Sentenza n. 222 del 2018

CONSULTA ONLINE 

SENTENZA N. 222

ANNO 2018

 

Commento alla decisione di

 

Alessandra Galluccio

La sentenza della Consulta su pene fisse e 'rime obbligate': costituzionalmente illegittime le pene accessorie dei delitti di bancarotta fraudolenta

 

per g.c. di Diritto Penale Contemporaneo

 

 

 REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-      Giorgio                       LATTANZI                                       Presidente

-      Aldo                           CAROSI                                            Giudice

-      Marta                          CARTABIA                                              

-      Giuliano                      AMATO                                                    

-      Silvana                        SCIARRA                                                 

-      Daria                           de PRETIS                                                

-      Nicolò                         ZANON                                                   

-      Franco                        MODUGNO                                             

-      Augusto Antonio       BARBERA                                               

-      Giovanni                     AMOROSO                                               

-      Francesco                   VIGANÒ                                                  

-      Luca                           ANTONINI                                               

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 216, ultimo comma, e 223, ultimo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), promosso dalla Corte di cassazione, prima sezione penale, nel procedimento penale a carico di C. G. e altri, con ordinanza del 17 novembre 2017, iscritta al n. 37 del registro ordinanze 2018 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie speciale, dell’anno 2018.

Visti gli atti di costituzione di C. G., R. M., R. T., A. M., E. F., M. A. e quello, fuori termine, di A. M., parte civile nel giudizio a quo, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella udienza pubblica del 25 settembre 2018 il Giudice relatore Francesco Viganò;

uditi gli avvocati Valerio Onida, Barbara Randazzo e Andrea Manzi per M. A., Ennio Amodio per C. G., Alessandro Diddi per A. M. e E. F., Gianluca De Fazio per A. M., Nicola Apa per R. M., Marcello Bana e Elisabetta Busuito per R. T. e l’avvocato dello Stato Maurizio Greco per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 17 novembre 2017 la Corte di cassazione, prima sezione penale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 4, 41, 27 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, e 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione, fatto a Parigi il 20 marzo 1952, entrambi ratificati e resi esecutivi con la legge 4 agosto 1955, n. 848, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 216, ultimo comma, e 223, ultimo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, recante «Disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa» (d’ora in poi, anche: legge fallimentare), «nella parte in cui prevedono che alla condanna per uno dei fatti previsti in detti articoli conseguono obbligatoriamente, per la durata di dieci anni, le pene accessorie della inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e della incapacità di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa».

2.– La Corte di cassazione, prima sezione penale, premette di essere investita del ricorso, proposto dagli imputati in uno dei procedimenti penali scaturiti dal tracollo del gruppo Parmalat, avverso la sentenza della Corte d’appello di Bologna che, statuendo in sede di rinvio, aveva condannato gli imputati stessi alle pene ritenute di giustizia per una pluralità di fatti integranti i delitti di bancarotta impropria semplice e fraudolenta. In particolare, la Corte territoriale aveva condannato tutti gli imputati, oltre che alle pene detentive per ciascuno individualmente commisurate, alle pene accessorie dell’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e dell’incapacità di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa per la durata indifferenziata di dieci anni, tali pene accessorie essendo previste dal combinato disposto degli artt. 216, ultimo comma, e 223, ultimo comma, della legge fallimentare come conseguenza automatica della condanna per qualsiasi fatto di bancarotta impropria fraudolenta.

La rimettente dubita, tuttavia, della legittimità costituzionale di tale automatismo sanzionatorio.

2.1.– Espone, anzitutto, il giudice a quo che i difensori di taluni degli imputati avevano già formulato, nei precedenti gradi di giudizio, l’eccezione di illegittimità costituzionale delle disposizioni in questa sede censurate.

Con sentenza 5 dicembre 2014, n. 15613, la quinta sezione penale della Corte di cassazione, pronunciandosi sul ricorso degli imputati avverso la sentenza di condanna emessa nei loro confronti dalla Corte d’appello di Bologna, aveva tuttavia ritenuto inammissibile tale eccezione, sulla scorta della sentenza n. 134 del 2012 di questa Corte, che, investita di analoga questione, l’aveva giudicata inammissibile in quanto relativa a materia riservata alla discrezionalità del legislatore.

Avendo la quinta sezione della Corte di cassazione parzialmente annullato la sentenza impugnata, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Bologna per un nuovo esame dei capi annullati nonché per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio laddove necessario, l’eccezione di illegittimità costituzionale veniva riproposta dai difensori avanti al giudice del rinvio.

Anche la Corte d’appello di Bologna, statuendo in sede di rinvio, giudicava però inammissibile tale eccezione, ritenendosi vincolata alla previa statuizione di inammissibilità della quinta sezione penale della Corte di cassazione, in forza del principio secondo cui il giudice del rinvio avrebbe l’obbligo di uniformarsi alla decisione rescindente per ogni questione di diritto da essa decisa; e aggiungeva che tale questione doveva comunque ritenersi manifestamente infondata, anche con riferimento ai parametri non espressamente invocati dalle difese nel previo giudizio di cassazione. Nel merito, la Corte d’appello statuiva sui residui capi oggetto del rinvio e provvedeva a rideterminare le pene degli imputati, confermando però per ciascuno di essi le pene accessorie in parola per la durata legale di dieci anni.

L’eccezione di illegittimità costituzionale era stata quindi riproposta da vari difensori di fronte alla prima sezione penale della Corte di cassazione, chiamata a giudicare sui ricorsi contro le condanne pronunciate in sede di rinvio.

2.2.– La prima sezione penale, con l’ordinanza che dà origine al presente incidente di costituzionalità, ritiene la questione ammissibile e non manifestamente infondata.

2.3.– Sotto il profilo della rilevanza, il collegio rimettente osserva che la questione non può ritenersi riferita a situazione esaurita, perché – in seguito al precedente annullamento delle condanne pronunciate nei primi due gradi di giudizio – le disposizioni censurate dovevano ancora trovare applicazione da parte del giudice del rinvio, al quale la quinta sezione penale della Corte di cassazione aveva per l’appunto prescritto di rideterminare il trattamento sanzionatorio (comprensivo anche delle pene accessorie), laddove ciò si fosse reso necessario in conseguenza delle nuove valutazioni demandate al medesimo giudice del rinvio sui capi annullati della precedente sentenza di condanna.

2.4.– Sotto il profilo della non manifesta infondatezza del dubbio di legittimità costituzionale, la rimettente rammenta anzitutto come sull’esatta portata delle disposizioni censurate si sia sviluppato, in passato, un contrasto presso la giurisprudenza di legittimità.

Secondo un primo e maggioritario indirizzo, la durata delle pene accessorie previste dagli artt. 216, ultimo comma, e 223, ultimo comma, della legge fallimentare dovrebbe intendersi come inderogabilmente fissata nella misura di dieci anni, in conformità del resto al chiaro tenore letterale delle disposizioni in questione.

Secondo altro e minoritario indirizzo, dichiaratamente ispirato ad un’esigenza di interpretazione conforme a Costituzione delle disposizioni menzionate, anche le pene accessorie in parola non si sottrarrebbero alla regola generale di cui all’art. 37 del codice penale, a tenore del quale, laddove la durata della pena accessoria non sia espressamente determinata, essa ha una durata eguale a quella della pena principale inflitta, entro il limite minimo e il limite massimo fissato per ciascuna pena accessoria.

Questo secondo indirizzo risulta, peraltro, oggi del tutto abbandonato dalla stessa giurisprudenza di legittimità, essendosi tra l’altro ritenuto che la sentenza n. 134 del 2012 di questa Corte abbia almeno implicitamente confermato la correttezza dell’interpretazione recepita dall’ordinamento maggioritario.

Ad avviso della rimettente, tuttavia, la durata fissa della pena accessoria derivante dalle disposizioni censurate, così come interpretate dall’ormai univoco diritto vivente, contrasterebbe con il principio della "mobilità” della pena, e cioè con la sua tendenziale predeterminazione tra un minimo e un massimo; principio che costituirebbe corollario, da un lato, del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., per la necessità di proporzionare la pena all’effettiva entità ed alle specifiche esigenze dei singoli casi, e, dall’altro, del principio di legalità, di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., che «dà forma ad un sistema che trae contenuti ed orientamenti da altri principi sostanziali – come quelli indicati dall’art. 27, primo e terzo comma, Cost. – ed in cui "l’attuazione di una riparatrice giustizia retributiva esige la differenziazione più che l’unità” (sentenza n. 104 del 1968)» (è citata la sentenza n. 50 del 1980).

La durata invariabile delle pene accessorie previste dalle disposizioni impugnate, che si risolvono in una «incisiva ma anelastica limitazione di beni di rilevanza costituzionale, quali la libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41, il diritto al lavoro di cui all’art. 35, le finalità rieducative della pena di cui all’art. 27, secondo [recte: terzo] comma, Cost., indipendentemente dall’entità della pena principale irrogata – che per la bancarotta fraudolenta può essere pari al minimo edittale di anni tre, o nettamente inferiore per effetto di circostanze attenuanti e del ricorso a riti alternativi –», non sarebbe dunque in sintonia con i parametri costituzionali evocati, negando ogni spazio alla discrezionalità del giudice, necessaria al fine di «permettere l’adeguamento della risposta punitiva alle singole fattispecie concrete» e al loro individuale disvalore oggettivo e soggettivo.

La disciplina legislativa censurata violerebbe, d’altra parte, anche l’art. 4 Cost., risolvendosi in una «ingiustificata, indiscriminata incidenza sulla possibilità dell’interessato di esercitare il suo diritto al lavoro, non soltanto come fonte di sostentamento ma anche come strumento di sviluppo della sua personalità»; e susciterebbe dubbi di conformità a Costituzione anche con riferimento all’art. 117 Cost., in relazione agli artt. 8 CEDU e 1 Prot. add. CEDU, alla luce della giurisprudenza di Strasburgo, secondo la quale «le limitazioni derivanti dall’applicazione della pena accessoria devono considerarsi quali ingerenze nel godimento del diritto al rispetto della vita privata e, come tali, non soltanto devono essere previste dalla legge e debbono perseguire uno scopo legittimo, ma devono essere proporzionate rispetto a detto scopo, comportando la violazione del divieto di discriminazione nel godimento del diritto al rispetto della vita familiare oltre che una ingerenza nel godimento del diritto di proprietà» (è richiamata la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, terza sezione, del 23 marzo 2006, Vitiello c. Italia).

Secondo la sezione rimettente, gli evidenziati profili di frizione con i principi costituzionali potrebbero «in larga parte» essere superati «ove, eliminandosi il riferimento alla misura fissa di dieci anni, rivivesse la regola generale di cui all’art. 37 cod. pen., così consentendosi al giudice di rideterminare la durata della pena accessoria in collegamento con la pena principale inflitta e, quindi, in base a valutazioni di gravità del fatto concreto».

3.– È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso chiedendo dichiararsi inammissibili e, comunque, infondate le questioni.

3.1.– Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, le questioni sarebbero inammissibili sotto tre distinti profili.

Anzitutto, con la precedente sentenza di annullamento con rinvio pronunciata dalla prima sezione penale, la Corte di cassazione si sarebbe «autovincolata» ad un principio di diritto incompatibile con i prospettati dubbi di legittimità costituzionale.

In secondo luogo, la sollecitazione al legislatore, contenuta nella sentenza di questa Corte n. 134 del 2012, a por mano ad una riforma del sistema delle pene accessorie, che lo renda pienamente compatibile con i principi della Costituzione, ed in particolare con l’art. 27, terzo comma, Cost., sarebbe stata ormai accolta dal legislatore, il quale, all’art. 1, comma 85, lettera u), della legge 23 giugno 2017, n. 103 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario), ha delegato il Governo alla «revisione del sistema delle pene accessorie improntata al principio della rimozione degli ostacoli al reinserimento sociale del condannato», con indicazione relativa all’espressa «esclusione di una loro durata superiore alla durata della pena principale». Alla luce di tale intervento normativo, ad avviso dell’Avvocatura dello Stato le questioni sarebbero inammissibili, essendo ormai prive di rilevanza.

Infine, l’Avvocatura dello Stato evidenzia come le questioni ora all’esame presentino «la medesima causa petendi ed il medesimo petitum di quella già decisa con sentenza n. 134» del 2012, con cui questa Corte affermò che «l’addizione normativa richiesta dai giudici a quibus eccede i poteri di intervento della Corte, implicando scelte affidate alla discrezionalità del legislatore», con conseguente statuizione di inammissibilità della questione. Identica statuizione, ad avviso della difesa erariale, dovrebbe essere adottata con riferimento alle odierne questioni, stante la molteplicità delle soluzioni che potrebbero essere adottate al fine di eliminare i dedotti vizi di illegittimità costituzionale.

3.2.– Nel merito, l’Avvocatura generale dello Stato ritiene comunque infondate le questioni, in ragione anzitutto del «diverso "bene giuridico” protetto dalle pene accessorie» rispetto a quello protetto dalle pene principali. Le prime, più in particolare, sarebbero essenzialmente funzionali alla funzione specialpreventiva di «protezione dell’agire commerciale», mirando ad assicurare che la «gestione del mercato e dei traffici commerciali [sia] affidata a soggetti/imprenditori che seguano e rispettino regole di primaria correttezza»; il che giustificherebbe una durata fissa decennale della pena accessoria che qui viene in considerazione, eventualmente superiore a quella della pena principale inflitta.

In secondo luogo, osserva l’Avvocatura generale dello Stato che la scelta sottesa alle disposizioni censurate di determinare in maniera fissa le pene accessorie sia «chiaramente riconducibile alla volontà legislativa di collegare quest’ultime non tanto alla modalità di commissione del reato, quanto alla mera condanna per il reato di bancarotta». La disciplina delle pene principali e delle pene accessorie per il delitto di bancarotta sarebbe stata insomma «volutamente diversificata dal legislatore», ciò che di per sé dimostrerebbe – nella prospettazione della difesa erariale – l’infondatezza dei dubbi di costituzionalità prospettati.

Infine, sostiene l’Avvocatura generale dello Stato che la previsione della durata fissa di dieci anni delle pene accessorie di cui oggi si discute sarebbe «pienamente conforme all’impianto complessivo del nostro sistema penale, il quale prevede altre pene accessorie aventi durata predeterminata addirittura "perpetua”», come nel caso previsto dall’art. 29 cod. pen.

4.– Tutti gli imputati nel giudizio a quo si sono costituiti nel presente giudizio incidentale, riproponendo gli argomenti sviluppati nell’ordinanza di rimessione e concludendo nel senso della fondatezza della questione di legittimità costituzionale ivi proposta.

Particolarmente ampie e articolate sono, peraltro, le deduzioni della parte M. A., a parere della quale la questione di legittimità costituzionale all’esame investirebbe tre diversi profili: a) l’automatismo nell’applicazione della pena accessoria, che segue necessariamente a qualunque condanna per fatti di bancarotta fraudolenta, indipendentemente dalla concreta gravità delle condotte ascritte all’imputato, nonché della distanza temporale fra il momento in cui tali condotte si siano verificate e il momento in cui, in esito al giudizio, la pena sia irrogata in via definitiva; b) l’inusitata ampiezza delle limitazioni che discendono dall’operare della pena accessoria, che – incidendo in senso fortemente limitativo sulla possibilità dell’interessato di esercitare il suo diritto al lavoro – importerebbe una «drastica e non proporzionata compressione del diritto di iniziativa economica esercitabile anche attraverso l’attività di impresa»; nonché c) la fissità della durata della pena accessoria, pari indefettibilmente a dieci anni, indipendentemente dall’entità della pena principale ritenuta congrua nel caso concreto.

Sotto il primo profilo, il carattere automatico e indefettibile della pena accessoria, precludendo al giudice di apprezzare in concreto l’esistenza delle ragioni giustificatrici della sua applicazione, contrasterebbe in particolare con le numerose sentenze con cui questa Corte ha caducato automatismi legislativi in relazione all’applicazione automatica di pene accessorie, come la decadenza dalla potestà genitoriale (sono richiamate le sentenze n. 7 del 2013 e n. 31 del 2012) o la revoca della patente di guida (è richiamata la sentenza n. 22 del 2018), in applicazione dei criteri di «adeguatezza e proporzionalità della pena ai fatti di reato, di individualizzazione del trattamento penale in rapporto alla personalità del reo, di idoneità dell’esecuzione della pena a svolgere la finalità rieducativa, oltre che di soddisfare ad una reale finalità di prevenzione speciale». Nella medesima direzione spingerebbe, d’altra parte, la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha più volte dichiarato contrarie alla CEDU sanzioni accessorie o comunque misure limitative di diritti che discendono automaticamente da una condanna penale, senza una verifica giurisdizionale nel caso concreto sull’effettiva necessità di tali sanzioni o misure.

Sotto il secondo profilo, le pene accessorie in esame sarebbero sproporzionate in ragione della loro portata «estremamente ampia» e «praticamente […] onnicomprensiva, volta ad impedire lo svolgimento di qualunque attività economica in proprio e, in ogni caso, in posizioni direttive», sì da incidere in definitiva non solo sul diritto al lavoro, ma anche «sulla vita e sulla stessa identità del condannato, operando alla stregua di una sorte di "morte professionale”». Ciò determinerebbe un ulteriore profilo di irragionevolezza, nonché di illegittimità alla luce dei parametri convenzionali, delle disposizioni in questione.

Sotto il terzo profilo, infine, le disposizioni censurate contrasterebbero con il principio di proporzionalità della pena, così come enucleato dalla costante giurisprudenza di questa Corte a partire dalla sentenza n. 26 del 1979 e recentemente riaffermato dalla sentenza n. 236 del 2016; nonché con il principio di necessaria individualizzazione della pena, che esige l’adeguamento delle risposte punitive ai casi concreti, e che si oppone in linea di principio a previsioni sanzionatorie rigide, a meno che la sanzione «appaia ragionevolmente "proporzionata” rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato» (sentenza n. 50 del 1980). Il che non sarebbe nel caso ora oggetto di esame, ove la pena interdittiva prevista dalle disposizioni censurate «si applica in maniera fissa in relazione a condanne per i fatti più diversi, di diversa gravità, imputati a soggetti con diverse caratteristiche».

5.– Si è, inoltre, costituito fuori termine A. M., parte civile nel giudizio a quo.

6.– Nell’imminenza dell’udienza, tutte le parti costituite hanno depositato memorie in cui ribadiscono le conclusioni già formulate nei precedenti atti del giudizio.

Nella propria memoria, la parte M. A. – dopo avere confutato le eccezioni spiegate dall’Avvocatura generale dello Stato – richiama in particolare l’attenzione su una recente sentenza della quinta sezione penale della Corte di cassazione, la quale, dopo essersi interrogata d’ufficio sulla costituzionalità delle disposizioni qui all’esame, ha concluso nel senso della manifesta infondatezza della questione in quanto già risolta negativamente da questa Corte con la sentenza n. 134 del 2012, nonché in ragione degli ampi poteri discrezionali del giudice nella commisurazione del trattamento sanzionatorio complessivamente considerato discendente da una condanna per bancarotta fraudolenta, semplice o societaria (Corte di cassazione, quinta sezione penale, sentenza 6 luglio 2018, n. 33880): sentenza i cui argomenti la difesa di M. A. sottopone, parimenti, ad analitica confutazione.

Considerato in diritto

1.– La Corte di cassazione, prima sezione penale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 4, 41, 27 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, e 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione, fatto a Parigi il 20 marzo 1952, entrambi ratificati e resi esecutivi con la legge 4 agosto 1955, n. 848, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 216, ultimo comma, e 223, ultimo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, recante «Disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa» (d’ora in poi, anche: legge fallimentare), «nella parte in cui prevedono che alla condanna per uno dei fatti previsti in detti articoli conseguono obbligatoriamente, per la durata di dieci anni, le pene accessorie della inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e della incapacità di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa».

Le questioni sono state sollevate nell’ambito del giudizio di cassazione avente ad oggetto la sentenza con la quale la Corte d’appello di Bologna, in sede di rinvio dopo un precedente annullamento da parte della quinta sezione penale della Corte di cassazione, aveva confermato la condanna di numerosi imputati per una pluralità di delitti di bancarotta impropria fraudolenta e semplice, variamente connessi alla vicenda del tracollo del gruppo Parmalat, reiterando – in particolare – la condanna di tutti gli imputati alle menzionate pene accessorie per la durata legale di dieci anni già disposta nei precedenti gradi di giudizio.

2.– Deve, preliminarmente, dichiararsi l’inammissibilità della costituzione in giudizio della parte civile A. M., in quanto avvenuta oltre il termine perentorio, stabilito dall’art. 25 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale) e dall’art. 3 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, di venti giorni dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale dell’atto introduttivo del giudizio.

3.– L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce, anzitutto, che la Corte di cassazione si sarebbe «autovincolata», mediante la precedente sentenza di annullamento della quinta sezione penale, ad un principio di diritto incompatibile con le questioni ora prospettate dalla prima sezione, le quali risulterebbero per tale ragione inammissibili.

L’eccezione è infondata.

È infatti pacifico che la precedente statuizione di altro collegio giudicante circa l’irrilevanza o la manifesta infondatezza di una questione di legittimità prospettata dalle parti non impedisce a un giudice che intervenga successivamente nel medesimo processo di considerare, all’opposto, rilevante e non manifestamente infondata la medesima questione. Ciò vale, come questa Corte ha più volte affermato, anche rispetto al giudice del rinvio, che è certamente vincolato ai principi di diritto formulati nella sentenza di annullamento, ma conserva pur sempre il potere di sottoporre a questa Corte gli eventuali dubbi di legittimità costituzionale che egli nutra nei confronti delle disposizioni che è tenuto ad applicare nel giudizio di rinvio, in forza delle indicazioni della sentenza di annullamento (ex plurimis, sentenze n. 270 del 2014, n. 293 del 2013, n. 305 del 2008; ordinanza n. 118 del 2016); principio, questo, che non può non valere anche per la sezione della Corte di cassazione che sia chiamata, a sua volta, a scrutinare la legittimità della sentenza pronunciata in sede di rinvio.

Le disposizioni in questa sede censurate, d’altra parte, dovevano trovare ancora applicazione nel giudizio di rinvio, dal momento che – secondo quanto riferito dalla stessa ordinanza di rimessione – la sentenza della quinta sezione penale, dopo avere annullato parzialmente le condanne degli imputati pronunciate in primo e in secondo grado, aveva demandato espressamente al giudice del rinvio il compito di rideterminare il trattamento sanzionatorio, ove necessario, in conseguenza dell’annullamento di alcuni capi delle precedenti sentenze di condanna. Tale rideterminazione era stata poi puntualmente operata dalla sentenza della Corte d’appello di Bologna in sede di rinvio, che aveva commisurato nuovamente i complessivi trattamenti sanzionatori per ciascun imputato, confermando nei confronti di ciascuno le pene accessorie previste dalle disposizioni censurate: facendo, così, nuovamente applicazione di tali disposizioni nel giudizio di rinvio.

Correttamente, dunque, la sezione rimettente – investita dei ricorsi degli imputati aventi ad oggetto anche le statuizioni sulle pene accessorie – ritiene le questioni di legittimità costituzionale prospettate tuttora rilevanti nel giudizio a quo.

4.– L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce, in secondo luogo, che le questioni prospettate sarebbero divenute irrilevanti in seguito all’entrata in vigore della legge 23 giugno 2017, n. 103 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario), che ha delegato il legislatore ad una complessiva riforma del sistema delle pene accessorie improntata al «principio della rimozione degli ostacoli al reinserimento sociale del condannato» e alla «esclusione di una loro durata superiore alla durata della pena principale».

L’eccezione – funzionale per la verità a una possibile restituzione degli atti per esame dello ius superveniens, più che a una pronuncia di inammissibilità – è anch’essa infondata, perché il Governo non ha provveduto a esercitare la delega in parte qua, sicché la disciplina in questa sede censurata è rimasta immutata ed è tuttora in vigore.

5.– L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce, infine, che le presenti questioni dovrebbero essere considerate inammissibili per le medesime ragioni che già avevano condotto questa Corte, con la sentenza n. 134 del 2012, a dichiarare inammissibile un’analoga questione formulata sulle disposizioni qui censurate.

L’eccezione attiene, più in particolare, ai limiti dei poteri di questa Corte, nell’ipotesi in cui accerti che la disposizione censurata arrechi un vulnus ai principi costituzionali, ma non esista un’unica soluzione costituzionalmente obbligata conseguente all’eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione medesima.

Ragioni di ordine nell’esposizione suggeriscono di riservare l’esame di questa eccezione dopo che siano stati vagliati i profili di fondatezza nel merito delle questioni ora sollevate.

6.– Preliminare all’esame nel merito delle censure prospettate è, ancora, l’esatta delimitazione del petitum delle presenti questioni, così come sottoposte a questa Corte dal giudice rimettente.

La difesa della parte M. A. ha infatti svolto, nei propri atti difensivi e in udienza, articolate deduzioni su tre distinti profili di illegittimità costituzionale delle norme censurate, che dovrebbero considerarsi impliciti nelle questioni sottoposte a questa Corte dalla sezione rimettente: una prima questione concernente l’automatismo e l’indefettibilità dell’inflizione delle pene accessorie previste dalle disposizioni censurate, e dunque – per così dire – relativa all’an della loro applicazione nel caso concreto; una seconda, incentrata sull’ampiezza delle limitazioni ai diritti del condannato discendenti dalle pene accessorie stesse, e dunque relativa al quomodo delle sanzioni in parola; e una terza questione, riguardante invece la fissità della durata, pari a dieci anni, delle pene medesime, e dunque relativa al loro quantum.

Un’interpretazione letterale del dispositivo dell’ordinanza di rimessione – che censura le due disposizioni «nella parte in cui prevedono che alla condanna per uno dei fatti previsti in detti articoli conseguono obbligatoriamente, per la durata di dieci anni, le pene accessorie» indicate dalle disposizioni medesime – parrebbe confortare la lettura della parte M. A., quanto meno con i riferimento ai profili dell’an e del quantum delle pene accessorie in parola; di talché la cognizione di questa Corte dovrebbe estendersi alla verifica non solo della compatibilità con i parametri costituzionali invocati della durata fissa di dieci anni delle pene accessorie de quibus, ma anche dell’obbligatorietà della loro applicazione in ogni caso di condanna dell’imputato per un fatto di bancarotta fraudolenta, propria o societaria.

L’esame della densa motivazione dell’ordinanza di rimessione evidenzia, tuttavia, come l’attenzione della sezione rimettente si sia pressoché esclusivamente focalizzata sul carattere fisso della durata decennale delle pene accessorie, che impedirebbe al giudice una loro determinazione in misura adeguata alle peculiarità del caso concreto. Il distinto profilo del loro automatismo in conseguenza della condanna (che era invece venuto in considerazione nelle sentenze n. 7 del 2013 e n. 31 del 2012, nonché nella recentissima sentenza n. 22 del 2018, tutte invocate dalla parte M. A.) è, invero, menzionato in un fugace passaggio nella parte conclusiva della motivazione dell’ordinanza di rimessione, nel quale si fa cenno a un preteso contrasto di tale automatismo con la giurisprudenza rilevante della Corte europea dei diritti dell’uomo; ma non è oggetto di alcuno speciale vaglio critico nel contesto generale dell’argomentazione, che neppure si sofferma sulla ipotetica eccessiva estensione delle limitazioni ai diritti del condannato discendenti dall’esecuzione delle pene medesime.

Nello stesso senso depone, del resto, il passaggio argomentativo nel quale la sezione rimettente osserva che l’esigenza di un’articolazione legale del sistema sanzionatorio, che dovrebbe rendere possibile un «adeguamento individualizzato, proporzionale, delle pene inflitte con le sentenze di condanna, potrebbe […] in larga parte essere soddisfatta ove, eliminandosi il riferimento alla misura fissa di dieci anni, rivivesse la regola generale di cui all’art. 37 cod. pen., così consentendosi al giudice di determinare la durata della pena accessoria in collegamento con la pena principale inflitta e, quindi, in base a valutazioni di gravità del fatto concreto». È evidente, infatti, che il rimedio suggerito dalla rimettente lascerebbe intatto l’automatismo insito nell’applicazione delle pene accessorie in esame in conseguenza della condanna dell’imputato per bancarotta fraudolenta, propria o societaria; e, comunque, non inciderebbe in alcun modo sul contenuto delle pene accessorie medesime.

Alla luce – allora – del complessivo impianto motivazionale dell’ordinanza, lo stesso riferimento all’obbligatorietà delle pene accessorie, contenuto nel dispositivo dell’ordinanza di rimessione, non può che intendersi come riferito esclusivamente al carattere, appunto, obbligatorio della loro durata decennale, e non già all’obbligatorietà della loro applicazione nel caso concreto.

Dal momento che il perimetro della questione di legittimità costituzionale è, ai sensi dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953, unicamente definito dall’ordinanza di rimessione (ex multis, sentenza n. 327 del 2010), l’esame della Corte dovrà, dunque, essere confinato al solo profilo concernente la durata fissa di dieci anni delle pene accessorie previste dalle disposizioni censurate.

7.– La durata fissa delle pene accessorie previste dall’art. 216, ultimo comma, della legge fallimentare non appare, in linea di principio, compatibile con i principi costituzionali in materia di pena, e segnatamente con i principi di proporzionalità e necessaria individualizzazione del trattamento sanzionatorio.

7.1.– Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, la determinazione del trattamento sanzionatorio per i fatti previsti come reato è riservato alla discrezionalità del legislatore, in conformità a quanto stabilito dall’art. 25, secondo comma, Cost.; tuttavia, tale discrezionalità incontra il proprio limite nella manifesta irragionevolezza delle scelte legislative, limite che – in subiecta materia – è superato allorché le pene comminate appaiano manifestamente sproporzionate rispetto alla gravità del fatto previsto quale reato. In tal caso, si profila infatti una violazione congiunta degli artt. 3 e 27 Cost., giacché una pena non proporzionata alla gravità del fatto (e non percepita come tale dal condannato) si risolve in un ostacolo alla sua funzione rieducativa (ex multis, sentenze n. 236 del 2016, n. 68 del 2012 e n. 341 del 1994).

Affinché poi la pena inflitta al singolo condannato non risulti sproporzionata in relazione alla concreta gravità, oggettiva e soggettiva, del fatto da lui commesso, il legislatore stabilisce normalmente che la pena debba essere commisurata dal giudice tra un minimo e un massimo, tenendo conto in particolare della vasta gamma di circostanze indicate negli artt. 133 e 133-bis cod. pen., in modo da assicurare altresì che la pena appaia una risposta – oltre che non sproporzionata – il più possibile "individualizzata”, e dunque calibrata sulla situazione del singolo condannato, in attuazione del mandato costituzionale di "personalità” della responsabilità penale di cui all’art. 27, primo comma, Cost.

L’esigenza di «mobilità» (sentenza n. 67 del 1963), o «individualizzazione» (sentenza n. 104 del 1968), della pena – e la conseguente attribuzione al giudice, nella sua determinazione in concreto, di una certa discrezionalità nella commisurazione tra il minimo e il massimo previsti dalla legge – costituisce secondo questa Corte «naturale attuazione e sviluppo di principi costituzionali, tanto di ordine generale (principio d’uguaglianza) quanto attinenti direttamente alla materia penale» (sentenza n. 50 del 1980), rispetto ai quali «l’attuazione di una riparatrice giustizia distributiva esige la differenziazione più che l’uniformità» (così, ancora, la sentenza n. 104 del 1968). Con la rilevante conseguenza, espressamente tratta dalla citata sentenza n. 50 del 1980, che «[i]n linea di principio, previsioni sanzionatorie rigide non appaiono in linea con il "volto costituzionale” del sistema penale; ed il dubbio d’illegittimità costituzionale potrà essere, caso per caso, superato a condizione che, per la natura dell’illecito sanzionato e per la misura della sanzione prevista, quest’ultima appaia ragionevolmente "proporzionata” rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato».

Come è stato osservato a commento della sentenza n. 50 del 1980: se la "regola” è rappresentata dalla "discrezionalità”, ogni fattispecie sanzionata con pena fissa (qualunque ne sia la specie) è per ciò solo "indiziata” di illegittimità; e tale indizio potrà essere smentito soltanto in seguito a un controllo strutturale della fattispecie di reato che viene in considerazione, attraverso la puntuale dimostrazione che la peculiare struttura della fattispecie la renda "proporzionata” all’intera gamma dei comportamenti tipizzati. Così come, peraltro, avvenne nel caso della disposizione scrutinata nella sentenza n. 50 del 1980.

7.2.– È alla luce di tali, pacifici, principi che deve essere vagliata la questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto l’art. 216, ultimo comma, della legge fallimentare.

Come condivisibilmente rilevano l’ordinanza di rimessione e tutte le parti tempestivamente costituite, le pene accessorie temporanee previste dalla disposizione censurata incidono in senso fortemente limitativo su una vasta gamma di diritti fondamentali del condannato, riducendo drasticamente la sua possibilità di esercitare attività lavorative per un arco temporale di dieci anni, destinati a decorrere – in forza dell’art. 139 cod. pen. – dopo l’integrale esecuzione della pena detentiva (la quale, a sua volta, potrebbe avere luogo molti anni dopo la commissione del fatto di reato).

Ed anzi, dal momento che l’esecuzione della pena della reclusione sino a quattro anni può essere integralmente sostituita, su istanza dal condannato, dal suo affidamento in prova al servizio sociale, rispetto a molti condannati per bancarotta fraudolenta le pene accessorie previste dalla disposizione censurata finiscono per rappresentare le sanzioni in concreto più afflittive alle quali essi soggiacciono in conseguenza della condanna.

Conseguenze sanzionatorie così severe certamente si lasciano legittimare, al metro del principio di proporzionalità della pena, in relazione alle ipotesi più gravi di bancarotta fraudolenta, propria e societaria, che è delitto punibile – non a caso – con la reclusione sino a dieci anni, aumentabili di un terzo o addirittura della metà nei casi previsti dai primi due commi dell’art. 219 della legge fallimentare.

Tuttavia, una durata fissa di dieci anni delle pene accessorie in questione non può ritenersi «ragionevolmente "proporzionata” rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato», in base al poc’anzi menzionato test enunciato dalla sentenza n. 50 del 1980.

Anzitutto, l’art. 216 della legge fallimentare (richiamato, nel suo contenuto precettivo, dall’art. 223, primo comma, della medesima legge) raggruppa una pluralità di fattispecie che, già a livello astratto, sono connotate da ben diverso disvalore, come dimostrano i relativi quadri sanzionatori previsti dal legislatore: reclusione da tre a dieci anni per i fatti previsti dal primo e secondo comma; reclusione da uno a cinque anni per gli assai meno gravi fatti (di bancarotta cosiddetta preferenziale) previsti dal terzo comma.

Ma anche all’interno delle singole figure di reato previste in astratto da ciascun comma, nonché di quelle previste dall’art. 223, secondo comma, della legge fallimentare, la gravità dei fatti concreti ad esse riconducibili può essere marcatamente differente, in relazione se non altro alla gravità del pericolo di frustrazione delle ragioni creditorie (in termini sia di probabilità di verificazione del danno, sia di entità del danno medesimo, anche in termini di numero delle persone offese) creato con la condotta costitutiva del reato.

La durata delle pene accessorie temporanee comminate dall’art. 216, ultimo comma, della legge fallimentare resta invece indefettibilmente determinata in dieci anni, quale che sia la qualificazione astratta del reato ascritto all’imputato (ai sensi del primo, del secondo o del terzo comma dello stesso art. 216), e quale che sia la gravità concreta delle condotte costitutive di tale reato; e resta, altresì, insensibile all’eventuale sussistenza delle circostanze aggravanti o attenuanti previste dall’art. 219 della medesima legge, le quali pure determinano variazioni significative della pena edittale, potendo determinare un abbassamento del minimo sino a due anni (ulteriormente riducibili in caso di scelta di riti alternativi da parte dell’imputato), ovvero un innalzamento del massimo sino a quindici anni di reclusione.

Una simile rigidità applicativa non può che generare la possibilità di risposte sanzionatorie manifestamente sproporzionate per eccesso – e dunque in contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost. – rispetto ai fatti di bancarotta fraudolenta meno gravi; e appare comunque distonica rispetto al menzionato principio dell’individualizzazione del trattamento sanzionatorio.

Tale conclusione non è, d’altra parte, inficiata dalle pronunce di questa Corte che hanno, talvolta, considerato costituzionalmente legittime pene pecuniarie di natura proporzionale congiunte alla reclusione o all’arresto, argomentando nel senso che la necessaria flessibilità della pena era, in quelle ipotesi, assicurata dalla commisurazione giudiziale della pena privativa della libertà entro il minimo e il massimo fissati dal legislatore (sentenza n. 188 del 1982; ordinanza n. 475 del 2002). Come recentemente sottolineato da questa Corte, infatti, la pena proporzionale si differenzia dalla pena fissa (sentenza n. 142 del 2017), proprio in quanto impone pur sempre al giudice una commisurazione che, per definizione, reagisce alla diversa gravità del fatto concreto (in genere attraverso la moltiplicazione di un coefficiente sanzionatorio fisso per il numero dei beni o delle persone che in concreto sono stati oggetto della condotta illecita). La disposizione oggi all’esame affianca invece ad una pena detentiva, modulabile tra il minimo e il massimo edittale, pene accessorie fisse nel loro ammontare, che come tali sono del tutto insensibili alla gravità concreta delle condotte commesse dall’imputato, e che per di più risultano – come si è detto – manifestamente sproporzionate, ove applicate ai fatti meno gravi riconducibili al paradigma astratto della bancarotta fraudolenta, propria o societaria.

8.– A questo punto, occorre però domandarsi se a tale riscontrato vulnus ai principi costituzionali questa Corte possa porre rimedio; e ciò alla luce dell’art. 25, secondo comma, Cost., che riserva al solo legislatore le scelte in materia di trattamento sanzionatorio dei fatti costituenti reato.

Come indicato al precedente punto 5., l’Avvocatura generale dello Stato ha – in effetti – eccepito l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale ora prospettata, sulla base del medesimo argomento che aveva condotto questa Corte, nella sentenza n. 134 del 2012 (e poi, in termini identici, nell’ordinanza n. 208 del 2012), a dichiarare inammissibile analoga questione già sollevata dalla Corte di cassazione: e cioè in ragione dell’assenza di una soluzione costituzionalmente obbligata, in grado di prendere il posto di quella che si sarebbe dovuta dichiarare illegittima.

L’eccezione deve, tuttavia, essere respinta, alla luce di una complessiva rimeditazione dei termini della questione. Rimeditazione che, da un lato, non può non tener conto della circostanza che – a tutt’oggi – il legislatore non ha provveduto a quella «riforma del sistema delle pene accessorie, che lo renda pienamente compatibile con i principi della Costituzione, ed in particolare con l’art. 27, terzo comma», auspicata da questa Corte nella sentenza n. 134 del 2012; e che, dall’altro, non può non considerare l’evoluzione in atto nella stessa giurisprudenza costituzionale in materia di sindacato sulla misura delle pene.

8.1.– Questa Corte ha avuto recentemente occasione di stabilire che, laddove il trattamento sanzionatorio previsto dal legislatore per una determinata figura di reato si riveli manifestamente irragionevole a causa della sua evidente sproporzione rispetto alla gravità del fatto, un intervento correttivo del giudice delle leggi è possibile a condizione che il trattamento sanzionatorio medesimo possa essere sostituito sulla base di «precisi punti di riferimento, già rinvenibili nel sistema legislativo», intesi quali «soluzioni [sanzionatorie] già esistenti, idonee a eliminare o ridurre la manifesta irragionevolezza lamentata» (sentenza n. 236 del 2016).

Tale principio deve essere confermato, e ulteriormente precisato, nel senso che – a consentire l’intervento di questa Corte di fronte a un riscontrato vulnus ai principi di proporzionalità e individualizzazione del trattamento sanzionatorio – non è necessario che esista, nel sistema, un’unica soluzione costituzionalmente vincolata in grado di sostituirsi a quella dichiarata illegittima, come quella prevista per una norma avente identica struttura e ratio, idonea a essere assunta come tertium comparationis. Essenziale, e sufficiente, a consentire il sindacato della Corte sulla congruità del trattamento sanzionatorio previsto per una determinata ipotesi di reato è che il sistema nel suo complesso offra alla Corte «precisi punti di riferimento» e soluzioni «già esistenti» (sentenza n. 236 del 2016) – esse stesse immuni da vizi di illegittimità, ancorché non "costituzionalmente obbligate” – che possano sostituirsi alla previsione sanzionatoria dichiarata illegittima; sì da consentire a questa Corte di porre rimedio nell’immediato al vulnus riscontrato, senza creare insostenibili vuoti di tutela degli interessi di volta in volta tutelati dalla norma incriminatrice incisa dalla propria pronuncia. Resta ferma, d’altra parte, la possibilità per il legislatore di intervenire in qualsiasi momento a individuare, nell’ambito della propria discrezionalità, altra – e in ipotesi più congrua – soluzione sanzionatoria, purché rispettosa dei principi costituzionali.

Tutto ciò in vista di una tutela effettiva dei principi e dei diritti fondamentali incisi dalle scelte sanzionatorie del legislatore, che rischierebbero di rimanere senza possibilità pratica di protezione laddove l’intervento di questa Corte restasse vincolato, come è stato a lungo in passato, ad una rigida esigenza di "rime obbligate” nell’individuazione della sanzione applicabile in luogo di quella dichiarata illegittima.

8.2.– In applicazione di tali criteri, occorre dunque vagliare se il sistema dei reati fallimentari, così come disegnato dal r.d. n. 267 del 1942, sia in grado di offrire a questa Corte precisi punti di riferimento nell’individuazione di un trattamento sanzionatorio che possa nell’immediato sostituirsi a quello dichiarato illegittimo; e ciò sino a che il legislatore, nell’esercizio della propria discrezionalità, provveda a individuare soluzioni alternative che dovesse ritenere preferibili.

La sezione rimettente, come già ricordato, osserva che, laddove questa Corte eliminasse dall’art. 216, ultimo comma, della legge fallimentare l’inciso «per la durata di dieci anni», si riespanderebbe la regola residuale posta dall’art. 37 cod. pen., a tenore del quale – per la parte che qui rileva – «[q]uando la legge stabilisce che la condanna importa una pena accessoria temporanea, e la durata di questa non è espressamente determinata, la pena accessoria ha una durata eguale a quella della pena principale inflitta».

In quest’ottica, la regola residuale di cui all’art. 37 cod. pen. – pur costituendo, come a suo tempo rilevato dalla sentenza n. 134 del 2012, solo «una tra quelle astrattamente ipotizzabili in caso di accoglimento della questione» – opererebbe pur sempre come una soluzione già esistente nel sistema, in grado di colmare automaticamente il vuoto creato con l’ablazione, da parte della pronuncia di illegittimità costituzionale, dell’inciso relativo alla durata legale delle pene accessorie previste dalla disposizione censurata.

8.3.– La soluzione proposta dall’ordinanza di rimessione ancorerebbe la durata concreta delle pene accessorie a quella della pena detentiva concretamente inflitta; durata che – a sua volta – dipende da tutti i fattori menzionati nell’art. 133 cod. pen. Il che assicurerebbe, sia pure in via mediata e indiretta, un certo grado di rispetto del principio di individualizzazione alle pene accessorie.

Tuttavia, tale soluzione finirebbe per sostituire l’originario automatismo legale con un diverso automatismo, che rischierebbe altresì di risultare distonico rispetto al legittimo intento del legislatore storico di colpire in modo severo gli autori dei delitti di bancarotta fraudolenta, considerati a buon diritto come gravemente lesivi di interessi, individuali e collettivi, vitali per il buon funzionamento del sistema economico.

L’art. 861 del codice di commercio del 1882 già prevedeva la pena dell’inabilitazione perpetua dall’esercizio della professione di commerciante per il condannato per bancarotta. Tale statuizione fu modificata in mitius con la legge 10 luglio 1930, n. 995 (Disposizioni sul fallimento, sul concordato preventivo, e sui piccoli fallimenti), che all’art. 20 affidava al giudice il compito di determinare, nella sentenza di condanna, la durata di tale inabilitazione tra un minimo di cinque e un massimo di dieci anni. Pochi anni dopo, tuttavia, la legge fallimentare del 1942 intervenne a inasprire nuovamente il trattamento sanzionatorio per il condannato a titolo di bancarotta fraudolenta, attraverso la previsione di due distinte pene accessorie, autonome e complementari, volte ad allontanarlo dall’ambito imprenditoriale per un lungo periodo successivo all’esecuzione della pena detentiva. E ciò, all’evidenza, allo scopo di estendere nel tempo l’effetto di prevenzione speciale negativa già esplicato dall’esecuzione della pena detentiva, oltre che di conferire maggiore capacità deterrente all’incriminazione.

La scelta legislativa compiuta nel 1942 sottende l’idea di una funzione almeno in parte distinta di queste pene accessorie rispetto alle funzioni proprie della reclusione: ciò che ne giustifica, nell’ottica del legislatore storico – e in consapevole difformità rispetto alla regola residuale di cui all’art. 37 cod. pen., già esistente nel 1942 –, una durata di regola maggiore rispetto a quella della pena detentiva concretamente inflitta.

Una simile prospettiva, che assegna alle pene accessorie una funzione almeno in parte distinta rispetto a quella delle pene detentive, e marcatamente orientata alla prevenzione speciale negativa – imperniata sull’interdizione del condannato da quelle attività che gli hanno fornito l’occasione per commettere gravi reati –, è di per sé immune da censure sotto il profilo della sua legittimità costituzionale.

Essenziale a garantire la compatibilità delle pene accessorie di natura interdittiva con il "volto costituzionale” della sanzione penale è, infatti, che esse non risultino manifestamente sproporzionate per eccesso rispetto al concreto disvalore del fatto di reato, tanto da vanificare lo stesso obiettivo di «rieducazione» del reo, imposto dall’art. 27, terzo comma, Cost. Fermo restando tale limite, nulla osta, sul piano dei principi costituzionali, a che il legislatore possa articolare strategie di prevenzione di gravi reati attraverso la previsione di sanzioni interdittive, la cui durata sia stabilita in modo indipendente da quella della pena detentiva; e ciò in ragione della diversa finalità delle due tipologie di sanzione, oltre che del loro diverso grado di afflittività rispetto ai diritti fondamentali della persona. In ottica de iure condendo, anzi, strategie siffatte ben potrebbero risultare funzionali a una possibile riduzione dell’attuale centralità della pena detentiva nel sistema sanzionatorio, senza indebolire la capacità deterrente della norma penale, né l’idoneità della complessiva risposta sanzionatoria rispetto all’altrettanto legittimo obiettivo della prevenzione speciale negativa. Finalità, l’una e l’altra, che potrebbero in ipotesi essere conseguite, nel caso concreto, anche senza la pena detentiva, ovvero mediante l’applicazione di pene detentive di durata più ridotta rispetto a quanto oggi abitualmente accada, ogniqualvolta sia previsto, per l’appunto, un robusto ed efficace corredo di pene interdittive, se del caso disciplinate anche come autonome pene principali, secondo quanto suggerito da vari progetti di riforma (come lo «Schema di disegno di legge recante delega legislativa al Governo della Repubblica per l’emanazione della parte generale di un nuovo codice penale», presentato nel maggio 2007 dalla Commissione "Pisapia”, nonché lo «Schema per la redazione di principi e criteri direttivi di delega legislativa in materia di riforma del sistema sanzionatorio penale» elaborato nel dicembre 2013 dalla Commissione "Palazzo”).

La soluzione in questa sede prospettata dalla sezione rimettente – ancorando meccanicamente la durata delle pene accessorie in esame a quella della pena detentiva concretamente inflitta – frustrerebbe, allora, indebitamente il legittimo scopo perseguito dalla disposizione impugnata: disposizione, peraltro, il cui vizio consiste non già, in via generale, nel difetto di proporzionalità della durata decennale delle pene accessorie da essa previste per tutte le ipotesi di bancarotta fraudolenta; bensì nella fissazione di una loro unica e indifferenziata durata legale, che – precludendo al giudice ogni apprezzamento discrezionale sulla gravità del reato e sulle condizioni personali del condannato – è suscettibile di tradursi nell’inflizione di pene accessorie manifestamente sproporzionate rispetto a quelle sole ipotesi di bancarotta fraudolenta che siano caratterizzate da un disvalore comparativamente lieve.

8.4.– Il sistema della legge fallimentare vigente offre, tuttavia, una diversa soluzione, in grado di sostituirsi a quella prevista dalla disposizione in questa sede censurata, e di inserirsi al tempo stesso armonicamente all’interno della logica già seguita dal legislatore, al netto del riscontrato vizio di costituzionalità.

Le due disposizioni che immediatamente seguono l’art. 216 della legge fallimentare – l’art. 217, rubricato «Bancarotta semplice», e l’art. 218, rubricato «Ricorso abusivo al credito» – prevedono le medesime pene accessorie indicate nell’ultimo comma dell’art. 216; ma dispongono che la loro durata sia stabilita discrezionalmente dal giudice «fino a» un massimo determinato dalla legge (due anni nel caso della bancarotta semplice, tre anni nel caso del ricorso abusivo al credito).

La medesima logica, già presente e operante nel sistema, può agevolmente essere trasposta all’interno dell’art. 216 della legge fallimentare, attraverso la sostituzione dell’attuale previsione della durata fissa di dieci anni delle pene accessorie in esame con la previsione, modellata su quella già prevista per gli artt. 217 e 218 della medesima legge, della loro durata «fino a dieci anni».

Pertanto, la disposizione censurata deve essere dichiarata illegittima nella parte in cui dispone: «la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa per la durata di dieci anni l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa», anziché: «la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni».

Tale soluzione – ovviamente soggetta a eventuali rivalutazioni da parte del legislatore, sempre nel rispetto del principio di proporzionalità – consentirà al giudice di determinare, con valutazione caso per caso e disgiunta da quella che presiede alla commisurazione della pena detentiva, la durata delle pene accessorie previste dalla disposizione censurata, sulla base dei criteri indicati dall’art. 133 cod. pen.; durata che potrebbe dunque risultare, in concreto, maggiore di quella della pena detentiva contestualmente inflitta, purché entro il limite massimo di dieci anni. Ciò tenendo conto sia del diverso carico di afflittività, sia della diversa finalità, che caratterizzano le pene accessorie in parola rispetto alla pena detentiva: diverse afflittività e finalità che suggeriscono, nell’ottica di una piena attuazione dei principi costituzionali che presiedono alla commisurazione della pena, una determinazione giudiziale autonoma delle due tipologie di pena nel caso concreto.

Fermo restando che «la valutazione del modo in cui il sistema normativo reagisce ad una sentenza costituzionale di accoglimento […] spetta al giudice del processo principale, unico competente a definire il giudizio da cui prende le mosse l’incidente di costituzionalità» (sentenza n. 28 del 2010), a parere di questa Corte la regola residuale di cui all’art. 37 cod. pen. continuerà dunque a non operare rispetto all’art. 216, ultimo comma, della legge fallimentare – come risultante dalla presente pronuncia –, dal momento che tale regola ha come suo presupposto operativo che la durata della pena accessoria temporanea non sia espressamente determinata dalla legge. L’esistenza di una lex specialis, in effetti, esclude l’operatività del criterio residuale di cui all’art. 37 cod. pen., il cui inciso finale («in nessun caso [la pena accessoria] può oltrepassare il limite minimo e quello massimo stabilito per ciascuna specie di pena accessoria») appare riferito non già ai limiti di durata delle pene accessorie previsti da singole norme incriminatrici – come l’art. 216 della legge fallimentare –, bensì ai limiti minimi e massimi individuati dalle disposizioni del Libro I del codice penale – in particolare, dagli artt. 28, terzo comma, 30, secondo comma, 32-ter, secondo comma, 35, secondo comma, e 35-bis, secondo comma, cod. pen. – che prevedono le singole «specie» di pene accessorie.

8.5.– La questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto l’art. 216, ultimo comma, della legge fallimentare deve, in conclusione, ritenersi ammissibile e fondata, nei termini sopra precisati, con riferimento agli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, Cost., restando assorbito ogni altro profilo di censura.

9.– L’accoglimento nei termini predetti della questione relativa all’art. 216, ultimo comma, della legge fallimentare rende inammissibile, per sopravvenuta carenza di oggetto, la seconda questione relativa all’art. 223, ultimo comma, della medesima legge, dal momento che il contenuto di quest’ultima disposizione – che strutturalmente opera un rinvio mobile alla disposizione incisa dalla presente pronuncia – è destinato a essere automaticamente modificato in conseguenza della presente pronuncia di illegittimità costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara inammissibile la costituzione in giudizio di A. M., parte civile nel giudizio a quo;

2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 216, ultimo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa), nella parte in cui dispone: «la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa per la durata di dieci anni l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa», anziché: «la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni»;

3) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 223, ultimo comma, della legge fallimentare, sollevata dalla Corte di cassazione, prima sezione penale, con l’ordinanza indicata in epigrafe, in riferimento agli artt. 3, 4, 41, 27 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, e 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione, fatto a Parigi il 20 marzo 1952, entrambi ratificati e resi esecutivi con la legge 4 agosto 1955, n. 848.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 settembre 2018.

F.to:

Giorgio LATTANZI, Presidente

Francesco VIGANÒ, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 5 dicembre 2018.