SENTENZA N. 222
ANNO 2018
Commento
alla decisione di
Alessandra
Galluccio
per g.c. di Diritto Penale Contemporaneo
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Giorgio LATTANZI
Presidente
- Aldo CAROSI
Giudice
- Marta CARTABIA ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giovanni AMOROSO ”
- Francesco VIGANÒ ”
- Luca ANTONINI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità
costituzionale degli artt.
216, ultimo comma, e 223, ultimo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267
(Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione
controllata e della liquidazione coatta amministrativa), promosso dalla
Corte di cassazione, prima sezione penale, nel procedimento penale a carico di
C. G. e altri, con ordinanza
del 17 novembre 2017, iscritta al n. 37 del registro ordinanze 2018 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie
speciale, dell’anno 2018.
Visti gli atti di costituzione di
C. G., R. M., R. T., A. M., E. F., M. A. e quello, fuori termine, di A. M.,
parte civile nel giudizio a quo, nonché l’atto di intervento del Presidente del
Consiglio dei ministri;
udito nella udienza pubblica del 25 settembre 2018 il Giudice relatore Francesco
Viganò;
uditi gli avvocati Valerio Onida, Barbara Randazzo e
Andrea Manzi per M. A., Ennio Amodio per C. G., Alessandro Diddi
per A. M. e E. F., Gianluca De Fazio per A. M.,
Nicola Apa per R. M., Marcello Bana e Elisabetta Busuito per R. T. e l’avvocato dello Stato Maurizio Greco
per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 17
novembre 2017 la Corte di cassazione, prima sezione penale, ha sollevato, in
riferimento agli artt. 3, 4, 41, 27 e 117, primo comma, della Costituzione,
quest’ultimo in relazione agli artt. 8 della Convenzione per la salvaguardia
dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4
novembre 1950, e 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione, fatto a Parigi
il 20 marzo 1952, entrambi ratificati e resi esecutivi con la legge 4 agosto
1955, n. 848, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 216, ultimo
comma, e 223, ultimo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, recante
«Disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione
coatta amministrativa» (d’ora in poi, anche: legge fallimentare), «nella parte
in cui prevedono che alla condanna per uno dei fatti previsti in detti articoli
conseguono obbligatoriamente, per la durata di dieci anni, le pene accessorie
della inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e della
incapacità di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa».
2.– La Corte di cassazione, prima sezione
penale, premette di essere investita del ricorso, proposto dagli imputati in
uno dei procedimenti penali scaturiti dal tracollo del gruppo Parmalat, avverso
la sentenza della Corte d’appello di Bologna che, statuendo in sede di rinvio,
aveva condannato gli imputati stessi alle pene ritenute di giustizia per una
pluralità di fatti integranti i delitti di bancarotta impropria semplice e
fraudolenta. In particolare, la Corte territoriale aveva condannato tutti gli
imputati, oltre che alle pene detentive per ciascuno individualmente
commisurate, alle pene accessorie dell’inabilitazione all’esercizio di una
impresa commerciale e dell’incapacità di esercitare uffici direttivi presso
qualsiasi impresa per la durata indifferenziata di dieci anni, tali pene
accessorie essendo previste dal combinato disposto degli artt. 216, ultimo
comma, e 223, ultimo comma, della legge fallimentare come conseguenza
automatica della condanna per qualsiasi fatto di bancarotta impropria
fraudolenta.
La rimettente dubita,
tuttavia, della legittimità costituzionale di tale automatismo sanzionatorio.
2.1.– Espone, anzitutto, il giudice a quo che i
difensori di taluni degli imputati avevano già formulato, nei precedenti gradi
di giudizio, l’eccezione di illegittimità costituzionale delle disposizioni in
questa sede censurate.
Con sentenza 5 dicembre
2014, n. 15613, la quinta sezione penale della Corte di cassazione,
pronunciandosi sul ricorso degli imputati avverso la sentenza di condanna
emessa nei loro confronti dalla Corte d’appello di Bologna, aveva tuttavia
ritenuto inammissibile tale eccezione, sulla scorta della sentenza n. 134 del
2012 di questa Corte, che, investita di analoga questione, l’aveva
giudicata inammissibile in quanto relativa a materia riservata alla
discrezionalità del legislatore.
Avendo la quinta sezione
della Corte di cassazione parzialmente annullato la sentenza impugnata, con rinvio
ad altra sezione della Corte d’appello di Bologna per un nuovo esame dei capi
annullati nonché per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio laddove
necessario, l’eccezione di illegittimità costituzionale veniva riproposta dai
difensori avanti al giudice del rinvio.
Anche la Corte d’appello di
Bologna, statuendo in sede di rinvio, giudicava però inammissibile tale
eccezione, ritenendosi vincolata alla previa statuizione di inammissibilità
della quinta sezione penale della Corte di cassazione, in forza del principio
secondo cui il giudice del rinvio avrebbe l’obbligo di uniformarsi alla
decisione rescindente per ogni questione di diritto da essa decisa; e
aggiungeva che tale questione doveva comunque ritenersi manifestamente
infondata, anche con riferimento ai parametri non espressamente invocati dalle
difese nel previo giudizio di cassazione. Nel merito, la Corte d’appello
statuiva sui residui capi oggetto del rinvio e provvedeva a rideterminare le
pene degli imputati, confermando però per ciascuno di essi le pene accessorie
in parola per la durata legale di dieci anni.
L’eccezione di
illegittimità costituzionale era stata quindi riproposta da vari difensori di
fronte alla prima sezione penale della Corte di cassazione, chiamata a
giudicare sui ricorsi contro le condanne pronunciate in sede di rinvio.
2.2.– La prima sezione penale, con l’ordinanza che
dà origine al presente incidente di costituzionalità, ritiene la questione
ammissibile e non manifestamente infondata.
2.3.– Sotto il profilo della
rilevanza, il collegio rimettente osserva che la questione non può ritenersi
riferita a situazione esaurita, perché – in seguito al precedente annullamento
delle condanne pronunciate nei primi due gradi di giudizio – le disposizioni
censurate dovevano ancora trovare applicazione da parte del giudice del rinvio,
al quale la quinta sezione penale della Corte di cassazione aveva per l’appunto
prescritto di rideterminare il trattamento sanzionatorio (comprensivo anche
delle pene accessorie), laddove ciò si fosse reso necessario in conseguenza
delle nuove valutazioni demandate al medesimo giudice del rinvio sui capi
annullati della precedente sentenza di condanna.
2.4.– Sotto il profilo della non manifesta
infondatezza del dubbio di legittimità costituzionale, la rimettente rammenta
anzitutto come sull’esatta portata delle disposizioni censurate si sia
sviluppato, in passato, un contrasto presso la giurisprudenza di legittimità.
Secondo un primo e
maggioritario indirizzo, la durata delle pene accessorie previste dagli artt.
216, ultimo comma, e 223, ultimo comma, della legge fallimentare dovrebbe
intendersi come inderogabilmente fissata nella misura di dieci anni, in
conformità del resto al chiaro tenore letterale delle disposizioni in
questione.
Secondo altro e minoritario
indirizzo, dichiaratamente ispirato ad un’esigenza di interpretazione conforme
a Costituzione delle disposizioni menzionate, anche le pene accessorie in
parola non si sottrarrebbero alla regola generale di cui all’art. 37 del codice
penale, a tenore del quale, laddove la durata della pena accessoria non sia
espressamente determinata, essa ha una durata eguale a quella della pena
principale inflitta, entro il limite minimo e il limite massimo fissato per
ciascuna pena accessoria.
Questo secondo indirizzo
risulta, peraltro, oggi del tutto abbandonato dalla stessa giurisprudenza di
legittimità, essendosi tra l’altro ritenuto che la sentenza n. 134 del
2012 di questa Corte abbia almeno implicitamente confermato la correttezza
dell’interpretazione recepita dall’ordinamento maggioritario.
Ad avviso della rimettente,
tuttavia, la durata fissa della pena accessoria derivante dalle disposizioni
censurate, così come interpretate dall’ormai univoco diritto vivente,
contrasterebbe con il principio della "mobilità” della pena, e cioè con la sua
tendenziale predeterminazione tra un minimo e un massimo; principio che
costituirebbe corollario, da un lato, del principio di eguaglianza di cui
all’art. 3 Cost., per la necessità di proporzionare
la pena all’effettiva entità ed alle specifiche esigenze dei singoli casi, e,
dall’altro, del principio di legalità, di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., che «dà forma ad un sistema che trae contenuti ed
orientamenti da altri principi sostanziali – come quelli indicati dall’art. 27,
primo e terzo comma, Cost. – ed in cui "l’attuazione
di una riparatrice giustizia retributiva esige la differenziazione più che
l’unità” (sentenza
n. 104 del 1968)» (è citata la sentenza n. 50 del
1980).
La durata invariabile delle
pene accessorie previste dalle disposizioni impugnate, che si risolvono in una
«incisiva ma anelastica limitazione di beni di rilevanza costituzionale, quali
la libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41, il diritto al lavoro di
cui all’art. 35, le finalità rieducative della pena di cui all’art. 27, secondo
[recte: terzo] comma, Cost.,
indipendentemente dall’entità della pena principale irrogata – che per la
bancarotta fraudolenta può essere pari al minimo edittale di anni tre, o
nettamente inferiore per effetto di circostanze attenuanti e del ricorso a riti
alternativi –», non sarebbe dunque in sintonia con i parametri costituzionali
evocati, negando ogni spazio alla discrezionalità del giudice, necessaria al
fine di «permettere l’adeguamento della risposta punitiva alle singole
fattispecie concrete» e al loro individuale disvalore oggettivo e soggettivo.
La disciplina legislativa
censurata violerebbe, d’altra parte, anche l’art. 4 Cost., risolvendosi in una
«ingiustificata, indiscriminata incidenza sulla possibilità dell’interessato di
esercitare il suo diritto al lavoro, non soltanto come fonte di sostentamento
ma anche come strumento di sviluppo della sua personalità»; e susciterebbe
dubbi di conformità a Costituzione anche con riferimento all’art. 117 Cost., in relazione agli artt. 8 CEDU
e 1 Prot. add.
CEDU, alla luce della giurisprudenza di Strasburgo, secondo la quale «le
limitazioni derivanti dall’applicazione della pena accessoria devono
considerarsi quali ingerenze nel godimento del diritto al rispetto della vita
privata e, come tali, non soltanto devono essere previste dalla legge e debbono
perseguire uno scopo legittimo, ma devono essere proporzionate rispetto a detto
scopo, comportando la violazione del divieto di discriminazione nel godimento
del diritto al rispetto della vita familiare oltre che una ingerenza nel
godimento del diritto di proprietà» (è richiamata la sentenza della Corte europea
dei diritti dell’uomo, terza sezione, del 23 marzo 2006, Vitiello c. Italia).
Secondo la sezione
rimettente, gli evidenziati profili di frizione con i principi costituzionali
potrebbero «in larga parte» essere superati «ove, eliminandosi il riferimento
alla misura fissa di dieci anni, rivivesse la regola generale di cui all’art.
37 cod. pen., così consentendosi al giudice di rideterminare la durata
della pena accessoria in collegamento con la pena principale inflitta e,
quindi, in base a valutazioni di gravità del fatto concreto».
3.– È intervenuto nel giudizio il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello
Stato, che ha concluso chiedendo dichiararsi inammissibili e, comunque,
infondate le questioni.
3.1.– Secondo l’Avvocatura generale dello Stato,
le questioni sarebbero inammissibili sotto tre distinti profili.
Anzitutto, con la
precedente sentenza di annullamento con rinvio pronunciata dalla prima sezione
penale, la Corte di cassazione si sarebbe «autovincolata»
ad un principio di diritto incompatibile con i prospettati dubbi di legittimità
costituzionale.
In secondo luogo, la
sollecitazione al legislatore, contenuta nella sentenza di questa Corte n. 134 del 2012,
a por mano ad una riforma del sistema delle pene accessorie, che lo renda
pienamente compatibile con i principi della Costituzione, ed in particolare con
l’art. 27, terzo comma, Cost., sarebbe stata ormai
accolta dal legislatore, il quale, all’art. 1, comma 85, lettera u), della
legge 23 giugno 2017, n. 103 (Modifiche al codice penale, al codice di
procedura penale e all’ordinamento penitenziario), ha delegato il Governo alla
«revisione del sistema delle pene accessorie improntata al principio della
rimozione degli ostacoli al reinserimento sociale del condannato», con
indicazione relativa all’espressa «esclusione di una loro durata superiore alla
durata della pena principale». Alla luce di tale intervento normativo, ad
avviso dell’Avvocatura dello Stato le questioni sarebbero inammissibili,
essendo ormai prive di rilevanza.
Infine, l’Avvocatura dello
Stato evidenzia come le questioni ora all’esame presentino «la medesima causa petendi ed il medesimo petitum di
quella già decisa con sentenza n. 134»
del 2012, con cui questa Corte affermò che «l’addizione normativa richiesta
dai giudici a quibus eccede i poteri di intervento
della Corte, implicando scelte affidate alla discrezionalità del legislatore»,
con conseguente statuizione di inammissibilità della questione. Identica
statuizione, ad avviso della difesa erariale, dovrebbe essere adottata con
riferimento alle odierne questioni, stante la molteplicità delle soluzioni che
potrebbero essere adottate al fine di eliminare i dedotti vizi di illegittimità
costituzionale.
3.2.– Nel merito, l’Avvocatura generale dello
Stato ritiene comunque infondate le questioni, in ragione anzitutto del
«diverso "bene giuridico” protetto dalle pene accessorie» rispetto a quello
protetto dalle pene principali. Le prime, più in particolare, sarebbero
essenzialmente funzionali alla funzione specialpreventiva
di «protezione dell’agire commerciale», mirando ad assicurare che la «gestione
del mercato e dei traffici commerciali [sia] affidata a soggetti/imprenditori
che seguano e rispettino regole di primaria correttezza»; il che
giustificherebbe una durata fissa decennale della pena accessoria che qui viene
in considerazione, eventualmente superiore a quella della pena principale
inflitta.
In secondo luogo, osserva
l’Avvocatura generale dello Stato che la scelta sottesa alle disposizioni
censurate di determinare in maniera fissa le pene accessorie sia «chiaramente
riconducibile alla volontà legislativa di collegare quest’ultime non tanto alla
modalità di commissione del reato, quanto alla mera condanna per il reato di
bancarotta». La disciplina delle pene principali e delle pene accessorie per il
delitto di bancarotta sarebbe stata insomma «volutamente diversificata dal legislatore»,
ciò che di per sé dimostrerebbe – nella prospettazione della difesa erariale –
l’infondatezza dei dubbi di costituzionalità prospettati.
Infine, sostiene
l’Avvocatura generale dello Stato che la previsione della durata fissa di dieci
anni delle pene accessorie di cui oggi si discute sarebbe «pienamente conforme
all’impianto complessivo del nostro sistema penale, il quale prevede altre pene
accessorie aventi durata predeterminata addirittura "perpetua”», come nel caso
previsto dall’art. 29 cod. pen.
4.– Tutti gli imputati nel giudizio a quo si
sono costituiti nel presente giudizio incidentale, riproponendo gli argomenti
sviluppati nell’ordinanza di rimessione e concludendo nel senso della
fondatezza della questione di legittimità costituzionale ivi proposta.
Particolarmente ampie e
articolate sono, peraltro, le deduzioni della parte M. A., a parere della quale
la questione di legittimità costituzionale all’esame investirebbe tre diversi
profili: a) l’automatismo nell’applicazione della pena accessoria, che segue
necessariamente a qualunque condanna per fatti di bancarotta fraudolenta,
indipendentemente dalla concreta gravità delle condotte ascritte all’imputato,
nonché della distanza temporale fra il momento in cui tali condotte si siano
verificate e il momento in cui, in esito al giudizio, la pena sia irrogata in
via definitiva; b) l’inusitata ampiezza delle limitazioni che discendono
dall’operare della pena accessoria, che – incidendo in senso fortemente
limitativo sulla possibilità dell’interessato di esercitare il suo diritto al
lavoro – importerebbe una «drastica e non proporzionata compressione del
diritto di iniziativa economica esercitabile anche attraverso l’attività di
impresa»; nonché c) la fissità della durata della pena accessoria, pari
indefettibilmente a dieci anni, indipendentemente dall’entità della pena
principale ritenuta congrua nel caso concreto.
Sotto il primo profilo, il
carattere automatico e indefettibile della pena accessoria, precludendo al
giudice di apprezzare in concreto l’esistenza delle ragioni giustificatrici
della sua applicazione, contrasterebbe in particolare con le numerose sentenze
con cui questa Corte ha caducato automatismi legislativi in relazione
all’applicazione automatica di pene accessorie, come la decadenza dalla potestà
genitoriale (sono richiamate le sentenze n. 7 del 2013 e
n. 31 del 2012)
o la revoca della patente di guida (è richiamata la sentenza n. 22 del
2018), in applicazione dei criteri di «adeguatezza e proporzionalità della
pena ai fatti di reato, di individualizzazione del trattamento penale in
rapporto alla personalità del reo, di idoneità dell’esecuzione della pena a
svolgere la finalità rieducativa, oltre che di soddisfare ad una reale finalità
di prevenzione speciale». Nella medesima direzione spingerebbe, d’altra parte,
la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha più volte
dichiarato contrarie alla CEDU sanzioni accessorie o comunque misure limitative
di diritti che discendono automaticamente da una condanna penale, senza una
verifica giurisdizionale nel caso concreto sull’effettiva necessità di tali
sanzioni o misure.
Sotto il secondo profilo,
le pene accessorie in esame sarebbero sproporzionate in ragione della loro
portata «estremamente ampia» e «praticamente […] onnicomprensiva, volta ad
impedire lo svolgimento di qualunque attività economica in proprio e, in ogni
caso, in posizioni direttive», sì da incidere in definitiva non solo sul
diritto al lavoro, ma anche «sulla vita e sulla stessa identità del condannato,
operando alla stregua di una sorte di "morte professionale”». Ciò
determinerebbe un ulteriore profilo di irragionevolezza, nonché di
illegittimità alla luce dei parametri convenzionali, delle disposizioni in
questione.
Sotto il terzo profilo,
infine, le disposizioni censurate contrasterebbero con il principio di
proporzionalità della pena, così come enucleato dalla costante giurisprudenza
di questa Corte a partire dalla sentenza n. 26 del
1979 e recentemente riaffermato dalla sentenza n. 236 del
2016; nonché con il principio di necessaria individualizzazione della pena,
che esige l’adeguamento delle risposte punitive ai casi concreti, e che si
oppone in linea di principio a previsioni sanzionatorie rigide, a meno che la
sanzione «appaia ragionevolmente "proporzionata” rispetto all’intera gamma di
comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato» (sentenza n. 50 del
1980). Il che non sarebbe nel caso ora oggetto di esame, ove la pena interdittiva prevista dalle disposizioni censurate «si
applica in maniera fissa in relazione a condanne per i fatti più diversi, di
diversa gravità, imputati a soggetti con diverse caratteristiche».
5.– Si è, inoltre, costituito fuori termine A.
M., parte civile nel giudizio a quo.
6.– Nell’imminenza dell’udienza, tutte le parti
costituite hanno depositato memorie in cui ribadiscono le conclusioni già
formulate nei precedenti atti del giudizio.
Nella propria memoria, la
parte M. A. – dopo avere confutato le eccezioni spiegate dall’Avvocatura
generale dello Stato – richiama in particolare l’attenzione su una recente
sentenza della quinta sezione penale della Corte di cassazione, la quale, dopo
essersi interrogata d’ufficio sulla costituzionalità delle disposizioni qui
all’esame, ha concluso nel senso della manifesta infondatezza della questione
in quanto già risolta negativamente da questa Corte con la sentenza n. 134 del
2012, nonché in ragione degli ampi poteri discrezionali del giudice nella
commisurazione del trattamento sanzionatorio complessivamente considerato
discendente da una condanna per bancarotta fraudolenta, semplice o societaria
(Corte di cassazione, quinta sezione penale, sentenza 6 luglio 2018, n. 33880):
sentenza i cui argomenti la difesa di M. A. sottopone, parimenti, ad analitica
confutazione.
Considerato in diritto
1.– La Corte di cassazione,
prima sezione penale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 4, 41, 27 e
117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8
della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, e 1 del Protocollo
addizionale alla Convenzione, fatto a Parigi il 20 marzo 1952, entrambi
ratificati e resi esecutivi con la legge 4 agosto 1955, n. 848, questioni di
legittimità costituzionale degli artt. 216, ultimo comma, e 223, ultimo comma,
del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, recante «Disciplina del fallimento,
del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa» (d’ora in
poi, anche: legge fallimentare), «nella parte in cui prevedono che alla
condanna per uno dei fatti previsti in detti articoli conseguono
obbligatoriamente, per la durata di dieci anni, le pene accessorie della
inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e della incapacità di
esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa».
Le questioni sono state
sollevate nell’ambito del giudizio di cassazione avente ad oggetto la sentenza
con la quale la Corte d’appello di Bologna, in sede di rinvio dopo un
precedente annullamento da parte della quinta sezione penale della Corte di
cassazione, aveva confermato la condanna di numerosi imputati per una pluralità
di delitti di bancarotta impropria fraudolenta e semplice, variamente connessi
alla vicenda del tracollo del gruppo Parmalat, reiterando – in particolare – la
condanna di tutti gli imputati alle menzionate pene accessorie per la durata
legale di dieci anni già disposta nei precedenti gradi di giudizio.
2.– Deve, preliminarmente, dichiararsi
l’inammissibilità della costituzione in giudizio della parte civile A. M., in
quanto avvenuta oltre il termine perentorio, stabilito dall’art. 25 della legge
11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte
costituzionale) e dall’art. 3 delle Norme integrative per i giudizi davanti
alla Corte costituzionale, di venti giorni dalla pubblicazione nella Gazzetta
Ufficiale dell’atto introduttivo del giudizio.
3.– L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce,
anzitutto, che la Corte di cassazione si sarebbe «autovincolata»,
mediante la precedente sentenza di annullamento della quinta sezione penale, ad
un principio di diritto incompatibile con le questioni ora prospettate dalla
prima sezione, le quali risulterebbero per tale ragione inammissibili.
L’eccezione è infondata.
È infatti pacifico che la
precedente statuizione di altro collegio giudicante circa l’irrilevanza o la
manifesta infondatezza di una questione di legittimità prospettata dalle parti
non impedisce a un giudice che intervenga successivamente nel medesimo processo
di considerare, all’opposto, rilevante e non manifestamente infondata la
medesima questione. Ciò vale, come questa Corte ha più volte affermato, anche
rispetto al giudice del rinvio, che è certamente vincolato ai principi di
diritto formulati nella sentenza di annullamento, ma conserva pur sempre il
potere di sottoporre a questa Corte gli eventuali dubbi di legittimità
costituzionale che egli nutra nei confronti delle disposizioni che è tenuto ad
applicare nel giudizio di rinvio, in forza delle indicazioni della sentenza di
annullamento (ex plurimis, sentenze n. 270 del 2014,
n. 293 del 2013,
n. 305 del 2008;
ordinanza n. 118
del 2016); principio, questo, che non può non valere anche per la sezione
della Corte di cassazione che sia chiamata, a sua volta, a scrutinare la
legittimità della sentenza pronunciata in sede di rinvio.
Le disposizioni in questa
sede censurate, d’altra parte, dovevano trovare ancora applicazione nel
giudizio di rinvio, dal momento che – secondo quanto riferito dalla stessa
ordinanza di rimessione – la sentenza della quinta sezione penale, dopo avere
annullato parzialmente le condanne degli imputati pronunciate in primo e in
secondo grado, aveva demandato espressamente al giudice del rinvio il compito
di rideterminare il trattamento sanzionatorio, ove necessario, in conseguenza
dell’annullamento di alcuni capi delle precedenti sentenze di condanna. Tale
rideterminazione era stata poi puntualmente operata dalla sentenza della Corte
d’appello di Bologna in sede di rinvio, che aveva commisurato nuovamente i
complessivi trattamenti sanzionatori per ciascun imputato, confermando nei
confronti di ciascuno le pene accessorie previste dalle disposizioni censurate:
facendo, così, nuovamente applicazione di tali disposizioni nel giudizio di
rinvio.
Correttamente, dunque, la
sezione rimettente – investita dei ricorsi degli imputati aventi ad oggetto
anche le statuizioni sulle pene accessorie – ritiene le questioni di
legittimità costituzionale prospettate tuttora rilevanti nel giudizio a quo.
4.– L’Avvocatura generale
dello Stato eccepisce, in secondo luogo, che le questioni prospettate sarebbero
divenute irrilevanti in seguito all’entrata in vigore della legge 23 giugno
2017, n. 103 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e
all’ordinamento penitenziario), che ha delegato il legislatore ad una
complessiva riforma del sistema delle pene accessorie improntata al «principio
della rimozione degli ostacoli al reinserimento sociale del condannato» e alla
«esclusione di una loro durata superiore alla durata della pena principale».
L’eccezione – funzionale
per la verità a una possibile restituzione degli atti per esame dello ius superveniens, più che a una
pronuncia di inammissibilità – è anch’essa infondata, perché il Governo non ha
provveduto a esercitare la delega in parte qua, sicché la disciplina in questa
sede censurata è rimasta immutata ed è tuttora in vigore.
5.– L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce,
infine, che le presenti questioni dovrebbero essere considerate inammissibili
per le medesime ragioni che già avevano condotto questa Corte, con la sentenza n. 134 del
2012, a dichiarare inammissibile un’analoga questione formulata sulle
disposizioni qui censurate.
L’eccezione attiene, più in
particolare, ai limiti dei poteri di questa Corte, nell’ipotesi in cui accerti
che la disposizione censurata arrechi un vulnus ai principi costituzionali, ma
non esista un’unica soluzione costituzionalmente obbligata conseguente
all’eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione
medesima.
Ragioni di ordine
nell’esposizione suggeriscono di riservare l’esame di questa eccezione dopo che
siano stati vagliati i profili di fondatezza nel merito delle questioni ora
sollevate.
6.– Preliminare all’esame nel merito delle
censure prospettate è, ancora, l’esatta delimitazione del petitum
delle presenti questioni, così come sottoposte a questa Corte dal giudice
rimettente.
La difesa della parte M. A.
ha infatti svolto, nei propri atti difensivi e in udienza, articolate deduzioni
su tre distinti profili di illegittimità costituzionale delle norme censurate,
che dovrebbero considerarsi impliciti nelle questioni sottoposte a questa Corte
dalla sezione rimettente: una prima questione concernente l’automatismo e
l’indefettibilità dell’inflizione delle pene accessorie previste dalle
disposizioni censurate, e dunque – per così dire – relativa all’an
della loro applicazione nel caso concreto; una seconda, incentrata
sull’ampiezza delle limitazioni ai diritti del condannato discendenti dalle
pene accessorie stesse, e dunque relativa al quomodo
delle sanzioni in parola; e una terza questione, riguardante invece la fissità
della durata, pari a dieci anni, delle pene medesime, e dunque relativa al loro
quantum.
Un’interpretazione
letterale del dispositivo dell’ordinanza di rimessione – che censura le due
disposizioni «nella parte in cui prevedono che alla condanna per uno dei fatti
previsti in detti articoli conseguono obbligatoriamente, per la durata di dieci
anni, le pene accessorie» indicate dalle disposizioni medesime – parrebbe
confortare la lettura della parte M. A., quanto meno con i riferimento ai
profili dell’an e del quantum delle pene accessorie
in parola; di talché la cognizione di questa Corte dovrebbe estendersi alla
verifica non solo della compatibilità con i parametri costituzionali invocati
della durata fissa di dieci anni delle pene accessorie de quibus,
ma anche dell’obbligatorietà della loro applicazione in ogni caso di condanna
dell’imputato per un fatto di bancarotta fraudolenta, propria o societaria.
L’esame della densa
motivazione dell’ordinanza di rimessione evidenzia, tuttavia, come l’attenzione
della sezione rimettente si sia pressoché esclusivamente focalizzata sul
carattere fisso della durata decennale delle pene accessorie, che impedirebbe
al giudice una loro determinazione in misura adeguata alle peculiarità del caso
concreto. Il distinto profilo del loro automatismo in conseguenza della
condanna (che era invece venuto in considerazione nelle sentenze n. 7 del 2013 e
n. 31 del 2012,
nonché nella recentissima sentenza n. 22 del
2018, tutte invocate dalla parte M. A.) è, invero, menzionato in un fugace passaggio
nella parte conclusiva della motivazione dell’ordinanza di rimessione, nel
quale si fa cenno a un preteso contrasto di tale automatismo con la
giurisprudenza rilevante della Corte europea dei diritti dell’uomo; ma non è
oggetto di alcuno speciale vaglio critico nel contesto generale
dell’argomentazione, che neppure si sofferma sulla ipotetica eccessiva
estensione delle limitazioni ai diritti del condannato discendenti
dall’esecuzione delle pene medesime.
Nello stesso senso depone,
del resto, il passaggio argomentativo nel quale la sezione rimettente osserva
che l’esigenza di un’articolazione legale del sistema sanzionatorio, che
dovrebbe rendere possibile un «adeguamento individualizzato, proporzionale,
delle pene inflitte con le sentenze di condanna, potrebbe […] in larga parte
essere soddisfatta ove, eliminandosi il riferimento alla misura fissa di dieci
anni, rivivesse la regola generale di cui all’art. 37 cod. pen.,
così consentendosi al giudice di determinare la durata della pena accessoria in
collegamento con la pena principale inflitta e, quindi, in base a valutazioni
di gravità del fatto concreto». È evidente, infatti, che il rimedio suggerito
dalla rimettente lascerebbe intatto l’automatismo insito nell’applicazione
delle pene accessorie in esame in conseguenza della condanna dell’imputato per
bancarotta fraudolenta, propria o societaria; e, comunque, non inciderebbe in
alcun modo sul contenuto delle pene accessorie medesime.
Alla luce – allora – del
complessivo impianto motivazionale dell’ordinanza, lo stesso riferimento
all’obbligatorietà delle pene accessorie, contenuto nel dispositivo
dell’ordinanza di rimessione, non può che intendersi come riferito
esclusivamente al carattere, appunto, obbligatorio della loro durata decennale,
e non già all’obbligatorietà della loro applicazione nel caso concreto.
Dal momento che il
perimetro della questione di legittimità costituzionale è, ai sensi dell’art.
27 della legge n. 87 del 1953, unicamente definito dall’ordinanza di rimessione
(ex multis, sentenza n. 327 del
2010), l’esame della Corte dovrà, dunque, essere confinato al solo profilo
concernente la durata fissa di dieci anni delle pene accessorie previste dalle
disposizioni censurate.
7.– La durata fissa delle pene accessorie
previste dall’art. 216, ultimo comma, della legge fallimentare non appare, in
linea di principio, compatibile con i principi costituzionali in materia di
pena, e segnatamente con i principi di proporzionalità e necessaria
individualizzazione del trattamento sanzionatorio.
7.1.– Secondo la costante
giurisprudenza di questa Corte, la determinazione del trattamento sanzionatorio
per i fatti previsti come reato è riservato alla discrezionalità del
legislatore, in conformità a quanto stabilito dall’art. 25, secondo comma, Cost.; tuttavia, tale discrezionalità incontra il proprio
limite nella manifesta irragionevolezza delle scelte legislative, limite che –
in subiecta materia – è superato allorché le pene comminate appaiano
manifestamente sproporzionate rispetto alla gravità del fatto previsto quale
reato. In tal caso, si profila infatti una violazione congiunta degli artt. 3 e
27 Cost., giacché una pena non proporzionata alla
gravità del fatto (e non percepita come tale dal condannato) si risolve in un
ostacolo alla sua funzione rieducativa (ex multis,
sentenze n. 236
del 2016, n.
68 del 2012 e n.
341 del 1994).
Affinché poi la pena
inflitta al singolo condannato non risulti sproporzionata in relazione alla
concreta gravità, oggettiva e soggettiva, del fatto da lui commesso, il
legislatore stabilisce normalmente che la pena debba essere commisurata dal
giudice tra un minimo e un massimo, tenendo conto in particolare della vasta
gamma di circostanze indicate negli artt. 133 e 133-bis cod. pen., in modo da assicurare altresì che la pena appaia una
risposta – oltre che non sproporzionata – il più possibile "individualizzata”,
e dunque calibrata sulla situazione del singolo condannato, in attuazione del
mandato costituzionale di "personalità” della responsabilità penale di cui
all’art. 27, primo comma, Cost.
L’esigenza di «mobilità» (sentenza n. 67 del
1963), o «individualizzazione» (sentenza n. 104 del
1968), della pena – e la conseguente attribuzione al giudice, nella sua
determinazione in concreto, di una certa discrezionalità nella commisurazione
tra il minimo e il massimo previsti dalla legge – costituisce secondo questa
Corte «naturale attuazione e sviluppo di principi costituzionali, tanto di
ordine generale (principio d’uguaglianza) quanto attinenti direttamente alla
materia penale» (sentenza
n. 50 del 1980), rispetto ai quali «l’attuazione di una riparatrice
giustizia distributiva esige la differenziazione più che l’uniformità» (così,
ancora, la sentenza
n. 104 del 1968). Con la rilevante conseguenza, espressamente tratta dalla
citata sentenza
n. 50 del 1980, che «[i]n linea di principio, previsioni sanzionatorie
rigide non appaiono in linea con il "volto costituzionale” del sistema penale;
ed il dubbio d’illegittimità costituzionale potrà essere, caso per caso,
superato a condizione che, per la natura dell’illecito sanzionato e per la
misura della sanzione prevista, quest’ultima appaia ragionevolmente
"proporzionata” rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo
specifico tipo di reato».
Come è stato osservato a
commento della sentenza
n. 50 del 1980: se la "regola” è rappresentata dalla "discrezionalità”,
ogni fattispecie sanzionata con pena fissa (qualunque ne sia la specie) è per
ciò solo "indiziata” di illegittimità; e tale indizio potrà essere smentito
soltanto in seguito a un controllo strutturale della fattispecie di reato che
viene in considerazione, attraverso la puntuale dimostrazione che la peculiare
struttura della fattispecie la renda "proporzionata” all’intera gamma dei
comportamenti tipizzati. Così come, peraltro, avvenne nel caso della
disposizione scrutinata nella sentenza n. 50 del
1980.
7.2.– È alla luce di tali, pacifici, principi che
deve essere vagliata la questione di legittimità costituzionale avente ad
oggetto l’art. 216, ultimo comma, della legge fallimentare.
Come condivisibilmente
rilevano l’ordinanza di rimessione e tutte le parti tempestivamente costituite,
le pene accessorie temporanee previste dalla disposizione censurata incidono in
senso fortemente limitativo su una vasta gamma di diritti fondamentali del
condannato, riducendo drasticamente la sua possibilità di esercitare attività
lavorative per un arco temporale di dieci anni, destinati a decorrere – in
forza dell’art. 139 cod. pen. – dopo l’integrale
esecuzione della pena detentiva (la quale, a sua volta, potrebbe avere luogo
molti anni dopo la commissione del fatto di reato).
Ed anzi, dal momento che
l’esecuzione della pena della reclusione sino a quattro anni può essere
integralmente sostituita, su istanza dal condannato, dal suo affidamento in
prova al servizio sociale, rispetto a molti condannati per bancarotta
fraudolenta le pene accessorie previste dalla disposizione censurata finiscono
per rappresentare le sanzioni in concreto più afflittive alle quali essi
soggiacciono in conseguenza della condanna.
Conseguenze sanzionatorie
così severe certamente si lasciano legittimare, al metro del principio di
proporzionalità della pena, in relazione alle ipotesi più gravi di bancarotta
fraudolenta, propria e societaria, che è delitto punibile – non a caso – con la
reclusione sino a dieci anni, aumentabili di un terzo o addirittura della metà
nei casi previsti dai primi due commi dell’art. 219 della legge fallimentare.
Tuttavia, una durata fissa
di dieci anni delle pene accessorie in questione non può ritenersi
«ragionevolmente "proporzionata” rispetto all’intera gamma di comportamenti
riconducibili allo specifico tipo di reato», in base al poc’anzi menzionato
test enunciato dalla sentenza n. 50 del
1980.
Anzitutto, l’art. 216 della
legge fallimentare (richiamato, nel suo contenuto precettivo, dall’art. 223,
primo comma, della medesima legge) raggruppa una pluralità di fattispecie che,
già a livello astratto, sono connotate da ben diverso disvalore, come
dimostrano i relativi quadri sanzionatori previsti dal legislatore: reclusione
da tre a dieci anni per i fatti previsti dal primo e secondo comma; reclusione
da uno a cinque anni per gli assai meno gravi fatti (di bancarotta cosiddetta
preferenziale) previsti dal terzo comma.
Ma anche all’interno delle
singole figure di reato previste in astratto da ciascun comma, nonché di quelle
previste dall’art. 223, secondo comma, della legge fallimentare, la gravità dei
fatti concreti ad esse riconducibili può essere marcatamente differente, in
relazione se non altro alla gravità del pericolo di frustrazione delle ragioni
creditorie (in termini sia di probabilità di verificazione del danno, sia di
entità del danno medesimo, anche in termini di numero delle persone offese)
creato con la condotta costitutiva del reato.
La durata delle pene
accessorie temporanee comminate dall’art. 216, ultimo comma, della legge
fallimentare resta invece indefettibilmente determinata in dieci anni, quale
che sia la qualificazione astratta del reato ascritto all’imputato (ai sensi
del primo, del secondo o del terzo comma dello stesso art. 216), e quale che
sia la gravità concreta delle condotte costitutive di tale reato; e resta, altresì,
insensibile all’eventuale sussistenza delle circostanze aggravanti o attenuanti
previste dall’art. 219 della medesima legge, le quali pure determinano
variazioni significative della pena edittale, potendo determinare un
abbassamento del minimo sino a due anni (ulteriormente riducibili in caso di
scelta di riti alternativi da parte dell’imputato), ovvero un innalzamento del
massimo sino a quindici anni di reclusione.
Una simile rigidità
applicativa non può che generare la possibilità di risposte sanzionatorie
manifestamente sproporzionate per eccesso – e dunque in contrasto con gli artt.
3 e 27 Cost. – rispetto ai fatti di bancarotta
fraudolenta meno gravi; e appare comunque distonica rispetto al menzionato
principio dell’individualizzazione del trattamento sanzionatorio.
Tale conclusione non è,
d’altra parte, inficiata dalle pronunce di questa Corte che hanno, talvolta,
considerato costituzionalmente legittime pene pecuniarie di natura
proporzionale congiunte alla reclusione o all’arresto, argomentando nel senso
che la necessaria flessibilità della pena era, in quelle ipotesi, assicurata
dalla commisurazione giudiziale della pena privativa della libertà entro il
minimo e il massimo fissati dal legislatore (sentenza n. 188 del
1982; ordinanza
n. 475 del 2002). Come recentemente sottolineato da questa Corte, infatti,
la pena proporzionale si differenzia dalla pena fissa (sentenza n. 142 del
2017), proprio in quanto impone pur sempre al giudice una commisurazione
che, per definizione, reagisce alla diversa gravità del fatto concreto (in
genere attraverso la moltiplicazione di un coefficiente sanzionatorio fisso per
il numero dei beni o delle persone che in concreto sono stati oggetto della
condotta illecita). La disposizione oggi all’esame affianca invece ad una pena
detentiva, modulabile tra il minimo e il massimo edittale, pene accessorie
fisse nel loro ammontare, che come tali sono del tutto insensibili alla gravità
concreta delle condotte commesse dall’imputato, e che per di più risultano –
come si è detto – manifestamente sproporzionate, ove applicate ai fatti meno
gravi riconducibili al paradigma astratto della bancarotta fraudolenta, propria
o societaria.
8.– A questo punto, occorre però domandarsi se a
tale riscontrato vulnus ai principi costituzionali questa Corte possa porre
rimedio; e ciò alla luce dell’art. 25, secondo comma, Cost.,
che riserva al solo legislatore le scelte in materia di trattamento
sanzionatorio dei fatti costituenti reato.
Come indicato al precedente
punto 5., l’Avvocatura generale dello Stato ha – in effetti – eccepito l’inammissibilità
della questione di legittimità costituzionale ora prospettata, sulla base del
medesimo argomento che aveva condotto questa Corte, nella sentenza n. 134 del
2012 (e poi, in termini identici, nell’ordinanza n. 208
del 2012), a dichiarare inammissibile analoga questione già sollevata dalla
Corte di cassazione: e cioè in ragione dell’assenza di una soluzione costituzionalmente
obbligata, in grado di prendere il posto di quella che si sarebbe dovuta
dichiarare illegittima.
L’eccezione deve, tuttavia,
essere respinta, alla luce di una complessiva rimeditazione dei termini della
questione. Rimeditazione che, da un lato, non può non tener conto della
circostanza che – a tutt’oggi – il legislatore non ha provveduto a quella
«riforma del sistema delle pene accessorie, che lo renda pienamente compatibile
con i principi della Costituzione, ed in particolare con l’art. 27, terzo
comma», auspicata da questa Corte nella sentenza n. 134 del
2012; e che, dall’altro, non può non considerare l’evoluzione in atto nella
stessa giurisprudenza costituzionale in materia di sindacato sulla misura delle
pene.
8.1.– Questa Corte ha avuto
recentemente occasione di stabilire che, laddove il trattamento sanzionatorio
previsto dal legislatore per una determinata figura di reato si riveli
manifestamente irragionevole a causa della sua evidente sproporzione rispetto
alla gravità del fatto, un intervento correttivo del giudice delle leggi è
possibile a condizione che il trattamento sanzionatorio medesimo possa essere
sostituito sulla base di «precisi punti di riferimento, già rinvenibili nel
sistema legislativo», intesi quali «soluzioni [sanzionatorie] già esistenti,
idonee a eliminare o ridurre la manifesta irragionevolezza lamentata» (sentenza n. 236 del
2016).
Tale principio deve essere
confermato, e ulteriormente precisato, nel senso che – a consentire
l’intervento di questa Corte di fronte a un riscontrato vulnus ai principi di
proporzionalità e individualizzazione del trattamento sanzionatorio – non è
necessario che esista, nel sistema, un’unica soluzione costituzionalmente
vincolata in grado di sostituirsi a quella dichiarata illegittima, come quella
prevista per una norma avente identica struttura e ratio, idonea a essere
assunta come tertium comparationis.
Essenziale, e sufficiente, a consentire il sindacato della Corte sulla
congruità del trattamento sanzionatorio previsto per una determinata ipotesi di
reato è che il sistema nel suo complesso offra alla Corte «precisi punti di
riferimento» e soluzioni «già esistenti» (sentenza n. 236 del
2016) – esse stesse immuni da vizi di illegittimità, ancorché non
"costituzionalmente obbligate” – che possano sostituirsi alla previsione
sanzionatoria dichiarata illegittima; sì da consentire a questa Corte di porre
rimedio nell’immediato al vulnus riscontrato, senza creare insostenibili vuoti
di tutela degli interessi di volta in volta tutelati dalla norma incriminatrice
incisa dalla propria pronuncia. Resta ferma, d’altra parte, la possibilità per
il legislatore di intervenire in qualsiasi momento a individuare, nell’ambito
della propria discrezionalità, altra – e in ipotesi più congrua – soluzione
sanzionatoria, purché rispettosa dei principi costituzionali.
Tutto ciò in vista di una
tutela effettiva dei principi e dei diritti fondamentali incisi dalle scelte
sanzionatorie del legislatore, che rischierebbero di rimanere senza possibilità
pratica di protezione laddove l’intervento di questa Corte restasse vincolato,
come è stato a lungo in passato, ad una rigida esigenza di "rime obbligate”
nell’individuazione della sanzione applicabile in luogo di quella dichiarata
illegittima.
8.2.– In applicazione di tali criteri, occorre
dunque vagliare se il sistema dei reati fallimentari, così come disegnato dal r.d. n. 267 del 1942, sia in grado di offrire a questa
Corte precisi punti di riferimento nell’individuazione di un trattamento
sanzionatorio che possa nell’immediato sostituirsi a quello dichiarato illegittimo;
e ciò sino a che il legislatore, nell’esercizio della propria discrezionalità,
provveda a individuare soluzioni alternative che dovesse ritenere preferibili.
La sezione rimettente, come
già ricordato, osserva che, laddove questa Corte eliminasse dall’art. 216,
ultimo comma, della legge fallimentare l’inciso «per la durata di dieci anni»,
si riespanderebbe la regola residuale posta dall’art.
37 cod. pen., a tenore del quale – per la parte che
qui rileva – «[q]uando la legge stabilisce che la condanna
importa una pena accessoria temporanea, e la durata di questa non è
espressamente determinata, la pena accessoria ha una durata eguale a quella
della pena principale inflitta».
In quest’ottica, la regola
residuale di cui all’art. 37 cod. pen. – pur
costituendo, come a suo tempo rilevato dalla sentenza n. 134 del
2012, solo «una tra quelle astrattamente ipotizzabili in caso di
accoglimento della questione» – opererebbe pur sempre come una soluzione già
esistente nel sistema, in grado di colmare automaticamente il vuoto creato con
l’ablazione, da parte della pronuncia di illegittimità costituzionale,
dell’inciso relativo alla durata legale delle pene accessorie previste dalla
disposizione censurata.
8.3.– La soluzione proposta dall’ordinanza di
rimessione ancorerebbe la durata concreta delle pene accessorie a quella della
pena detentiva concretamente inflitta; durata che – a sua volta – dipende da
tutti i fattori menzionati nell’art. 133 cod. pen. Il
che assicurerebbe, sia pure in via mediata e indiretta, un certo grado di
rispetto del principio di individualizzazione alle pene accessorie.
Tuttavia, tale soluzione
finirebbe per sostituire l’originario automatismo legale con un diverso
automatismo, che rischierebbe altresì di risultare distonico rispetto al
legittimo intento del legislatore storico di colpire in modo severo gli autori
dei delitti di bancarotta fraudolenta, considerati a buon diritto come
gravemente lesivi di interessi, individuali e collettivi, vitali per il buon
funzionamento del sistema economico.
L’art. 861 del codice di
commercio del 1882 già prevedeva la pena dell’inabilitazione perpetua
dall’esercizio della professione di commerciante per il condannato per bancarotta.
Tale statuizione fu modificata in mitius con la legge
10 luglio 1930, n. 995 (Disposizioni sul fallimento, sul concordato preventivo,
e sui piccoli fallimenti), che all’art. 20 affidava al giudice il compito di
determinare, nella sentenza di condanna, la durata di tale inabilitazione tra
un minimo di cinque e un massimo di dieci anni. Pochi anni dopo, tuttavia, la
legge fallimentare del 1942 intervenne a inasprire nuovamente il trattamento
sanzionatorio per il condannato a titolo di bancarotta fraudolenta, attraverso
la previsione di due distinte pene accessorie, autonome e complementari, volte
ad allontanarlo dall’ambito imprenditoriale per un lungo periodo successivo
all’esecuzione della pena detentiva. E ciò, all’evidenza, allo scopo di
estendere nel tempo l’effetto di prevenzione speciale negativa già esplicato
dall’esecuzione della pena detentiva, oltre che di conferire maggiore capacità
deterrente all’incriminazione.
La scelta legislativa
compiuta nel 1942 sottende l’idea di una funzione almeno in parte distinta di
queste pene accessorie rispetto alle funzioni proprie della reclusione: ciò che
ne giustifica, nell’ottica del legislatore storico – e in consapevole
difformità rispetto alla regola residuale di cui all’art. 37 cod. pen., già
esistente nel 1942 –, una durata di regola maggiore rispetto a quella della
pena detentiva concretamente inflitta.
Una simile prospettiva, che
assegna alle pene accessorie una funzione almeno in parte distinta rispetto a
quella delle pene detentive, e marcatamente orientata alla prevenzione speciale
negativa – imperniata sull’interdizione del condannato da quelle attività che
gli hanno fornito l’occasione per commettere gravi reati –, è di per sé immune
da censure sotto il profilo della sua legittimità costituzionale.
Essenziale a garantire la
compatibilità delle pene accessorie di natura interdittiva
con il "volto costituzionale” della sanzione penale è, infatti, che esse non
risultino manifestamente sproporzionate per eccesso rispetto al concreto
disvalore del fatto di reato, tanto da vanificare lo stesso obiettivo di
«rieducazione» del reo, imposto dall’art. 27, terzo comma, Cost.
Fermo restando tale limite, nulla osta, sul piano dei principi costituzionali,
a che il legislatore possa articolare strategie di prevenzione di gravi reati
attraverso la previsione di sanzioni interdittive, la
cui durata sia stabilita in modo indipendente da quella della pena detentiva; e
ciò in ragione della diversa finalità delle due tipologie di sanzione, oltre
che del loro diverso grado di afflittività rispetto
ai diritti fondamentali della persona. In ottica de iure condendo, anzi,
strategie siffatte ben potrebbero risultare funzionali a una possibile
riduzione dell’attuale centralità della pena detentiva nel sistema
sanzionatorio, senza indebolire la capacità deterrente della norma penale, né
l’idoneità della complessiva risposta sanzionatoria rispetto all’altrettanto
legittimo obiettivo della prevenzione speciale negativa. Finalità, l’una e
l’altra, che potrebbero in ipotesi essere conseguite, nel caso concreto, anche
senza la pena detentiva, ovvero mediante l’applicazione di pene detentive di
durata più ridotta rispetto a quanto oggi abitualmente accada, ogniqualvolta
sia previsto, per l’appunto, un robusto ed efficace corredo di pene interdittive, se del caso disciplinate anche come autonome
pene principali, secondo quanto suggerito da vari progetti di riforma (come lo
«Schema di disegno di legge recante delega legislativa al Governo della
Repubblica per l’emanazione della parte generale di un nuovo codice penale»,
presentato nel maggio 2007 dalla Commissione "Pisapia”,
nonché lo «Schema per la redazione di principi e criteri direttivi di delega
legislativa in materia di riforma del sistema sanzionatorio penale» elaborato
nel dicembre 2013 dalla Commissione "Palazzo”).
La soluzione in questa sede
prospettata dalla sezione rimettente – ancorando meccanicamente la durata delle
pene accessorie in esame a quella della pena detentiva concretamente inflitta –
frustrerebbe, allora, indebitamente il legittimo scopo perseguito dalla
disposizione impugnata: disposizione, peraltro, il cui vizio consiste non già,
in via generale, nel difetto di proporzionalità della durata decennale delle
pene accessorie da essa previste per tutte le ipotesi di bancarotta
fraudolenta; bensì nella fissazione di una loro unica e indifferenziata durata
legale, che – precludendo al giudice ogni apprezzamento discrezionale sulla
gravità del reato e sulle condizioni personali del condannato – è suscettibile
di tradursi nell’inflizione di pene accessorie manifestamente sproporzionate
rispetto a quelle sole ipotesi di bancarotta fraudolenta che siano
caratterizzate da un disvalore comparativamente lieve.
8.4.– Il sistema della legge fallimentare vigente
offre, tuttavia, una diversa soluzione, in grado di sostituirsi a quella
prevista dalla disposizione in questa sede censurata, e di inserirsi al tempo
stesso armonicamente all’interno della logica già seguita dal legislatore, al netto
del riscontrato vizio di costituzionalità.
Le due disposizioni che
immediatamente seguono l’art. 216 della legge fallimentare – l’art. 217,
rubricato «Bancarotta semplice», e l’art. 218, rubricato «Ricorso abusivo al
credito» – prevedono le medesime pene accessorie indicate nell’ultimo comma
dell’art. 216; ma dispongono che la loro durata sia stabilita discrezionalmente
dal giudice «fino a» un massimo determinato dalla legge (due anni nel caso
della bancarotta semplice, tre anni nel caso del ricorso abusivo al credito).
La medesima logica, già
presente e operante nel sistema, può agevolmente essere trasposta all’interno
dell’art. 216 della legge fallimentare, attraverso la sostituzione dell’attuale
previsione della durata fissa di dieci anni delle pene accessorie in esame con
la previsione, modellata su quella già prevista per gli artt. 217 e 218 della
medesima legge, della loro durata «fino a dieci anni».
Pertanto, la disposizione
censurata deve essere dichiarata illegittima nella parte in cui dispone: «la
condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa per la durata
di dieci anni l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e
l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso
qualsiasi impresa», anziché: «la condanna per uno dei fatti previsti dal
presente articolo importa l’inabilitazione all’esercizio di una impresa
commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi
impresa fino a dieci anni».
Tale soluzione – ovviamente
soggetta a eventuali rivalutazioni da parte del legislatore, sempre nel
rispetto del principio di proporzionalità – consentirà al giudice di
determinare, con valutazione caso per caso e disgiunta da quella che presiede
alla commisurazione della pena detentiva, la durata delle pene accessorie
previste dalla disposizione censurata, sulla base dei criteri indicati
dall’art. 133 cod. pen.; durata che potrebbe dunque
risultare, in concreto, maggiore di quella della pena detentiva contestualmente
inflitta, purché entro il limite massimo di dieci anni. Ciò tenendo conto sia
del diverso carico di afflittività, sia della diversa
finalità, che caratterizzano le pene accessorie in parola rispetto alla pena
detentiva: diverse afflittività e finalità che
suggeriscono, nell’ottica di una piena attuazione dei principi costituzionali
che presiedono alla commisurazione della pena, una determinazione giudiziale
autonoma delle due tipologie di pena nel caso concreto.
Fermo restando che «la
valutazione del modo in cui il sistema normativo reagisce ad una sentenza
costituzionale di accoglimento […] spetta al giudice del processo principale,
unico competente a definire il giudizio da cui prende le mosse l’incidente di
costituzionalità» (sentenza n. 28 del
2010), a parere di questa Corte la regola residuale di cui all’art. 37 cod.
pen. continuerà dunque a non
operare rispetto all’art. 216, ultimo comma, della legge fallimentare – come
risultante dalla presente pronuncia –, dal momento che tale regola ha come suo
presupposto operativo che la durata della pena accessoria temporanea non sia
espressamente determinata dalla legge. L’esistenza di una lex
specialis, in effetti, esclude l’operatività del
criterio residuale di cui all’art. 37 cod. pen., il
cui inciso finale («in nessun caso [la pena accessoria] può oltrepassare il
limite minimo e quello massimo stabilito per ciascuna specie di pena
accessoria») appare riferito non già ai limiti di durata delle pene accessorie previsti
da singole norme incriminatrici – come l’art. 216 della legge fallimentare –,
bensì ai limiti minimi e massimi individuati dalle disposizioni del Libro I del
codice penale – in particolare, dagli artt. 28, terzo comma, 30, secondo comma,
32-ter, secondo comma, 35, secondo comma, e 35-bis, secondo comma, cod. pen. – che prevedono le singole «specie» di pene
accessorie.
8.5.– La questione di legittimità costituzionale
avente ad oggetto l’art. 216, ultimo comma, della legge fallimentare deve, in
conclusione, ritenersi ammissibile e fondata, nei termini sopra precisati, con
riferimento agli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, Cost.,
restando assorbito ogni altro profilo di censura.
9.– L’accoglimento nei
termini predetti della questione relativa all’art. 216, ultimo comma, della
legge fallimentare rende inammissibile, per sopravvenuta carenza di oggetto, la
seconda questione relativa all’art. 223, ultimo comma, della medesima legge,
dal momento che il contenuto di quest’ultima disposizione – che strutturalmente
opera un rinvio mobile alla disposizione incisa dalla presente pronuncia – è
destinato a essere automaticamente modificato in conseguenza della presente
pronuncia di illegittimità costituzionale.
per
questi motivi
LA
CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibile la costituzione in giudizio di A. M., parte
civile nel giudizio a quo;
2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 216, ultimo
comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del
concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa), nella parte
in cui dispone: «la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo
importa per la durata di dieci anni l’inabilitazione all’esercizio di una
impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici
direttivi presso qualsiasi impresa», anziché: «la condanna per uno dei fatti
previsti dal presente articolo importa l’inabilitazione all’esercizio di una
impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso
qualsiasi impresa fino a dieci anni»;
3) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 223, ultimo comma, della legge fallimentare, sollevata dalla Corte di
cassazione, prima sezione penale, con l’ordinanza indicata in epigrafe, in
riferimento agli artt. 3, 4, 41, 27 e 117, primo comma, della Costituzione,
quest’ultimo in relazione agli artt. 8 della Convenzione per la salvaguardia
dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4
novembre 1950, e 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione, fatto a Parigi
il 20 marzo 1952, entrambi ratificati e resi esecutivi con la legge 4 agosto
1955, n. 848.
Così deciso in Roma, nella
sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 settembre 2018.
F.to:
Giorgio LATTANZI,
Presidente
Francesco VIGANÒ, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria
il 5 dicembre 2018.