SENTENZA N. 134
ANNO 2012
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta
dai signori:
- Alfonso QUARANTA Presidente
- Franco GALLO Giudice
- Luigi MAZZELLA ”
- Gaetano SILVESTRI ”
- Sabino CASSESE ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario
Rosario MORELLI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 216, ultimo comma, del regio decreto
16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo,
dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), promossi dalla Corte d’appello di Trieste con ordinanza
del 20 gennaio 2011 e dalla Corte di cassazione con ordinanza del 21 aprile
2011, rispettivamente iscritte ai nn. 77 e 251 del registro
ordinanze 2011 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 19 e 51, prima serie speciale, dell’anno 2011.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nella camera di consiglio del 4 aprile 2012 il Giudice
relatore Paolo Maria Napolitano.
Ritenuto in fatto
1.–– Con ordinanza del 20 gennaio 2011 la Corte d’appello di Trieste ha sollevato – in riferimento agli articoli 3, 4, 27, terzo comma, e 41 della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’articolo 216, ultimo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nella parte in cui prevede che, per ogni ipotesi di condanna per i fatti di bancarotta previsti nei commi precedenti del medesimo articolo, si applichino le pene accessorie dell’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e dell’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa per la durata di dieci anni.
La Corte rimettente premette che oggetto del giudizio è l’appello avverso la sentenza con la quale gli appellanti sono stati condannati dal Tribunale di Udine in ordine al «delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale p. e p. dagli artt. 110 e 40, comma 2, c.p. e dagli artt. 216, comma 1 n. 1, 223, comma 1, e 219 R.D. 16.3.1942, n. 267 (l. Fall.), per avere (recte: perché), in concorso tra loro, quali componenti del consiglio di amministrazione, e quindi amministratori della società (omissis) con sede in Trivignano Udinese (UD) […] dichiarata fallita con sentenza del Tribunale di Udine n. 30/2006 del 26 giugno 2006, distraevano, dissipavano, ovvero non impedivano la distrazione e la dissipazione, di attività della società fallita».
La Corte rimettente evidenzia che il Tribunale di Udine, con la sentenza appellata, ha condannato tutti gli imputati, previa concessione delle attenuanti generiche ritenute prevalenti rispetto alle aggravanti contestate, alla pena principale di anni due di reclusione e alla pena accessoria, di cui all’art. 216, ultimo comma, del r.d. n. 267 del 1942, dell’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale per la durata di anni dieci e dell’incapacità, per la stessa durata, ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa. A tutti gli imputati è stato concesso, inoltre, il beneficio della sospensione condizionale della pena.
All’udienza dibattimentale del giudizio di appello il difensore degli imputati ha rinunciato ai motivi d’appello diversi da quello afferente l’entità della pena principale e delle conseguenti pene accessorie, di cui all’art. 216, ultimo comma, del r.d. n. 267 del 1942 e ha concluso chiedendo la riduzione di entrambe le pene, quella principale e quella accessoria.
Il Procuratore Generale della Repubblica ha chiesto la riduzione della pena inflitta agli imputati, tenuto conto «dell’intervenuto, seppur tardivo, risarcimento del danno nei confronti del fallimento già costituitosi parte civile, costituzione revocata in apertura d’udienza, a quella di anni uno e mesi sei di reclusione e la conferma delle ulteriori statuizioni dell’impugnata sentenza, fra cui, l’irrogazione delle pene accessorie anzidette per la durata di anni dieci».
La Corte d’appello di Trieste, così delineata la vicenda processuale, precisa di aver esaminato i profili di responsabilità degli imputati, particolarmente per quanto attiene all’elemento soggettivo del reato e di ritenere che la pena inflitta agli imputati possa essere effettivamente ridotta come richiesto dalla pubblica accusa.
In particolare, la rimettente valorizza, ai fini della riduzione della pena, i seguenti fatti: che la contestata bancarotta fraudolenta non sarebbe stata consumata con artifizi particolari – le condotte materiali risultano in termini trasparenti dalle stesse scritture contabili tanto che, non a caso, non è contestata la bancarotta documentale –, che la «distrazione» ha connotati del tutto peculiari, e che gli imputati si sono adoperati, seppure tardivamente, per risarcire il danno, in modo da meritare l’applicazione dell’attenuante comune di cui all’art. 62, numero 6), del codice penale.
Secondo la Corte rimettente, stante la ridotta gravità dei fatti, anche le pene accessorie dovrebbero, secondo equità, essere ridotte, ma osterebbe a tale riduzione il disposto dell’ultimo comma dell’art. 216 del r.d. n. 267 del 1942 che stabilisce la durata di tali pene in misura fissa (dieci anni).
Anche la giurisprudenza di legittimità ha interpretato – anche se non univocamente – la norma in esame nel senso che non è possibile una rimodulazione della pena accessoria in relazione alla maggiore o minore gravità del fatto (Corte di cassazione, sezione V penale, 18 febbraio 2007, n. 39337; sezione V penale, 18 febbraio 2010, n. 17960).
La Corte d’appello di Trieste cita anche la giurisprudenza contraria (Corte di cassazione, sezione V penale, 31 marzo 2010, n. 23720) che, se pur fondata su esigenze di equità e di conformità a Costituzione, ritiene di non poter seguire a fronte dell’inderogabile previsione normativa significativamente diversa, anche sul piano letterale, da quella dell’art. 217, ultimo comma, del r.d. n. 267 del 1942.
Secondo la rimettente, l’art. 216, ultimo comma, del r.d. n. 267 del 1942 non sarebbe conforme a molteplici principi costituzionali, da quello di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.), a quelli che riconoscono il diritto al lavoro e che permettono ad ogni cittadino di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società (art. 4 Cost.). La disposizione legislativa contrasterebbe, infine, con la finalità rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, Cost.), e con i principi che indirizzano a fini sociali l’iniziativa economica privata (art. 41 Cost.) e che ne riconoscono la libertà.
La norma oggetto di censura, nel predeterminare in misura fissa la durata delle pene accessorie, non terrebbe conto del fatto che tali pene accessorie conseguono a comportamenti di gravità assolutamente diversa, essendo profondamente differenziate le varie condotte sussunte nella norma incriminatrice – bancarotta distrattiva, dissipativa, documentale, preferenziale – difformi fra loro sul piano oggettivo e che consentono al giudice di determinare la pena principale in un ampio ambito che va da tre a dieci anni di reclusione, riconoscendosi in tal modo implicitamente che la fattispecie astratta trova applicazione rispetto a condotte di gravità molto diversa tra loro.
Lo spettro sanzionatorio sarebbe ancora più ampio, posto che le pene accessorie predeterminate nella durata trovano applicazione indifferentemente tanto nelle ipotesi aggravate che in quelle attenuate contemplate dall’art. 219 del r.d. n. 267 del 1942.
Secondo la Corte rimettente, infine, una pena accessoria di tale durata – «e che può prolungarsi ben oltre la durata della pena principale» – non sarebbe conforme alle esigenze di rieducazione e reinserimento sociale del condannato anche quale membro economicamente attivo della società, considerato che non gli è consentito di svolgere alcuna attività imprenditoriale di produzione di beni o servizi ovvero commerciale, anche come imprenditore individuale.
Tale pena accessoria, pertanto, comprimerebbe significativamente, «nell’ambito del solo lavoro dipendente e non dirigenziale», le attitudini lavorative del condannato, per un tempo che potrebbe essere persino superiore di dieci volte la durata della pena principale inflitta.
2.–– È intervenuto nel presente giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l’infondatezza della questione.
Secondo la difesa statale, lo stesso giudice a quo avrebbe dato atto dell’esistenza di un indirizzo giurisprudenziale secondo il quale l’art. 216, ultimo comma, del r.d. n. 267 del 1942 – lungi dall’aver stabilito la durata delle pene accessorie nella misura fissa ed inderogabile di dieci anni – ha solo individuato la misura massima delle stesse, lasciando al giudice la commisurazione della durata in concreto di tali pene accessorie, in applicazione dell’art. 133 cod. pen. (Corte di cassazione, sezione quinta penale, 31 marzo 2010, n. 23720).
L’Avvocatura dello Stato prende atto che il rimettente afferma di non poter seguire tale indirizzo, a ciò ostando l’inderogabilità della previsione normativa, significativamente diversa, anche sul piano letterale, da quella dell’art. 217, ultimo comma, della legge fallimentare. Osserva, al riguardo, che l’opzione interpretativa autorevolmente avallata dalla più recente giurisprudenza della Suprema Corte trova il suo fondamento nella consapevolezza dell’incostituzionalità della disposizione in questione, ove interpretata in senso angustamente letterale, e della conseguente esigenza di darne una lettura costituzionalmente orientata.
Sulla base di queste argomentazioni l’Avvocatura dello Stato chiede che la questione sia dichiarata infondata.
3.–– Con ordinanza del 21 aprile del 2011 la Corte di cassazione ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, e 111 della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’art. 216, ultimo comma, del r.d. n. 267 del 1942, nella parte in cui prevede che, per ogni ipotesi di condanna per i fatti di bancarotta previsti nei commi precedenti del medesimo articolo, si applichino le pene accessorie dell’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e dell’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa per la durata di dieci anni.
La Corte rimettente premette, in fatto, di dover giudicare sul ricorso avverso una sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti emessa dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Caltanissetta nei confronti di alcuni imputati, a vario titolo, di fatti di bancarotta fraudolenta.
Tra i motivi di impugnazione, prosegue
la rimettente, vi è quello relativo all’applicazione delle sanzioni accessorie
– non dedotte nell’accordo pattizio – in misura
fissa, anziché pari alla durata della pena principale.
Su questo motivo di ricorso, il Collegio
dà atto di non poter decidere allo stato degli atti, ravvisando un contrasto di
pronunce sul punto anche all’interno della stessa sezione della Corte di
cassazione.
Il contrasto attiene all’interpretazione
dell’art. 216, ultimo comma, del r.d. n. 267 del 1942 e, segnatamente, alla
durata della sanzione dell’inabilitazione ivi prevista.
L’orientamento seguito pressoché
costantemente dalla Corte in tema di bancarotta fraudolenta (rilevabile sin
dalla sentenza della sezione V del 16 ottobre 1973, n. 126018) è nel senso che
la pena accessoria dell’inabilitazione all’esercizio di imprese commerciali ed
alla incapacità di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa, sia
fissata inderogabilmente nella misura di dieci anni. Pertanto, non trattandosi
di pena indeterminata, la sua durata si sottrae alla disciplina disposta
dall’art. 37 cod. pen.
Tuttavia, a fronte di siffatta lettura,
recenti sentenze (Corte di cassazione, sezione V penale, 10 marzo 2010, n.
9672; sezione V penale, 31 marzo 2010, n. 23720) hanno ritenuto che la fissità
della sanzione accessoria contrasti con «il "volto costituzionale”
dell’illecito penale», e che il sistema normativo debba lasciare, comunque,
adeguati spazi alla discrezionalità del giudice, al fine di permettere
l’adeguamento della risposta punitiva alle singole fattispecie concrete: in tal
senso sarebbe illegittima una previsione che lasci il giudice privo di
sufficienti margini di adattamento del trattamento sanzionatorio alle
peculiarità della singola ipotesi concreta.
La Corte rimettente precisa che questo
secondo indirizzo ermeneutico è ispirato da importanti pronunce della Corte
costituzionale (ordinanze nn. 91 e 4 del 2008, n. 50 del 1980)
nelle quali si è detto che: «In linea di principio [...] previsioni sanzionatorie
rigide non appaiono in armonia con il "volto costituzionale” del sistema
penale; ed il dubbio di illegittimità costituzionale potrà essere, caso per
caso, superato a condizione che, per la natura dell’illecito sanzionatorio e
per la misura della sanzione prevista, quest’ultima appaia ragionevolmente
"proporzionata” rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo
specifico tipo di reato».
A parere della Corte di cassazione, la
sottrazione del giudizio ai consueti criteri dettati dagli artt. 132 e 133 cod.
pen. urta con le previsioni costituzionali degli
artt. 3 e 27 Cost.
Venendo alla motivazione sulla rilevanza
e sulla non manifesta infondatezza, la rimettente precisa, in primo luogo, che
l’interpretazione costituzionalmente orientata si scontra con il dato testuale
dell’art. 216, ultimo comma, del r.d. n. 267 del 1942 e che spetta alla Corte
costituzionale l’eventuale affermazione di illegittimità della previsione
legislativa.
In questa prospettiva si ravvisa un
contrasto tra l’art. 216, ultimo comma, del r.d. n. 267 del 1942, e gli artt. 3
e 27 della Carta fondamentale, attesa la rigidità dispositiva della
prescrizione penale, a fronte del variare della situazione concreta,
caratteristica che determina una sostanziale ingiustizia nel trattare allo
stesso modo condotte di rilievo penale tra loro differenti e difformemente
sanzionate dal legislatore mediante la pena principale.
La Corte di cassazione si riferisce, in
particolare, alla ipotesi di «bancarotta preferenziale» nonché alla singolare
ampiezza dell’escursione afflittiva contemplata dalle circostanze speciali di
cui all’art. 219, primo e ultimo comma, del r.d. n. 267 del 1942.
Inoltre, evidenzia la sproporzione che
l’ordinamento appresta nei riti alternativi in cui – come nel caso in esame –
la risposta della pena principale risulta grandemente inferiore rispetto a
quella accessoria, a cagione della diminuzione premiale consentita o imposta
dal legislatore.
Anche in relazione all’art. 111 Cost. il
ragionamento precedentemente svolto sembra, secondo la Corte rimettente,
rafforzarsi. Tale norma costituzionale, nell’imporre all’ordinamento la
celebrazione di processi «giusti», non pretende soltanto un corretto
svolgimento degli stessi per il rispetto della legge, delle garanzie assegnate
alle parti, del contraddittorio e per l’espletamento del processo in limiti di
tempo ragionevoli. Essa prefigura anche la garanzia di un’equa soluzione, alla
luce delle risultanze di causa che il giudice acquisisce nella varie fasi
processuali.
Risulterebbero vanificati gli strumenti
di garanzia che assicurano equilibrio del dibattito e pienezza di poteri
argomentativi per arrivare, in un processo «giusto», ad una decisone «giusta»,
se poi la soluzione che compete al giudice, terzo ed imparziale, fosse coartata
nella fase decisionale in ordine ai dati correttamente versati in atti.
In altri termini, non si comprenderebbe
quale effettivo significato possa darsi ad un sistema che annovera un
dettagliato paradigma valutativo negli artt. 132 e 133 cod. pen.,
ma, all’effetto pratico, impedisce al giudice di ricondurre siffatti esiti ad
un’equa e adeguata considerazione sanzionatoria, ancorché «accessoria».
In conclusione, la norma censurata
sarebbe in contrasto con il principio del «minore sacrificio necessario» nella
risposta punitiva dell’ordinamento a fronte della violazione penale, quando
nulla impedirebbe di estendere i parametri propri della pena principale alla
misura della pena accessoria, assegnando al giudice, caso per caso, la più
opportuna statuizione.
3.1.–– È
intervenuto nel giudizio di costituzionalità il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato,
concludendo per l’infondatezza della questione.
Secondo la difesa statale lo stesso
giudice a quo avrebbe dato atto
dell’esistenza di un indirizzo giurisprudenziale secondo il quale l’art. 216,
ultimo comma, del r.d. n. 267 del 1942, lungi dall’aver stabilito la durata
delle pene accessorie nella misura fissa ed inderogabile di dieci anni, ha solo
individuato la misura massima delle stesse, lasciando al giudice la
commisurazione della durata in concreto di tali pene accessorie, in
applicazione dell’art. 133 cod. pen. (in particolare,
Corte di cassazione 31 marzo 2010, n. 23720).
Il rimettente afferma di non poter
seguire tale indirizzo a ciò ostando l’inderogabilità della previsione
normativa, significativamente diversa, anche sul piano letterale, da quella
dell’art. 217, ultimo comma, del r.d. n. 267 del 1942.
In realtà, l’opzione interpretativa autorevolmente
avallata dalla più recente giurisprudenza della Suprema Corte risulta proprio
dalla consapevolezza dell’incostituzionalità della disposizione in questione,
ove interpretata in senso angustamente letterale, e della conseguente esigenza
di darne una lettura costituzionalmente orientata.
Sulla base di queste argomentazioni
l’Avvocatura dello Stato chiede che la questione sia dichiarata infondata.
Con memoria depositata in prossimità
dell’udienza la difesa statale ribadisce la proprie argomentazioni circa la
possibilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma
impugnata e conclude per l’infondatezza della questione sollevata.
Considerato in diritto
1.–– La Corte d’appello di Trieste, con ordinanza del 20 gennaio 2011, e la Corte di cassazione, con ordinanza del 21 aprile del 2011, hanno sollevato – in riferimento agli articoli 3, 4, 27, terzo comma, 41 e 111 della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’articolo 216, ultimo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nella parte in cui prevede che, per ogni ipotesi di condanna per i fatti di bancarotta previsti nei commi precedenti del medesimo articolo, si applichino le pene accessorie dell’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e dell’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa per la durata di dieci anni.
Secondo la Corte d’appello di Trieste la determinazione dell’entità della pena
accessoria del delitto di bancarotta fraudolenta in misura fissa violerebbe gli
artt. 3 e 27 Cost. perché non consentirebbe di tener conto del fatto che tali
pene accessorie conseguono a condotte di gravità assolutamente diversa –
bancarotta distrattiva, dissipativa, documentale,
preferenziale – tanto da consentire al giudice di determinare la pena
principale in un ampio ambito che va da tre a dieci anni di reclusione,
riconoscendosi in tal modo implicitamente che la fattispecie astratta trova
applicazione rispetto a condotte di gravità molto diverse tra loro.
Inoltre, una pena accessoria di tale
durata – e che «può prolungarsi ben oltre la durata della pena principale» –
non sarebbe conforme alle esigenze di rieducazione e reinserimento sociale del
condannato quale membro economicamente attivo della società, violando, quindi,
gli artt. 27, terzo comma, e 4 Cost.
Infine, risulterebbe violato anche
l’art. 41 Cost., in quanto una pena accessoria così modulata «comprime
significativamente, nell’ambito del solo lavoro dipendente e non dirigenziale
le attitudini lavorative del condannato per un tempo che può essere persino
superiore di dieci volte la durata della pena principale inflitta».
Anche
la questione sollevata dalla Corte di cassazione si fonda sulla violazione
degli artt. 3, 27 e 111 Cost. perché la rigidità della prescrizione, a fronte
del variare della situazione concreta, determinerebbe una sostanziale
ingiustizia nel trattare allo stesso modo condotte di rilievo penale tra loro
differenti e difformemente sanzionate dal legislatore mediante la pena
principale e, anche, una violazione del «giusto processo».
1.1.–– Le ordinanze di rimessione sollevano questioni identiche o analoghe, onde i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione.
I giudici a quibus dubitano, in riferimento a plurimi parametri, della legittimità costituzionale della disciplina che stabilisce la durata della pena accessoria, prevista, per il delitto di bancarotta fraudolenta dall’art. 216, ultimo comma, del r.d. n. 267 del 1942, nella misura fissa di dieci anni.
2.–– Premesso
che la Corte intende ribadire (da ultimo, ordinanza n. 293
del 2008) l’opportunità che il legislatore ponga mano ad una riforma del
sistema delle pene accessorie, che lo renda pienamente compatibile con i
principi della Costituzione, ed in particolare con l’art. 27, terzo comma,
tuttavia le questioni di legittimità costituzionale oggi all’esame sono
inammissibili in considerazione del petitum formulato dai rimettenti.
Infatti, in entrambe le ordinanze, si
lamenta la non conformità a Costituzione della predeterminazione nella misura
fissa di dieci anni della pena accessoria dell’inabilitazione all’esercizio di
un’impresa commerciale e ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi
impresa, di cui all’art. 216, ultimo comma, del r.d. n. 267 del 1942 per il
delitto di bancarotta.
La Corte d’appello di Trieste afferma che la predeterminazione in misura
fissa della pena accessoria impedisce l’applicazione dell’art. 37 cod. pen. secondo il quale «Quando la legge stabilisce che la
condanna importa una pena accessoria temporanea, e la durata di questa non è
espressamente determinata, la pena accessoria ha una durata eguale a quella
della pena principale inflitta, o che dovrebbe scontarsi, nel caso di
conversione, per insolvibilità del condannato».
Nello stesso senso la Corte di
cassazione, ritenendo preclusa un’interpretazione dell’art. 216, ultimo comma,
del r.d. n. 267 del 1942, che consenta di applicare l’art. 37 cod. pen., vuole giungere al medesimo risultato mediante una
pronuncia di questa Corte.
Le rimettenti, dunque, chiedono alla
Corte di aggiungere le parole «fino a» all’ultimo comma dell’art. 216 del r.d.
n. 267 del 1942 al fine di rendere possibile l’applicazione dell’art. 37 cod. pen.
Tuttavia, la soluzione prospettata è
solo una tra quelle astrattamente ipotizzabili in caso di accoglimento della
questione: infatti sarebbe anche possibile prevedere una pena accessoria
predeterminata ma non in misura fissa (ad esempio da cinque a dieci anni) o una
diversa articolazione delle pene accessorie in rapporto all’entità della pena
detentiva.
Risulta evidente che l’addizione
normativa richiesta dai giudici a quibus non
costituisce una soluzione costituzionalmente obbligata, ed eccede i poteri di
intervento di questa Corte, implicando scelte affidate alla discrezionalità del
legislatore.
Pertanto deve farsi applicazione del
principio, più volte espresso, secondo il quale sono inammissibili le questioni
di costituzionalità relative a materie riservate alla discrezionalità del
legislatore e che si risolvono in una richiesta di pronuncia additiva a
contenuto non costituzionalmente obbligato.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 216, ultimo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), sollevate – in riferimento agli articoli 3, 4, 27, terzo comma, e 41 della Costituzione – dalla Corte d’appello di Trieste e – in riferimento agli articoli 3, 27 e 111 della Costituzione – dalla Corte di cassazione, con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 maggio
2012.
F.to:
Alfonso QUARANTA, Presidente
Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere