SENTENZA N. 67
ANNO 1963
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Prof. Gaspare AMBROSINI, Presidente
Prof. Giuseppe CASTELLI AVOLIO
Prof. Antonino PAPALDO
Prof. Giovanni CASSANDRO
Prof. Biagio PETROCELLI
Dott. Antonio MANCA
Prof. Aldo SANDULLI
Prof. Giuseppe BRANCA
Prof. Michele FRAGALI
Prof. Costantino MORTATI
Prof. Giuseppe CHIARELLI
Dott. Giuseppe VERZÌ
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell' art . 54 del R.D.L. 15 ottobre 1925, n. 2033, promosso con ordinanza emessa il 27 marzo 1962 dal Tribunale di Napoli nel procedimento penale a carico di Brancaccio Vittoria, iscritta al n. 94 del Registro ordinanze 1962 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 152 del 16 giugno 1962.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
udita nell'udienza pubblica del 6 marzo 1963 la relazione del Giudice Costantino Mortati;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Franco Chiarotti, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.
Ritenuto in fatto
Nel corso del procedimento penale di appello promosso avanti al Tribunale di Napoli contro tale Brancaccio Vittoria, imputata di contravvenzione alla legge per la repressione delle frodi in materia di produzione e commercio di prodotti agrari, veniva sollevata dalla difesa eccezione di incostituzionalità dell'art. 54 del D.L. 15 ottobre 1925, n. 2033, nella considerazione che la pena pecuniaria in misura fissa dal medesimo prevista contrasta con gli artt. 3, primo comma, e 27, primo e terzo comma, della Costituzione.
Il Tribunale con sua ordinanza del 27 marzo 1962 ha ritenuto che tale eccezione, oltre che rilevante per la definizione del giudizio, fosse anche non manifestamente infondata nella considerazione che la responsabilità penale sancita nell'art. 27 deve essere intesa, oltre che come rapportabilità del fatto-reato al suo autore, altresì come affermazione del principio della individualizzazione della pena, ossia della sua adeguazione, con applicazione dei criteri di cui all'art. 133 del Codice penale, non solo alla entità del fatto, ma altresì alla personalità del colpevole, e ciò anche in considerazione dei fini di emenda e di rieducazione che lo stesso art. 27 collega alla sanzione penale, e del carattere retributivo che questa deve rivestire, in applicazione del principio di eguaglianza di cui all'art. 3.
L'ordinanza, debitamente notificata e comunicata, é stata, insieme agli atti del giudizio, trasmessa a questa Corte e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 16 giugno 1962, n. 152.
Si é costituito avanti alla Corte solo il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato, ed ha depositato le proprie deduzioni in data 25 aprile 1962. L'Avvocatura comincia col rilevare che le condotte illecite sanzionate in misura fissa dall'art. 54 sono di consistenza tanto esigua e di espressione pratica così definita da far dubitare che per la loro valutazione sia proficuo far ricorso alla indagine sulle circostanze del reato cui ha riguardo l'art. 133 del Codice penale. Comunque é da tener conto che, pur nel caso di contravvenzione punita con multa in misura fissa, si rende sempre possibile al giudice adeguare la pena all'entità della responsabilità penale valutandola in modo diverso pure nei casi che abbiano lo stesso contenuto materiale, mediante l'impiego dei vari correttivi che il sistema del diritto penale all'uopo gli fornisce. Dal che deduce che, risultando osservata l'esigenza di effettuare trattamento diverso allorché le condizioni della responsabilità non siano uguali, l'art. 3 della Costituzione non può ritenersi violato.
Quanto alla presunta violazione dell'art. 27, fa osservare in primo luogo come al principio della rapportabilità fisica del fatto-reato al suo autore, che si afferma sanzionato da detto articolo, non si può attribuire il significato dell'adeguatezza della pena in concreto alla entità della responsabilità, ed altresì come, analogamente, una deduzione di tal genere non può neppure trarsi dallo scopo di rieducazione che l'articolo stesso assegna alla pena. Conclude chiedendo che la questione sollevata sia dichiarata infondata.
Nella discussione orale il rappresentante dell'Avvocatura ha confermato le deduzioni scritte.
Considerato in diritto
1. - Ritiene la Corte che nessuno dei tre motivi dedotti nel l'ordinanza del Tribunale di Napoli a sostegno dell'eccezione di incostituzionalità dell'art. 54 del R.D.L. 15 ottobre 1925, n. 2033, che commina una pena pecuniaria in misura fissa per le infrazioni cui esso si riferisce, abbia fondamento.
Non fondato é il primo di essi con il quale si sostiene la violazione dell'art. 27, primo comma, della Costituzione, nel presupposto che questo, oltre a sancire il divieto di far valere la responsabilità penale per fatto altrui, imponga anche al legislatore di determinare la pena in misura variabile fra un massimo ed un minimo, così da consentire al giudice di adeguarla alle condizioni personali del colpevole. Nessun elemento può essere invocato a suffragare tale interpretazione, poiché la concorde volontà del Costituente, indirizzata nel dettare la disposizione in esame (secondo risulta dai lavori preparatori) allo scopo di riaffermare, nel campo giuridico penale, quell'alto principio di civiltà per cui ciascuno deve portare la pena soltanto delle proprie colpe e non anche di quelle altrui, principio che così gravi violazioni ha subite nel recente passato, ha trovato precisa ed univoca espressione nella formula adoperata della "responsabilità personale", che vuole affermare il legame esclusivo ed indissolubile fra le conseguenze penali che l'ordinamento giuridico fa derivare dal reato e la persona che quel reato ha posto in essere, e non investe, quindi, il rapporto di adeguazione del trattamento penale inflitto alle condizioni proprie del soggetto.
2. - Ancor meno degno di considerazione é il motivo con cui si fa valere un presunto contrasto della norma impugnata con il terzo comma dello stesso art. 27, e ciò perché l'emenda del condannato, che questo pone quale una delle finalità della pena, é affidata piuttosto ai modi della sua esecuzione, e comunque non può riuscire compromessa per la sola circostanza del carattere di rigidezza impresso alla pena medesima dalla legge.
3. - Quanto, infine, alla violazione del principio di eguaglianza che si vorrebbe far derivare da tale rigidezza, pel fatto che nel caso in questione verrebbe meno la possibilità per il giudice di regolare la sanzione fra un minimo e un massimo, é da osservare che, se pure é da ammettere che lo strumento meglio idoneo al conseguimento di tale finalità sia la mobilità della pena, cioè la predeterminazione della medesima da parte del legislatore in modo da contenerla fra un massimo ed un minimo, non può invece ritenersi che esso sia il solo, e che quindi la omissione della sua adozione in singoli casi incida sulla validità della legge che incorra in essa (secondo é stato già statuito con la sentenza n. 15 del 1962). É tuttavia da osservare che anche nell'ipotesi prospettata l'esigenza della adeguazione della pena alle condizioni personali del reo rimane soddisfatta ove il sistema penale consenta al giudice (come avviene in quello da noi vigente) di potere valutare a tale effetto, fra le varie modalità presentate dalle singole attività criminose, anche quelle attinenti alle condizioni predette. Così, per limitarsi alle sanzioni pecuniarie, tale sistema rende possibile al giudice di procedere ad una loro graduazione attraverso l'applicazione di talune circostanze, e in particolare di quelle generiche ex art. 62 bis, allorché egli ritenga di dover diminuire la pena, oppure usando del potere di aumentare l'ammenda fino al triplo (ai sensi del secondo comma dell'art. 26 del Cod. pen., nel testo modificato dal D.L.C.P.S. 21 ottobre 1947, n. 1250) nei casi in cui le condizioni economiche del reo facciano presumere la sua inefficacia ove rimanesse contenuta nella misura prevista in via generale dal primo comma dello stesso art. 26.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata l'eccezione di illegittimità costituzionale dell'art. 54 del R.D.L. 15 ottobre 1925, n. 2033, e successive modifiche, in relazione agli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 maggio 1963.
Gaspare AMBROSINI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Antonino PAPALDO - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ.
Depositata in cancelleria il 15 maggio 1963.