Sentenza n. 161 del 2009

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SENTENZA N. 161

ANNO 2009

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Francesco          AMIRANTE                     Presidente

- Ugo                  DE SIERVO                       Giudice

- Paolo                MADDALENA                        “

- Alfio                FINOCCHIARO                      “

- Alfonso            QUARANTA                           “

- Franco              GALLO                                   “

- Luigi                MAZZELLA                            “

- Gaetano            SILVESTRI                             “

- Sabino              CASSESE                               “

- Maria Rita         SAULLE                                 “

- Giuseppe           TESAURO                              “

- Paolo Maria       NAPOLITANO                        “

- Giuseppe           FRIGO                                    “

- Alessandro        CRISCUOLO                          “

- Paolo                GROSSI                                  “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 2, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità), sostituito dall’art. 14 del decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144, convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2005, n. 155 (Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale), promosso dal Tribunale di Caltanissetta nel procedimento penale a carico di L. V. A., con ordinanza del 6 febbraio 2008, iscritta al n. 143 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 20, prima serie speciale, dell’anno 2008.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 22 aprile 2009 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo.

Ritenuto in fatto

1.— Il Tribunale di Caltanissetta, in composizione monocratica, con ordinanza depositata il 6 febbraio 2008, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, dell’art. 9, comma 2, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità), così come sostituito dall’art. 14 del decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144, convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2005, n. 155 (Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale), «nella parte in cui prevede la pena della reclusione da uno a cinque anni in caso di inosservanza degli obblighi e delle prescrizioni inerenti la sorveglianza speciale con l’obbligo o il divieto di soggiorno».

2. — Il rimettente riferisce che L. V. A. è stato rinviato a giudizio per rispondere del delitto previsto e punito dall’art. 9, comma 2, della legge n. 1423 del 1956, così come sostituito dall’art. 14 del decreto-legge n. 144 del 2005, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 155 del 2005, perché – sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, con obbligo di soggiorno nel comune di residenza – non ottemperava alle prescrizioni imposte dal provvedimento del tribunale, risultando assente dalla propria abitazione all’esito del controllo effettuato alle ore 00,45 del 27 novembre 2006, così contravvenendo all’obbligo di permanenza in essa dalle ore 20,00 alle ore 7,00.

All’udienza del 6 febbraio 2008, esaurita la fase istruttoria del dibattimento, le parti hanno rassegnato le rispettive conclusioni.

Il rimettente sostiene che la sanzione da applicare, nell’ipotesi di affermazione della penale responsabilità dell’imputato, dovrebbe essere determinata con riguardo a quella prevista dalla disposizione la cui legittimità costituzionale è posta in dubbio.

Infatti, prima della modifica dell’art. 9, comma 2, della legge n. 1423 del 1956, le violazioni delle prescrizioni imposte insieme con la misura di prevenzione della sorveglianza speciale integravano la contravvenzione di cui al medesimo art. 9, comma 1, salvi i casi di effettivo allontanamento dal comune, o di violazione concreta del divieto di soggiorno, questi soltanto sanzionati dal citato art. 9, comma 2.

Invece, dopo la menzionata modifica, si è affermato nella giurisprudenza di legittimità un incontroverso indirizzo interpretativo, secondo il quale qualsiasi violazione agli obblighi o alle prescrizioni relative alla sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno deve essere sanzionata con la reclusione da uno a cinque anni, essendo comunque configurabile, in tali fattispecie, il delitto di cui all’art. 9, comma 2, della legge n. 1423 del 1956.

In questo quadro, condotte criminose del tutto simili a quella oggetto del processo a quo, nel quale la violazione ascritta al prevenuto è costituita dall’abusivo allontanamento dalla propria abitazione nelle ore notturne, sono sanzionate con pena ben più mite, come avviene per i delitti di abusivo allontanamento dalla località di esecuzione degli arresti o della detenzione domiciliare, di cui agli artt. 385 del codice penale e 47-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), peraltro, posti a tutela di beni giuridici non meno importanti.

In relazione al reato per cui si procede, è dunque intervenuto un notevole inasprimento della pena, ed in confronto con le fattispecie delittuose da ultimo citate esso si rivela in contrasto con gli artt. 3, primo comma, e 27, terzo comma, Cost.

Il rimettente osserva che la questione non è manifestamente infondata, essendo ipotizzabile la violazione delle norme costituzionali richiamate, in quanto la Corte costituzionale, pur riservando alla discrezionalità del legislatore l’individuazione dei comportamenti punibili, la determinazione della specie della pena e la misura della stessa, tenendo conto delle diverse situazioni, ha, però, costantemente ribadito il principio che l’esercizio di tale discrezionalità può essere censurato quando esso non rispetti il limite della ragionevolezza e dia, quindi, luogo ad una disparità di trattamento palese ed ingiustificata (sentenze n. 25 del 1994 e n. 409 del 1989).

Inoltre, il rimettente pone l’accento sull’orientamento della Corte (sentenze n. 313 del 1995 e n. 343 del 1993), secondo cui la manifesta mancanza di proporzionalità rispetto ai fatti di reato non corrisponde all’esigenza delle finalità rieducative poste dall’art. 27, terzo comma, Cost. Nella vicenda de qua si realizza, invece, un’evidente valutazione difforme di condotte illecite del tutto simili, in relazione alle quali si potrebbe affermare, in ipotesi, che sono più gravi quelle sanzionate in modo meno rigoroso, considerata l’esistenza di un titolo cautelare o addirittura la pendenza della fase esecutiva di statuizioni contenute in una sentenza passata in giudicato.

In proposito, ad avviso del giudice a quo, va rilevato che l’art. 3, primo comma, Cost. «impone che il bilanciamento tra gli interessi da tutelare e il bene della libertà personale tenga conto delle sanzioni previste per le analoghe condotte di pregiudizio degli stessi interessi, derivandone l’effetto che, solo quando la pena sia stabilita con la necessaria proporzionalità, essa risponde alla funzione rieducativa di cui all’art. 27, terzo comma, della Costituzione».

3. — Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha spiegato intervento con atto depositato il 27 maggio 2008, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.

Il rimettente assimila la posizione di chi si trovi agli arresti o in stato di detenzione domiciliare a quella del soggetto raggiunto dalla misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno.

In primo luogo, però, chi si trova agli arresti domiciliari o fruisce della detenzione domiciliare, riceve una netta “controspinta” psicologica al proposito di allontanarsi dall’abitazione stante la prospettiva dell’inasprimento della misura cautelare o della revoca del beneficio, qualora non osservi l’obbligo di permanere nel luogo in cui è custodito. Il soggetto sottoposto alla misura di prevenzione, data l’inesistenza di questa prospettiva, va stimolato all’osservanza degli obblighi e delle prescrizioni a lui imposte. Orbene, come risulta dall’art. 9, comma 1, della legge n. 1423 del 1956, nel testo vigente, il contravventore agli obblighi inerenti alla (sola) sorveglianza speciale è punito con l’arresto da tre mesi ad un anno, cioè riceve un trattamento sanzionatorio simile a quello di cui all’art. 385 cod. pen.

Non è irragionevole, dunque, un trattamento più severo per chi non osservi gli obblighi e le prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno. Si tratta, infatti, di obblighi e prescrizioni inerenti alla misura di prevenzione più grave, irrogata a soggetto ritenuto portatore di particolare pericolosità (Cass., n. 2217 del 2007). Proprio la necessità di assicurare il rispetto, da parte di soggetto particolarmente pericoloso (art. 3 della legge 1423 del 1956), delle prescrizioni e degli obblighi imposti con la misura di prevenzione della sorveglianza speciale, con divieto od obbligo di soggiorno, giustifica il severo trattamento qui considerato. Ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, non vi è alcuna violazione dell’art. 3 Cost., avuto riguardo alla diversità di situazione tra chi si trovi agli arresti domiciliari o in stato di detenzione domiciliare, e colui che presenta la specifica pericolosità idonea a giustificare la più grave tra le misure di prevenzione; e non è ravvisabile violazione dell’art. 27 Cost., perché, una volta accertata la gravità del comportamento punito, non si può parlare di manifesta sproporzione tra fatto e pena.

Considerato in diritto

1. — Il Tribunale di Caltanissetta, in composizione monocratica, con l’ordinanza indicata in epigrafe, dubita della legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, dell’articolo 9, comma 2, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità), così come sostituito dall’art. 14 del decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144, convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2005, n. 155 (Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale), «nella parte in cui prevede la pena della reclusione da uno a cinque anni in caso di inosservanza degli obblighi e delle prescrizioni inerenti la sorveglianza speciale con l’obbligo o il divieto di soggiorno».

Il rimettente espone che l’imputato è stato rinviato a giudizio per rispondere del delitto previsto e punito dalla norma denunziata, perché, sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, con obbligo di soggiorno nel comune di residenza, non ottemperava alle prescrizioni imposte dal provvedimento del tribunale, risultando, così, assente dalla propria abitazione all’atto del controllo effettuato alle ore 00,45; in tal modo L. V. A. contravveniva alla prescrizione dell’obbligo di permanenza nel proprio domicilio dalle ore 20,00 alle ore 7,00.

Egli rileva che la sanzione da applicare, in caso di giudizio di colpevolezza, andrebbe determinata con riguardo a quella prevista dalla disposizione della cui legittimità costituzionale si dubita; osserva, altresì, che tale trattamento sanzionatorio, riferito alla condotta consistente nell’aver violato la prescrizione di non allontanarsi dalla propria abitazione in un certo arco temporale, si rivela manifestamente irragionevole, perché ben più grave rispetto alla disciplina prevista per condotte del tutto simili, quali sono quelle integranti i reati di cui all’art. 385 del codice penale (evasione) ed all’art. 47-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative della libertà personale).

Ritiene, quindi, che la norma denunziata violi l’art. 3, primo comma, e l’art. 27, terzo comma, Cost., perché – ferma restando la discrezionalità del legislatore nell’individuazione dei fatti penalmente punibili e nella determinazione delle pene – è pur sempre necessario che l’esercizio di tale discrezionalità osservi il limite della ragionevolezza e della proporzionalità della pena rispetto al disvalore dell’illecito commesso, in modo che il sistema sanzionatorio adempia nel contempo alla funzione di difesa sociale ed a quella di tutela delle posizioni individuali, in coerenza con la finalità rieducativa della pena, come già affermato da questa Corte.

2. — La questione è ammissibile perché il giudice a quo, sia pure in forma concisa, ha motivato in modo plausibile sulla rilevanza e sulla non manifesta infondatezza.

Essa, nel merito, non è fondata.

3. — Si deve premettere che, prima della riforma attuata con il decreto-legge n. 144 del 2005, convertito, con modificazioni, nella legge n. 155 del 2005, la condotta consistente nella violazione, da parte del sorvegliato speciale di pubblica sicurezza sottoposto all’obbligo o al divieto di soggiorno, di tale obbligo o divieto e delle relative prescrizioni, determinate nel provvedimento del tribunale che aveva disposto l’applicazione della misura, integrava due autonome ipotesi di reato.

In particolare, l’art. 9, comma 2, della legge n. 1423 del 1956 (come sostituito dall’art. 23 del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, recante modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa) puniva con la reclusione da uno a cinque anni la condotta consistente nell’inosservanza della sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno, mentre l’art. 12, primo comma, della medesima legge puniva con l’arresto da tre mesi ad un anno la condotta della persona che, sottoposta all’obbligo del soggiorno, contravvenisse alle relative prescrizioni.

A seguito delle modifiche introdotte con la citata normativa del 2005, le condotte indicate integrano una sola ipotesi delittuosa, perché l’art. 9, comma 2, è stato modificato come segue: «Se l’inosservanza riguarda gli obblighi e le prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con l’obbligo o il divieto di soggiorno, si applica la pena della reclusione da uno a cinque anni ed è consentito l’arresto anche fuori dei casi di flagranza». L’originario art. 12, primo comma, è stato abrogato, con la conseguenza che, ai sensi dell’art. 9, comma 1, della legge n. 1423 del 1956 e successive modificazioni, sono punite a titolo di contravvenzioni, soltanto le inosservanze agli obblighi commesse dal sorvegliato speciale non sottoposto all’obbligo o al divieto di soggiorno.

L’excursus normativo che precede evidenzia come il legislatore, nel riformare la delicata materia delle misure di prevenzione, abbia compiuto una precisa scelta nel senso d’inasprire il trattamento sanzionatorio delle condotte penalmente illecite, inerenti alla misura della sorveglianza speciale con l’obbligo o il divieto di soggiorno, collocando nella relativa fattispecie criminosa, punita con la reclusione da uno a cinque anni, anche l’inosservanza delle prescrizioni inerenti a tale misura, disposte dal tribunale ex art. 5 della legge n. 1423 del 1956 e successive modificazioni.

Orbene, come costantemente affermato da questa Corte, le scelte legislative aventi ad oggetto la configurazione delle fattispecie criminose e il relativo trattamento sanzionatorio sono censurabili, in sede di costituzionalità, soltanto qualora la discrezionalità sia stata esercitata in modo manifestamente irragionevole, arbitrario o radicalmente ingiustificato (ex plurimis, sentenze n. 324 del 2008, n. 22 del 2007, n. 394 del 2006, n. 325 del 2005 e n. 364 del 2004; ordinanze n. 41 del 2009 e n. 52 del 2008). Inoltre, il raffronto tra fattispecie normative, finalizzato a verificare la ragionevolezza delle scelte legislative, deve avere ad oggetto casistiche omogenee, risultando altrimenti improponibile la stessa comparazione (ex plurimis, ordinanze n. 41 del 2009, n. 71 del 2007 e n. 30 del 2007).

Nel caso in esame la pena prevista dalla norma denunziata riguarda soggetti sottoposti ad una grave misura di prevenzione, perché ritenuti pericolosi per la sicurezza pubblica, in relazione alla cui salvaguardia altre misure non sono state considerate idonee. In questo quadro è interesse dello Stato che il fine di tutela preventiva sia garantito con l’osservanza degli obblighi e delle prescrizioni inerenti alla misura, anche allo scopo di consentire l’esercizio di adeguati controlli da parte dell’autorità di pubblica sicurezza.

La ratio della norma è quella di perseguire tale finalità, mediante un trattamento sanzionatorio senza dubbio severo per il caso di violazioni agli obblighi e prescrizioni imposte. Significativo in tal senso è il dato secondo cui la modifica della norma censurata è stata introdotta dal decreto-legge n. 144 del 2005 – poi convertito – recante misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale, quindi nell’ambito di una più ampia iniziativa legislativa, la cui finalità, come si desume dai lavori parlamentari, è stata anche quella d’integrare la disciplina delle misure di prevenzione, ripristinando, tra l’altro, l’arresto fuori flagranza nel caso di violazioni agli obblighi ed alle prescrizioni della sorveglianza speciale.

Si è in presenza, dunque, di una scelta legislativa per la repressione della criminalità che, dal punto di vista del profilo evidenziato ed a torto ignorato dal rimettente, non può definirsi manifestamente irragionevole o ingiustificata. Pertanto, sotto tale aspetto, resta esclusa la violazione del parametro costituzionale riferito all’art. 3, sotto il profilo della ragionevolezza.

Non si può giungere a diversa conclusione per la presunta disparità di trattamento, ravvisata dal giudice a quo con riguardo a «condotte delittuose estremamente similari a quella oggetto del presente processo».

Invero, secondo il rimettente, la condotta ascritta al prevenuto nel giudizio principale (abusivo allontanamento dalla propria abitazione nelle ore notturne), sarebbe del tutto simile a quelle, sanzionate con una pena ben più mite, integranti il delitto di cui all’art. 385 cod. pen. – allontanamento abusivo dell’imputato dal luogo di esecuzione degli arresti domiciliari – o il delitto di cui all’art. 47-ter della legge n. 354 del 1975 (Norme sull’ordinamento penitenziario) che, nell’ottavo comma, prevede la punibilità ex art. 385 nei confronti del condannato che, essendo in stato di detenzione nella propria abitazione o in un altro dei luoghi indicati nel primo comma, se ne allontani.

Si deve, però, rilevare che le fattispecie poste a confronto dal giudice rimettente sono palesemente diverse e, quindi, non consentono di ravvisare la denunziata disparità (ex plurimis, ordinanze n. 229 del 2006, n. 170 del 2006, n. 45 del 2006 e n. 438 del 2001).

Infatti, il delitto previsto dalla norma denunziata si colloca, come si è detto, nell’ambito delle misure di prevenzione, finalizzate alla tutela della sicurezza pubblica e postulanti la sussistenza di determinati presupposti soggettivi (art. 1 della legge n. 1423 del 1956 e successive modificazioni) nonché della pericolosità, che le suddette misure mirano appunto a controllare, svolgendo quindi una funzione cautelativa.

Del tutto differente, invece, è l’oggetto giuridico del reato di evasione, costituente, in realtà, l’unico tertium comparationis invocato dal rimettente, dal momento che l’art. 47-ter, ottavo comma, dell’ordinamento penitenziario, rimanda alla fattispecie contemplata dall’art. 385 cod. pen. La norma, collocata nel capo dei delitti contro l’autorità delle decisioni giudiziarie, è diretta a tutelare, da un lato, l’interesse ad una corretta attuazione della pretesa punitiva dello Stato, dall’altro a garantire le esigenze cautelari funzionali al processo penale.

Le previsioni normative poste in comparazione dal rimettente non presentano, dunque, alcuna omogeneità.

Il richiamo all’art. 27, terzo comma, Cost. si rivela del pari non fondato.

E’ vero che la manifesta mancanza di proporzionalità rispetto ai fatti reato si pone in contrasto con la finalità rieducativa della pena prevista dalla norma ora citata.

Nel caso in esame, però, sussiste un consistente divario tra il minimo e il massimo edittale della pena prevista dalla norma impugnata; ciò rende il trattamento punitivo molto flessibile in rapporto all’esigenza di adeguamento al diverso disvalore delle singole violazioni rientranti nel campo applicativo della norma censurata, sicché al giudice è consentito di graduare la pena in relazione alla gravità del fatto.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 2, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità), così come sostituito dall’art. 14 del decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144, convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2005, n. 155 (Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale), nella parte in cui prevede la pena della reclusione da uno a cinque anni in caso di inosservanza degli obblighi e delle prescrizioni inerenti la sorveglianza speciale con l’obbligo o il divieto di soggiorno, sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Caltanissetta, in composizione monocratica, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 maggio 2009.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Alessandro CRISCUOLO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 22 maggio 2009.