SENTENZA N. 236
ANNO 2016
Commento alla decisione di
Francesco Viganò
Un’importante
pronuncia della Consulta sulla proporzionalità della pena
per g.c. di Diritto Penale Contemporaneo
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
composta dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Alessandro CRISCUOLO Giudice
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità
costituzionale dell’art. 567, secondo comma, del codice penale, promosso dal
Tribunale ordinario di Varese nel procedimento penale a carico di P.S. ed altro
con ordinanza
del 30 settembre 2015, iscritta al n. 13 del registro ordinanze 2016 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie
speciale, dell’anno 2016.
Visto l’atto di intervento del
Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio
del 21 settembre 2016 il Giudice relatore Nicolò Zanon.
Ritenuto
in fatto
1. – Con
ordinanza del 30 settembre 2015, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 5 del 2016 (r.o. n. 13 del 2016), il
Tribunale ordinario di Varese ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione,
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 567, secondo comma, del
codice penale, nella parte in cui prevederebbe un
trattamento sanzionatorio irragionevolmente eccessivo e sproporzionato, anche
in riferimento alle altre fattispecie delittuose contenute
nel Libro II, Titolo XI, Capo III, del codice penale.
1.1. –
Quanto alla rilevanza delle questioni, il giudice rimettente evidenzia che esse
sono sollevate nell’ambito di un giudizio penale nel quale si procede a carico
di due imputati, accusati del delitto di cui all’art. 567, secondo comma, cod. pen., perché, in concorso tra loro, nella formazione
dell’atto di nascita di una neonata, ne alteravano lo stato civile, attestando
falsamente che ella era nata dall’unione naturale dei dichiaranti. In caso di
condanna, sottolinea il giudice a quo,
agli imputati non potrebbe che essere irrogata una sanzione da determinarsi
all’interno della cornice edittale la cui legittimità costituzionale è
contestata.
1.2. – In
punto di non manifesta infondatezza, ricorda il rimettente che la disposizione
censurata incrimina la condotta di chi, nella formazione di un atto di nascita,
altera lo stato civile di un neonato, mediante false certificazioni, false
attestazioni o altre falsità, e sanziona tale condotta con la pena della
reclusione da cinque a quindici anni.
Considera,
quindi, che l’indicata cornice edittale si presenterebbe, da un lato,
eccessiva, per quanto riguarda, in modo particolare, il minimo edittale, e
sarebbe, dall’altro lato, sproporzionata, sol che si raffronti la condotta
incriminata dalla disposizione censurata con
altre norme del medesimo Libro II, Titolo XI, Capo III, del codice penale, che
sanzionerebbero in modo meno severo comportamenti illeciti della medesima
indole, oltre che, a suo dire, ben più gravi sotto il profilo della manifestazione
della capacità a delinquere, e tali da destare un maggiore allarme sociale.
In particolare, il
tribunale rimettente rileva che l’entità della pena edittale minima non
consentirebbe di adeguare la sanzione alle circostanze specifiche del fatto
concreto e, in modo particolare, agli effettivi profili di allarme sociale
conseguenti alla condotta posta in essere dagli imputati.
Secondo il giudice a quo, il bene giuridico della
fattispecie penale in questione andrebbe individuato nell’esigenza di
assicurare la certezza e la fedeltà al vero dello stato civile del neonato, attribuitogli al
momento della nascita, attraverso la corretta formazione del documento
finalizzato a certificarlo: la certezza all’attribuzione veritiera e fedele
della propria maternità e della propria paternità naturale costituirebbe
diritto fondamentale di ogni individuo, «tanto sotto un profilo di carattere
morale (inteso quale diritto a conoscere le proprie radici e la propria
discendenza) quanto sotto un profilo di natura materiale (per quanto riguarda
gli aspetti di natura successoria, conseguenti al rapporto di filiazione, anche
al di fuori del vincolo matrimoniale)».
Il giudice rimettente
osserva, quindi, che, all’epoca della promulgazione del codice penale, l’atto
di nascita, contenente le dichiarazioni presentate all’ufficiale di stato
civile al fine di attribuire la maternità e la
paternità naturali al neonato, costituiva il principale – se non l’unico –
strumento per attestare e dimostrare lo stato civile dello stesso. Era, pertanto,
necessario tutelare «il diritto del neonato alla corretta e veridica
attribuzione della propria discendenza» attraverso la previsione di una
sanzione penale particolarmente incisiva e severa, che potesse, tra le altre
finalità, svolgere un’adeguata funzione deterrente, per scoraggiare (in
un’ottica general-preventiva) ogni tentativo di formazione di un atto di
nascita non corrispondente al vero, mediante false attestazioni, false
certificazioni o altre falsità. Stante la mancanza di strumenti alternativi che
consentissero di ricostruire con certezza gli effettivi rapporti di maternità e
paternità naturali del neonato, la formazione di un atto di nascita infedele
avrebbe reso estremamente ardua, se non addirittura impossibile, la corretta
attribuzione all’interessato del suo stato civile.
In tale prospettiva, ad
avviso del rimettente, si giustificava il
maggiore disvalore assegnato alla condotta
criminosa contemplata dal secondo comma dell’art. 567 cod. pen. rispetto a quello della condotta tipizzata dal primo comma
del medesimo articolo, che presuppone l’alterazione di stato civile, non già
mediante la formazione di un atto falso, bensì attraverso la sottrazione del
neonato e la sua sostituzione con un altro, entrambi comunque già riconosciuti
e, quindi, muniti di atti di nascita veritieri.
Il giudice a quo osserva come il descritto assetto
normativo, certamente funzionale alle esigenze
di tutela dello stato civile del neonato al momento della promulgazione del
codice penale, non potrebbe più essere considerato adeguato alla situazione
attuale.
Infatti, i progressi
scientifici, medici e tecnologici, realizzatisi con un’accelerazione sempre
maggiore soprattutto negli ultimi anni, consentono di accertare l’effettiva
paternità e maternità di un individuo – con una certezza pressoché assoluta –
attraverso indagini svolte sul relativo DNA (le cosiddette "prove tecniche”),
con procedure poco invasive, prive di pericolosità, nonché particolarmente
rapide ed economiche.
Nella medesima
prospettiva, il tribunale rimettente colloca la riforma del diritto di
famiglia, realizzata con il decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 (Revisione delle disposizioni vigenti in
materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n.
219), che ha profondamente innovato, tra le altre, anche la disciplina
civilistica in materia di filiazione legittima e naturale, da un lato
parificando in toto lo status di figlio legittimo e di figlio
naturale, e ridimensionando notevolmente, dall’altro, l’importanza dell’atto di
nascita ai fini della prova della filiazione, legittima o naturale, con
conseguente maggior incidenza delle cosiddette "prove tecniche”, ossia degli
accertamenti sul corredo genetico degli interessati.
Da tali modifiche
normative, il giudice rimettente deduce il «ridimensionamento» della funzione
dell’atto di nascita ai fini dell’accertamento della discendenza naturale del
neonato.
Da ciò conseguirebbe, a
suo avviso, che la condotta di alterazione di stato di cui all’art. 567,
secondo comma, cod. pen., risulterebbe a sua volta
ridimensionata, sotto il profilo della gravità e del disvalore della condotta.
Al contrario di quanto
accadeva in passato, si rivelerebbe, invece, oggi più grave ed allarmante la
fattispecie di alterazione di stato mediante la sostituzione di neonato,
contemplata al primo comma dell’art. 567 cod. pen.,
sanzionata con una pena (reclusione da tre a dieci anni) sensibilmente
inferiore rispetto a quella prevista dalla disposizione censurata. Tale delitto, infatti, presupporrebbe
una maggiore risoluzione ad agire da parte del reo, una consapevolezza più
marcata dell’intrinseca antigiuridicità della condotta ed una più spiccata
propensione a delinquere, rispetto alla mera dichiarazione di un dato non
corrispondente al vero.
Il tribunale rimettente
considera, inoltre, che il Libro II, Titolo XI, Capo III, del codice penale
contempla ulteriori disposizioni incriminatrici, connotate da un’asserita
maggior gravità della condotta, e tali da destare, a suo avviso, un maggior
allarme sociale, le quali sarebbero tuttavia punite in modo meno severo
rispetto a quella censurata, come la
soppressione di stato civile mediante occultamento del neonato (art. 566,
secondo comma, cod. pen., che prevede la pena della reclusione da tre a dieci
anni) e l’occultamento di stato civile di un figlio (art. 568 cod. pen., punito
con la reclusione da uno a cinque anni).
Tanto premesso, il
giudice a quo osserva che la cornice
edittale di pena prevista dalla disposizione censurata risulterebbe eccessiva
rispetto alla gravità oggettiva della condotta incriminata. In particolare, la
manifesta eccessività del minimo edittale di pena non consentirebbe al giudice
di eventualmente adeguare il trattamento sanzionatorio alle circostanze
concrete del fatto, tenendo conto che, in molti casi, la condotta antigiuridica
tipizzata dall’art. 567, secondo comma, cod. pen. è
posta in essere proprio nell’interesse del neonato (magari privo di un padre o
che il genitore naturale non vuole riconoscere), al quale l’agente intende
attribuire, comunque, dei legami familiari, ancorché in un’ottica certamente
distorta e scorretta. Il rimettente sottolinea come, cionondimeno, anche a
ritenere applicabile la circostanza attenuante di cui all’art. 62, primo comma, numero 1), cod. pen., la pena concretamente
applicabile al soggetto agente rimarrebbe eccessiva rispetto alle
caratteristiche concrete del fatto, con ripercussioni pratiche che
risulterebbero del tutto irragionevoli ed ingiustificate: la sanzione irrogata,
ancorché determinata a partire dal minimo edittale ed eventualmente ridotta per
l’attenuante sopra indicata, precluderebbe, comunque, la possibilità di
concedere i benefici della sospensione condizionale della pena e della non
menzione della condanna «ad un soggetto che, per quanto abbia commesso un
reato, non ha manifestato alcun profilo antisociale o tale da destare un
particolare allarme sociale»; inoltre, la sanzione concretamente applicata non
potrebbe che apparire, «ad un soggetto che […] ha ritenuto (erroneamente) di
agire nell’interesse del neonato e non già per un proprio tornaconto,
assolutamente priva di ogni giustificazione logica e, quindi, fondamentalmente
ingiusta».
Il giudice rimettente
si mostra consapevole della circostanza che la Corte costituzionale si è già
pronunziata, nel senso della manifesta infondatezza, su una questione di
legittimità costituzionale analoga a quella proposta. Ritiene, tuttavia, che si
tratterebbe di una decisione precedente alle modifiche normative sopra
illustrate, la quale non poteva tenere conto del riconoscimento – anche a
livello legislativo – del valore e dell’importanza dei nuovi strumenti tecnici,
scientifici e medici di accertamento dei rapporti genetici tra individui.
Le considerazioni
svolte troverebbero conferma, a suo avviso, anche in sentenze della Corte
europea dei diritti dell’uomo, le quali avrebbero contribuito a ridimensionare
sensibilmente il rilievo dell’atto di nascita come strumento volto
all’accertamento dei rapporti di paternità e maternità e, conseguentemente, il
disvalore delle sue alterazioni (è ricordata, in particolare, la sentenza del 27 gennaio 2015
– ricorso n. 25358/12 – Paradiso e Campanelli contro Italia).
Secondo il tribunale
rimettente, la previsione di una cornice edittale di pena irragionevolmente
elevata, come quella contemplata dall’art. 567, secondo comma, cod. pen.,
contrasterebbe con il necessario rispetto del diritto alla vita privata e
familiare di cui all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950,
ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, il quale richiede
che vi sia una proporzione tra il livello dell’ingerenza dell’autorità pubblica
nella vita privata e nei rapporti familiari di ciascun individuo e il legittimo
obiettivo della tutela dell’ordine pubblico e della pubblica fede che la stessa
disposizione intende perseguire. Nel caso di specie, la sproporzione si
manifesterebbe nel precludere al giudice di merito la determinazione di una
pena ragionevolmente correlata alla gravità del fatto ed ai motivi che hanno
spinto l’imputato ad agire.
1.3. – Il giudice a quo – premesso di essere consapevole
che è precluso alla Corte costituzionale il sindacato di costituzionalità «in
relazione alle questioni strettamente inerenti alla politica criminale, le
valutazioni punitive e le quantificazioni sanzionatorie, di volta in volta
decise dal legislatore» – ritiene,
tuttavia, che, nel caso di specie, il denunciato trattamento sanzionatorio non
possa considerarsi espressione di una legittima scelta normativa di politica
criminale.
Infatti, a fronte della
complessiva evoluzione della situazione normativa, tecnica e medica sopra
descritta, il legislatore penale sarebbe rimasto irragionevolmente inerte.
La disposizione
censurata sarebbe, quindi, in primo luogo in contrasto con il principio di
ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., perché sanziona con una pena
eccessivamente elevata un comportamento che, oggi, avrebbe perso quei connotati
di gravità e di allarme sociale che in altra epoca giustificavano un
trattamento sanzionatorio particolarmente rigoroso e severo, ciò anche rispetto
alle altre condotte ricordate, previste e punite dal medesimo Libro II, Titolo
XI, Capo III, del codice penale, che appaiono ugualmente (se non più) gravi.
Il giudice rimettente
richiama in proposito la giurisprudenza costituzionale che avrebbe riconosciuto
«la possibilità di vagliare la cornice edittale di pena determinata dal
legislatore, sotto il principio della ragionevolezza di tale determinazione,
ovvero della sua rispondenza ai bisogni effettivi di tutela della collettività
e al grado effettivo di antigiuridicità e gravità del comportamento
incriminato» (vengono citate le sentenze n. 341 del 1994
e n. 409 del
1989).
In secondo luogo,
l’art. 567, secondo comma, cod. pen. contrasterebbe con il principio di
colpevolezza e di necessaria finalizzazione rieducativa della pena di cui
all’art. 27 Cost., giacché «la previsione di una pena eccessiva rispetto alla
gravità della condotta, soprattutto quanto al minimo edittale, nonché sproporzionata
rispetto alle altre condotte contemplate dalle disposizioni del medesimo Capo, impedi[rebbe] al Giudice di
adeguare la sanzione concretamente inflitta all’imputato, in caso di condanna,
alle circostanze del fatto, e al reo stesso di comprendere adeguatamente, con
piena consapevolezza, il disvalore del proprio comportamento».
2.
– Con atto depositato il 23 febbraio 2016 è intervenuto in giudizio il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, concludendo per l’infondatezza delle questioni di
legittimità costituzionale sollevate.
2.1.
– L’Avvocatura generale dello Stato ha, innanzitutto, evidenziato che la
medesima questione ora sollevata dal Tribunale di Varese sarebbe già stata
dichiarata manifestamente infondata dalla Corte costituzionale con l’ordinanza n. 106
del 2007. Ricorda l’Avvocatura generale dello Stato che, secondo la
costante giurisprudenza costituzionale, la determinazione del trattamento
sanzionatorio per condotte penalmente rilevanti rientra nella discrezionalità
del legislatore, salvo il sindacato di costituzionalità su scelte normative
palesemente arbitrarie o radicalmente ingiustificate, tali da evidenziare un
uso distorto di tale discrezionalità.
Detto
sindacato, inoltre, sarebbe possibile solo qualora ci si dolga del fatto che
per un certo reato sia prevista una pena troppo elevata e siano indicate, come tertia comparationis,
norme che prevedano, in relazione a fattispecie di reato sostanzialmente
identiche, una pena più mite.
Nella
richiamata ordinanza la Corte costituzionale chiarì come le fattispecie
descritte dal primo e dal secondo comma dell’art. 567 cod. pen. siano
oggettivamente diverse, perché, seppure in entrambe è tutelato il medesimo bene
giuridico (l’interesse del minore alla verità dell’attestazione ufficiale della
propria ascendenza), nel caso del primo comma la condotta consiste in uno
scambio materiale di neonati, mentre la fattispecie prevista dal secondo comma
si realizza mediante la commissione di un altro reato (quello di falso
ideologico, che non concorre con quello di alterazione di stato), rivelando una
più intensa carica criminosa, sicché il principio di uguaglianza appare rispettato,
avendo il legislatore trattato, dal punto di vista sanzionatorio, situazioni
diverse in modo diverso.
Inoltre,
con riguardo alle altre fattispecie incriminatrici indicate quali tertia comparationis dal
giudice rimettente, l’Avvocatura generale dello Stato osserva che le condotte
descritte sia dall’art. 566, secondo comma, cod. pen. ("supposizione o
soppressione di stato”), sia dall’art. 568 cod. pen. ("occultamento di stato di
un figlio”), si differenzierebbero dalla disposizione denunciata perché non
presuppongono necessariamente la consumazione di un falso ideologico.
Non
conferente, secondo l’Avvocatura generale dello Stato, sarebbe poi il
riferimento all’art. 8 della CEDU nonché alla sentenza della Corte EDU
Paradiso e Campanelli contro Italia. In ogni caso, in base all’ormai
consolidato orientamento della Corte costituzionale – secondo il quale le
disposizioni della CEDU integrano, quali norme interposte, il parametro
costituzionale di cui all’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui
impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli
obblighi internazionali –, ove emerga un eventuale contrasto tra una norma interna
e una norma della CEDU, il giudice nazionale deve investire la Corte
costituzionale del dubbio di costituzionalità in riferimento al citato art.
117, primo comma, Cost. Nella specie, a causa del mancato richiamo di tale
parametro, la relativa censura sarebbe inammissibile.
Da
ultimo, l’Avvocatura generale dello Stato contesta l’utilità del riferimento
operato dal giudice rimettente alle recenti riforme che hanno interessato il
diritto di famiglia, perché disposizioni civilistiche non potrebbero assumere
alcun rilievo ai fini dell’individuazione di un tertium comparationis attinente alla materia
penale. Per parte sua, l’accresciuta facilità dell’accertamento della paternità
e maternità naturale, determinata dai progressi tecnico-scientifici, non
avrebbe alcun concreto rilievo per la fattispecie in questione, né potrebbe
sminuire il disvalore della condotta sanzionata dall’art. 567, secondo comma,
cod. pen. Infatti, l’eventuale commissione di tale reato determinerebbe il
rischio concreto che colui che ne sia stato vittima possa non avere mai dubbi
sulle proprie effettive origini e, conseguentemente, che l’astratta possibilità
di accedere alle indagini genetiche non abbia alcuna utilità concreta.
3.
– L’Avvocatura generale dello Stato, in data 10 agosto 2016, ha depositato
memoria nella quale ha ribadito quanto già affermato in sede di intervento in
giudizio, richiamando a sostegno dei propri assunti la decisione della Corte di
cassazione, sesta sezione penale, 12 febbraio-14 aprile 2003, n. 17627, in base
alla quale la disposizione incriminatrice de
qua è «posta a garanzia dell’identità del neonato, del rapporto effettivo
di procreazione per come naturalmente si determina e, quindi, dell’integrità
dello stato di filiazione, quale attributo della personalità».
Considerato
in diritto
1.– Il
Tribunale ordinario di Varese ha sollevato questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 567, secondo comma, del codice penale, nella parte in
cui prevederebbe, per il delitto ivi contemplato, un
trattamento sanzionatorio irragionevolmente eccessivo e sproporzionato, anche
in riferimento alle altre fattispecie di delitto contenute nel Libro II, Titolo
XI, Capo III, cod. pen., con conseguente violazione del principio di
ragionevolezza di cui all’art. 3 della Costituzione e di quello di colpevolezza
e di necessaria finalizzazione rieducativa della pena di cui all’art. 27 Cost.
La
disposizione censurata, sotto la rubrica «Alterazione di stato», prevede, al
secondo comma, che chiunque, nella formazione di un atto di nascita, altera lo
stato civile di un neonato, mediante false certificazioni, false attestazioni o
altre falsità, è punito con la reclusione da cinque a quindici anni. Il giudice
a quo dubita della legittimità
costituzionale di una siffatta cornice edittale, ritenendola eccessiva e perciò
irragionevole e sproporzionata, in violazione dell’art. 3 Cost., alla luce
dell’effettivo disvalore attualmente attribuibile alla condotta incriminata,
anche in relazione al trattamento sanzionatorio che il legislatore riserva alle
fattispecie di reato di cui agli artt. 567, primo comma, 566, secondo comma, e
568 cod. pen., asseritamente analoghe a quella prevista dalla disposizione
censurata e ritenute comunque non meno gravi (o addirittura più gravi) di essa.
Lamenta,
inoltre, la violazione dell’art. 27 Cost., poiché la
previsione di una pena così elevata, particolarmente nel minimo edittale, non
consentirebbe al giudice di irrogare sanzioni proporzionate al reale disvalore
della condotta, in tal modo violando il principio di personalità della
responsabilità penale e quello di necessaria finalizzazione
rieducativa della pena.
Nella
motivazione dell’ordinanza, ma non nel dispositivo, è fatto anche un
riferimento all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre
1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, sul
presupposto che la previsione di una cornice edittale irragionevolmente elevata
sarebbe in contrasto con la corretta proporzione che deve sussistere tra il
livello e l’intensità dell’ingerenza dell’autorità pubblica nella vita privata
e nei rapporti familiari di ciascun individuo – ingerenza costituita dalla
norma incriminatrice censurata – e il legittimo obiettivo della protezione
della veridicità dello stato civile del neonato, che la disposizione persegue.
Tale sproporzione, in particolare, si manifesterebbe nel precludere al giudice
la determinazione di una pena ragionevolmente correlata alla gravità del fatto
ed ai motivi che spingono l’imputato ad agire in violazione della disposizione.
2.– L’eccezione di parziale inammissibilità dell’Avvocatura generale dello
Stato, riferita ai rilievi da ultimo menzionati, avrebbe ragion d’essere se il
giudice a quo avesse inteso
effettivamente prospettare un diretto contrasto della norma censurata con
l’art. 8 della CEDU. La giurisprudenza ormai costante di questa Corte ha
chiarito, infatti, che le norme della citata Convenzione non sono parametri
direttamente invocabili per affermare l’illegittimità costituzionale d’una
disposizione dell’ordinamento nazionale, ma costituiscono norme interposte la
cui osservanza è richiesta dall’art. 117, primo comma, Cost. (ex plurimis
ordinanze n. 21
del 2014, n.
286 del 2012, n.
180 del 2011 e n. 163 del 2010):
un parametro, quest’ultimo, che il giudice a
quo non ha nemmeno menzionato, né in motivazione, né nel dispositivo
dell’ordinanza.
Proprio per
tale ragione, peraltro, può ritenersi che i riferimenti del rimettente alla
norma convenzionale svolgano, nell’economia del suo provvedimento, solo un
ruolo rafforzativo delle censure relative alla pretesa carenza di
proporzionalità tra l’intervento repressivo attuato mediante la norma censurata
e l’esigenza di tutela che tale intervento giustifica (sentenza n. 12 del
2016; ordinanza
n. 286 del 2012).
3.– Il tratto caratteristico delle questioni in esame risiede nella censura di
manifesta irragionevolezza intrinseca della cornice edittale prevista per il
delitto di cui all’art. 567, secondo comma, cod. pen.
Essa è,
prima di tutto, contestata alla luce di un asserito mutamento complessivo delle
condizioni normative, tecniche e scientifiche, che avrebbe reso anacronistica
una punizione così severa. Assume infatti il rimettente che il disvalore della
condotta descritta nella disposizione censurata si sarebbe ridimensionato rispetto
all’epoca in cui è entrato in vigore il codice penale. In particolare, l’anacronismo
insito in una cornice edittale così severa sarebbe reso evidente sia dal
rilievo per cui l’atto di nascita non è più, attualmente, l’unico strumento per
accertare il reale status filiationis – vista l’accresciuta facilità
dell’accertamento della paternità e della maternità naturali, determinata dai
progressi tecnico-scientifici – sia dalle recenti riforme del diritto di
famiglia, che consentirebbero la reclamabilità di uno
stato di figlio contrario a quello attribuito dall’atto di nascita (anche)
nell’ipotesi in cui il neonato sia stato iscritto come figlio di ignoti, ovvero
in conformità ad altra presunzione di paternità.
Inoltre, la
cornice edittale manifesterebbe la propria irragionevole severità nell’impedire
di fatto al giudice di tenere conto delle situazioni in cui il soggetto agente
è condotto a presentare false certificazioni o attestazioni in vista di un
obbiettivo di cura dell’interesse del neonato, magari privo di un padre o che
il genitore naturale non intende riconoscere, e al quale il soggetto intende
attribuire comunque dei legami familiari, ancorché in un’ottica distorta e
scorretta: ciò che, oltre ad imporre al giudice di irrogare sanzioni non proporzionate
al reale disvalore della condotta, aggraverebbe, nel reo, la percezione di
subire una condanna ingiusta, svincolata dalla gravità della propria condotta,
in frontale contrasto con il principio di necessaria finalizzazione rieducativa
della pena.
Infine, il
rimettente osserva come l’altra fattispecie di alterazione di stato, commessa
mediante sostituzione del neonato, prevista al primo comma del medesimo art.
567 cod. pen., sarebbe sanzionata con una pena «decisamente inferiore», pur
presentandosi quale frutto di una condotta che egli considera «più grave ed
allarmante», rivelando, a suo avviso, una maggior risoluzione ad agire da parte
del reo, una consapevolezza più marcata dell’intrinseca antigiuridicità della
condotta ed una più spiccata propensione a delinquere.
4.– Le questioni sono fondate, alla luce
di entrambi i parametri costituzionali evocati.
4.1.– Non tutti gli argomenti spesi dal rimettente per sollecitare
l’accoglimento delle questioni sollevate, per vero, colgono nel segno. Così è a
dirsi, in particolare, di quelli relativi all’asserito anacronismo che la
severità della pena prevista dalla disposizione censurata rivelerebbe.
Le trasformazioni dell’assetto normativo,
tecnico e scientifico, allegate dal giudice a
quo quali prove del complessivo mutamento di contesto, di per sé stesse non
hanno la capacità di alleggerire, nella percezione comune, la gravità della
condotta punita e l’allarme sociale conseguente. Non erra l’Avvocatura generale
dello Stato quando osserva che l’accresciuta facilità dell’accertamento della
paternità e della maternità naturale, determinata dai progressi
tecnico-scientifici e dalla possibilità di accesso all’esame del DNA, non è in
grado di diminuire il disvalore della condotta sanzionata dalla disposizione
censurata, per la semplice ragione che la vittima dell’eventuale reato di
alterazione di stato potrebbe non nutrire mai quel dubbio sulle proprie origini
che, solo, potrebbe indurla a ricorrere, in concreto, ad indagini genetiche.
Allo stesso
modo, non hanno specifica incidenza, nella fattispecie in esame, le recenti
riforme del diritto di famiglia. È vero che questa Corte ha già censurato
discipline legislative per irragionevolezza sopravvenuta, in quanto scrutinate
in un quadro normativo mutato rispetto a quello esistente al momento della loro
approvazione (sentenze n. 354 del 2002
e n. 440 del
1994). Ma lo ha fatto quando le modifiche in questione, ancorché solo
indirettamente rilevanti, interessavano da vicino la norma censurata,
travolgendo la sua stessa giustificazione. Nella prospettazione del rimettente,
invece, si dovrebbe dare peso a riforme intervenute nel diverso settore del
diritto civile, soprattutto in quanto tese alla valorizzazione, ai fini della
prova del rapporto di filiazione, delle cosiddette «prove tecniche», ossia dei
già ricordati accertamenti sul corredo genetico degli interessati:
accertamenti, ai quali, tuttavia, anche da questo punto di vista non può
attribuirsi alcuna capacità di incisione sul disvalore della condotta
sanzionata dall’art. 567, secondo comma, cod. pen.
4.2.– La fondatezza delle questioni
sollevate si rivela, piuttosto, in virtù della manifesta sproporzione della
cornice edittale censurata, se considerata alla luce del reale disvalore della
condotta punita.
È costante, nella giurisprudenza costituzionale, la considerazione secondo
cui l’art. 3 Cost. esige che la pena sia proporzionata
al disvalore del fatto illecito commesso, in modo che il sistema sanzionatorio
adempia nel contempo alla funzione di difesa sociale ed a quella di tutela
delle posizioni individuali. E la tutela del principio di proporzionalità, nel
campo del diritto penale, conduce a «negare legittimità alle incriminazioni
che, anche se presumibilmente idonee a raggiungere finalità statuali di
prevenzione, producono, attraverso la pena, danni all’individuo (ai suoi
diritti fondamentali) ed alla società sproporzionatamente maggiori dei vantaggi
ottenuti (o da ottenere) da quest’ultima con la tutela dei beni e valori offesi
dalle predette incriminazioni» (sentenze n. 341 del 1994
e n. 409 del
1989). Deve essere ricordato, in questa prospettiva, anche l’art. 49,
numero 3), della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea –
proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, e che ha ora lo stesso valore giuridico
dei trattati, in forza dell’art. 6, comma 1, del Trattato sull’Unione europea
(TUE), come modificato dal Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007,
ratificato e reso esecutivo con legge 2 agosto 2008 n. 130, ed entrato in
vigore il 1° dicembre 2009 – a tenore del quale «le pene inflitte non devono
essere sproporzionate rispetto al reato».
In questo delicato settore dell’ordinamento, il principio di
proporzionalità esige un’articolazione legale del sistema sanzionatorio che
renda possibile l’adeguamento della pena alle effettive responsabilità
personali, svolgendo una funzione di giustizia, e anche di tutela delle
posizioni individuali e di limite della potestà punitiva statale, in armonia
con il "volto costituzionale” del sistema penale (sentenza n. 50 del
1980).
A ciò si aggiunge che, alla luce dell’art. 27 Cost., il principio della finalità
rieducativa della pena costituisce «una delle qualità essenziali e generali che
caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l’accompagnano da quando
nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si
estingue» (sentenza
n. 313 del 1990; si vedano anche le sentenze n. 183 del 2011
e n. 129 del
2008). Esso, pertanto, non vale per la sola fase esecutiva, ma obbliga
tanto il legislatore quanto i giudici della cognizione (sentenza n. 313 del
1990). Anche la finalità rieducativa della pena,
nell’illuminare l’astratta previsione normativa, richiede «un costante
principio di proporzione tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e
offesa, dall’altra» (sentenza n. 251 del
2012 e, ancora, sentenza n. 341 del
1994), mentre la palese sproporzione del sacrificio della libertà personale
produce «una vanificazione del fine rieducativo della pena prescritto dall'art.
27, terzo comma, della Costituzione, che di quella libertà costituisce una
garanzia istituzionale in relazione allo stato di detenzione» (sentenza n. 343 del
1993).
Laddove la
proporzione tra sanzione e offesa difetti manifestamente, perché alla carica
offensiva insita nella condotta descritta dalla fattispecie normativa il
legislatore abbia fatto corrispondere conseguenze punitive di entità
spropositata, non ne potrà che discendere una compromissione ab initio del
processo rieducativo, processo al quale il reo tenderà a non prestare adesione,
già solo per la percezione di subire una condanna profondamente ingiusta
(sentenze n. 251
e n. 68 del 2012),
del tutto svincolata dalla gravità della propria condotta e dal disvalore da
essa espressa.
In tale contesto, una particolare asprezza della risposta sanzionatoria
determina perciò una violazione congiunta degli artt. 3 e 27 Cost., essendo
lesi sia il principio di proporzionalità della pena rispetto alla gravità del
fatto commesso, sia quello della finalità rieducativa della pena (sentenza n. 68 del
2012, che richiama le sentenze n. 341 del 1994
e n. 343 del
1993).
È ciò che accade nel caso della cornice edittale prevista per il delitto di
cui all’art. 567, secondo comma, cod. pen.
Vale la pena ricordare che, intervenendo sulla pena accessoria della
perdita della potestà (oggi "responsabilità”) genitoriale, stabilita quale
automatica conseguenza della condanna per il medesimo delitto di alterazione di
stato, questa Corte ha già sottolineato che il delitto di cui all’art. 567,
secondo comma, cod. pen., «diversamente da altre ipotesi criminose in danno di
minori, non reca in sé una presunzione assoluta di pregiudizio per i loro
interessi morali e materiali» (sentenza n. 31 del
2012), riconoscendo, dunque, come non si possa escludere che il reo sia
guidato dal fine, non già di pregiudicare, bensì di favorire, sia pur
commettendo un reato, l’interesse del neonato.
In tali ipotesi, la sproporzione del trattamento sanzionatorio si rivela
con nettezza: giacché, pur indirizzandosi verso il minimo edittale, il giudice
è comunque costretto a infliggere pene di entità eccessiva, che non sono in
ragionevole rapporto con il disvalore della condotta.
Nell’ordinanza
di rimessione, per vero, le circostanze del caso concreto tratto in giudizio
non sono lumeggiate in dettaglio, se non attraverso i soli riferimenti
sufficienti a sostenere la rilevanza delle questioni di legittimità
costituzionale sollevate. Il rimettente aggiunge
soltanto che, anche applicando la circostanza attenuante prevista dall’art. 62,
primo comma, numero 1), cod. pen. (che consente una
mitigazione di pena per il reo che abbia agito «per motivi di particolare
valore morale o sociale»), il condannato non potrebbe giovarsi della
sospensione condizionale della pena.
Ai fini del
giudizio di legittimità costituzionale, tuttavia, non importa accertare se nel
processo principale siano effettivamente giudicate condotte poste in essere con
la supposta finalità di giovare agli interessi del minore, e in particolare di
attribuirgli un legame familiare altrimenti assente. È sufficiente considerare
che la disposizione censurata, per come è normativamente definita la cornice
edittale, impone al giudice di infliggere una punizione irragionevolmente
sproporzionata per eccesso, anche nelle ipotesi in cui l’obbiettivo dell’agente
– sia pur perseguito, in un’ottica scorretta, mediante la commissione di un
falso – sia effettivamente quello di attribuire un legame familiare al neonato,
che altrimenti ne resterebbe privo.
Non erra
perciò il giudice a quo nel ritenere
che l’applicazione, pur nel minimo edittale, della sanzione stabilita dalla
disposizione censurata risulti manifestamente irragionevole per eccesso, in violazione
dell’art. 3 Cost., e si ponga altresì in contrasto con il principio della
finalità rieducativa della pena, poiché ingenera nel condannato la convinzione
di essere vittima di un ingiusto sopruso, sentimento che osta all’inizio di
qualunque efficace processo rieducativo, in violazione dell’art. 27 Cost.
4.3.– L’ordinanza di rimessione pone in dubbio la ragionevolezza
intrinseca della cornice edittale stabilita dal codice penale per il delitto di
alterazione di stato commesso mediante falso, «anche» in relazione al diverso,
e più mite, trattamento sanzionatorio previsto dal legislatore per altre
fattispecie contenute nel Libro II, Titolo XI, Capo III, cod. pen., che lo
stesso rimettente non esita a definire non meno gravi (o addirittura più gravi)
di quella descritta dalla disposizione censurata.
Un ruolo non secondario – nelle valutazioni del giudice a quo e, come si dirà, di questa stessa
Corte – è in effetti svolto dallo specifico riferimento al più mite trattamento
sanzionatorio stabilito per il delitto di alterazione di stato mediante
sostituzione di un neonato, significativamente presente al primo comma dello
stesso articolo 567 cod. pen., che riunisce, sotto la medesima rubrica, due
fattispecie accomunate dall’essere indirizzate alla tutela del medesimo bene
giuridico, come questa Corte ha già riconosciuto nell’ordinanza n. 106
del 2007.
Rimane fermo che le questioni all’attuale esame sollecitano, prima
di tutto, un controllo di proporzionalità sulla cornice edittale stabilita
dalla norma censurata, alla luce dei principi costituzionali evocati (artt. 3 e
27 Cost.), non già una verifica sull’asserito diverso trattamento sanzionatorio
di condotte simili o identiche, lamentato attraverso la mera identificazione di
disposizioni idonee a fungere da tertia comparationis. Piuttosto, nella prospettazione del
giudice a quo, l’esito negativo di un
tale controllo, in termini di manifesta irragionevolezza per sproporzione tra
cornice edittale, da un lato, e disvalore della condotta, dall’altro, viene a
disvelarsi «anche» alla luce del più mite trattamento riservato ad altre
fattispecie, tra cui, in particolare, quella del primo comma del medesimo art.
567 cod. pen.
Una censura di violazione del solo art. 3 Cost., incentrata sul supposto
diverso trattamento sanzionatorio rispettivamente previsto dai due commi
dell’art. 567 cod. pen., è stata rigettata da questa Corte (ordinanza n. 106
del 2007), che – pur riconoscendo come entrambe le fattispecie tutelino il
medesimo bene giuridico, cioè l’interesse del minore alla verità
dell’attestazione ufficiale della propria ascendenza – ritenne non illegittimo
tale diverso trattamento, essendo distinte le condotte descritte nei due commi
della disposizione in questione.
Come chiarito, il diverso esito delle questioni all’attuale esame è
sollecitato dall’aver il giudice a quo
richiesto uno scrutinio di costituzionalità imperniato sulla manifesta
irragionevolezza intrinseca della risposta sanzionatoria stabilita dalla norma
censurata, sotto il profilo della proporzionalità tra severità della cornice
edittale e disvalore della condotta, con ulteriore riferimento alla
vanificazione, determinata dall’entità eccessiva della sanzione, della
finalizzazione rieducativa della pena, ai sensi dell’art. 27 Cost.
4.4.– Non appartengono a questa Corte
valutazioni discrezionali di dosimetria sanzionatoria penale, risultando,
queste, tipicamente spettanti alla rappresentanza politica, chiamata attraverso
la riserva di legge sancita nell’art. 25 Cost. a
stabilire il grado di reazione dell’ordinamento al cospetto di una lesione a un
determinato bene giuridico. E non può che essere ribadita la costante giurisprudenza
costituzionale, che in tale materia tutela la discrezionalità del legislatore,
salvo il sindacato di costituzionalità su scelte palesemente arbitrarie o
radicalmente ingiustificate, tali da evidenziare un uso distorto di tale
discrezionalità (ex multis sentenze n. 148 e 23 del 2016, n. 81 del 2014,
n. 394 del 2006,
e ordinanze n.
249 e 71 del
2007, n. 169
e 45 del 2006).
Al tempo stesso, tuttavia, laddove emergano sintomi di manifesta
irragionevolezza, per sproporzione, di un trattamento sanzionatorio, e
l’intervento della Corte costituzionale sia invocato, a fini di giustizia, dai
giudici a quibus,
questo è possibile, al ricorrere di determinate condizioni.
Per non sovrapporre la propria discrezionalità a quella del Parlamento
rappresentativo, finendo per esercitare un inammissibile potere di scelta (sentenza n. 22 del
2007) in materia sanzionatoria penale, la valutazione di questa Corte deve
essere condotta attraverso precisi punti di riferimento, già rinvenibili nel
sistema legislativo. Anche nel giudizio di "ragionevolezza intrinseca” di un
trattamento sanzionatorio penale, incentrato sul principio di proporzionalità,
è infatti essenziale l’individuazione di soluzioni già esistenti, idonee a
eliminare o ridurre la manifesta irragionevolezza lamentata (sentenza n. 23 del
2016).
Solo se condotta secondo queste modalità, la valutazione si mantiene fedele
al costante orientamento della giurisprudenza costituzionale, in base al quale,
in tema di trattamento sanzionatorio penale, è consentito emendare le scelte
del legislatore «in riferimento a grandezze già rinvenibili nell’ordinamento»
(sentenze n. 148
del 2016 e n.
22 del 2007): giacché obiettivo del controllo sulla manifesta
irragionevolezza delle scelte sanzionatorie non è alterare le opzioni
discrezionali del legislatore, ma ricondurre a coerenza le scelte già delineate
a tutela di un determinato bene giuridico, procedendo puntualmente, ove
possibile, all’eliminazione di ingiustificabili incongruenze.
4.5.– Alla luce di tali rigorose
coordinate, nel caso di specie, il controllo sulla sproporzione manifestamente
irragionevole tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e gravità
dell’offesa, dall’altra, è possibile attraverso una valutazione relazionale,
che anche il rimettente sollecita, condotta per intero all’interno della
disciplina del medesimo art. 567 cod. pen.
Si tratta di uno scrutinio svolto entro il perimetro conchiuso dal medesimo
articolo, che, anche per questa ragione, non conduce a sovrapporre,
dall’esterno, una dosimetria sanzionatoria eterogenea rispetto alle scelte
legislative, ma giudica "per linee interne” la coerenza e la proporzionalità
delle sanzioni rispettivamente attribuite dal legislatore a ciascuna delle due
fattispecie di cui si compone il reato di alterazione di stato.
In questa chiave, la manifesta irragionevolezza per sproporzione della
forbice edittale censurata si evidenzia al cospetto della meno severa cornice
(reclusione da tre a dieci anni) che il medesimo art. 567 cod. pen. prevede, al primo comma, per l’altra fattispecie di
alterazione dello stato di famiglia del neonato, commessa mediante la sua
sostituzione.
Le fattispecie punite, rispettivamente, al primo e al secondo comma del
citato articolo, non sono identiche, ma non possono considerarsi del tutto
disomogenee, non foss’altro perché indirizzate a
proteggere, come questa Corte ha già riconosciuto (ordinanza n. 106
del 2007), il medesimo bene giuridico.
Infatti, il reato di cui all’art. 567, secondo comma, cod. pen., punisce la modificazione del vero non per sé, ma in
quanto da essa derivi la perdita dell’autentico status filiationis del neonato,
evidenziando che la fattispecie protegge in primo luogo la veridicità dello
stato di filiazione, ovvero, più esattamente, l’interesse del minore a vedersi
riconosciuto un rapporto familiare corrispondente alla propria effettiva
ascendenza.
Ma lo stesso può dirsi della fattispecie di cui al primo comma, dove, in
egual modo, è privilegiata la protezione del diritto fondamentale del minore
alla corretta rappresentazione della sua ascendenza, quale presupposto della
sua complessiva condizione di vita, e, d’altra parte, la condotta incriminata,
che non implausibilmente appare al rimettente non
meno (se non più) grave, comporta il coinvolgimento non di uno solo, ma di due
neonati.
I due reati, la cui regolamentazione il legislatore ha deciso di
circoscrivere nel perimetro di un medesimo articolo, segnato dal medesimo nomen juris,
presentano allora non irrilevanti tratti comuni. Ancorché autonomi, essi
descrivono un medesimo evento delittuoso, consistente nella alterazione dello
stato civile del neonato, mentre a variare sono le modalità esecutive, perché
in un caso l’alterazione si produce «mediante la sostituzione di un neonato»,
nell’altro «mediante false certificazioni, false attestazioni o altre falsità»
nell’atto di nascita del neonato. Ma l’evento delittuoso è per l’appunto
identico, come per conseguenza identico, per le ragioni già dette, è il bene
giuridico protetto dalle due fattispecie incriminatrici.
In definitiva, in entrambi i casi, è un medesimo bene ad essere leso, sia
pur in forme diverse. Ma le differenti modalità esecutive non esprimono, in sé
stesse, connotazioni di disvalore tali da legittimare una divergenza di
trattamento sanzionatorio. Ed anzi, tale divergenza, che si traduce in una
cornice edittale marcatamente più severa nel caso del secondo comma, appare
manifestamente irragionevole.
5.– Tutto ciò
premesso, alla luce dei limiti dei poteri d’intervento di questa Corte, l’unica
soluzione praticabile consiste nel parificare il trattamento sanzionatorio
delle due fattispecie nelle quali si articola l’unitario art. 567 cod. pen.,
trattandosi, appunto, di utilizzare coerentemente «grandezze già rinvenibili
nell’ordinamento».
Va pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 567,
secondo comma, cod. pen., nella parte in cui punisce
il delitto ivi descritto con la pena della reclusione da cinque a quindici
anni, anziché con la pena della reclusione da tre a dieci anni.
Tale soluzione riconsegna al giudice la possibilità di adeguare
effettivamente, con risultati apprezzabili nel sistema vigente, la pena alle
circostanze del caso concreto, calibrandola altresì alla finalità rieducativa
cui essa deve mirare. Facendo riferimento al nuovo minimo edittale di tre anni
di reclusione, infatti, il giudice potrà valorizzare circostanze dalle quali
emerga una propensione di protezione nei confronti del nato; ma, tutt’al
contrario, in relazione ad una cornice edittale che prevede una pena massima di
dieci anni di reclusione, ben potrà tenere conto di circostanze o pratiche
meritevoli di una più severa risposta sanzionatoria.
La pronuncia di questa Corte
consente l’eliminazione della manifesta irragionevolezza denunciata. Un
auspicabile intervento del legislatore, che riconsideri funditus, ma complessivamente, il
settore dei delitti in esame, potrà introdurre i diversi trattamenti
sanzionatori ritenuti adeguati.
per questi
motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità
costituzionale dell’art. 567, secondo comma, del codice penale, nella parte in
cui prevede la pena edittale della reclusione da un minimo di cinque a un
massimo di quindici anni, anziché la pena edittale della reclusione da un
minimo di tre a un massimo di dieci anni.
Così deciso in Roma, nella
sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 settembre 2016.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Nicolò ZANON, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 10 novembre 2016.