Ordinanza n. 143 del 2002

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ORDINANZA N.143

ANNO 2002

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare RUPERTO, Presidente

- Massimo VARI

- Riccardo CHIEPPA

- Gustavo ZAGREBELSKY

- Valerio ONIDA

- Carlo MEZZANOTTE

- Fernanda CONTRI

- Guido NEPPI MODONA

- Piero Alberto CAPOTOSTI

- Annibale MARINI

- Franco BILE

- Francesco AMIRANTE

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 30 e 31 della legge 13 settembre 1982, n. 646 (Disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazioni alle leggi 27 dicembre 1956, n. 1423, 10 febbraio 1962, n. 57, e 31 maggio 1965, n. 575. Istituzione di una commissione parlamentare sul fenomeno della mafia), promossi con ordinanze emesse il 3 e il 18 aprile 2001 dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Trapani, iscritte ai nn. 468 e 582 del registro ordinanze 2001 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 25 e 33, prima serie speciale, dell’anno 2001.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 13 febbraio 2002 il Giudice relatore Gustavo Zagrebelsky.

Ritenuto che con ordinanza del 3 aprile 2001 (r.o. 468/2001), il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Trapani ha sollevato tre distinte questioni di legittimità costituzionale, rispettivamente (a) dell’art. 30 della legge 13 settembre 1982, n. 646 (Disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazioni alle leggi 27 dicembre 1956, n. 1423, 10 febbraio 1962, n. 57, e 31 maggio 1965, n. 575. Istituzione di una commissione parlamentare sul fenomeno della mafia), in riferimento all’art. 3 della Costituzione, (b) dell’art. 31 della stessa legge n. 646 del 1982, in riferimento all’art. 27 della Costituzione, e (c) ancora dell’art. 31 della citata legge n. 646 del 1982, in riferimento agli artt. 3, 35, 41 e 42 della Costituzione;

che, relativamente alla prima questione, il rimettente muove dalla formulazione dell’art. 30 impugnato, il cui primo comma fa obbligo alle persone "già sottoposte, con provvedimento definitivo, ad una misura di prevenzione ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575", di comunicare per dieci anni, ed entro trenta giorni dal fatto, al nucleo di polizia tributaria del luogo di dimora abituale, tutte le variazioni nella entità e nella composizione del patrimonio concernenti elementi di valore non inferiore a venti milioni di lire e altresì di comunicare entro il 31 gennaio di ciascun anno le variazioni intervenute nell’anno precedente, sempre se al di sopra della soglia di valore anzidetta; mentre il secondo comma stabilisce che il suddetto termine di dieci anni decorre "dalla data del decreto" applicativo della misura di prevenzione e il terzo comma dispone che "gli obblighi previsti nel primo comma cessano quando la misura di prevenzione é revocata a seguito di ricorso in appello o in cassazione";

che pertanto – prosegue il rimettente - dalla formulazione complessiva della norma possono trarsi due diverse e tra loro contraddittorie prescrizioni, nell’ambito della medesima disposizione legislativa, giacchè, mentre dal primo comma si desume che l’obbligo di comunicazione é imposto a soggetti sottoposti con provvedimento definitivo alla misura preventiva, dai successivi commi secondo e terzo si desume invece che lo stesso obbligo decorre già dalla data dell’emanazione del decreto o dal momento della sua esecuzione, comunque anteriormente alla definitività del provvedimento;

che il rimettente rileva che nel caso di specie l’interessato ha omesso di comunicare operazioni di alienazione di immobili effettuate in date 28 luglio 1998 e 26 gennaio 1999, mentre il decreto di applicazione della misura di prevenzione é divenuto definitivo, a seguito di ricorso per cassazione, in data 3 febbraio 1999;

che, svolgendo ulteriori argomentazioni anche relativamente alle modifiche legislative intervenute sulla norma denunciata, il giudice a quo conclude, quanto alla prima questione, denunciando di incostituzionalità, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, l’art. 30 della legge n. 646 del 1982, perchè, dalla formulazione di detta norma e dalla duplicità di interpretazioni inconciliabili che essa consente, deriverebbe "incertezza del diritto, con conseguente impossibilità di assicurare ai soggetti destinatari parità di trattamento dinanzi alla legge [···] qualora si ritenga che vi sia immediata decorrenza degli obblighi di comunicazione per i soggetti sottoposti a misura di prevenzione";

che con la seconda questione il giudice a quo, deducendo la violazione dell’art. 27 della Costituzione, lamenta che la sanzione prevista dall’art. 31 della legge n. 646 del 1982 per il caso di inosservanza dell’obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali – la reclusione da due a sei anni e la multa da lire venti milioni a lire quaranta milioni – sia eccessiva e sproporzionata e contemporaneamente inefficace rispetto allo scopo;

che il rimettente svolge al riguardo critiche circa l’utilità pratica della previsione, che, finalizzata in astratto a una sorta di difesa avanzata dall’infiltrazione della criminalità mafiosa nell’economia, a suo avviso porrebbe un obbligo puramente formale, la cui inosservanza non determinerebbe alcun sostanziale effetto negativo per il soggetto obbligato, osservando inoltre che i dati concernenti le operazioni che debbono formare oggetto di comunicazione sarebbero comunque conoscibili per altra via, essendo gli acquisti e le alienazioni di immobili – cioé le operazioni di cui si tratta nel caso di specie – effettuati attraverso atti soggetti a forme legali di pubblicità;

che inoltre l’adempimento dell’obbligo posto dalla norma finirebbe per costituire, di fatto, una sorta di copertura delle operazioni, avendo il soggetto tutto l’interesse a rispettarlo, ingenerando un effetto di apparente liceità delle operazioni che comportano variazioni patrimoniali, cosicchè neppure sotto questo profilo la norma sarebbe in grado di assicurare i risultati in vista dei quali essa é stata posta;

che, per queste considerazioni, l’applicazione delle rigorose pene stabilite dalla disposizione a fatti "nella realtà privi di offensività" finirebbe per contrastare – specificamente per "la pena minima edittale" – con il principio di necessaria proporzionalità della pena e suo tramite con la finalità rieducativa, che della pena é carattere essenziale (art. 27 della Costituzione);

che, svolgendo una terza questione, il giudice rimettente denuncia infine, in riferimento agli artt. 3, 35, 41 e 42 della Costituzione, l’art. 31 della medesima legge n. 646 del 1982, in quanto prevede, quale ulteriore conseguenza della condanna per il reato di omessa comunicazione delle variazioni patrimoniali, "la confisca dei beni a qualunque titolo acquistati nonchè del corrispettivo dei beni a qualunque titolo alienati";

che al riguardo il giudice a quo osserva, in generale, che nel sistema penale la confisca é una misura di sicurezza che si fonda sulla pericolosità della disponibilità di alcune cose, che sono servite o che sono state destinate a commettere il reato o che di questo sono il prodotto o il profitto, e che pertanto essa - anche secondo la giurisprudenza – é caratterizzata dalla finalità "cautelare", in quanto mira a prevenire la commissione di ulteriori reati;

che nella disposizione censurata, viceversa, la confisca assume – ancora ad avviso del rimettente - un mero carattere punitivo, trattandosi di misura "del tutto slegata dall’accertamento della pericolosità della cosa", in quanto la variazione patrimoniale costituirebbe solo l’"occasione" dell’insorgere dell’obbligo di comunicazione, la cui violazione determina l’applicazione della misura della confisca del bene acquistato o del corrispettivo del bene venduto, senza che si possa ravvisare quel nesso di strumentalità tra il fatto e il bene che invece é richiesto in generale nella configurazione della confisca quale misura di sicurezza facoltativa - alla quale egli riferisce l’argomentazione della questione sollevata, in quanto misura prevista solo in caso di condanna -, rappresentando la variazione patrimoniale, in sè considerata, un "elemento neutro";

che a sostegno della questione il giudice rimettente pone a raffronto la previsione impugnata, da un lato, con l’art. 12-sexies del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, che prevede, in caso di condanna o di pronuncia di "patteggiamento" per alcuni delitti, tra cui quello di associazione di tipo mafioso di cui all’art. 416-bis cod. pen., la confisca del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulti essere titolare o disporre a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito o alla propria attività economica; dall’altro, con la specifica confisca che può essere disposta nell’ambito del procedimento di prevenzione, a norma dell’art. 2-ter della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro la mafia);

che, nel raffronto con queste disposizioni, il rimettente individua un primo profilo di incostituzionalità per disparità di trattamento di situazioni analoghe, poichè ciò che é ammesso nei due casi anzidetti - la dimostrazione della legittima provenienza dei beni - é invece precluso a chi sia condannato per il reato di omessa comunicazione previsto dall’impugnato art. 31 della legge n. 646 del 1982;

che ulteriore aspetto di contrasto della norma con l’art. 3 della Costituzione é ravvisato dal giudice a quo nella circostanza che la misura della confisca si applica, senza distinzione alcuna, anche a beni pervenuti per successione ereditaria o per donazione, o relativamente ai quali il condannato abbia, in ipotesi, acceso un mutuo bancario, pagando le relative rate con i proventi del proprio lavoro, con una indiscriminata applicazione che appare, al rimettente, indice di sproporzione rispetto alla finalità legislativa di controllo dei movimenti patrimoniali dei soggetti mafiosi, a fronte della già ricordata mancanza di pericolosità intrinseca del bene;

che, sulla base di questi rilievi, il giudice di merito censura la norma in questione per violazione del principio di uguaglianza e del canone di coerenza e razionalità della legge, risultando la confisca inadeguata ed eccedente rispetto agli obiettivi del legislatore, e altresì per violazione degli artt. 35, 41 e 42 della Costituzione, essendo prevista l’ablazione di beni e utilità anche quando siano il prodotto del lavoro e del risparmio e dunque quando l’acquisto della proprietà derivi da attività consentite e protette dal diritto;

che con altra ordinanza del 18 aprile 2001 (r.o. 582/2001), emessa in distinto procedimento penale, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Trapani ha sollevato questione di costituzionalità degli artt. 30 e 31 della legge n. 646 del 1982, testualmente identica a quella precedentemente detta e riferita agli stessi parametri costituzionali;

che nel giudizio promosso con quest’ultima ordinanza é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, tramite l’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l’inammissibilità e comunque per l’infondatezza delle questioni sollevate.

Considerato che le due ordinanze, di contenuto corrispondente tra loro, sollevano le medesime questioni e che pertanto i relativi giudizi possono essere riuniti per essere definiti con unica pronuncia;

che, quanto alle questioni - più ampiamente indicate in (a) e in (b) della parte narrativa – relative, rispettivamente, alla disposizione che stabilisce l’obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali (art. 30 della legge n. 646 del 1982) e alla disposizione che stabilisce le sanzioni penali della reclusione e della multa per l’inosservanza dell’obbligo (art. 31 della legge n. 646 del 1982), questa Corte, chiamata a vagliare le medesime censure, prospettate con ordinanze emesse dallo stesso ufficio giudiziario rimettente, ne ha dichiarato, con ordinanza n. 442 del 2001, successiva alle ordinanze di rinvio ora in esame: quanto alla questione in (a), la manifesta inammissibilità, per essere con essa sollevato un mero dubbio di carattere interpretativo, originato dalla formulazione testuale della norma, dubbio che spetta al giudice dissolvere, e, quanto alla questione in (b), la manifesta infondatezza, risolvendosi essa in considerazioni critiche circa l’opportunità della norma, non traducibili in censure di costituzionalità apprezzabili, a fronte della ampia discrezionalità del legislatore nella determinazione dei reati e delle relative sanzioni;

che, in assenza di qualsiasi ulteriore profilo argomentativo nelle ordinanze ora all’esame di questa Corte, non v’é motivo di discostarsi dalla decisione anzidetta, cosicchè per le questioni sopra richiamate deve giungersi alle stesse conclusioni;

che, quanto alla questione, indicata in (c) nella parte narrativa, relativa alla previsione della confisca dei beni acquistati e del corrispettivo dei beni alienati con le operazioni patrimoniali della cui effettuazione sia stata omessa la comunicazione da parte del soggetto obbligato, nei termini di legge, si deve osservare, in via preliminare, che la questione attiene a una statuizione giudiziale di natura accessoria, perchè necessariamente susseguente all’affermazione di responsabilità del soggetto per il reato di cui all’art. 30 della legge n. 646 del 1982;

che, proprio per questo carattere derivato della questione, in tanto potrebbe porsi un dubbio di costituzionalità specificamente concernente la misura ablativa in quanto sia risolto, nel senso affermativo, il tema della responsabilità penale dell’imputato, sotto ogni profilo oggettivo e soggettivo;

che viceversa, come sopra ricordato, il rimettente non ha risolto il tema anzidetto, da un lato rimettendo a questa Corte la soluzione delle incertezze interpretative che sono indotte da una formulazione testuale apparentemente contraddittoria e stratificata per effetto di interventi legislativi successivi su diversi commi della stessa disposizione (art. 30 impugnato) non coordinati tra loro, dall’altro eludendo anche le possibilità interpretative che sono offerte da una lettura della disposizione nell’ambito del sistema di prevenzione della criminalità mafiosa, le quali hanno condotto altra giurisprudenza, appunto in base a tali criteri, a escludere la sussistenza del reato, sotto il profilo dell’elemento soggettivo, quando le operazioni siano costituite da atti legalmente soggetti a forme di pubblicità che rendano di per sè impossibile l’occultamento di essi (v. la citata ordinanza n. 442 del 2001);

che, irrisolte queste premesse sull’an dell’incriminazione, la questione incentrata sulla conseguenza di ordine patrimoniale viene configurata in via ipotetica e pertanto, risultando priva del necessario requisito della rilevanza, deve essere dichiarata manifestamente inammissibile.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

1) dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 30 della legge 13 settembre 1982, n. 646 (Disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazioni alle leggi 27 dicembre 1956, n. 1423, 10 febbraio 1962, n. 57, e 31 maggio 1965, n. 575. Istituzione di una commissione parlamentare sul fenomeno della mafia), sollevate, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Trapani, con le ordinanze in epigrafe;

2) dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 31 della medesima legge n. 646 del 1982, relativamente alla previsione della confisca, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 35, 41 e 42 della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Trapani, con le ordinanze in epigrafe;

3) dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 31 della medesima legge n. 646 del 1982, relativamente alla previsione della sanzione della reclusione e della multa, sollevate, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Trapani, con le ordinanze in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 aprile 2002.

Cesare RUPERTO, Presidente

Gustavo ZAGREBELSKY, Redattore

Depositata in Cancelleria il 24 aprile 2002.