SENTENZA N. 122
ANNO 2017
Commenti alla decisione di
I. Angela Della Bella, Per
la Consulta è legittimo il divieto imposto ai detenuti in 41 bis di scambiare libri e riviste con i
familiari, per g.c. di Diritto
Penale Contemporaneo
II.
Andrea Longo, «Est modus in rebus». Modalità
e contesto nella compressione dei diritti fondamentali, a partire dalla
sentenza della Corte costituzionale n. 122 del 2017, per g.c. di Nomos
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai
signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Alessandro CRISCUOLO Giudice
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la
seguente
SENTENZA
nel giudizio di
legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettere a)
e c), della legge
26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione
delle misure privative e limitative della libertà), promosso dal Magistrato
di sorveglianza di Spoleto, nel procedimento di sorveglianza a carico di E. C.,
con ordinanza del 29 aprile 2016, iscritta
al n. 108 del registro ordinanze 2016 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 22, prima serie speciale, dell’anno 2016.
Visto l’atto di intervento
del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio
dell’8 febbraio 2017 il Giudice relatore Franco
Modugno.
Ritenuto in fatto
1.– Con
ordinanza depositata il 29 aprile 2016, il Magistrato di sorveglianza di
Spoleto ha sollevato, in riferimento agli artt. 15, 21, 33, 34 e 117, primo comma, della
Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettere
a) e c), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento
penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della
libertà) (d’ora in avanti: ord. pen.), nella parte in cui – secondo il "diritto
vivente” – «consente all’amministrazione penitenziaria di adottare, tra le
misure di elevata sicurezza interna ed esterna volte a prevenire contatti del
detenuto in regime differenziato con l’organizzazione criminale di appartenenza
o di attuale riferimento, il divieto di ricevere dall’esterno e di spedire
all’esterno libri e riviste a stampa».
1.1.– Il giudice a quo premette di
essere investito del reclamo con il quale una persona detenuta presso la casa
circondariale di Terni, sottoposta a regime differenziato ai sensi dell’art. 41-bis ord. pen., ha chiesto di poter ricevere dai propri familiari libri e
riviste a stampa tramite corrispondenza o pacco postale, ovvero mediante
consegna in occasione dei colloqui nell’istituto penitenziario, previa
disapplicazione della circolare del Dipartimento dell’amministrazione
penitenziaria del Ministero della giustizia n. 3701/2014 dell’11 febbraio 2014,
che ripristina le disposizioni preclusive già contenute nella precedente
circolare n. 8845/2011 del 16 novembre 2011.
Il
rimettente rileva che detta circolare ministeriale del 2011 ha previsto una
serie di limitazioni in ordine alla fruizione della stampa da parte dei
detenuti in regime differenziato, giustificate con le esigenze di prevenzione
che sono alla base di tale regime. La circolare stabilisce, in particolare, che
siano rimossi dalle biblioteche degli istituti penitenziari i libri «contenenti
tecniche di comunicazione criptate»; che l’acquisto di qualsiasi tipo di stampa
autorizzata (quotidiani, riviste, libri) possa essere effettuato dai detenuti
esclusivamente nell’ambito dell’istituto penitenziario, anche per quanto
riguarda gli abbonamenti, i quali debbono essere sottoscritti dalla direzione o
dall’impresa di mantenimento onde evitare che terze persone vengano a
conoscenza dell’istituto di assegnazione del detenuto; che sia vietata la
ricezione di libri e riviste provenienti dai familiari, anche tramite pacco
consegnato in sede di colloquio o spedito per posta, come pure la trasmissione
del predetto materiale all’esterno da parte del detenuto; che sia impedito,
altresì, l’accumulo di un numero eccessivo di libri nelle camere di detenzione,
anche al fine di agevolare le operazioni di perquisizione ordinaria; che sia
evitato, infine, lo scambio di libri e riviste tra detenuti appartenenti a
diversi «gruppi di socialità».
Il giudice a quo riferisce, altresì, di aver
accolto, con ordinanza del 18 dicembre 2012, un precedente reclamo dell’odierno
ricorrente avverso i divieti in questione, disapplicando la circolare
ministeriale in quanto contrastante con l’art. 15 Cost.
e ritenendo, sulla base di una interpretazione
costituzionalmente orientata degli artt. 41-bis e 18-ter ord.
pen.,
che spettasse alla sola autorità giudiziaria disporre limitazioni e l’eventuale
visto di controllo sui libri e sulle riviste spedite al detenuto o da questi
trasmesse ai familiari.
Successivamente,
peraltro, la Corte di cassazione si era espressa nell’opposto senso della
legittimità delle descritte restrizioni: ragione per la quale l’11 febbraio
2014 il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aveva emanato una nuova
circolare, che ribadiva le disposizioni della circolare già disapplicata dal
rimettente.
Adeguandosi
alle indicazioni ministeriali, la direzione della casa circondariale di Terni
aveva quindi ripristinato le limitazioni anche nei confronti del detenuto
istante, che a propria volta le ha fatte oggetto di nuovo reclamo ai sensi
degli artt. 35-bis
e 69, comma 6, lettera b), ord. pen., ritenendole foriere di un grave pregiudizio all’esercizio
dei propri diritti di corrispondere e di informarsi, entrambi
costituzionalmente tutelati e ampiamente riconosciuti dall’ordinamento
penitenziario.
1.2.– Ciò premesso, il giudice a quo
osserva come, in ordine alla questione sulla quale è chiamato a pronunciarsi,
la giurisprudenza di legittimità abbia adottato una soluzione ermeneutica che,
in ragione della sua uniformità, sarebbe ormai assorta a "diritto vivente”.
La Corte di
cassazione ha, infatti, annullato in plurime occasioni i provvedimenti dei
magistrati di sorveglianza che avevano disapplicato la circolare ministeriale
del 2011, ritenendo che le relative disposizioni rappresentino coerente
esplicazione di un potere conferito all’amministrazione penitenziaria dall’art.
41-bis ord. pen.
Dette disposizioni – secondo il giudice di legittimità – non comprimerebbero
eccessivamente il diritto allo studio e all’informazione del detenuto, il quale
può sempre ottenere le pubblicazioni mediante l’istituto penitenziario,
soffrendo soltanto una maggiore difficoltà nella loro acquisizione; maggiore
difficoltà ampiamente giustificata, tuttavia, dal dato di esperienza per cui libri,
giornali e stampa in genere sono molto spesso usati dai detenuti in regime
differenziato per comunicare illecitamente con l’esterno.
Si è
pervenuti, quindi, al più recente arresto espresso dalla sentenza 29 settembre 2014-15
gennaio 2015, n. 1774. In essa, la prima sezione penale della Corte di
cassazione ha rilevato come in questo campo occorra confrontarsi con due
distinte disposizioni: da un lato, quella dell’art. 18-ter ord.
pen.,
in forza della quale le limitazioni e i controlli della corrispondenza e della
stampa in arrivo ai detenuti e in partenza da essi debbono essere disposti
dall’autorità giudiziaria; dall’altro, quella dell’art. 41-bis ord.
pen.,
che consente al Ministro della giustizia di sospendere l’applicazione delle
regole di trattamento e degli istituti previsti dall’ordinamento penitenziario
che possano porsi in contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza nei
confronti dei detenuti e degli internati per taluni delitti, in relazione ai
quali vi siano elementi tali far ritenere la sussistenza di collegamenti con
un’associazione criminale, terroristica o eversiva.
Secondo la
citata pronuncia, la limitazione e la sottoposizione a controllo della
corrispondenza debbono essere disposte, anche in caso di applicazione del
regime differenziato, nelle forme dell’art. 18-ter ord.
pen.,
con la conseguenza che la decisione sul trattenimento o meno dell’epistola
spetta esclusivamente all’autorità giudiziaria, e non a quella amministrativa.
La ricezione della stampa non sarebbe, tuttavia, qualificabile come
«"corrispondenza” in senso stretto», concetto riferibile alle sole
comunicazioni interpersonali tra mittente e destinatario, particolarmente
tutelate in quanto strumento per il mantenimento di un nucleo di relazioni e di
vita affettiva da considerare intangibile anche a fronte delle forme più
intense di restrizione della libertà personale. Nella specie, si discuterebbe
invece della trasmissione di pubblicazioni che contengono espressioni di
pensiero di terze persone destinate alla generalità dei lettori, rispetto alle
quali verrebbe in rilievo una diversa facoltà del detenuto, quella di
informarsi e di istruirsi.
È ben vero
– ha aggiunto la Cassazione – che l’art. 18-ter ord.
pen. concerne
anche le limitazioni alla ricezione della stampa, ma ciò non escluderebbe la
legittimità di ulteriori forme di limitazione che derivino dalla sottoposizione
del detenuto al regime di cui all’art. 41-bis ord.
pen.,
il quale assumerebbe, in tale ambito, un «carattere di specialità derogante».
Il comma 2-quater
di detto articolo consente, infatti, tra l’altro, di adottare misure idonee a
prevenire contatti del detenuto con l’organizzazione criminale di appartenenza
(lettera a) e di limitare gli oggetti
che possono essere ricevuti dall’esterno (lettera c): termine – quello di «oggetti» – atto a ricomprendere anche
libri, riviste e giornali. Le regole introdotte dalla circolare ministeriale,
d’altra parte, non sopprimerebbero affatto il diritto del detenuto ad
informarsi e a studiare, ma si limiterebbero a sottoporre a più rigoroso
controllo la provenienza dei libri e delle stampe, così da impedire al detenuto
«di effettuare scambi sospetti con familiari […] che potrebbero contenere
messaggi criptici, non facilmente individuabili dal personale addetto al
controllo».
Il giudice a quo segnala, ancora, come il
«richiamato autorevole insegnamento» della giurisprudenza di legittimità sia
stato recepito dai giudici di merito, e in particolare dal Tribunale di
sorveglianza di Perugia, che, sulla sua base, ha annullato ulteriori
provvedimenti di disapplicazione delle disposizioni ministeriali, emessi dal
giudice rimettente dopo l’adozione della circolare del 2014 a seguito dei
reclami di altri detenuti che, come l’odierno ricorrente, si erano viste
ripristinate le limitazioni in parola.
Sulla
materia si sarebbe, in conclusione, formato un «definito orientamento
giurisprudenziale», non superabile tramite una interpretazione difforme, benché
costituzionalmente orientata.
1.3.– Su tale premessa, il giudice a quo
dubita, tuttavia, della legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettere
a) e c), ord. pen., nella parte in cui –
alla stregua del "diritto vivente” – consente all’amministrazione penitenziaria
di vietare al detenuto in regime differenziato di ricevere dall’esterno, e in
particolare dai propri familiari, o di inviare loro, libri e riviste mediante
l’ordinaria corrispondenza o con pacchi postali separati.
Ad avviso
del rimettente, la norma censurata si porrebbe in contrasto, anzitutto, con
l’art. 15 Cost., che prevede una riserva, non solo di legge, ma anche di
giurisdizione per la limitazione della libertà e della segretezza della
corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione.
Alla luce
dell’espressa motivazione della circolare ministeriale e della stessa
interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità, il divieto di
ricevere e di inviare libri e riviste è stabilito, non per il contenuto delle
pubblicazioni destinato ad un pubblico indifferenziato, ma in ragione della
possibilità che esse costituiscano veicolo di comunicazioni illecite:
essenzialmente, di quelle stesse comunicazioni – costituite da ordini e
informazioni sull’attività del sodalizio criminoso di appartenenza o di attuale
riferimento del detenuto – che si intendono impedire ai detenuti in regime
differenziato tramite le limitazioni e il visto di censura sulla corrispondenza
previsti dall’art. 18-ter
ord. pen.
Non sarebbe
inibito, dunque, il possesso del libro o della rivista come tali – tanto è vero
che il detenuto è ammesso ad acquistare le medesime pubblicazioni tramite
l’istituto penitenziario – quanto piuttosto un «flusso comunicativo» tra il
detenuto e terze persone, in particolare i familiari. Mediante un libro si può,
infatti, far conoscere uno stato d’animo, trasmettere un messaggio di
vicinanza, sollevare il detenuto dalle spese di acquisto del volume
manifestandogli il sostegno familiare, così come è possibile interpolare nel
testo a stampa frasi affettuose o di riflessione, ovvero anche messaggi
criptici o addirittura apertamente diretti a trasmettere ordini e informazioni.
Si sarebbe,
pertanto, di fronte ad una limitazione della libertà di corrispondenza che, in
forza dell’art. 15 Cost., necessita del vaglio dell’autorità giudiziaria, già
chiamata, in forza dell’art. 18-ter ord. pen., a distinguere i
messaggi che non determinino alcun pericolo per la sicurezza e l’ordine
pubblico, e che pertanto costituiscono soltanto esplicazione del diritto a
corrispondere liberamente, e messaggi che implichino invece detto pericolo e
che devono essere perciò trattenuti, affinché non giungano al destinatario.
L’intervento dell’autorità giudiziaria permetterebbe, tra l’altro, di scegliere
caso per caso tra un ampio ventaglio di soluzioni – dal divieto di ricezione
alla mera sottoposizione al visto di censura – consentendo, così, un più
congruo contemperamento delle esigenze di sicurezza con l’esercizio dei diritti
costituzionalmente tutelati.
1.4.– La norma censurata violerebbe, altresì, l’art. 21 Cost.,
che, nel riconoscere in tutta la sua ampiezza il diritto alla libera
manifestazione del pensiero, tutela anche – secondo la giurisprudenza
costituzionale – il diritto di informare e di essere informati.
L’accesso
ai libri, alle riviste e ai quotidiani costituirebbe, in effetti, «profonda
espressione» del diritto ad essere informati, posto che nelle pubblicazioni a
stampa i temi verrebbero selezionati ed elaborati con una ampiezza e un
approfondimento incomparabilmente maggiori di quelli tipici dei mezzi di
informazione radiotelevisivi. Proprio per questo motivo, l’ordinamento
penitenziario riconosce al detenuto il diritto di accedere alla biblioteca
dell’istituto e la libertà di scegliere e di detenere le letture preferite (artt.
18, sesto comma, e 19, quinto comma, ord. pen.), stabilendo che persino nei
confronti dei detenuti che si siano resi responsabili di condotte negative
legittimanti il regime di sorveglianza particolare, non possano in ogni caso
disporsi limitazioni al possesso, alla ricezione e all’acquisto di oggetti
permessi dal regolamento interno (tra i quali certamente i libri e le riviste),
nonché – espressamente – alla lettura di libri e periodici (art. 14-quater ord. pen.).
Il diritto
dei detenuti ad essere tenuti al corrente dei più importanti avvenimenti del
mondo esterno, tramite la lettura di quotidiani, riviste e altre pubblicazioni,
è riconosciuto anche da fonti sovranazionali, quali la risoluzione
dell’Organizzazione delle Nazioni Unite del 30 agosto 1955, recante «Regole
minime per il trattamento dei detenuti», e la raccomandazione R(2006)2 sulle
«Regole penitenziarie europee», adottata l’11 gennaio 2006 dal Comitato dei
ministri del Consiglio d’Europa.
Lo
strumento per un corretto bilanciamento tra il diritto dei detenuti di essere
informati e le esigenze investigative e di prevenzione dei reati, ovvero di
ordine e sicurezza dell’istituto penitenziario, sarebbe novamente
offerto dall’art. 18-ter
ord. pen., che consente all’autorità giudiziaria – e non, dunque,
all’amministrazione penitenziaria – di disporre nei confronti di singoli
detenuti o internati, per periodi determinati ed eventualmente prorogabili,
limitazioni di vario tipo, modulabili in rapporto alle caratteristiche delle
situazioni concrete.
I divieti
in materia di ricezione della stampa che, secondo il "diritto vivente”,
l’amministrazione penitenziaria potrebbe imporre sulla base dell’art. 41-bis ord. pen.
determinerebbero, per converso, una compressione del diritto del detenuto ad
essere informato alla quale non corrisponde – in contrasto con quanto richiesto
dalla giurisprudenza costituzionale ai fini della legittimità delle limitazioni
ai diritti fondamentali (sono citate le sentenze n. 143
e n. 135 del
2013) – alcun apprezzabile incremento della tutela di interessi
contrapposti di pari rango, legati, nella specie, ad esigenze di contrasto
della criminalità organizzata.
Contrariamente
a quanto sostenuto dalla giurisprudenza di legittimità, non si potrebbe,
infatti, ritenere che la circolare ministeriale si limiti a regolare le
modalità di accesso alla stampa, senza incidere sul diritto del detenuto ad
informarsi, potendo quest’ultimo sempre acquistare libri, riviste e quotidiani
tramite la direzione dell’istituto penitenziario. Una simile affermazione non
terrebbe conto della realtà della vita carceraria, dalla quale emergerebbe un
quadro di ostacoli tale da pregiudicare il concreto esercizio del diritto in
questione.
Quotidiani,
riviste e libri potrebbero essere trasmessi, infatti, al detenuto, specie dai
familiari, in tempi assai più adeguati alle esigenze di informazione rispetto a
quelli richiesti per l’acquisizione a mezzo della direzione dell’istituto, la
quale acquisizione comporterebbe inevitabilmente consistenti attese per i
necessari «passaggi autorizzativi» e per il reperimento dei testi. Il detenuto
verrebbe privato, altresì, della possibilità di acquistare libri usati, con
conseguente maggior dispendio, il quale potrebbe risultare di notevole entità,
ad esempio, in rapporto ai testi giuridici, «particolarmente necessari a
detenuti dalle impegnative posizioni giuridiche». Occorrerebbe tener conto,
poi, dei limiti di spesa mensile ai quali sono sottoposti i detenuti in regime
speciale, onde evitare che i più abbienti possano manifestare la loro
«rilevanza criminale» tramite acquisti lussuosi: con la conseguenza che il
detenuto potrebbe trovarsi, di fatto, nell’alternativa tra la spesa per i libri
e quella per il sopravvitto alimentare o per i prodotti per l’igiene personale
non forniti gratuitamente dall’amministrazione penitenziaria.
Alle
evidenziate limitazioni non farebbe, d’altra parte, riscontro un significativo
incremento della tutela delle esigenze di sicurezza. Il divieto generalizzato
di ingresso della stampa proveniente dall’esterno non offrirebbe, infatti,
garanzie di raggiungimento dell’obiettivo maggiori di quelle correlate al visto
di controllo disposto ai sensi dell’art. 18-ter ord.
pen.,
con eventuale trattenimento degli stampati che si rivelino essere, in concreto,
veicolo di comunicazioni illecite tra i sodali liberi e il detenuto.
L’argomento basato sul possibile errore nella verifica della stampa da parte
degli addetti alla censura risulterebbe, in effetti, troppo debole nella
cornice di un bilanciamento tra valori costituzionali: l’errore, d’altronde, è
sempre possibile in sede di esame della corrispondenza, anche perché le lettere
non hanno limiti dimensionali e la loro analisi impone spesso di confrontarsi
con la scarsa intelligibilità della grafia dello scrivente.
1.5.– La norma censurata si porrebbe in contrasto, ancora, con gli artt. 33 e 34
Cost., che assicurano il diritto allo studio e
disegnano una scuola aperta a tutti e in grado di consentire a coloro che sono
privi di mezzi di raggiungere i gradi più alti degli studi, trovando in ciò
puntuale riscontro nello stesso ordinamento penitenziario, che eleva
l’istruzione ad elemento essenziale del trattamento (artt. 15 e 19 ord. pen.).
I tempi
lunghi richiesti per l’acquisto dei testi mediante l’amministrazione
penitenziaria, l’ingente esborso a tal fine necessario – stante l’impossibilità
di fruire di libri usati o fuori stampa o di dispense fotocopiate – e gli
evidenziati limiti di spesa connessi al regime differenziato finirebbero,
infatti, per pregiudicare non soltanto la possibilità di seguire corsi
scolastici o universitari, ma anche lo studio finalizzato al semplice
approfondimento di determinate tematiche, quali quelle giuridiche (come nel
caso del reclamante).
Anche in
questo caso, si sarebbe di fronte ad una limitazione incongrua e non
proporzionata, perché priva di riscontro in un incremento di tutela
dell’interesse di pari rango alla recisione dei legami del detenuto con
l’organizzazione criminale esterna.
1.6.– L’art. 41-bis,
comma 2-quater,
lettere a) e c), ord. pen. violerebbe, da ultimo,
anche l’art. 117, primo comma, Cost., ponendosi in
contrasto con gli artt. 3 e 8 della Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali,
firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4
agosto 1955, n. 848 (d’ora in avanti: CEDU).
Come posto
in evidenza dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, la detenzione, anche se
correlata a reati di particolare gravità, non sopprime il diritto del detenuto
al mantenimento di relazioni esterne e della vita affettiva, non potendo
consistere, ai sensi dell’art. 3 della CEDU, in
trattamenti inumani e degradanti: l’isolamento sociale correlato allo stato
detentivo può essere, quindi, soltanto relativo, e non di tipo assoluto.
Con
particolare riguardo al regime differenziato previsto dall’art. 41-bis ord. pen., la Corte di Strasburgo
– pur ritenendo giustificato il regime stesso dalle speciali esigenze di
sicurezza che sono alla sua base – ha però stigmatizzato il contrasto tra
singole disposizioni e il diritto al mantenimento delle relazioni affettive: il
che è avvenuto più volte proprio in rapporto alla disciplina della
corrispondenza (sono citate le sentenze 26 luglio 2001, Di
Giovine contro Italia; 9
gennaio 2001, Natoli contro Italia; 21 dicembre 2000, Rinzivillo
contro Italia; 15
novembre 1996, Domenichini contro Italia; 21 ottobre 1996, Calogero
Diana contro Italia).
In tali
occasioni, la Corte europea ha ricordato che l’art. 8 della CEDU
assicura ad ogni persona il «diritto al rispetto della propria vita privata e
familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza», consentendo
ingerenze dell’autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto solo se
previste dalla legge e costituenti misure necessarie, in una società
democratica, «alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere
economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla
protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle
libertà altrui».
La Corte di
Strasburgo ha rilevato, altresì, come le restrizioni imposte ai detenuti in
regime speciale, se pure previste dalla legge, debbono comunque sia fondarsi su
un impellente bisogno sociale e risultare proporzionate all’obiettivo perseguito
(è citata la sentenza 28
settembre 2000, Messina contro Italia). In questa prospettiva, si è
ritenuta non conforme all’art. 8 della CEDU la
precedente disciplina del controllo sulla corrispondenza dei detenuti, che
prevedeva bensì l’intervento dell’autorità giudiziaria, ma con provvedimento
motivato genericamente sulle esigenze di sicurezza e privo di limiti temporali.
Proprio a fronte di tali pronunce, il legislatore nazionale ha quindi introdotto
l’art. 18-ter
ord. pen., che prevede un obbligo specifico di motivazione e un
limite temporale stringente, salva la possibilità di proroghe, in ogni caso
autonomamente motivate.
Ad avviso
del giudice a quo, un contrasto
analogo si profilerebbe con riguardo al divieto di ricevere pubblicazioni
dall’esterno. Anche qualora non si accedesse alla tesi per cui la trasmissione
di libri e di stampati integri una forma di comunicazione presidiata dall’art.
15 Cost.,
essa ricadrebbe egualmente nel campo applicativo dell’art. 8 della CEDU, quale «residua epifania della […] vita privata e
familiare» del detenuto sottoposto al gravoso regime previsto dall’art. 41-bis ord. pen.
Occorrerebbe,
infatti, considerare che il detenuto in regime differenziato subisce una drastica
limitazione dei colloqui personali con i familiari (uno solo al mese, della
durata di un’ora e con vetro divisorio a tutta altezza, che impedisce ogni
contatto fisico tra i congiunti) e delle telefonate con essi (una al mese della
durata di dieci minuti, soltanto per i detenuti che non effettuano colloqui). I
rari contatti visivi e telefonici sono, d’altro canto, sempre presidiati
dall’ascolto e dalla registrazione audiovisiva. La stessa corrispondenza
epistolare è soggetta a visto di controllo e può essere trattenuta in presenza
dei presupposti di cui all’art. 18-ter ord. pen.
In questo
contesto, la possibilità di ricevere libri e stampa da persone che si
interessino del detenuto all’esterno, e segnatamente dai propri familiari, rappresenterebbe
«un lacerto di socialità peculiarmente prezioso». Se, per chicchessia, il
rapporto fisico con un libro che sia stato letto o anche solo acquistato da un
congiunto rappresenta un valore, per un detenuto già tanto deprivato di ogni
rapporto fisico con i propri familiari, sia pure per giuste ragioni di
prevenzione del pericolo di passaggio di ordini o informazioni relativi a
gruppi criminali, ciò acquisterebbe un significato del tutto particolare. Né
meno «drammatico» risulterebbe il divieto di inviare ai propri familiari quei
libri e quelle riviste che l’interessato abbia tenuto presso di sé e che, in
assenza di ogni possibilità di raggiungere i congiunti all’esterno, «lo
vicariano in modo certamente incompleto ma ancora fisicamente tangibile».
Il divieto
generale imposto nei confronti di tutti i detenuti in regime differenziato
sulla base della norma denunciata – peraltro senza limiti temporali e senza
specifica motivazione, nonché senza la possibilità di impugnazioni –
comprimerebbe, dunque, il diritto alla vita privata e familiare in modo
sproporzionato rispetto all’obiettivo del regime stesso: obiettivo che sarebbe
invece raggiungibile, in modo adeguato e flessibile, tramite l’ordinario
provvedimento adottato ai sensi dell’art. 18-ter ord.
pen. nei
confronti del singolo detenuto.
2.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano
dichiarate inammissibili o infondate.
Ad avviso
della difesa dell’interveniente, le questioni sarebbero inammissibili, in
quanto sollevate dal giudice a quo
con l’evidente intento di aggirare il consolidato orientamento della
giurisprudenza di legittimità contrario alla disapplicazione della circolare
ministeriale.
Nel merito,
le questioni risulterebbero, comunque sia, infondate.
Lo scopo
principale del regime speciale di detenzione previsto dall’art. 41-bis ord. pen.
consiste, in effetti, nell’impedire i collegamenti del
detenuto che vi è sottoposto con il sodalizio criminoso di appartenenza. Le
restrizioni rivolte a tale scopo sono previste dall’ordinamento penitenziario e
sono specificate, in base alle esigenze del caso, nel provvedimento del
Ministro della giustizia che dispone il regime stesso nei confronti del singolo
detenuto. Residuerebbe, peraltro, in capo all’amministrazione penitenziaria un
potere regolamentare riguardo alla concreta applicazione delle restrizioni, il
quale non dovrebbe comportare, in ogni caso, una inutile compressione dei
diritti costituzionalmente garantiti del detenuto.
Nella
specie, la circolare ministeriale che ha originato le censure del rimettente
avrebbe puntualmente indicato le ragioni per le quali le limitazioni di cui si
discute sono state introdotte: si era, infatti, rilevato che, utilizzando
tecniche di linguaggio criptico, i detenuti in regime speciale si erano avvalsi
dei libri per ricevere dall’esterno e far pervenire all’esterno messaggi, non
facilmente individuabili dal personale addetto al controllo anche in ragione
del numero di pagine da controllare e dell’ignoranza del codice di
decrittazione.
Le regole
in discorso non pregiudicherebbero, peraltro, in alcun modo il diritto del
detenuto di informarsi o di studiare, ma si limiterebbero a disciplinare le
modalità di acquisizione dei libri e degli stampati, sottoponendo a rigoroso
controllo la loro provenienza. Esse risulterebbero, pertanto, applicative della
norma di legge istitutiva del regime speciale ed in linea con le finalità di
tale regime.
Considerato in diritto
1.– Il Magistrato di sorveglianza di Spoleto dubita della legittimità
costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettere a)
e c), della legge 26 luglio 1975, n.
354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure
privative e limitative della libertà) (d’ora in avanti: ord.
pen.), nella parte in cui –
secondo il "diritto vivente” – «consente all’amministrazione penitenziaria di
adottare, tra le misure di elevata sicurezza interna ed esterna volte a
prevenire contatti del detenuto in regime differenziato con l’organizzazione
criminale di appartenenza o di attuale riferimento, il divieto di ricevere
dall’esterno e di spedire all’esterno libri e riviste a stampa».
Ad avviso
del giudice a quo, la norma
denunciata si porrebbe in contrasto con l’art. 15 della Costituzione, che
prevede una riserva di legge e di giurisdizione ai fini della limitazione della
libertà e segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di
comunicazione. Il divieto in questione si giustifica, infatti, non per il
contenuto dei testi a stampa destinato ad un pubblico indifferenziato, ma alla
luce della possibilità che libri e riviste costituiscano veicolo di
comunicazioni illecite tra il detenuto e l’organizzazione criminale di
appartenenza. Di conseguenza, la restrizione considerata non potrebbe
prescindere dal vaglio dell’autorità giudiziaria, secondo quanto previsto
dall’art. 18-ter
ord. pen.
ai fini della limitazione e del controllo della
corrispondenza.
La norma
censurata violerebbe, altresì, gli artt. 21, 33 e 34 Cost.,
giacché il divieto di ricevere pubblicazioni dall’esterno, creando maggiori
difficoltà nella loro acquisizione, comprimerebbe i diritti del detenuto
all’informazione e allo studio, senza che a tale compressione faccia riscontro
un apprezzabile incremento della tutela delle contrapposte esigenze di ordine e
sicurezza, le quali risulterebbero già adeguatamente salvaguardate dal più
flessibile meccanismo delineato dal citato art. 18-ter ord.
pen.
Sarebbe
violato, infine, l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 3 e 8 della Convenzione europea
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata
a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955,
n. 848 (d’ora in avanti: CEDU), che rispettivamente
vietano i trattamenti inumani o degradanti e garantiscono ad ogni persona il
diritto al rispetto alla propria vita privata e familiare e alla
corrispondenza. La possibilità di ricevere libri e riviste dall’esterno, e
segnatamente dai propri familiari, e di trasmetterli ad essi, rappresenterebbe,
infatti, per il detenuto sottoposto al gravoso regime restrittivo previsto
dall’art. 41-bis
ord. pen., uno strumento di mantenimento delle relazioni sociali e
della vita affettiva particolarmente prezioso, la cui negazione risulterebbe,
per le ragioni dianzi indicate, sproporzionata rispetto all’obiettivo del
regime stesso.
2.– Le questioni sottoposte all’esame di questa Corte attengono alle modalità
con le quali possono essere stabilite limitazioni in tema di acquisizione e
circolazione di libri, riviste e stampa in genere nei confronti dei detenuti
soggetti allo speciale regime di sospensione delle regole del trattamento,
disposto dal Ministro della giustizia ai sensi dell’art. 41-bis, comma 2, ord.
pen.
2.1.– Detto
regime mira a far fronte ad esigenze di tutela dell’ordine e della sicurezza
esterne al carcere e connesse alla lotta alla criminalità organizzata,
terroristica ed eversiva, impedendo, in particolare, i collegamenti dei
detenuti appartenenti alle organizzazioni criminali tra loro e con i membri di
queste che si trovino in libertà: collegamenti che potrebbero realizzarsi
attraverso i contatti con il mondo esterno, che lo stesso ordinamento
penitenziario pure favorisce, quali strumenti di reinserimento sociale (sentenza n. 376 del
1997; ordinanze
n. 417 del 2004 e n. 192 del 1998).
Si intende evitare, soprattutto, che gli esponenti dell’organizzazione in stato
di detenzione, sfruttando il normale regime penitenziario, «possano continuare
ad impartire direttive agli affiliati in stato di libertà, e così mantenere,
anche dal carcere, il controllo sulle attività delittuose dell’organizzazione
stessa» (sentenza
n. 143 del 2013).
In questa
prospettiva, il comma 2-quater
dell’art. 41-bis
ord. pen.
– nel testo novellato dalla legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in
materia di sicurezza pubblica) – dopo aver previsto, in termini generali, che
il regime speciale comporta «l’adozione di misure di elevata sicurezza interna
ed esterna», finalizzate principalmente a «prevenire contatti con
l’organizzazione criminale di appartenenza o di attuale riferimento» del
detenuto o dell’internato, oltre che «contrasti con elementi di organizzazioni
contrapposte, interazione con altri detenuti o internati appartenenti alla
medesima organizzazione ovvero ad altre ad essa alleate» (lettera a), elenca una serie di misure
specifiche costituenti il contenuto tipico e necessario del regime stesso.
Figurano nell’elenco, in particolare, la drastica limitazione dei colloqui
personali (uno al mese, con i soli familiari e conviventi, salvo casi
eccezionali, in locali attrezzati in modo da impedire il passaggio di oggetti)
e dei colloqui telefonici (uno al mese con i familiari e conviventi della
durata massima di dieci minuti, per i soli detenuti che non effettuino colloqui
visivi), con previsione, in entrambi i casi, del controllo auditivo e della
videoregistrazione (lettera b); la
«limitazione delle somme, dei beni e degli oggetti che possono essere ricevuti
dall’esterno» (lettera c); la
sottoposizione a visto di censura della
corrispondenza (lettera e);
l’adozione di misure che assicurino «la assoluta impossibilità di comunicare
tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità» (lettera f).
2.2.– Si innesta in questa cornice la vicenda che ha dato origine all’odierno
incidente di costituzionalità.
Al
dichiarato fine di «tutelare le esigenze di prevenzione poste a base del
regime» differenziato, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero
della giustizia emanava, il 6 novembre 2011, una circolare (identificata dal n.
8845/2011), recante un complesso di disposizioni in ordine all’ingresso, alla
circolazione e alla detenzione della stampa nell’ambito delle sezioni degli
istituti penitenziari destinate ad accogliere i detenuti in regime speciale.
Secondo quanto si legge nelle premesse della circolare, l’iniziativa prendeva
le mosse dall’avvenuto accertamento di come un detenuto fosse riuscito ad
eludere il visto di censura sulla corrispondenza scambiando con i familiari
libri, riviste e voluminosi atti giudiziari contenenti messaggi criptati,
difficilmente individuabili dal personale addetto al controllo anche per la
mole degli scritti da verificare. Per evitare il ripetersi di simili episodi,
l’amministrazione centrale invitava quindi le direzioni degli istituti
penitenziari ad attenersi ad un insieme di regole, tra cui quella sulla quale
si focalizzano le doglianze del giudice rimettente: stabiliva, cioè, che
qualsiasi tipo di stampa autorizzata (quotidiani, riviste, libri) potesse
essere acquistato dai detenuti in regime speciale solo nell’ambito
dell’istituto, tramite l’impresa di mantenimento o personale delegato dalla
direzione. Correlativamente, veniva vietata la ricezione di libri e riviste
provenienti dall’esterno, e in particolare dai familiari, sia a mezzo posta sia
tramite consegna in occasione dei colloqui, così come la trasmissione
all’esterno di tale materiale da parte del detenuto.
2.3.– Alcuni magistrati di sorveglianza, aditi con reclamo, disapplicavano le
disposizioni della circolare ministeriale ora ricordate.
Secondo
parte delle pronunce, dette disposizioni avrebbero leso i diritti di
informazione e di studio dei detenuti, introducendo penalizzanti ostacoli
all’acquisizione dei testi necessari per l’esercizio di tali diritti.
In base ad
altro indirizzo – del quale si faceva portavoce anche l’odierno rimettente – la
circolare avrebbe inciso sulla libertà di corrispondenza, sancita dall’art. 15 Cost.,
invadendo così un campo presidiato dalla garanzia della riserva di
giurisdizione. In quest’ottica, le limitazioni considerate non avrebbero potuto
essere disposte in via generale dall’amministrazione penitenziaria, ma solo
dall’autorità giudiziaria e per singoli casi, in conformità alle previsioni
dell’art. 18-ter
ord. pen., che alla predetta garanzia costituzionale danno
attuazione nello specifico ambito penitenziario. La citata disposizione,
introdotta dall’art. 1 della legge 8 aprile 2004, n. 95 (Nuove disposizioni in
materia di visto di controllo sulla corrispondenza dei detenuti), prevede, in
specie, sotto la rubrica «Limitazioni e controlli della corrispondenza», che
«[p]er esigenze attinenti le indagini o investigative
o di prevenzione dei reati, ovvero per ragioni di sicurezza o di ordine
dell’istituto», l’autorità giudiziaria indicata dal comma 3 dello stesso art. 18-ter ord. pen.
possa disporre, nei confronti dei singoli detenuti,
per periodi di tempo determinati (eventualmente prorogabili), tre tipi di
misure: ossia limitazioni nella corrispondenza epistolare e telegrafica e nella
ricezione della stampa (lettera a);
la sottoposizione della corrispondenza a visto di
controllo (lettera b); infine, il
controllo del contenuto delle buste che racchiudono la corrispondenza, senza
lettura della medesima (lettera c).
Sempre all’autorità giudiziaria compete, inoltre, disporre l’eventuale
trattenimento della corrispondenza e della stampa che, all’esito del visto di
controllo, si ritenga non debba essere consegnata o inoltrata al destinatario
(art. 18-ter,
comma 5, ord. pen.).
2.4.– I provvedimenti di disapplicazione della circolare ministeriale venivano,
tuttavia, sistematicamente annullati dalla Corte di cassazione.
Il giudice
di legittimità rilevava che le particolari restrizioni alle quali devono essere
sottoposti i detenuti in regime speciale sono previste dall’ordinamento
penitenziario e specificate dal decreto ministeriale – soggetto a controllo
giurisdizionale, ai sensi dell’art. 41-bis, comma 2-sexies, ord. pen. – che dispone detto regime. Residuerebbe, pur
tuttavia, in capo all’amministrazione penitenziaria un «potere regolamentare»
per la concreta applicazione delle restrizioni: potere che deve essere
esercitato nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento, senza rendere
inutilmente più gravoso lo speciale trattamento e senza un’inutile compressione
dei diritti costituzionalmente garantiti anche al detenuto (per tutte, Corte di
cassazione, sezione prima penale, 22 settembre-7
ottobre 2014, n. 41760; Corte di cassazione, sezione prima penale, 23 settembre-22 novembre 2013, n. 46783).
La
circolare ministeriale si sarebbe mantenuta in tale alveo, in quanto meramente
attuativa delle restrizioni previste dalla legge e dal provvedimento
ministeriale (Corte di cassazione, sezione prima penale, 16 ottobre-1°
dicembre 2014, n. 50158) e coerente con le finalità del regime speciale (Corte
di cassazione, sezione prima penale, 17 dicembre 2014-8 gennaio 2015, n. 314).
Le misure
adottate dall’amministrazione penitenziaria si giustificherebbero, infatti,
alla luce di un dato emerso dalla «pluriennale esperienza delle concrete
vicende [dello] specifico settore»: vale a dire che «libri, giornali e stampa
in genere [sono] molto spesso usati dai ristretti quali veicoli per comunicare
illecitamente con l’esterno, […] ricevendo o inviando messaggi in codice […]
che da un lato non interrompono (ma possono anche alimentare) le comunicazioni
di tipo criminale, dall’altro costituiscono concreti pericoli per l’ordine
interno degli istituti». Fenomeno, questo, atto a vanificare la funzione di
base del regime carcerario speciale (Corte di cassazione, sezione prima penale,
16 ottobre 2014-17 febbraio 2015, n. 6889; Corte di cassazione, sezione prima
penale, 27 settembre-18 ottobre 2013, n. 42902).
Non sarebbe
stato, inoltre, obliterato l’equo bilanciamento tra valori di rango
costituzionale. Le prescrizioni ministeriali non pregiudicherebbero in modo
significativo il diritto del detenuto ad informarsi e a studiare attraverso la
lettura di testi: esse non prevederebbero, infatti,
alcuna limitazione alla loro ricezione, ma ne regolerebbero soltanto le
modalità. Ferma restando la libertà di scelta dei libri e delle riviste da
parte dei detenuti, si richiederebbe che essi vengano acquisiti tramite "canali
sicuri” (l’impresa di mantenimento o il personale delegato dalla direzione
penitenziaria), onde impedire una loro utilizzazione in funzione elusiva delle
restrizioni connesse al regime speciale: in particolare, per effettuare scambi
di messaggi criptici non facilmente individuabili dal personale addetto al
visto di censura (Corte di cassazione, sezione prima penale, 7 aprile-23 luglio 2015, n. 32469; Corte di cassazione,
sezione prima penale, 16 ottobre-1° dicembre 2014, n.
50156), anche in ragione della mole del materiale da verificare e della varietà
delle tecniche utilizzabili allo scopo (non solo l’aggiunta di glosse, ma anche
la sottolineatura di parole chiave, l’inserimento di pagine modificate stampate
da tipografie compiacenti e via dicendo).
Non risulterebbe
compressa – secondo la Corte di cassazione – neppure la libertà di
corrispondenza del detenuto. Anche nei confronti dei detenuti soggetti al
regime speciale le limitazioni in materia di corrispondenza – compresa la
sottoposizione al visto di censura, prefigurata dall’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera e), ord. pen. – andrebbero disposte nelle
forme indicate dall’art. 18-ter ord. pen. e, dunque,
esclusivamente dall’autorità giudiziaria (tra le altre, Corte di cassazione,
sezione prima penale, 20 giugno-17 ottobre 2014, n.
43522). La ricezione e lo scambio della stampa non potrebbero essere, tuttavia,
ricondotti al concetto di «corrispondenza» (in senso stretto). Gli artt. 18 e 18-ter ord. pen.
distinguerebbero, infatti, chiaramente il diritto dei
detenuti ad avere corrispondenza epistolare e telegrafica da quello a ricevere
e a tenere presso di sé la stampa (Corte di cassazione, sezione prima penale, 3
marzo-8 maggio 2015, n. 19204; Corte di cassazione,
sezione prima penale, 16 ottobre 2014-17 febbraio 2015, n. 6889). La nozione
comune di «corrispondenza», recepita dal legislatore, evocherebbe, d’altra
parte, una forma di comunicazione del proprio pensiero a persone determinate
tramite scritti, sostitutiva della comunicazione verbale e strumentale al
mantenimento delle relazioni interpersonali e affettive definito «intangibile»,
in sede sovranazionale, anche di fronte alle forme di restrizione più intense
della libertà personale. Detta nozione non includerebbe, pertanto, la ricezione
dall’esterno, tramite servizio postale, di pubblicazioni – quali libri e
riviste – che riportano il pensiero di terzi, la quale esulerebbe dall’ambito
della garanzia prefigurata dall’art. 15 Cost., costituendo espressione di una diversa facoltà del
detenuto, quella di informarsi e di istruirsi (Corte di cassazione, sezione
prima penale, 29 settembre 2014-15 gennaio 2015, n. 1774).
Né varrebbe
obiettare che anche per le limitazioni nella ricezione della stampa l’art. 18-ter, comma 1,
lettera a), ord. pen. esige l’intervento
dell’autorità giudiziaria. Ciò non escluderebbe forme ulteriori di limitazione
che discendano dalla sottoposizione al regime di cui all’art. 41-bis ord. pen., il quale assumerebbe, in questo ambito, la valenza di
norma speciale derogatoria. Il più elevato livello di pericolosità del
detenuto, sancito dal provvedimento ministeriale di adozione di detto regime
(suscettibile di controllo giurisdizionale), legittima, infatti, le misure
previste dal comma 2-quater dello stesso art. 41-bis, tra cui quelle idonee a
prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza (lettera a) e quelle in tema di limitazione degli
«oggetti» che possono essere ricevuti dall’esterno (lettera c): nozione – quella di «oggetti» – che
si presterebbe senz’altro a ricomprendere anche libri, riviste e quotidiani
(Corte di cassazione, sezione prima penale, 29 settembre 2014-15 gennaio 2015,
n. 1774).
La Corte di
cassazione ha posto anche in evidenza come la mancata consegna al detenuto in
regime speciale di pacchi postali che contengano libri o riviste provenienti
dall’esterno non equivalga neppure al «trattenimento» della stampa, che l’art. 18-ter, comma 5, ord. pen.
demanda, comunque sia, all’autorità giudiziaria.
Diversamente dal trattenimento, la mancata consegna non sottrae, infatti, gli
stampati alla disponibilità tanto del mittente quanto del destinatario, ma ha
il solo effetto di non consentire l’ingresso dei libri e delle riviste
nell’istituto, ferma restando la facoltà del mittente di pretenderne in qualunque
momento la restituzione. Si tratta, dunque, di un semplice "respingimento”
(Corte di cassazione, sezione prima penale, 16 ottobre-1°
dicembre 2014, n. 50158; Corte di cassazione, sezione prima penale, 3 ottobre
2013-27 febbraio 2014, n. 9674), analogo a quello che l’amministrazione
penitenziaria può disporre nella generalità dei casi in cui un pacco postale o
gli oggetti in esso contenuti non siano conformi alla normativa di ordinamento
penitenziario o alle prescrizioni del regolamento interno di istituto.
In
conclusione, dunque, la circolare ministeriale si sarebbe mossa nell’ambito dei
poteri normativamente conferiti all’amministrazione penitenziaria,
esercitandoli secondo «una logica di sistema e di opportunità» che non potrebbe
essere sindacata dal giudice ordinario «se non invadendo – […]
inammissibilmente – la sfera di […] discrezionalità della Pubblica
Amministrazione» (Corte di cassazione, sezione prima penale, 27 settembre-18 ottobre 2013, n. 42902).
A fronte
dell’emersione dell’indirizzo giurisprudenziale ora ricordato, il Dipartimento
dell’amministrazione penitenziaria ha emanato, l’11 febbraio 2014, una nuova
circolare, con la quale ha ripristinato le disposizioni della circolare oggetto
dei provvedimenti di disapplicazione, originando con ciò il reclamo di cui il
giudice rimettente è attualmente investito.
3.– Alla luce di quanto precede, l’eccezione di inammissibilità delle
questioni – formulata dall’Avvocatura generale dello Stato sull’assunto che
esse mirerebbero ad «aggirare» l’orientamento della giurisprudenza di
legittimità contrario alla disapplicazione della circolare – si palesa non
fondata.
Il
rimettente prende atto, in realtà, del consolidamento di detto orientamento e,
proprio in ragione di ciò, solleva questioni di legittimità costituzionale
della norma in base alla quale la circolare stessa è stata adottata.
Secondo
quanto più volte affermato da questa Corte, in presenza di un orientamento
giurisprudenziale consolidato, il giudice a
quo – se pure è libero di non uniformarvisi e di proporre una diversa
esegesi del dato normativo, essendo la "vivenza” di una norma una vicenda per
definizione aperta, ancor più quando si tratti di adeguarne il significato a
precetti costituzionali – ha alternativamente la facoltà di assumere
l’interpretazione censurata in termini di "diritto vivente” e di richiederne,
su tale presupposto, il controllo di compatibilità con i parametri
costituzionali (tra le altre, sentenza n. 242 del
2014 e ordinanza
n. 191 del 2013; analogamente, sentenze n. 200 del
2016 e n.
126 del 2015).
Nel caso in
esame, tenuto conto del numero e dell’uniformità delle decisioni della Corte di
cassazione in materia, non è in effetti contestabile che – conformemente a
quanto sostenuto dal rimettente – debba registrarsi l’avvenuta formazione di un
"diritto vivente”, secondo il quale l’art. 41-bis ord.
pen.,
e in particolare il suo comma 2-quater, lettere a)
e c), legittima l’amministrazione
penitenziaria a vietare ai detenuti in regime speciale di ricevere dall’esterno
e di inviare all’esterno libri e periodici. Si deve, di conseguenza, escludere
che possa rimproverarsi al giudice a quo
di non aver optato per una diversa interpretazione, più aderente ai parametri
costituzionali evocati – interpretazione che lo stesso giudice ha, peraltro,
già sperimentato in precedenza, senza successo – sussistendo detto onere solo
in assenza di un contrario "diritto vivente” (sentenza n. 113 del
2015).
4.– Quanto al merito delle questioni, emerge in modo evidente, dal tenore
complessivo dell’ordinanza di rimessione, che il giudice a quo non dubita della possibilità di introdurre, per esigenze di
ordine e sicurezza, limitazioni in materia di acquisizione e di scambio di libri
e riviste da parte dei detenuti in regime speciale. Le sue censure investono –
in relazione a tutti i parametri evocati, e non solo all’art. 15 Cost. – il quomodo di tali restrizioni. Ad avviso del rimettente, esse
non potrebbero venir disposte dall’amministrazione penitenziaria, ma solo dal
giudice con intervento modulato sui singoli casi, secondo le cadenze delineate
dall’art. 18-ter
ord. pen.
Ciò
premesso, le questioni risultano, peraltro, non fondate.
5.– La non
fondatezza della prospettazione del giudice a
quo si apprezza con immediatezza quanto alle denunciate violazioni della
libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.),
intesa nel suo significato passivo di diritto di essere informati (ex plurimis, sentenze n. 112 del
1993, n. 826
del 1988 e n.
148 del 1981), e del diritto allo studio (artt. 33 e 34 Cost.):
questioni che, per comodità di analisi, conviene affrontare per prime.
La garanzia
costituzionale prefigurata dall’art. 21 Cost. trova specifica attuazione, nell’ambito dell’ordinamento
penitenziario – quanto alla stampa – nella previsione dell’art. 18, sesto
comma, ord. pen., che autorizza i detenuti «a tenere presso di sé i
quotidiani, i periodici e i libri in libera vendita all’esterno», e nel
correlato disposto dell’art. 18-ter, comma 1, lettera a),
ord. pen., in forza del quale limitazioni «nella ricezione della
stampa» possono essere disposte solo dall’autorità giudiziaria, per i motivi e
nelle forme ivi indicati. In questo modo, si è precluso all’autorità
amministrativa di esercitare una censura sulla stampa, impedendo ai detenuti di
accedere a determinate pubblicazioni in ragione del loro contenuto: operazione
che comprimerebbe il diritto dei ristretti – non inciso dallo stato di
detenzione – a conoscere liberamente le manifestazioni di pensiero che
circolano nella società esterna. La tutela – tanto costituzionale quanto
legislativa – è, dunque, riferita alla facoltà del detenuto di scegliere con
piena libertà i testi con i quali informarsi, mentre restano indifferenti i
mezzi mediante i quali gli viene garantito il diritto di entrare in possesso
delle pubblicazioni desiderate.
Un discorso
analogo, mutatis mutandis,
vale evidentemente per il diritto allo studio, che pure trova specifico
riconoscimento in ambito penitenziario, quale componente primaria del percorso
rieducativo (art. 19 ord. pen., artt. 41 e seguenti
del d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, intitolato
«Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure
privative e limitative della libertà», d’ora in avanti: reg. esec.).
Conformemente
a quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità, la misura che, secondo
il "diritto vivente”, può essere adottata dall’amministrazione penitenziaria in
base alla norma denunciata non limita il diritto dei detenuti in regime
speciale a ricevere e a tenere con sé le pubblicazioni di loro scelta, ma
incide solo sulle modalità attraverso le quali dette pubblicazioni possono
essere acquisite. Al detenuto non è impedito l’accesso alle letture preferite e
al loro contenuto, ma gli è imposto di servirsi, per la relativa acquisizione,
dell’istituto penitenziario, nell’ottica di evitare che – secondo quanto è
emerso dall’esperienza – il libro o la rivista si trasformi in un veicolo di
comunicazioni occulte con l’esterno, di problematica rilevazione da parte del
personale addetto al controllo.
La
configurabilità di una compromissione costituzionalmente apprezzabile dei
diritti in questione non può farsi neppure discendere – come assume il
rimettente – da effetti indiretti (e marginali) legati alla "burocratizzazione”
dei canali di rifornimento delle pubblicazioni, quali l’ostacolo alla fruizione
di libri fuori commercio o di dispense fotocopiate, ovvero da considerazioni
legate all’impossibilità di realizzare risparmi di spesa tramite l’acquisto di
libri usati (dei quali il personale delegato non potrebbe andare alla ricerca).
Inconvenienti, questi, che – ove pure sussistenti – sarebbero in ogni caso
suscettibili di trovare una ragionevole giustificazione alla luce delle
esigenze poste a base del regime speciale.
Resta
fermo, peraltro, che la misura in discussione, nella sua concreta operatività,
non deve tradursi in una negazione surrettizia del diritto. Nel momento stesso
in cui impone al detenuto di avvalersi esclusivamente dell’istituto
penitenziario per l’acquisizione della stampa, l’amministrazione si impegna a
fornire un servizio efficiente, evitando lungaggini e "barriere di fatto” che
penalizzino, nella sostanza, le legittime aspettative del detenuto. La Corte di
cassazione si è, del resto, già espressa chiaramente in tal senso: i libri e le
riviste – tutti i libri e tutte le riviste – dovranno pervenire ai detenuti
richiedenti in un tempo ragionevole; aspetto sul quale il magistrato di
sorveglianza potrà esercitare la sua funzione di controllo (Corte di
cassazione, sezione prima penale, 16 ottobre 2014-17 febbraio 2015, n. 6889).
L’eventuale vulnus dei diritti del
detenuto deriverebbe, comunque sia, non dalla norma, ma dal non corretto
comportamento dell’amministrazione penitenziaria chiamata ad applicarla,
esulando perciò dalla prospettiva del sindacato di legittimità costituzionale.
6.– Parimente non fondata è la censura di violazione della libertà di
corrispondenza (art. 15 Cost.).
La censura
fa perno sull’assunto per cui, contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte di
cassazione, la trasmissione di libri e riviste rientrerebbe nella nozione –
costituzionalmente rilevante – di «corrispondenza». Il rimettente non contesta
che i libri e le riviste, pur concretandosi nell’espressione di idee o nella
narrazione scritta di notizie, non costituiscano, in quanto tali,
«corrispondenza» o, amplius,
forme di «comunicazione» agli effetti dell’art. 15 Cost.
È, infatti, indiscusso che le comunicazioni tutelate dalla citata norma costituzionale
– di cui la «corrispondenza» rappresenta una species, come attesta l’uso
dell’aggettivo indefinito «altra» («La libertà e la segretezza della
corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili») –
consistano nella trasmissione di idee, sentimenti e notizie da una persona a
una o più altre persone determinate: se i destinatari sono indeterminati – come
nel caso dei libri e delle riviste, rivolti ad una collettività indifferenziata
di potenziali lettori – si ricade in una diversa sfera di tutela
costituzionale, quella della libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.).
Obietta,
tuttavia, il giudice a quo che la
spedizione (o la consegna brevi manu) di una pubblicazione può servire, non (soltanto)
come strumento di diffusione del pensiero del suo autore (che è un terzo
rispetto ai diretti interessati), ma (anche) quale veicolo di comunicazione di
un pensiero proprio del mittente, indirizzato in modo specifico ed esclusivo al
destinatario. Mediante l’invio di un libro o di una rivista si potrebbero,
infatti, esprimere sentimenti di vicinanza, di affetto o di sostegno nei
confronti del detenuto; nel testo a stampa potrebbero essere interpolati
messaggi, palesi od occulti, di vario genere, leciti e illeciti. Il divieto stabilito
dalla circolare ministeriale trova, del resto, la sua ragione giustificativa
proprio nella possibilità che libri e riviste fungano da strumenti di
comunicazione del detenuto con l’esterno. Di qui l’asserita esigenza che, in
ossequio alla riserva, non solo di legge, ma anche di giurisdizione stabilita
dall’art. 15 Cost. in
rapporto alle limitazioni della libertà di corrispondenza, l’esclusione di tale
«flusso comunicativo» venga disposta dall’autorità giudiziaria nelle forme e
sui presupposti previsti dall’art. 18-ter ord. pen.
Per
avvedersi dell’impossibilità di aderire ad una simile tesi è peraltro
sufficiente osservare che, se essa fosse fondata, si dovrebbe riconoscere alla
persona detenuta, in nome della libertà di corrispondenza, il diritto di scambiare
con l’esterno, senza alcuna restrizione quali-quantitativa – fin tanto che non
intervenga uno specifico provvedimento limitativo dell’autorità giudiziaria –
non soltanto libri e riviste, ma qualsiasi tipo di oggetto. La postulata
idoneità a fungere da veicolo di comunicazione di idee, sentimenti e notizie
tra mittente e destinatario non è affatto una caratteristica propria ed
esclusiva delle pubblicazioni a stampa: qualsiasi oggetto si presta
astrattamente ad assumere – per effetto di una precedente convenzione, per la
sua valenza simbolica intrinseca o semplicemente per i rapporti interpersonali
tra le parti – un determinato significato comunicativo, quando non pure a
fungere da sostituto "anomalo” dell’ordinario supporto cartaceo per la redazione
di messaggi, o da contenitore per celarli al suo interno. E poiché
l’eventualità di un simile impiego della res
non potrebbe essere – così come per la stampa – esclusa a priori, ne dovrebbe derivare una
indiscriminata libertà di circolazione dei beni tra il carcere e l’esterno.
Anche
riconoscendo, peraltro, che, a fronte dell’ampia formula dell’art. 15 Cost., le
comunicazioni si collochino sotto il cono di protezione della norma
costituzionale a prescindere dal mezzo materiale impiegato per la trasmissione del
pensiero – e, dunque, anche se effettuate "in forma reale”, ossia tramite
scambio di oggetti "significanti” – non si può fare a meno di considerare la
particolare condizione in cui versa qualsiasi persona detenuta.
Al
riguardo, non può che essere ribadito il costante orientamento della
giurisprudenza di questa Corte, secondo il quale la legittima restrizione della
libertà personale, cui è sottoposta la persona detenuta, non annulla affatto la
tutela costituzionale dei diritti fondamentali. Chi si trova in stato di
detenzione, pur privato della maggior parte della sua libertà, ne conserva
sempre un residuo, che è tanto più prezioso in quanto costituisce l’ultimo
ambito nel quale può espandersi la sua libertà individuale (sentenze n. 20 del
2017 e n.
349 del 1993), e il cui esercizio, proprio per questo, non può essere
rimesso alla discrezionalità dell’autorità amministrativa preposta
all’esecuzione della pena detentiva (sentenze n. 26 del
1999 e n.
212 del 1997).
La tutela
dei diritti costituzionali del detenuto opera, pur tuttavia, «con le
limitazioni che, come è ovvio, lo stato di detenzione necessariamente comporta»
(sentenza n. 349
del 1993). La legittima restrizione della libertà personale cui il detenuto
è soggetto, e che trova alla sua base un provvedimento giurisdizionale, si
riverbera inevitabilmente, in modo più o meno significativo, sulle modalità di
esercizio delle altre libertà costituzionalmente alla prima collegate. Ciò
avviene anche per la libertà di comunicazione, la quale, nel corrente
apprezzamento, rappresenta – al pari della libertà di domicilio (art. 14 Cost.) – una integrazione e una precisazione del
fondamentale principio di inviolabilità della persona, sancito dall’art. 13 Cost., in
quanto espressione della "socialità” dell’essere umano, ossia della sua
naturale aspirazione a collegarsi spiritualmente con i propri simili.
È evidente,
così, che lo stato di detenzione incide in senso limitativo sulla facoltà del
detenuto di intrattenere colloqui diretti con persone esterne all’ambiente
carcerario: colloqui che, quali comunicazioni tra presenti, ricadono certamente
nella sfera di protezione dell’art. 15 Cost. Di
necessità, i colloqui personali dei detenuti «sono soggetti a contingentamenti
e regolazioni da parte dell’ordinamento penitenziario» (artt. 18 ord. pen.
e 37 reg. esec.) (sentenza
n. 20 del 2017) ed è l’autorità penitenziaria che, in concreto, stabilisce
(in particolare, tramite il regolamento interno dell’istituto: art. 36, comma
2, lettera f, reg. esec.) i luoghi,
i giorni e gli orari del loro svolgimento, senza che in ciò possa scorgersi
alcuna violazione della norma costituzionale evocata.
È indubbio
che proprio le evidenziate restrizioni ai colloqui diretti – che per i detenuti
sottoposti al regime speciale divengono estremamente marcate – esaltino la
rilevanza delle forme di comunicazione a distanza, o "tra assenti”, quale
strumento di mantenimento delle relazioni interpersonali ed affettive del
detenuto, così da evitare che la restrizione carceraria si traduca in un
isolamento assoluto rispetto al mondo esterno e, con ciò stesso, in un
trattamento contrario al senso di umanità (art. 27, terzo comma, Cost.). Nondimeno, anche le modalità di esercizio della
libertà di comunicare con l’esterno – libertà non annullata dalla condizione
carceraria, e che deve essere, anzi, necessariamente e adeguatamente garantita
– risentono di quella condizione.
Per quanto
qui più direttamente interessa, esigenze organizzative e logistiche, prima
ancora che di ordine e sicurezza, fanno sì che all’inserimento in una struttura
carceraria consegua necessariamente l’esclusione di una illimitata libertà del
detenuto di ricevere e scambiare oggetti. La legge di ordinamento penitenziario
e il regolamento di esecuzione dettano, in effetti – in nome delle predette
esigenze, oltre che di quella di assicurare la parità delle condizioni di vita
dei detenuti (art. 3 ord. pen.) – rigorosi limiti quantitativi e qualitativi in
ordine agli oggetti che possono essere ricevuti dall’esterno, acquistati e
tenuti con sé dalle persone ristrette (oggetti la cui dettagliata
individuazione è poi affidata al regolamento interno dei singoli istituti),
nonché al numero, alla periodicità e al contenuto dei pacchi trasmessi per
posta o consegnati a dette persone in occasione dei colloqui (artt. 7 e 8 ord. pen., artt. 8, 9, 10, 14 e 40 reg. esec.).
Correlativamente,
è naturale che la libertà di corrispondenza sia riconosciuta ai detenuti in
quanto esplicata attraverso gli ordinari strumenti di comunicazione, e non
anche nella forma anomala dello scambio diretto o per posta di oggetti aventi
un significato convenzionale, o estemporaneamente vicari dell’usuale supporto
cartaceo.
L’ordinamento
penitenziario ammette, in particolare e tra l’altro, i detenuti alla
corrispondenza epistolare, salvi i limiti connessi alla necessità di affidarsi all’amministrazione
penitenziaria per lo smistamento della posta (sentenza n. 20 del
2017): e ciò anche quando si tratti di detenuti in regime speciale, salvo
quanto stabilito in ordine al visto di controllo. In accordo con l’obbligo
positivo che, secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo, scaturisce
dall’art. 8 della CEDU (Corte europea dei diritti
dell’uomo, 24 febbraio
2009, Gagiu contro Romania; Corte europea dei
diritti dell’uomo, 3 giugno
2003, Cotlet contro Romania), viene altresì
imposto all’amministrazione penitenziaria di fornire gli strumenti necessari –
in particolare, il materiale di cancelleria e l’affrancatura – a coloro che ne
sono sprovvisti (art. 18, primo e quarto comma, ord. pen.,
art. 38 reg. esec.).
A tale
prospettiva resta palesemente estraneo il concorrente riconoscimento, ad opera
degli artt. 18 e 18-ter
ord. pen., del diritto dei detenuti di ricevere (anche a mezzo
posta) e di tenere con sé la stampa in libera vendita all’esterno. Come già
rilevato in precedenza, tale riconoscimento non è dovuto al fatto che la stampa
costituisca (rectius,
possa costituire) una forma di corrispondenza nei sensi ipotizzati dal
rimettente, ma alla considerazione che libri, riviste e quotidiani
rappresentano lo strumento per l’esercizio di distinti diritti dei detenuti,
quelli di informazione e di studio: diritti che, per quanto si è visto, non
possono ritenersi compromessi in modo costituzionalmente significativo – quanto
ai detenuti in regime speciale – dalla introduzione di regole limitative in
ordine ai canali di acquisizione del materiale.
Deve quindi
concludersi, in assonanza con la giurisprudenza di legittimità, che le regole
di cui si discute non incidono sul diritto alla corrispondenza del detenuto,
quale riconosciuto – in termini coerenti, sotto il profilo considerato, con la
condizione di restrizione della libertà personale in cui egli versa e perciò
non collidenti con la previsione dell’art. 15 Cost. –
dalla legge di ordinamento penitenziario.
7.– È già insita in quanto precede la non fondatezza dell’ultima censura di
violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in
relazione agli artt. 3 e 8 della CEDU.
Il richiamo
all’art. 3 della CEDU risulta chiaramente incongruo
rispetto alla prospettiva del rimettente (il quale, come si è visto, non
contesta l’ammissibilità delle limitazioni in questione, ma si duole solo del quomodo). Il
divieto dei trattamenti inumani o degradanti, sancito dalla citata norma
convenzionale, ha infatti carattere assoluto, sicché – se si versasse in tale
ipotesi – neppure l’auspicato intervento del giudice varrebbe a rendere
convenzionalmente legittime le misure. È, peraltro, palese che – in presenza di
una immutata libertà di corrispondenza epistolare e di scelta dei testi con cui
informarsi ed istruirsi – il mero fatto che il detenuto debba servirsi
dell’istituto penitenziario per l’acquisizione della stampa, e non possa
trasmetterla all’esterno, non determina livelli di sofferenza e di svilimento
della sua persona tali da attingere al paradigma avuto di mira dalla citata
norma convenzionale.
Quanto,
poi, alla seconda delle norme interposte evocate, l’art. 8 della CEDU, al paragrafo 1, riconosce ad ogni persona il «diritto
al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua
corrispondenza». Il diritto non è, in questo caso, assoluto: il paragrafo 2
dello stesso art. 8 consente, infatti, ingerenze della «pubblica autorità» (non
necessariamente quella giudiziaria) nel suo esercizio, in presenza di tre
condizioni. In primo luogo, l’ingerenza deve essere «prevista dalla legge»:
formula che – secondo la costante giurisprudenza della Corte europea dei
diritti dell’uomo – deve essere intesa, sul piano delle fonti, come comprensiva
non del solo diritto scritto, ma anche dell’applicazione e dell’interpretazione
delle disposizioni normative da parte della giurisprudenza, e, sul piano della
"qualità” della legge, come espressiva dell’esigenza dell’adeguata
accessibilità e della sufficiente precisione della norma che prevede
l’interferenza, così da fornire un’adeguata protezione contro l’arbitrio. In
secondo luogo, poi, l’ingerenza deve perseguire uno degli scopi legittimi
indicati dallo stesso paragrafo 2 («la sicurezza nazionale, l’ordine pubblico,
il benessere economico del paese, la prevenzione dei reati, la protezione della
salute o della morale, o la protezione dei diritti e delle libertà altrui»). Da
ultimo, l’ingerenza deve essere «necessaria», «in una società democratica», per
il raggiungimento dei predetti scopi: requisito che – sempre secondo le
indicazioni della Corte di Strasburgo – postula la proporzionalità del sacrificio
del diritto rispetto alla finalità legittima perseguita (per tutte, Corte
europea dei diritti dell’uomo, 24 marzo 1988, Olsson contro Svezia).
Ciò
ricordato, deve escludersi che il divieto di scambiare libri e riviste con
l’esterno, e con i familiari in specie, tramite il servizio postale possa
essere assimilato – come ipotizza il rimettente – alla sottoposizione della
corrispondenza del detenuto a visto di controllo, la cui disciplina nazionale –
nell’assetto anteriore alla legge n. 95 del 2004 – è stata ripetutamente
censurata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (ex plurimis, Corte europea dei diritti
dell’uomo, 9 gennaio 2001,
Natoli contro Italia; Corte europea dei diritti dell’uomo, 15 novembre 1996, Domenichini
contro Italia; nonché, più di recente, Corte europea dei diritti dell’uomo,
1° settembre 2015, Paolello contro Italia; Corte europea dei diritti
dell’uomo, Grande Camera, 17
settembre 2009, Enea contro Italia; Corte europea dei diritti dell’uomo, 7 luglio 2009, Annunziata
contro Italia).
La
limitazione dei canali di ricezione della stampa e il divieto di trasmetterla
all’esterno non solo non incidono affatto – come è ovvio – sulla segretezza
della corrispondenza del detenuto (diversamente dal visto di controllo), ma
neppure comprimono, alla luce delle considerazioni in precedenza svolte, la
libertà di corrispondere a mezzo posta già riconosciutagli dalla legge
nazionale in coerenza con la condizione di legittima restrizione della libertà
personale in cui il soggetto versa: libertà – quella di corrispondere a mezzo
posta – che continua a potersi esplicare, in tutta la sua ampiezza, tramite
l’ordinaria corrispondenza epistolare. È a mezzo di questa che il detenuto può
continuare ad intrattenere le sue relazioni affettive con i familiari.
Peraltro,
ove pure si volesse ritenere che, nella prospettiva della Convenzione, le
limitazioni in discorso si traducano, comunque sia, in ingerenze, se non sul diritto
alla corrispondenza, quantomeno sul diritto al rispetto della vita familiare
del detenuto – così come sostiene il rimettente – la conclusione non muterebbe.
Al
riguardo, vale ricordare che le richiamate decisioni della Corte di Strasburgo
si fondavano sul rilievo che, sino all’entrata in vigore della legge n. 95 del
2004, l’unica base legale della sottoposizione a
visto di controllo della corrispondenza del detenuto, anche in regime speciale,
doveva essere identificata – alla luce dell’interpretazione offerta da questa
Corte con la sentenza
n. 349 del 1993 – nella previsione dell’allora vigente art. 18 ord. pen.: norma che, pur demandando all’autorità giudiziaria
l’adozione della misura, non
disciplinava né la sua durata, né i motivi che potevano giustificarla e non
indicava con sufficiente chiarezza l’ampiezza e le modalità di esercizio del
potere discrezionale delle autorità competenti nel campo considerato. Di qui la
conclusione della Corte europea che la misura non potesse ritenersi «prevista
dalla legge», nei sensi richiesti dall’art. 8, paragrafo 2, della CEDU ai fini della possibile interferenza di una autorità
pubblica nell’esercizio del diritto alla corrispondenza, e il conseguente
intervento del legislatore nazionale, che ha regolato ex novo la materia con l’introduzione dell’art. 18-ter ord.
pen.
Nel caso
oggi in esame, per converso, alla luce di un consolidato indirizzo della
giurisprudenza di legittimità, il potere dell’amministrazione penitenziaria di
disporre le misure in questione trova la sua base legale nel combinato disposto
delle lettere a) e c) dell’art. 41-bis, comma 2-quater, ord.
pen. Le ragioni per le quali
detto potere può essere esercitato sono indicate dalla citata lettera a) in termini maggiormente specifici di
quanto non faccia lo stesso art. 18-ter ord. pen. (introdotto al fine di
adeguare l’ordinamento nazionale alla giurisprudenza europea sul visto di
controllo). Come già si è avuto modo di ricordare, infatti, tale ultima
disposizione richiama le «esigenze attinenti le indagini o investigative o di
prevenzione dei reati» e le «ragioni di sicurezza o di ordine dell’istituto»:
formule di certo più ampie rispetto al puntuale riferimento, operato dalla
prima disposizione, alla necessità di prevenire contatti di detenuti di
particolare pericolosità con le organizzazioni criminali di appartenenza o di
attuale riferimento, contrasti con elementi di organizzazioni contrapposte,
interazioni con altri detenuti appartenenti alla stessa organizzazione o ad
organizzazioni a questa alleate.
Né, d’altra
parte, con riguardo alla previsione della lettera c) dell’art. 41-bis, comma 2-quater, ord. pen., potrebbe rimproverarsi
al legislatore nazionale di non aver adottato una norma più dettagliata in
ordine ai «beni» e agli «oggetti» di cui, nella predetta ottica, può essere
vietata la ricezione dall’esterno ai detenuti in regime speciale, apparendo
tutt’altro che irragionevole la rinuncia del legislatore a procedere ad una elencazione
minuta e casistica, che sconterebbe, comunque sia, il rischio della lacuna. La
stessa Corte europea dei diritti dell’uomo non ha mancato, del resto, di porre
in evidenza – proprio in relazione alla materia in esame – che «se una legge
attributiva di potere discrezionale deve, in linea di principio, delimitarne la
portata, è impossibile giungere ad una certezza assoluta nella sua
formulazione, poiché il probabile risultato di un tale desiderio di certezza
sarebbe un’eccessiva rigidità» (Corte europea dei diritti dell’uomo, 15 novembre 1996, Domenichini
contro Italia).
La durata
della misura limitativa si modella, poi – come per le altre – su quella propria
del regime speciale cui accede (stabilita dall’art. 41-bis, comma 2-bis, ord.
pen.).
Per il
resto, non è dubbio che le finalità della misura rientrino nel novero degli
scopi legittimi previsti dall’art. 8, paragrafo 2, della CEDU,
né che sussista – contrariamente a quanto assume il rimettente – il requisito
della proporzionalità rispetto allo scopo. Al riguardo, basta osservare come la
Corte europea dei diritti dell’uomo abbia ritenuto opportune e proporzionate
rispetto allo scopo legittimo di mantenere l’ordine pubblico e la sicurezza,
recidendo i legami tra la persona interessata e il suo ambiente criminale di
origine – e, perciò, conformi alla previsione del citato art. 8, paragrafo 2,
della CEDU – restrizioni legate al regime detentivo
speciale assai più incisive di quella di cui oggi si discute, a cominciare
dalle severe limitazioni quantitative e modali inerenti ai colloqui personali
con i familiari (per tutte, Corte europea dei diritti dell’uomo, 19 gennaio 2010, Montani
contro Italia; Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande camera, 17 settembre 2009, Enea contro
Italia).
8.– Alla luce delle considerazioni che precedono, le questioni vanno
dichiarate quindi non fondate.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettere a)
e c), della legge 26 luglio 1975, n.
354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure
privative e limitative della libertà), sollevate, in riferimento agli artt. 15,
21, 33, 34 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione
agli artt. 3 e 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto
1955, n. 848, dal Magistrato di sorveglianza di Spoleto con l’ordinanza
indicata in epigrafe.
Così deciso
in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’8
febbraio 2017.
F.to:
Paolo GROSSI,
Presidente
Franco MODUGNO,
Redattore
Roberto MILANA,
Cancelliere
Depositata in
Cancelleria il 26 maggio 2017.