso
premio può arrestare sul nascere il percorso risocializzante, frustrando la
stessa volontà del detenuto di progredire su quella strada.
Ciò non è consentito dall’art. 27, terzo comma, Cost.
8.3.– In terzo luogo, la giurisprudenza di questa Corte sottolinea che «le
presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della
persona, violano il principio di uguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali,
cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella
formula dell’id quod plerumque
accidit» (sentenza n. 268 del
2016; in precedenza, sentenze n. 185 del
2015, n. 232,
n. 213 e n. 57 del 2013,
n. 291, n. 265, n. 139 del 2010,
n. 41 del 1999
e n. 139 del
1982).
In particolare, l’irragionevolezza di una presunzione assoluta si coglie
tutte le volte in cui sia possibile formulare ipotesi di accadimenti reali
contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa.
Nel presente caso, la generalizzazione che fonda la presunzione assoluta
consiste in ciò: se il condannato per il delitto di associazione mafiosa e/o
per delitti di "contesto mafioso” non collabora con la giustizia, la mancata
collaborazione è indice (non superabile se non dalla collaborazione stessa)
della circostanza per cui egli non ha spezzato i legami che lo tengono avvinto
all’organizzazione criminale di riferimento.
Sono ben note le ragioni di una tale generalizzazione. L’appartenenza ad
una associazione di stampo mafioso implica un’adesione stabile ad un sodalizio
criminoso, di norma fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una
fitta rete di collegamenti personali, dotato di particolare forza intimidatrice
e capace di protrarsi nel tempo (in materia cautelare, sentenze n. 48 del
2015, n. 213
del 2013, n.
57 del 2013, n.
164 e n. 231
del 2011; ordinanza
n. 136 del 2017).
Tali ragioni sono di notevolissima importanza e non si sono affatto
affievolite in progresso di tempo.
Nonostante ciò, nella fase cautelare, in presenza di gravi indizi di
colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 416-bis
cod. pen.,
la presunzione di sussistenza di esigenze cautelari è relativa, perché può
essere vinta dall’acquisizione di elementi dai quali risulti che tali esigenze
non sussistono (art. 275, comma 3, cod. proc. pen.).
Se tali esigenze tuttavia sussistono, esse si presumono – con presunzione
questa volta iuris et de iure – non fronteggiabili
con misure diverse dalla custodia in carcere (sentenza n. 265 del
2010, ordinanza
n. 136 del 2017), non solo per le peculiari connotazioni del sodalizio criminale,
ma anche perché la valutazione è svolta quasi nell’immediatezza del fatto o,
comunque, in un momento non lontano dalla sua supposta commissione.
Nella fase di esecuzione della pena, assume invece ruolo centrale il
trascorrere del tempo, che può comportare trasformazioni rilevanti, sia della
personalità del detenuto, sia del contesto esterno al carcere, ed è questa
situazione che induce a riconoscere carattere relativo alla presunzione di
pericolosità posta a base del divieto di concessione del permesso premio.
È certo possibile che il vincolo associativo permanga inalterato anche a
distanza di tempo, per le ricordate caratteristiche del sodalizio criminale in
questione, finché il soggetto non compia una scelta di radicale distacco, quale
quella che – in particolare, ma non esclusivamente, secondo la ratio stessa di
questa pronuncia – è espressa dalla collaborazione con la giustizia. Peraltro,
per i casi di dimostrati persistenti legami del detenuto con il sodalizio
criminale originario, l’ordinamento penitenziario appresta l’apposito regime di
cui all’art. 41-bis, che non è ovviamente qui in
discussione e la cui applicazione ai singoli detenuti presuppone proprio
l’attualità dei loro collegamenti con organizzazioni criminali (sentenze n. 186 del
2018 e n.
122 del 2017).
Ma, in disparte simili vicende, il decorso del tempo della esecuzione della
pena esige una valutazione in concreto, che consideri l’evoluzione della
personalità del detenuto. Ciò in forza dell’art. 27 Cost., che in sede di
esecuzione è parametro costituzionale di riferimento (a differenza di quanto
accade in sede cautelare: ordinanza n. 532
del 2002).
Inoltre, una valutazione individualizzata e attualizzata non può che
estendersi al contesto esterno al carcere, nel quale si prospetti la
possibilità di un, sia pur breve e momentaneo, reinserimento dello stesso
detenuto, potendosi ipotizzare che l’associazione criminale di originario
riferimento, ad esempio, non esista più, perché interamente sgominata o per
naturale estinzione.
Con assorbimento delle questioni di legittimità costituzionale sollevate
dalla Corte di cassazione (miranti a distinguere tra la posizione
dell’affiliato e quella del condannato per reati di "contesto mafioso”), ne
deriva perciò, in lesione dell’art. 3 Cost.,
l’irragionevolezza – nonché, anche sotto questo profilo, il contrasto con la
funzione rieducativa della pena – di una presunzione assoluta di pericolosità
sociale che, a prescindere da qualsiasi valutazione in concreto, presupponga
l’immutabilità, sia della personalità del condannato, sia del contesto esterno
di riferimento.
9.– Nel caso di specie, però, trattandosi del reato di affiliazione a una
associazione mafiosa (e dei reati a questa collegati), caratterizzato dalle
specifiche connotazioni criminologiche prima descritte, la valutazione in
concreto di accadimenti idonei a superare la presunzione dell’attualità di
collegamenti con la criminalità organizzata – da parte di tutte le autorità
coinvolte, e in primo luogo ad opera del magistrato di sorveglianza – deve
rispondere a criteri di particolare rigore, proporzionati alla forza del
vincolo imposto dal sodalizio criminale del quale si esige l’abbandono
definitivo.
Ciò giustifica che la presunzione di pericolosità sociale del detenuto che
non collabora, pur non più assoluta, sia superabile non certo in virtù della
sola regolare condotta carceraria o della mera partecipazione al percorso
rieducativo, e nemmeno in ragione di una soltanto dichiarata dissociazione, ma
soprattutto in forza dell’acquisizione di altri, congrui e specifici elementi.
Quali siano questi elementi, è la stessa evoluzione del medesimo art. 4-bis ordin. penit. a mostrare con
evidenza.
Come si è già detto (supra, punto 7.1 del
Considerato in diritto), prima dell’introduzione del decisivo requisito della
collaborazione con la giustizia, l’art. 1 del d.l. n. 152 del 1991, come
convertito, già stabiliva, per i reati della "prima fascia” (comprendenti
l’associazione di tipo mafioso, i relativi "delitti-satellite”, il sequestro di
persona a scopo di estorsione e l’associazione finalizzata al narcotraffico),
che l’accesso a taluni benefici previsti dall’ordinamento penitenziario fosse
possibile alla stregua di un parametro probatorio particolarmente elevato, cioè
solo se fossero stati acquisiti «elementi tali da escludere l’attualità di
collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva».
Era quindi disegnato, per questi reati, un sistema fondato su di «un regime
di prova rafforzata per accertare l’inesistenza di una condizione negativa» (sentenza n. 68 del
1995).
Di un tale regime, anche la versione attualmente vigente dell’art. 4-bis, ordin. penit. mantiene traccia
testuale, al comma 1-bis. Infatti, come pure si è
detto (supra, punto 7.1 del Considerato in diritto),
tale comma estende la possibilità di accesso ai benefici penitenziari ai casi
in cui un’utile collaborazione con la giustizia risulti inesigibile,
impossibile od «oggettivamente irrilevante», sempre che, in questa evenienza,
sia stata applicata al condannato taluna delle circostanze attenuanti di cui
agli artt. 62, numero 6), 114 o 116 cod. pen. Ma,
ancora, per tutte le ipotesi appena indicate occorre che «siano stati acquisiti
elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità
organizzata, terroristica o eversiva».
L’acquisizione di simili elementi appartiene, come si vede, alla stessa
logica cui è improntato l’art. 4-bis ordin. penit.
e consente alla magistratura di sorveglianza,
attraverso un efficace collegamento con tutte le autorità competenti in
materia, di svolgere d’ufficio una seria verifica non solo sulla condotta
carceraria del condannato nel corso dell’espiazione della pena, ma altresì sul
contesto sociale esterno in cui il detenuto sarebbe autorizzato a rientrare,
sia pure temporaneamente ed episodicamente (ordinanza n. 271
del 1992).
In particolare, l’art. 4-bis, comma 2, ordin. penit., prevede che, ai fini della concessione dei benefici di
cui al comma 1 (perciò, anche del permesso premio), la magistratura di
sorveglianza decide non solo sulla base delle relazioni della pertinente
autorità penitenziaria ma, altresì, delle dettagliate informazioni acquisite
per il tramite del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica
competente.
È fondamentale aggiungere che, ai sensi del comma 3-bis
del medesimo art. 4-bis, tutti i benefici in
questione, compreso il permesso premio, «non possono essere concessi» (ferma
restando l’autonomia valutativa del magistrato di sorveglianza: ex multis, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza
5 dicembre 2016, n. 51878) quando il Procuratore nazionale antimafia (oggi
anche antiterrorismo) o il Procuratore distrettuale comunica, d’iniziativa o su
segnalazione del competente comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza
pubblica, l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata.
In tale contesto, l’acquisizione di stringenti informazioni in merito
all’eventuale attualità di collegamenti con la criminalità organizzata (a
partire da quelli di natura economico-patrimoniale) non solo è criterio già
rinvenibile nell’ordinamento (sentenze n. 40 del
2019 e n.
222 del 2018) – nel caso di specie, nella stessa disposizione di cui è
questione di legittimità costituzionale (sentenza n. 236 del
2016) – ma è soprattutto criterio costituzionalmente necessario (sentenza n. 242 del
2019) per sostituire in parte qua la presunzione assoluta caducata, alla
stregua dell’esigenza di prevenzione della «commissione di nuovi reati» (sentenze n. 211 del
2018 e n.
177 del 2009) sottesa ad ogni previsione di limiti all’ottenimento di
benefici penitenziari (sentenza n. 174 del
2018).
L’acquisizione in parola è, d’altra parte, fattore imprescindibile, ma non
sufficiente.
Il regime probatorio rafforzato, qui richiesto, deve altresì estendersi
all’acquisizione di elementi che escludono non solo la permanenza di
collegamenti con la criminalità organizzata, ma altresì il pericolo di un loro
ripristino, tenuto conto delle concrete circostanze personali e ambientali. Si
tratta, del resto, di aspetto logicamente collegato al precedente, del quale
condivide il carattere necessario alla luce della Costituzione, al fine di
evitare che il già richiamato interesse alla prevenzione della commissione di
nuovi reati, tutelato dallo stesso art. 4-bis ordin. penit., finisca per essere vanificato.
Di entrambi tali elementi – esclusione sia dell’attualità di collegamenti
con la criminalità organizzata che del pericolo di un loro rispristino – grava
sullo stesso condannato che richiede il beneficio l’onere di fare specifica
allegazione (come stabilisce la costante giurisprudenza di legittimità maturata
sul comma 1-bis dell’art. 4-bis,
ordin. penit., in tema di collaborazione impossibile o inesigibile: ex plurimis, Corte di cassazione, sezione prima penale,
sentenze 13 agosto 2019, n. 36057, 8 luglio 2019, n. 29869 e 12 ottobre 2017,
n. 47044).
La magistratura di sorveglianza deciderà, sia sulla base di tali elementi,
sia delle specifiche informazioni necessariamente ricevute in materia dalle
autorità competenti, prima ricordate; con la precisazione che – fermo restando
l’essenziale rilievo della dettagliata e motivata segnalazione del Procuratore
nazionale antimafia o del Procuratore distrettuale (art. 4-bis,
comma 3-bis, ordin penit.) – se le informazioni pervenute dal comitato
provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica depongono in senso negativo,
incombe sullo stesso detenuto non il solo onere di allegazione degli elementi a
favore, ma anche quello di fornire veri e propri elementi di prova a sostegno
(in tal senso, già Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 12
maggio 1992, n. 1639).
10.– Va pertanto dichiarata, per violazione degli artt. 3 e
27, terzo comma, Cost., l’illegittimità
costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit.
nella parte in cui non prevede che – ai detenuti per i
delitti di cui all’art. 416-bis cod. pen., e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni
previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle
associazioni in esso previste – possano essere concessi permessi premio anche
in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter del medesimo ordin. penit.,
allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di
collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di
tali collegamenti.
11.– Con la presente sentenza, in relazione ai reati
indicati, è perciò sottratta all’applicazione del meccanismo "ostativo”
previsto dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit.
la disciplina relativa alla concessione del beneficio
del permesso premio, di cui all’art. 30-ter del
medesimo ordin. penit.
Ciò è conforme al perimetro delle questioni di legittimità costituzionale
sollevate dai giudici a quibus, nonché alla
connotazione peculiare del permesso premio, che lo distingue dagli altri
benefici pure elencati nella disposizione censurata.
12.– Come si è chiarito, le due ordinanze di rimessione hanno
portato all’attenzione di questa Corte i reati di criminalità organizzata di
stampo mafioso, cioè quelli che hanno costituito parte del nucleo originario
della previsione censurata.
Ma, come pure si è accennato (supra, punto 7.1
del Considerato in diritto), l’assetto delineato dai provvedimenti dei primi
anni Novanta del secolo scorso è stato progressivamente modificato, nel tempo,
da una serie di riforme, che, da un lato, hanno mutato l’architettura
complessiva dell’art. 4-bis ordin.
penit. e,
dall’altro, ne hanno ampliato progressivamente l’ambito di operatività, con
l’innesto di numerose altre fattispecie criminose nella lista dei reati
"ostativi”.
In virtù di varie scelte di politica criminale, non sempre tra loro
coordinate, accomunate da finalità di prevenzione generale e da una volontà di
inasprimento del trattamento penitenziario, in risposta ai diversi fenomeni
criminali di volta in volta emergenti, l’art. 4-bis ordin. penit.
ha così progressivamente allargato i propri confini,
finendo per contenere, attualmente, una disciplina speciale relativa, ormai, a
un «complesso, eterogeneo e stratificato elenco di reati» (sentenze n. 188 del
2019, n. 32
del 2016, n.
239 del 2014). E il comma 1 della disposizione, in particolare, presume
l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata dei condannati per
questo ampio elenco di reati, disegnando per tutti costoro un particolare
regime carcerario, che non consente in radice l’accesso ai benefici
penitenziari in assenza di collaborazione con la giustizia.
Peraltro, nella disposizione in esame, accanto ai reati tipicamente espressivi
di forme di criminalità organizzata, compaiono ora, tra gli altri, anche reati
che non hanno necessariamente a che fare con tale criminalità, ovvero che hanno
natura mono-soggettiva: infatti, nel comma 1 dell’art. 4-bis,
figurano i reati di prostituzione minorile e pornografia minorile, di violenza
sessuale di gruppo (art. 3 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11, recante
«Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza
sessuale, nonché in tema di atti persecutori», convertito, con modificazioni,
nella legge 23 aprile 2009, n. 38), di favoreggiamento dell’immigrazione
clandestina (decreto-legge 18 febbraio 2015, n. 7, recante «Misure urgenti per
il contrasto del terrorismo, anche di matrice internazionale, nonché proroga
delle missioni internazionali delle Forze armate e di polizia, iniziative di
cooperazione allo sviluppo e sostegno ai processi di ricostruzione e
partecipazione alle iniziative delle Organizzazioni internazionali per il
consolidamento dei processi di pace e di stabilizzazione», convertito, con
modificazioni, nella legge 17 aprile 2015, n. 43) e, da ultimo, anche quasi
tutti i reati contro la pubblica amministrazione (legge 9 gennaio 2019, n. 3,
recante «Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione,
nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei
partiti e movimenti politici»).
In questo contesto, l’intervento parzialmente ablatorio realizzato sui
reati di criminalità organizzata di matrice mafiosa deve riflettersi sulle
condizioni predisposte dal primo comma della norma censurata, in vista
dell’accesso al permesso premio dei condannati per tutti gli altri reati di cui
all’elenco.
Se così non fosse, deriverebbe dalla presente sentenza la creazione di una
paradossale disparità, a tutto danno dei detenuti per reati rispetto ai quali
possono essere privi di giustificazione sia il requisito (ai fini dell’accesso
ai benefici penitenziari) di una collaborazione con la giustizia, sia la
dimostrazione dell’assenza di legami con un, inesistente, sodalizio criminale
di originaria appartenenza.
Ed anzi, la mancata estensione a tutti i reati previsti dal primo comma
dell’art. 4-bis, ordin. penit. dell’intervento
compiuto dalla presente sentenza sui reati di associazione mafiosa e di
"contesto mafioso” finirebbe per compromettere la stessa coerenza intrinseca
dell’intera disciplina di risulta.
In definitiva, i profili di illegittimità costituzionale relativi al
carattere assoluto della presunzione attingono tanto la disciplina, in questa
sede censurata, applicabile ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416-bis cod. pen., e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni
previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle
associazioni in esso previste, quanto l’identica disciplina dettata dallo
stesso art. 4-bis, comma 1, ordin.
penit. per
i detenuti per gli altri delitti in esso contemplati.
Visto l’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e
sul funzionamento della Corte costituzionale), va perciò dichiarata in via
consequenziale l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis,
comma 1, della legge n. 354 del 1975, nella parte in cui non prevede che ai
detenuti per i delitti ivi contemplati, diversi da quelli di cui all’art. 416-bis cod. pen. e da quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste
dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni
in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di
collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter
del medesimo ordin. penit., allorché siano stati
acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la
criminalità organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo del
ripristino di tali collegamenti.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara l’illegittimità
costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, della legge
26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione
delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non
prevede che, ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416-bis
del codice penale e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste
dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni
in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di
collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter
del medesimo ordin. penit., allorché siano stati
acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la
criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti;
2) dichiara, in via
consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme
sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale),
l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma
1, della legge n. 354 del 1975, nella parte in cui non prevede che ai detenuti
per i delitti ivi contemplati, diversi da quelli di cui all’art. 416-bis cod. pen. e da quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste
dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni
in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di
collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter
del medesimo ordin. penit., allorché siano stati
acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la
criminalità organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo del
ripristino di tali collegamenti.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della
Consulta, il 23 ottobre 2019.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Nicolò ZANON, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 4 dicembre 2019.
Allegato:
Ordinanza letta
all'udienza del 22 ottobre 2019