SENTENZA N. 81
ANNO 2014
Commento alla decisione di
Nicola Recchia
Le declinazioni della ragionevolezza penale nelle recenti decisioni della Corte costituzionale,
per g.c. di Diritto penale Contemporaneo
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Gaetano SILVESTRI Presidente
- Luigi MAZZELLA Giudice
- Sabino CASSESE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 31 della legge 13 settembre 1982, n. 646 (Disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazioni alle leggi 27 dicembre 1956, n. 1423, 10 febbraio 1962, n. 57 e 31 maggio 1965, n. 575. Istituzione di una commissione parlamentare sul fenomeno della mafia), parzialmente trasfuso nell’art. 76, comma 7, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), promosso dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Trapani nel procedimento penale a carico di C.T. con ordinanza del 23 gennaio 2013, iscritta al n. 52 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 12, prima serie speciale, dell’anno 2013.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 26 febbraio 2014 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 23 gennaio 2013, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Trapani ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, e 42 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 31 della legge 13 settembre 1982, n. 646 (Disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazioni alle leggi 27 dicembre 1956, n. 1423, 10 febbraio 1962, n. 57 e 31 maggio 1965, n. 575. Istituzione di una commissione parlamentare sul fenomeno della mafia), parzialmente trasfuso nell’art. 76, comma 7, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), nella parte in cui prevede, per il reato di omessa comunicazione delle variazioni patrimoniali, la pena minima di due anni di reclusione e di euro 10.329 di multa, nonché la confisca obbligatoria del bene acquistato o del corrispettivo dell’alienazione.
Il giudice a quo premette di essere investito, a seguito di richiesta di giudizio abbreviato, del processo penale nei confronti di una persona imputata del reato di cui agli artt. 30 e 31 della legge n. 646 del 1982.
Al riguardo, il rimettente riferisce che con decreto del 20 aprile 2006, divenuto definitivo il 13 marzo 2007, l’imputato era stato sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno per la durata di quattro anni, in quanto indiziato di appartenenza ad una associazione di tipo mafioso.
A seguito di accertamenti della Guardia di finanza, era emerso che il 28 dicembre 2007 – e, dunque, in data successiva a quella in cui il provvedimento era divenuto definitivo – l’imputato, a mezzo dell’institore nominato al fine di amministrare la sua impresa individuale, aveva venduto ad un privato, mediante atto pubblico rogato da un notaio, un fabbricato (di legittima provenienza) per il prezzo di euro 480.000.
Né l’imputato né l’institore avevano peraltro effettuato, nei trenta giorni successivi e comunque entro il 31 gennaio dell’anno seguente, la prescritta comunicazione alla polizia tributaria della variazione patrimoniale determinata dalla compravendita. Di qui l’esercizio dell’azione penale per il reato dianzi indicato.
Tanto premesso, il giudice a quo osserva come, tramite gli artt. 30 e 31 della legge n. 646 del 1982, sia stata introdotta una speciale forma di «monitoraggio» delle variazioni del patrimonio di persone da ritenere socialmente pericolose.
L’art. 30 ha previsto, in particolare, che le persone condannate con sentenza definitiva per il delitto di associazione di tipo mafioso (art. 416-bis cod. pen.) o sottoposte con provvedimento definitivo a misura di prevenzione ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere), in quanto indiziate di appartenenza ad una delle associazioni previste dall’art. 1 della medesima legge, debbano comunicare al nucleo di polizia tributaria del luogo di dimora abituale, per un periodo di dieci anni a partire dalla data del decreto di applicazione della misura o della sentenza definitiva di condanna, tutte le variazioni nell’entità e nella composizione del loro patrimonio concernenti elementi di valore non inferiore ad euro 10.329,14. Per tale comunicazione è previsto sia un termine decorrente dal compimento del singolo atto di disposizione – trenta giorni – che un termine riferito al complesso degli atti dispositivi compiuti nell’anno solare, fissato nel 31 gennaio dell’anno successivo.
L’art. 31 della medesima legge n. 646 del 1982 punisce la violazione dell’obbligo di comunicazione con la pena della reclusione da due a sei anni e della multa da euro 10.329 ad euro 20.568, stabilendo, altresì, che alla condanna consegua la confisca obbligatoria dei beni a qualunque titolo acquistati o del corrispettivo proveniente dall’atto di alienazione.
Il novero dei soggetti gravati dall’obbligo di comunicazione è stato successivamente ampliato dalla legge 13 agosto 2010, n. 136 (Piano straordinario contro le mafie, nonché delega al Governo in materia di normativa antimafia), il cui art. 7, comma 1, lettera b), sostituendo il primo comma dell’art. 30 della legge n. 646 del 1982, vi ha aggiunto le persone condannate con sentenza definitiva per taluno dei delitti previsti dall’art. 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale o per il reato di cui all’art. 12-quinquies, comma 1, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356. La medesima legge n. 136 del 2010, novellando l’art. 31 della legge n. 646 del 1982, ha inoltre previsto che, nel caso in cui risulti impossibile la confisca del bene acquistato o del corrispettivo di quello venduto, la confisca ha luogo “per equivalente”.
Il quadro normativo è stato ulteriormente modificato dal d.lgs. n. 159 del 2011 (emanato in base alla delega conferita dalla stessa legge n. 136 del 2010), il quale ha scisso in due parti la fattispecie originariamente prevista dalle norme in questione. Le disposizioni, precettiva e sanzionatoria, contenute negli artt. 30 e 31 della legge n. 646 del 1982 sono state, infatti, trasfuse negli artt. 80 e 76, comma 7, del suddetto decreto legislativo, limitatamente ai soggetti sottoposti a misure di prevenzione. I predetti artt. 30 e 31 sono rimasti, di conseguenza, in vigore con riguardo ai soli soggetti condannati con sentenza definitiva.
Nel caso di specie, risulterebbe applicabile l’art. 31 della legge n. 646 del 1982, essendo i fatti anteriori sia alla legge delega del 2010 che al decreto delegato del 2011. I dubbi di legittimità costituzionale originati da detta norma si trasferirebbero, peraltro, automaticamente sull’art. 76, comma 7, del d.lgs. n. 159 del 2011, che ne ha integralmente recepito il contenuto con riguardo ai sorvegliati speciali.
Il giudice a quo dubita, in specie, della legittimità costituzionale del citato art. 31 nella parte in cui prevede, per la violazione dell’obbligo di comunicazione, una pena edittale minima di due anni di reclusione e di euro 10.329 di multa, nonché la confisca obbligatoria del bene acquistato o del corrispettivo dell’alienazione.
Il rimettente si dichiara consapevole del fatto che questa Corte si è già pronunciata in più occasioni sulla legittimità costituzionale degli artt. 30 e 31 della legge n. 646 del 1982, dichiarando manifestamente infondate le questioni sollevate (ordinanze n. 362 e n. 143 del 2002, n. 442 del 2001).
In dette occasioni – prosegue il giudice a quo – le censure prospettate dai rimettenti, che investivano sia il precetto che la sanzione, furono disattese per due concorrenti ragioni. Da un lato, si ritenne che la denunciata irragionevolezza delle previsioni normative sottoposte a scrutinio fosse frutto di valutazioni soggettive dei giudici a quibus, non tradotte in profili apprezzabili sul piano della verifica di costituzionalità, tenuto conto anche della discrezionalità del legislatore nella configurazione degli illeciti penali e nella determinazione delle relative sanzioni. Dall’altro lato, la Corte osservò che la denunciata sproporzione delle sanzioni, in rapporto a violazioni meramente formali e non necessariamente indicative di intenti dissimulatori, avrebbe potuto essere evitata tramite una lettura costituzionalmente orientata delle norme censurate, che escludesse la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato nei casi in cui la conoscibilità della variazione patrimoniale fosse comunque assicurata attraverso forme di pubblicità legale e risultasse, di conseguenza, impossibile l’occultamento degli atti soggetti a comunicazione.
Negli anni immediatamente successivi alle pronunce ora ricordate, tuttavia, si è definitivamente affermato, nella giurisprudenza di legittimità, il contrario indirizzo secondo il quale il delitto in questione è configurabile anche quando l’omissione riguardi operazioni effettuate mediante atti pubblici, trattandosi di un reato di pericolo presunto, avente non solo la finalità di consentire all’amministrazione finanziaria di conoscere con immediatezza il dato sensibile, ma anche quella di rendere obbligatoria per l’amministrazione una verifica altrimenti solo eventuale. La Corte di cassazione ha negato, inoltre, che l’ignoranza dell’obbligo di comunicazione possa escludere il dolo, posto che la previsione dell’art. 30 della legge n. 646 del 1982 integra il precetto penale.
La figura criminosa in discussione verrebbe, pertanto, interpretata dal «diritto vivente» in termini molto più rigorosi di quelli suggeriti dai pregressi interventi della Corte costituzionale. In simile situazione, il minimo edittale della pena e la previsione della confisca obbligatoria si paleserebbero iniqui non sulla base di una semplice valutazione soggettiva, ma in ragione della loro inconciliabilità con «precisi parametri costituzionali».
Il regime sanzionatorio denunciato si porrebbe in contrasto, anzitutto, con l’art. 3 Cost., tenuto conto del carattere «meramente formale» della violazione penalmente repressa, la quale prescinderebbe non soltanto dalla illegittima provenienza dei beni, ma anche da qualsiasi intento dissimulatorio. Alla luce del ricordato indirizzo giurisprudenziale, la sanzione penale colpirebbe, infatti, anche chi ha concluso l’operazione tramite atto pubblico, rogato da un notaio e comunicato, quindi, per legge all’agenzia delle entrate: articolazione dell’amministrazione finanziaria, quest’ultima, alla quale la Guardia di finanza è costantemente collegata attraverso il sistema informatico «SERPICO» (Servizio per il contribuente) – inesistente all’epoca in cui fu introdotta la norma in esame – grazie al quale la polizia tributaria è in grado di conoscere in qualsiasi momento tutti i movimenti finanziari di un soggetto sottoposto a misura di prevenzione, anche in attuazione del disposto dell’art. 25 della legge n. 646 del 1982, come modificato dalla legge n. 136 del 2010.
Se pure non potrebbe porsi in discussione la facoltà del legislatore di imporre, per fini di prevenzione speciale e di tutela dell’ordine pubblico, la comunicazione ad un nucleo specializzato di investigatori delle operazioni di un certo importo effettuate da soggetti dei quali sia stata accertata la pericolosità, apparirebbe, tuttavia, incompatibile con i principi di eguaglianza e di ragionevolezza la previsione, per una violazione quale quella considerata, di una pena detentiva e pecuniaria dal minimo così elevato.
La norma denunciata sanziona, infatti, un’omissione spesso priva di finalità dissimulatorie con la medesima pena detentiva minima (e massima) prevista per il delitto di trasferimento fraudolento di valori al fine di eludere la legge in materia di misure di prevenzione o di commettere uno dei reati di cui agli artt. 648, 648-bis e 648-ter del codice penale (art. 12-quinquies del d.l. n. 306 del 1992, convertito, con modificazioni, nella legge n. 356 del 1992); pena alla quale si aggiunge anche quella pecuniaria, non contemplata per tale delitto.
L’auspicata eliminazione del minimo edittale non comporterebbe, d’altra parte, «alcun vulnus all’integrità dell’ordinamento penale». In conseguenza di essa, la determinazione delle sanzioni minime resterebbe affidata alle disposizioni generali degli artt. 23 e 24 cod. pen., sulla falsariga di quanto indicato da questa Corte in occasione della dichiarazione di illegittimità costituzionale della pena minima del delitto di oltraggio a pubblico ufficiale, prevista dall’art. 341 cod. pen., nel testo allora vigente (sentenza n. 341 del 1994).
La previsione della confisca obbligatoria risulterebbe inconciliabile, oltre che – per i motivi esposti – con l’art. 3 Cost., anche con l’art. 42 Cost. Imponendo di adottare il provvedimento ablatorio anche quando l’operazione riguardi beni di legittima provenienza e sia stata effettuata mediante atto pubblico, la norma denunciata impedirebbe, infatti, al giudice di graduare la risposta sanzionatoria in rapporto all’effettivo disvalore della condotta, con il risultato di collegare ad una violazione puramente formale una eccessiva compressione del diritto di proprietà, in assenza di qualsiasi connotazione di pericolosità intrinseca del bene.
La norma censurata violerebbe, da ultimo, l’art. 27, terzo comma, Cost., che, nello stabilire che le pene debbano tendere alla rieducazione del condannato, implica necessariamente una proporzione tra disvalore del fatto e sanzione. Nella specie, per converso, la pena minima e la confisca obbligatoria previste dall’art. 31 della legge n. 646 del 1982 rischierebbero di allontanare ulteriormente i soggetti interessati da un già difficile percorso di recupero sociale. Non di rado, infatti, tali sanzioni vengono applicate a persone che hanno scontato interamente la pena loro inflitta o il periodo di sottoposizione alla misura di prevenzione, colpendole pesantemente a distanza di anni nella libertà personale o nel patrimonio per un comportamento di mera disobbedienza, quando non per una mera dimenticanza o per la stessa ignoranza del precetto.
La questione sarebbe, altresì, rilevante nel giudizio a quo, posto che – a fronte di quanto in precedenza riferito e non sussistendo ragioni per escludere l’elemento soggettivo del reato, anche alla luce dell’attuale orientamento della giurisprudenza di legittimità – l’imputato si troverebbe esposto all’applicazione delle sanzioni previste dalla norma denunciata, pur non avendo dissimulato in alcun modo l’atto di disposizione patrimoniale del quale si discute.
2.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o manifestamente infondata.
La difesa dello Stato rileva come la Corte costituzionale, nel dichiarare manifestamente inammissibili o manifestamente infondate precedenti questioni di legittimità costituzionale degli artt. 30 e 31 della legge n. 646 del 1982, abbia rimarcato la legittimità della scelta legislativa di sanzionare penalmente la mancata comunicazione delle operazioni patrimoniali da parte di una persona sottoposta con provvedimento definitivo a misura di prevenzione qualificata, nell’ambito di un sistema di contrasto della criminalità organizzata fortemente caratterizzato dall’utilizzo di strumenti di tipo patrimoniale.
Né potrebbe ravvisarsi alcuna violazione del canone della ragionevolezza nel trattamento sanzionatorio dell’illecito. Al riguardo, occorrerebbe considerare come l’obbligo di comunicazione previsto dagli artt. 30 della legge n. 646 del 1982 e 80 del d.lgs. n. 159 del 2011 richieda un «impegno assolutamente irrisorio» a coloro che vi sono soggetti, onde sarebbe del tutto ragionevole che la sua inosservanza sia riguardata «in termini di massimo sospetto».
Non condivisibile sarebbe, altresì, la valutazione del rimettente di «inoffensività» dell’omissione penalmente sanzionata, allorché – come nella specie – essa riguardi un trasferimento effettuato mediante atto pubblico, rogato da notaio: valutazione basata sull’assunto che, in tal caso, la comunicazione alla polizia tributaria risulterebbe “assorbita” dalla comunicazione dell’atto notarile all’agenzia delle entrate, obbligatoria per legge. Ben diversa sarebbe, infatti, la funzione delle comunicazioni in discorso. La comunicazione degli atti pubblici all’agenzia delle entrate, cui fa riferimento il giudice a quo, sembrerebbe identificarsi in quella prevista ai fini della loro registrazione dal d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro). Si tratterebbe, dunque, di una comunicazione avente una finalità meramente fiscale.
Per converso, la comunicazione prescritta dall’art. 30 della legge n. 646 del 1982 e dall’art. 80 del d.lgs. n. 159 del 2011, da effettuare alla polizia tributaria, ha una funzione strumentale rispetto ai controlli periodici previsti dalla stessa normativa di prevenzione, intesi a verificare che non perduri il collegamento dell’interessato con la criminalità organizzata (art. 25 della legge n. 646 del 1982). La comunicazione in questione avrebbe, quindi, una finalità di ordine pubblico, iscrivendosi tra i meccanismi di contrasto del fenomeno associativo criminale di stampo mafioso.
Per altro verso, poi, la Corte costituzionale avrebbe chiarito che la struttura stessa della fattispecie incriminatrice garantisce la possibilità di applicarla in maniera costituzionalmente corretta: ciò, in particolare, tramite l’esclusione dell’elemento soggettivo del reato «quando la pubblicità sia comunque assicurata e dunque sia di per sé impossibile l’occultamento degli atti soggetti a comunicazione» (ordinanza n. 442 del 2001). Indicazione, questa, che – ad avviso dell’Avvocatura dello Stato – sarebbe stata sostanzialmente recepita dalla giurisprudenza di legittimità, secondo la quale il dolo del reato in questione implica la consapevolezza da parte dell’imputato del presupposto da cui sorge l’obbligo e va desunto da elementi sintomatici, legati segnatamente alle vicende di acquisizione del bene e al valore dello stesso.
Considerato in diritto
1.– Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Trapani dubita della legittimità costituzionale dell’art. 31 della legge 13 settembre 1982, n. 646 (Disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazioni alle leggi 27 dicembre 1956, n. 1423, 10 febbraio 1962, n. 57 e 31 maggio 1965, n. 575. Istituzione di una commissione parlamentare sul fenomeno della mafia), parzialmente trasfuso nell’art. 76, comma 7, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), nella parte in cui prevede, per il reato di omessa comunicazione delle variazioni patrimoniali, la pena minima di due anni di reclusione e di euro 10.329 di multa, nonché la confisca obbligatoria del bene acquistato o del corrispettivo dell’alienazione.
A parere del rimettente, la norma censurata violerebbe l’art. 3 della Costituzione, per contrasto con i principi di eguaglianza e di ragionevolezza. Essa punirebbe, infatti, una violazione meramente formale, indipendente dalla illegittima provenienza dei beni e che può risultare priva di ogni intento dissimulatorio – come nel caso in cui l’omessa comunicazione riguardi un trasferimento patrimoniale operato tramite atto pubblico rogato da un notaio, comunicato per legge all’amministrazione finanziaria – con la stessa pena detentiva minima prevista per il delitto di trasferimento fraudolento di valori al fine di eludere la legge in materia di misure di prevenzione o di commettere uno dei reati di cui agli artt. 648, 648-bis e 648-ter del codice penale (art. 12-quinquies del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, recante «Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa», convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356); pena alla quale si aggiunge una pena pecuniaria, non prevista per tale delitto, oltre alla misura patrimoniale della confisca obbligatoria del bene acquisito o del corrispettivo del trasferimento.
La disposizione denunciata si porrebbe, altresì, in contrasto con l’art. 42 Cost., giacché, prevedendo la confisca obbligatoria anche quando l’operazione riguardi beni di legittima provenienza e sia stata effettuata con atto pubblico, impedirebbe di commisurare la risposta sanzionatoria all’effettivo disvalore della condotta, collegando ad una violazione puramente formale una eccessiva compressione del diritto di proprietà, in assenza di qualsiasi connotazione di pericolosità intrinseca del bene.
Sarebbe violato, infine, l’art. 27, terzo comma, Cost., giacché la previsione di sanzioni sproporzionate per eccesso rispetto alla gravità della violazione ostacolerebbe la rieducazione del condannato.
2.– La questione è inammissibile.
L’art. 30 della legge n. 646 del 1982, nel testo novellato dalla legge 13 agosto 2010, n. 136 (Piano straordinario contro le mafie, nonché delega al Governo in materia di normativa antimafia), prevede che le persone condannate con sentenza definitiva per delitti di criminalità organizzata (art. 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale) o per trasferimento fraudolento di valori (art. 12-quinquies del d.l. n. 306 del 1992), ovvero sottoposte, con provvedimento definitivo, a misura di prevenzione personale ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere), debbano comunicare al nucleo di polizia tributaria del luogo di dimora abituale tutte le variazioni nell’entità e nella composizione del loro patrimonio concernenti elementi di valore non inferiore ad euro 10.329,14. La comunicazione va effettuata entro trenta giorni dal fatto, ovvero entro il 31 gennaio di ciascun anno per le variazioni dell’anno precedente che, sommate, risultino di valore non inferiore a detto importo (ciò, onde evitare elusioni del precetto tramite l’artificioso frazionamento delle operazioni). L’obbligo sussiste per un periodo di dieci anni dalla definitività della sentenza o del provvedimento.
Il successivo art. 31 punisce l’omessa comunicazione con la reclusione da due a sei anni e la multa da 10.329 a 20.568 euro, stabilendo, altresì, che alla condanna consegua la confisca obbligatoria (anche “per equivalente”) dei beni acquistati o del corrispettivo dell’alienazione.
La norma precettiva e quella sanzionatoria risultano ora trasfuse, rispettivamente, negli artt. 80 e 76, comma 7, del d.lgs. n. 159 del 2011, limitatamente alle persone sottoposte a misure di prevenzione. Le disposizioni della legge n. 646 del 1982 restano, dunque, in vigore per i soli condannati.
3.– L’ipotesi risultata maggiormente problematica, nell’applicazione della previsione punitiva, è quella in cui la variazione patrimoniale non comunicata alla polizia tributaria derivi da un’operazione soggetta a forme di pubblicità legali che ne assicurino la pronta e agevole conoscibilità. Il caso paradigmatico – che viene in rilievo nel giudizio a quo – è quello della compravendita immobiliare stipulata mediante atto pubblico rogato da notaio (s’intende, senza fittizie interposizioni di persona che dissimulino la partecipazione ad essa del condannato o del sottoposto a misura di prevenzione): atto del quale il notaio rogante è tenuto a curare entro brevi termini tanto la trascrizione nei registri immobiliari (art. 2671 del codice civile, art. 6 del d.lgs. 31 ottobre 1990, n. 347, recante «Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti le imposte ipotecaria e catastale»), quanto la registrazione a fini fiscali (artt. 10, comma 1, lettera b, e 13 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, recante «Approvazione del Testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro»), comunicandolo, in tal modo, direttamente all’amministrazione finanziaria.
Sul presupposto che, in simili frangenti, l’operatività della norma incriminatrice in esame risultasse priva di adeguato fondamento razionale e tale da condurre a risultati iniqui, era emerso in giurisprudenza, all’inizio degli anni 2000, un indirizzo interpretativo volto ad escludere la configurabilità del reato: soluzione che faceva peraltro leva, più che sulla carenza di tipicità del fatto connessa ad un deficit di offensività, sulla ritenuta insussistenza dell’elemento soggettivo. Muovendo dal rilievo che lo scopo dell’incriminazione – anche a fronte della sua collocazione nel capo III della legge n. 646 del 1982, recante «Disposizioni fiscali e tributarie» – fosse quello di impedire l’occultamento all’amministrazione finanziaria degli incrementi dei patrimoni di soggetti collegati ad associazioni mafiose, se ne deduceva che il dolo del delitto di omessa comunicazione delle variazioni patrimoniali non potesse essere, a sua volta, che un «dolo di occultamento», logicamente non ipotizzabile quando l’operazione fosse stata compiuta con le modalità dianzi indicate.
È in tale quadro interpretativo che si collocano le precedenti pronunce di questa Corte sull’argomento. Chiamata a scrutinare, a più riprese, tanto la norma precettiva (art. 30 della legge n. 646 del 1982) che quella sanzionatoria (art. 31), la Corte dichiarò le questioni manifestamente infondate, sul rilievo che le citate previsioni normative costituivano esercizio, non manifestamente arbitrario o irragionevole, dell’ampia discrezionalità spettante al legislatore in tema di configurazione degli illeciti penali e di determinazione delle relative sanzioni: e ciò, tanto più a fronte del fatto che la giurisprudenza dell’epoca, attraverso una lettura qualificata come «conforme a Costituzione», escludeva «la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato quando la pubblicità sia comunque assicurata e dunque sia di per sé impossibile l’occultamento degli atti soggetti a comunicazione» (ordinanza n. 442 del 2001, sulla cui scia le ordinanze n. 362 e n. 143 del 2002).
4.– Negli anni successivi, tuttavia, si è consolidato nella giurisprudenza di legittimità un orientamento di segno opposto, in base al quale il delitto in esame è configurabile anche quando l’omessa comunicazione riguardi operazioni effettuate mediante atti pubblici, soggetti ad un regime di pubblicità, trattandosi di atti comunque non destinati ad essere portati a conoscenza del nucleo di polizia tributaria competente né ad opera del pubblico ufficiale rogante, né di altri.
Al riguardo, si è rilevato come si sia di fronte ad un reato di pericolo presunto, finalizzato, da un lato, a garantire che il nucleo di polizia tributaria venga effettivamente e sollecitamente a conoscenza della variazione intervenuta nel patrimonio di soggetti di accertata pericolosità sociale (e non semplicemente che la possa conoscere, effettuando indagini di propria iniziativa); dall’altro, a rendere obbligatoria per l’amministrazione una verifica altrimenti solo eventuale. L’elemento soggettivo del delitto, d’altra parte – si è aggiunto – è rappresentato dal dolo generico, il quale esige la semplice consapevolezza dei presupposti di fatto da cui sorge l’obbligo di comunicazione (qualità di condannato o di sottoposto a misura di prevenzione del soggetto obbligato, superamento della soglia di rilevanza dell’operazione), senza che l’inadempiente debba essere animato dallo specifico scopo di occultare alla polizia tributaria le informazioni che vengono in rilievo. Mentre, poi, l’ignoranza da parte dell’interessato della stessa esistenza dell’obbligo di comunicazione risulterebbe inescusabile, trattandosi di errore di diritto vertente su norma integratrice del precetto penale.
5.– L’odierno rimettente denuncia come alla stregua di tale «diritto vivente» – che ingloba nel cono applicativo dell’incriminazione anche fatti che, secondo le indicazioni delle pronunce di questa Corte dianzi ricordate, avrebbero dovuto restarvi estranei – il trattamento sanzionatorio della fattispecie risulti manifestamente sproporzionato per eccesso, violando, con ciò, gli artt. 3, 27, terzo comma, e 42 Cost.
La questione sollevata coglie un indubbio profilo di criticità del paradigma punitivo considerato. Nondimeno, l’intervento che il giudice a quo propone per porvi rimedio è impraticabile da questa Corte.
Con riguardo alla pena, il risultato cui dichiaratamente mira il rimettente è di rimuovere i minimi edittali stabiliti dalla norma censurata, con l’effetto di rendere applicabili le previsioni degli artt. 23 e 24 cod. pen., che fissano in via generale la durata minima della reclusione in quindici giorni e l’ammontare minimo della multa in cinquanta euro.
Al riguardo, è tuttavia dirimente il rilievo che questa Corte non può rimodulare liberamente le sanzioni degli illeciti penali. Se lo facesse, invaderebbe un campo riservato alla discrezionalità del legislatore, stante il carattere tipicamente politico degli apprezzamenti sottesi alla determinazione del trattamento sanzionatorio: discrezionalità il cui esercizio è censurabile, sul piano della legittimità costituzionale, solo ove trasmodi nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio, come avviene quando si sia di fronte a sperequazioni sanzionatorie tra fattispecie omogenee non sorrette da alcuna ragionevole giustificazione (ex plurimis, sentenze n. 68 del 2012, n. 161 del 2009, n. 324 del 2008 e n. 394 del 2006).
L’odierno rimettente non lamenta, peraltro, che l’omessa comunicazione delle variazioni patrimoniali sia punita in modo ingiustificatamente più aspro di altra fattispecie omogenea. Censura, invece, che essa sia punita in modo irragionevolmente uguale – quanto a pena detentiva – ad altra fattispecie in assunto più grave, individuata segnatamente nel delitto di trasferimento fraudolento di valori al fine di eludere la legge in materia di misure di prevenzione o di commettere reati di riciclaggio (art. 12-quinquies del d.l. n. 306 del 1992).
Le due prospettive non sono, peraltro, equivalenti. Nel primo caso – ove ravvisi l’arbitrarietà della soluzione legislativa denunciata – la Corte può rimuovere il vulnus allineando la risposta punitiva della fattispecie in discussione a quella della fattispecie analoga; nel secondo dovrebbe scegliere invece essa stessa, in modo “creativo”, la pena da sostituire a quella censurata, così da “scaglionare” le ipotesi in comparazione sul piano sanzionatorio: operazione che le è preclusa. In effetti, «se non si riscontra una sostanziale identità tra le fattispecie prese in considerazione, e si rileva invece, come nel caso in esame, una sproporzione sanzionatoria rispetto a condotte più gravi, un eventuale intervento di riequilibrio di questa Corte non potrebbe in alcun modo rimodulare le sanzioni previste dalla legge, senza sostituire la propria valutazione a quella che spetta al legislatore» (sentenza n. 22 del 2007).
Né, d’altra parte, il parametro cui agganciare l’intervento di riequilibrio potrebbe essere rappresentato dalle norme generali sull’entità minima dei diversi tipi di pena (nella specie, gli artt. 23 e 24 cod. pen.), per la semplice ragione che – come già detto – l’allineamento a tali minimi è esso stesso una scelta non “a rime obbligate”. È evidente, in effetti, che, se si avallasse il modus operandi caldeggiato dal rimettente, si verrebbe ad affermare un principio inaccettabile: e, cioè, che tutte le volte in cui si riscontri che due reati di diversa gravità sostanziale sono puniti con pene eguali la pena minima del reato meno grave dovrebbe essere ridotta (nel caso di delitto punibile con pene congiunte) a quindici giorni di reclusione e ad euro cinquanta di multa.
Nella pronuncia dichiarativa dell’illegittimità costituzionale della pena edittale minima del delitto di oltraggio a pubblico ufficiale, prevista dall’art. 341 cod. pen., nel testo all’epoca vigente (sentenza n. 341 del 1994) – pronuncia alla quale si richiama in modo specifico l’odierno rimettente – questa Corte si giovò in effetti, sia pure col supporto di un complesso di ulteriori considerazioni, della comparazione con la fattispecie affine dell’ingiuria, che, per l’appunto, non prevede un minimo edittale.
6.– Per quanto attiene, poi, alla confisca, lo stesso petitum del giudice a quo resta indeterminato.
Il rimettente lamenta, infatti, che la previsione della confisca obbligatoria impedisca al giudice di «graduare» la risposta sanzionatoria rispetto all’effettivo disvalore del fatto, senza peraltro precisare l’esatta direzione dell’intervento richiesto: se, cioè, questo debba consistere nella eliminazione tout court della confisca, ovvero nella sua trasformazione in confisca facoltativa, ovvero ancora nella previsione della possibilità di una confisca solo parziale (intervento, quest’ultimo, che non potrebbe essere comunque operato dalla Corte, traducendosi in una innovazione di sistema: sentenza n. 252 del 2012).
Quando pure si volesse accreditare l’ipotesi della richiesta di trasformazione della confisca in facoltativa, mancherebbe comunque l’indicazione del referente normativo che impedisca all’intervento della Corte di colorarsi di una valenza “creativa”: e ciò anche per quanto attiene all’individuazione dei criteri che dovrebbero presiedere alla scelta del giudice di applicare o meno la misura (nella specie, si discute infatti pacificamente di una confisca-sanzione, e non di una confisca-misura di sicurezza, per la quale possa valere la generale disciplina dell’art. 240 cod. pen., imperniata sulla “pericolosità della cosa”).
7.– La questione va dichiarata, per le esposte ragioni, inammissibile.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 31 della legge 13 settembre 1982, n. 646 (Disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazioni alle leggi 27 dicembre 1956, n. 1423, 10 febbraio 1962, n. 57 e 31 maggio 1965, n. 575. Istituzione di una commissione parlamentare sul fenomeno della mafia), parzialmente trasfuso nell’art. 76, comma 7, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, e 42 della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Trapani con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 aprile 2014.
F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l'8 aprile 2014.