SENTENZA N. 200
ANNO 2016
Commento alla decisione di
Stefano Zirulia
per g.c. di Diritto Penale Contemporaneo
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Alessandro CRISCUOLO Giudice
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON
”
- Franco MODUGNO ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la
seguente
SENTENZA
nel
giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 649 del codice
di procedura penale, promosso dal Giudice dell’udienza preliminare del
Tribunale ordinario di Torino, nel procedimento penale a carico di S.S.E., con ordinanza
del 24 luglio 2015, iscritta al n. 262 del registro ordinanze 2015 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale,
dell’anno 2015.
Visti gli atti di costituzione di S.S.E., dei Comuni di
Casale Monferrato, Ponzano Monferrato, Rosignano Monferrato, Cella Monte e di
Ozzano Monferrato, di M.G. ed altri, nella qualità di eredi, dell’AIEA –
Associazione italiana esposti amianto, dell’AFeVA –
Associazione Familiari Vittime Amianto, di G.M.G. ed altri, nella qualità di
eredi, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica
del 31 maggio 2016 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi;
uditi gli avvocati Astolfo Di Amato per S.S.E., Marco
Gatti per i Comuni di Casale Monferrato, Ponzano Monferrato, Rosignano
Monferrato, Cella Monte e di Ozzano Monferrato, Maurizio Riverditi
per M.G. ed altri, nella qualità di eredi, Sergio Bonetto
per l’AIEA – Associazione italiana esposti amianto e per G.M.G. ed altri, nella
qualità di eredi, Laura D’Amico per l’AFeVA –
Associazione Familiari Vittime Amianto e l’avvocato dello Stato Massimo Giannuzzi per il Presidente del Consiglio dei ministri.
1.– Il
Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Torino, con
ordinanza del 24 luglio 2015 (r.o. n. 262 del 2015),
ha sollevato una questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 del
codice di procedura penale, nella parte in cui tale disposizione «limita
l’applicazione del principio del ne bis in idem all’esistenza del medesimo
"fatto giuridico”, nei suoi elementi costitutivi, sebbene diversamente
qualificato, invece che all’esistenza del medesimo "fatto storico”», con
riferimento all’art.
117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 4 del Protocollo
n. 7 alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali (d’ora in avanti «Protocollo n. 7 alla CEDU»), adottato a
Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con la legge 9 aprile
1990, n. 98.
Il
rimettente premette di dover decidere sulla richiesta di rinvio a giudizio per
omicidio doloso di un imputato, che è già stato giudicato in via definitiva per
il medesimo fatto storico ed è già stato prosciolto per prescrizione dai reati
di disastro doloso (art. 434 del codice penale) e di omissione dolosa di
cautele contro gli infortuni sul lavoro (art. 437 cod. pen.),
in danno di numerose persone. Ben 186 di queste figurano tra le 258 vittime dei
delitti di omicidio, per i quali è stata nuovamente esercitata l’azione penale.
Il giudice
a quo osserva che, sotto il profilo storico-naturalistico, i fatti devono
ritenersi identici. Le imputazioni si incentrano sulle attività svolte
dall’imputato, nella qualità di responsabile di alcuni stabilimenti ove veniva
impiegato l’amianto, e riguardano l’omissione di misure idonee a prevenire la
lesione dell’integrità fisica dei lavoratori e la diffusione di materiali
contaminati dalla sostanza cancerogena, con conseguente morte di 258 persone.
Le sentenze
dichiarative dell’estinzione dei reati previsti dagli artt. 434 e 437 cod. pen. per prescrizione confermano,
a parere del rimettente, che identico deve ritenersi il nesso causale, già
verificato positivamente, e le ulteriori condotte descritte nel nuovo capo di
imputazione per rafforzare l’ipotesi accusatoria, ma già oggetto di valutazione
da parte dei primi giudici.
Nonostante
tale acclarata identità dei fatti storici il giudice a quo esclude di poter
dichiarare non doversi procedere ai sensi dell’art. 649 cod. proc. pen.,
come è stato richiesto dalla difesa, perché, sulla base del diritto vivente,
questa disposizione vieta di procedere nuovamente per uno stesso fatto, solo in
presenza di condizioni che non ricorrono nel caso di specie.
Con ampia
disamina della giurisprudenza di legittimità il rimettente ritiene che il
divieto di bis in idem esiga, ai sensi dell’art. 649 cod. proc. pen.,
l’identità, secondo criteri giuridici, della triade "condotta-evento-nesso di
causa”. È possibile che ad una medesima azione od omissione storica corrisponda
una pluralità di "eventi giuridici”, per la diversità della natura dei reati e
degli interessi che essi tutelano, con la conseguenza che, in tal caso, il
fatto, pur identico nella sua dimensione naturalistica, non può considerarsi
tale ai fini della preclusione del bis in idem.
In
particolare quest’ultima non potrebbe operare in caso di concorso formale di
reati, ovvero quando con un’unica azione od omissione si commettono più
illeciti penali.
Il giudice
a quo osserva che nel caso sottoposto al suo scrutinio il delitto di omicidio
doloso appartiene a un "tipo legale” diverso dai reati di disastro doloso e di
omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, per i quali è già
stata dichiarata la prescrizione. Questi ultimi sono reati di pericolo, e non
di danno; la morte non è elemento costitutivo della fattispecie, come
nell’omicidio; è tutelato il bene giuridico dell’incolumità pubblica anziché
quello della vita.
Gli eventi
giuridici cagionati dalla condotta omissiva dell’imputato sarebbero perciò
plurimi e tale circostanza non permetterebbe di applicare l’art. 649 cod. proc.
pen.
A questo
punto sorge il dubbio di legittimità costituzionale del rimettente, il quale,
anche qui con ampie citazioni della giurisprudenza della Corte europea dei
diritti dell’uomo (d’ora in avanti «Corte EDU»), reputa che il divieto di bis
in idem in materia penale enunciato dall’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU
abbia carattere più ampio della corrispondente regola prevista dall’art. 649
cod. proc. pen.
Dalla sentenza della Grande Camera,
10 febbraio 2009, Zolotoukhine contro Russia,
osserva il giudice a quo, si è consolidato il principio secondo cui ha rilievo
solo l’identità del fatto storico, valutato con esclusivo riguardo alla
condotta dell’agente, senza che in senso contrario si possa opporre il difetto
di coincidenza tra «gli elementi costitutivi degli illeciti», con particolare
riguardo alla pluralità degli eventi giuridici.
In
applicazione di tale criterio, si dovrebbe adottare nel processo principale una
sentenza di non luogo a procedere; a ciò tuttavia sarebbe di ostacolo il
diritto vivente formatosi sull’art. 649 cod. proc. pen, che andrebbe perciò dichiarato illegittimo allo
scopo di recepire la più favorevole nozione di bis in idem accolta dalla Corte
EDU.
Tale
nozione non solo non contrasterebbe con alcun parametro costituzionale, ma
sarebbe altresì in armonia con l’art. 111, secondo comma, Cost.,
che enuncia il principio di ragionevole durata del processo. Si eviterebbe,
infatti, che una persona possa conservare la posizione di imputato per lo
stesso fatto, «oltre il tempo "ragionevolmente” necessario a definire il
processo».
2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la
questione sia dichiarata inammissibile.
La
questione sarebbe irrilevante, perché il rimettente non ha indicato la data di
morte delle persone offese, e perché, in ogni caso, sarebbe stato omesso un
tentativo di interpretazione adeguatrice della disposizione impugnata.
Inoltre, il
giudice a quo sarebbe carente di "legittimazione” attiva, perché la decisione
che deve adottare non avrebbe i caratteri della definitività.
3.– Si è costituito in giudizio l’imputato del processo principale, chiedendo
che la questione sia dichiarata fondata.
La parte
privata sostiene che vi è una «sovrapposizione pressoché totale» tra i fatti
addebitati e quelli per i quali è già stata dichiarata l’estinzione dei reati
per prescrizione, e che ciò dovrebbe comportare, ai sensi dell’art. 4 del
Protocollo n. 7 alla CEDU, l’applicazione del divieto di bis in idem, che ha
vigore anche rispetto alle sentenze di non doversi procedere conseguenti alla
prescrizione.
Si aggiunge
che la giurisprudenza europea è senza dubbio consolidata nel senso che il fatto
deve essere «ricostruito avendo riferimento alla condotta e non già anche
all’evento».
La parte
privata si sofferma, poi, sulla compatibilità con la Costituzione del divieto
di bis in idem, nella versione recepita dalla Corte EDU, e osserva che nella
tradizione giuridica italiana questo divieto, che non trova un esplicito
riconoscimento nella Carta, ha vissuto in «una prospettiva processualistica»,
quale «presidio apprestato dall’ordinamento per assicurare la funzionalità del
processo». Per questa ragione «l’ampiezza dell’operatività del concetto di
"fatto”, rispetto al quale va verificata la identità o no del procedimento, è
frutto di una decisione del legislatore di carattere del tutto convenzionale
non esistendo, sul piano logico-giuridico, la possibilità di giungere ad una
sola conclusione ammissibile».
La Corte
EDU avrebbe però «rovesciato completamente la prospettiva», valorizzando il
divieto di bis in idem come «diritto (fondamentale) dell’individuo a non essere
giudicato due volte». In questa ottica, «il criterio di determinazione
dell’identità del fatto non può che spostarsi su una valutazione non formalistica,
ma sostanzialistica, centrata essenzialmente sulla condotta meritevole di
censura». Sarebbe perciò necessario avere riguardo alla sola identità della
condotta, anziché a «dati di carattere giuridico-formale».
Questo
assetto si collegherebbe anzitutto agli artt. 25, secondo comma, e 27, secondo
comma, Cost., dai quali dovrebbe ricavarsi un
interesse dell’imputato ad essere sottratto indefinitamente all’azione penale
per il medesimo fatto, ovvero alla «quiete penalistica», posto che, in caso contrario,
vi sarebbe «una ingiustificata persecuzione».
In secondo
luogo, il principio del ne bis in idem si armonizzerebbe con gli artt. 2 e 3 Cost., collocandosi nel catalogo aperto dei diritti
fondamentali, che debbono avere prevalenza su ogni altro principio
costituzionale, e quindi anche sul principio di obbligatorietà dell’azione
penale.
Il divieto
di bis in idem infine apparterrebbe ai tratti costitutivi del giusto processo,
assicurato dall’art. 111 Cost., e, nella versione
recepita dalla Corte EDU, si accorderebbe con la natura accusatoria del
procedimento penale, la quale, «proprio perché muove da una piena
consapevolezza dei limiti della verità processuale», implica che «il processo
deve svolgersi nel rispetto dei diritti e delle posizioni individuali».
4.– Si è costituita in giudizio l’Associazione Familiari Vittime Amianto,
parte civile nel processo principale, chiedendo che la questione sia dichiarata
inammissibile o comunque non fondata.
La parte
privata contesta anzitutto che l’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, posto a
confronto con l’art. 649 cod. proc. pen., abbia una portata di maggior favore per l’imputato.
Mentre la
norma nazionale si applica anche se l’imputato è stato prosciolto per
prescrizione nel primo giudizio, quella convenzionale esige che egli sia stato
«acquitté ou condamné», impiegando un’espressione che «viene ricondotta
dalla tradizione giuridica francese esclusivamente a quei casi in cui
l’imputato viene assolto a seguito di un riconoscimento della sua totale
estraneità ai fatti». La disposizione convenzionale non troverebbe quindi
spazio ove il primo procedimento si fosse arrestato per la sopraggiunta
prescrizione, e di conseguenza la questione di legittimità costituzionale
sarebbe priva di rilevanza.
Inoltre,
mentre per l’art. 649 cod. proc. pen.
il divieto di bis in idem presuppone un medesimo
fatto, per l’art. 4 del Protocollo n. 7 presuppone l’identità di «une infraction», ovvero, a parere della parte privata, del
reato nella sua qualificazione giuridica. Anche sotto questo aspetto la tutela
convenzionale sarebbe meno ampia di quella offerta dall’ordinamento nazionale.
Infine la
giurisprudenza della Corte EDU non potrebbe mai avere carattere vincolante per
l’interprete nazionale, il che implicherebbe un ulteriore profilo di
inammissibilità della questione.
La parte
privata conclusivamente osserva che la nozione del divieto di bis in idem che
il rimettente chiede di introdurre sarebbe in contrasto con l’art. 112 Cost., perché determinerebbe un «ridimensionamento» del
principio di obbligatorietà dell’azione penale.
5.– Si sono costituiti M.G., M.M., L.L. e C.M.V., già costituiti parti civili
nel processo principale, chiedendo che la questione sia dichiarata
inammissibile o comunque manifestamente non fondata.
L’eccezione
di inammissibilità per difetto di rilevanza si basa sul rilievo che i fatti per
i quali è intervenuta la prescrizione e quelli per cui pende il giudizio a quo
non sarebbero i medesimi. L’evento morte sarebbe estraneo alla fattispecie dei
reati previsti dagli artt. 434 e 437 cod. pen., e determinerebbe un fatto diverso sotto il profilo, sia
dell’evento, sia del nesso causale.
Nel merito,
la giurisprudenza europea formatasi sul divieto di bis in idem, pur agganciata
alla dimensione storico-naturalistica del fatto, imporrebbe di prendere in
considerazione non soltanto la condotta dell’imputato ma anche ogni effetto che
da questa sia derivato. La questione sarebbe perciò non fondata, posto che la
diversità degli eventi nel caso di specie renderebbe inapplicabile l’art. 4 del
Protocollo n. 7 alla CEDU.
Le parti
private aggiungono che, se si dovesse invece limitare l’accertamento alla
identità della sola condotta, si produrrebbero effetti manifestamente
irragionevoli, in contrasto con l’art. 3 Cost. e con
il principio di obbligatorietà dell’azione penale.
Il pubblico
ministero sarebbe infatti costretto a «”concentrare”
[…] in un unico contesto processuale l’iniziativa punitiva», anche quando
l’evento si può verificare a distanza di anni dalla condotta comunque punibile,
«con buona pace per la maggior parte dei procedimenti per omicidio o lesioni
conseguenti a reati ambientali».
Si
introdurrebbe in tal modo un «vuoto di tutela» di beni giuridici primari, che
sarebbe in contrasto anche con l’«obbligo di criminalizzazione»
che la CEDU imporrebbe a tutela del diritto alla salute e di quello alla vita,
diritti che, richiedendo un più elevato livello di tutela, dovrebbero prevalere
ai sensi dell’art. 53 della CEDU.
6.– Si è costituita in giudizio l’Associazione italiana esposti amianto, già
parte civile nel processo principale, chiedendo che la questione sia dichiarata
inammissibile o comunque manifestamente non fondata.
La parte
privata ritiene che il primo processo nei confronti dell’imputato, conclusosi
con la dichiarazione di estinzione dei reati per prescrizione, non abbia avuto
per oggetto l’accertamento relativo alla morte delle vittime e al nesso di
causalità.
La
questione sarebbe perciò priva di rilevanza, perché questa Corte dovrebbe
esprimere «un parere astratto» circa la compatibilità dell’art. 649 cod. proc. pen. con
la tutela convenzionale.
Nel merito,
la parte privata rileva che «immaginare un sistema in cui un comportamento
criminale possa essere oggetto di valutazione una sola volta […] porterebbe a
risultati totalmente illogici», perché sarebbe preclusa «la persecuzione di
ulteriori e diversi reati che si integrassero successivamente», come nel caso
della morte di altre vittime, sopraggiunta alla conclusione del primo giudizio
penale.
Ciò determinerebbe
una «lacuna normativa assolutamente inaccettabile per le singole vittime», che
potrebbe determinare anche una violazione della CEDU «per il vuoto
sanzionatorio che si verrebbe a creare».
7.– Si sono costituiti in giudizio G.M.G., C.M., C.Mi. e R.F., già parti civili nel
processo principale, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o
comunque manifestamente non fondata, con argomenti analoghi a quelli sviluppati
dall’Associazione italiana esposti amianto.
8.– Si sono costituiti i Comuni di Casale Monferrato, Ozzano Monferrato, Cella
Monte, Rosignano Monferrato e Ponzano Monferrato, già parti civili nel processo
principale, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o comunque
manifestamente non fondata.
Le parti
private contestano in primo luogo che i fatti già giudicati e quelli per cui
pende il processo principale siano i medesimi dal punto di vista
storico-naturalistico. Nel giudizio a quo sarebbero addebitate all’imputato
condotte positive che non furono oggetto della prima imputazione, relativa a
mere omissioni, e in ogni caso vengono in rilievo le morti di 258 persone,
alcune delle quali sopravvenute rispetto al primo processo. Tali morti sono
elementi costitutivi del reato di omicidio, mentre il giudizio conclusosi con
la prescrizione non verteva, né su di esse, né sul nesso causale tra gli eventi
letali e la condotta dell’imputato.
Ciò
determinerebbe l’inammissibilità della questione per difetto di rilevanza.
Inoltre, a
parere delle parti private, il rimettente non ha adeguatamente apprezzato la
giurisprudenza della Corte EDU, che, pur nel riferimento alla dimensione
storica del fatto, non impedirebbe di assumere in considerazione tutti gli
elementi che realizzano il reato, e, tra questi, l’evento. A conferma di ciò
pongono in evidenza che l’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU si riferisce
all’identità del reato, nozione entro cui andrebbero inclusi gli «”eventi”, intesi come "effetti concreti” o "conseguenze”»
che connotano la figura criminosa.
Questo
rilievo, desunto anche da una pronuncia della Corte di cassazione,
comproverebbe ulteriormente l’inammissibilità della questione.
9.– In prossimità dell’udienza pubblica, il Presidente del Consiglio dei
ministri ha depositato una memoria, chiedendo, sulla base di argomentazioni
analoghe a quelle svolte nell’atto di costituzione, che la questione sia
dichiarata inammissibile o comunque non fondata.
10.– Anche la difesa dell’imputato ha depositato una memoria, con cui ha
chiesto che siano dichiarate non fondate «le eccezioni di inammissibilità e di
irrilevanza proposte», che sia dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art.
649 cod. proc. pen., e, «in via subordinata», che sia «sollevata questione
pregiudiziale dinanzi alla Corte di Giustizia EU».
In replica
alle deduzioni della difesa dello Stato e delle altre parti private, la difesa
dell’imputato osserva, in particolare, che l’ordinanza di rimessione contiene
un’articolata e completa ricostruzione della fattispecie concreta oggetto del
giudizio, consentendo una compiuta valutazione della rilevanza da parte di
questa Corte. Pacifica sarebbe poi la legittimazione del giudice dell’udienza
preliminare a sollevare questioni di legittimità costituzionale. Il rimettente,
inoltre, si sarebbe conformato all’orientamento «assolutamente consolidato»
della Corte di cassazione nell’interpretare la norma impugnata, il che lo
esonererebbe dal tentativo di darvi un «significato conforme ai parametri
costituzionali che si assumono violati». La ricostruzione delle fattispecie
contestate nel primo e nel secondo procedimento e la valutazione sulla loro
identità operate dal Giudice dell’udienza preliminare si sottrarrebbero ad un
giudizio di palese arbitrarietà, attesa la coerenza logica che le
contraddistingue. Priva di fondamento sarebbe l’obiezione, avanzata dai
difensori di alcune parti civili, secondo cui nel primo procedimento a carico
dell’imputato la morte delle vittime non sarebbe stata oggetto di esame.
Secondo la difesa dell’imputato la sentenza di primo grado, nell’affermare che
l’ipotesi di cui all’art. 437, secondo comma, cod. pen.
costituiva un reato autonomo, il cui evento era la
morte della vittima, aveva necessariamente operato una verifica in ordine a
tale evento, mentre la pronuncia del giudice di secondo grado, attraverso
l’introduzione del concetto di evento epidemiologico, vi aveva fatto «confluire
tutti gli eventi morte, compresi quelli futuri». Sotto l’aspetto giuridico,
inoltre, le pronunce della Corte EDU avrebbero dato rilievo esclusivamente al fatto
naturalistico e, in tale ambito, alla condotta, e non «alle fattispecie
astratte contestate». L’identità tra i fatti oggetto del primo e del secondo
procedimento dovrebbe valutarsi avuto riguardo alla formulazione
dell’imputazione e non al tipo di accertamento o di motivazione operati dal
giudice. In questa prospettiva nel «vecchio capo di imputazione e nel nuovo» la
condotta sarebbe assolutamente identica, e gli eventi morte sarebbero identici.
Per quanto
attiene ai profili di merito, l’imputato ripercorre i contenuti delle pronunce
più recenti della Corte EDU, a partire dalla sentenza 10 febbraio 2009, Zolotoukhine contro Russia, sottolineando che il
principio del ne bis in idem è stato interpretato come divieto di giudicare un
individuo per una seconda infrazione, qualora questa scaturisca dagli stessi
fatti o da fatti che sono sostanzialmente identici, prendendo in considerazione
la «sola condotta» e non anche «gli effetti» da essa derivanti. Tale nozione,
superando la dimensione esclusivamente formale del ne bis in idem, non
determinerebbe la paralisi del principio di obbligatorietà dell’azione penale
previsto dall’art. 112 Cost. Sarebbe infondata, infine, anche l’obiezione
secondo cui la disposizione contenuta nell’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU
è stata male interpretata, in quanto «il termine "infraction”,
utilizzato dalla norma per individuare l’ "idem”», non
richiamerebbe la dimensione meramente fattuale della vicenda, bensì i suoi aspetti
giuridico-formali. Secondo la difesa dell’imputato, la funzione nomofilattica
della Corte EDU sarebbe confermata dagli artt. 19, 32 e 46 della CEDU, oltre
che da numerose pronunce di questa Corte.
La difesa
dell’imputato chiede, in via subordinata, che sia sollevata «questione
pregiudiziale» innanzi alla Corte di giustizia dell’Unione europea, in quanto
la fattispecie in esame avrebbe rilevanza per il diritto dell’Unione per motivi
di carattere sostanziale e procedurale. Rileverebbero, al riguardo, le
disposizioni dell’Unione europea sulla protezione dei lavoratori contro i
rischi da esposizione all’amianto. Osserva la parte che nel 1983 è stata
adottata la Direttiva 19 settembre 1983, n. 83/477/CEE (Direttiva del Consiglio
sulla protezione dei lavoratori contro i rischi connessi con un’esposizione
all’amianto durante il lavoro – seconda direttiva particolare ai sensi
dell’articolo 8 della direttiva 80/1107/CEE), la quale è stata recepita nel
nostro ordinamento dalla legge 27 marzo 1992, n. 257 (Norme relative alla
cessazione dell’impiego dell’amianto). Il rilievo di tale direttiva sarebbe
stato messo in evidenza nella motivazione della sentenza di primo grado nei
confronti dell’imputato. Pertanto, la materia della protezione dei lavoratori
dai rischi derivanti da esposizione ad amianto rientrerebbe nell’ambito di
applicazione del diritto dell’Unione, come sarebbe dimostrato dall’adozione di
una serie di atti normativi dell’Unione europea, tra cui la Direttiva 30
novembre 2009, n. 2009/148/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio
sulla protezione dei lavoratori contro i rischi connessi con un’esposizione
all’amianto durante il lavoro), i quali si inserirebbero nelle politiche
dell’Unione dirette ad assicurare un grado elevato di protezione della salute e
alla salvaguardia, tutela e miglioramento della qualità dell’ambiente.
Sussisterebbero pertanto le condizioni, contrariamente a quanto ritenuto dal
giudice a quo, per effettuare «rinvio pregiudiziale d’interpretazione» dinanzi
alla Corte di giustizia dell’Unione europea in ordine alla nozione di «stessi
fatti».
11.– Hanno inoltre depositato memorie di identico contenuto le altre parti
private. Esse rilevano come il percorso ermeneutico adottato dalla Corte EDU
sarebbe caratterizzato da un approccio strettamente casistico, come tale «non
necessariamente funzionale all’elaborazione di una definizione dell’idem su cui
fondare una teoria generale e paradigmatica in via astratta ed assoluta».
Dall’analisi delle recenti pronunce della Corte EDU, a partire dal caso Zolotoukhine, non sembrerebbe potersi evincere alcuna
indicazione tale da escludere che «l’espressione "fatti identici o che siano
sostanzialmente gli stessi”» debba essere valutata, non solo con riguardo alla
condotta, ma anche in riferimento all’evento e al nesso causale. L’accoglimento
della questione, così come formulata dal giudice a quo, implicherebbe
conseguenze abnormi, «sia in termini di (ir)razionalità
dell’ordinamento penale e processuale penale, sia (e soprattutto) con riguardo
alla (in)compatibilità della predetta interpretazione con il sistema dei
diritti fondamentali», tra i quali il diritto alla salute e quello alla vita,
tutelati, peraltro, dall’art. 2 della CEDU.
1.– Il
Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Torino ha sollevato
una questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 del codice di
procedura penale, nella parte in cui tale disposizione limita l’applicazione
del principio del ne bis in idem al medesimo fatto giuridico, nei suoi elementi
costitutivi, sebbene diversamente qualificato, invece che al medesimo fatto
storico, con riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in
relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in
avanti «Protocollo n. 7 alla CEDU»), adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984,
ratificato e reso esecutivo con la legge 9 aprile 1990, n. 98.
Il
rimettente si trova a decidere sulla richiesta di rinvio a giudizio proposta
nei confronti di una persona imputata dell’omicidio doloso di 258 persone. Il
Giudice osserva che in relazione alla medesima condotta l’imputato, in un
precedente giudizio, è già stato prosciolto per prescrizione dai reati previsti
dagli artt. 434, secondo comma, e 437, secondo comma, del codice penale.
In
particolare in quel primo processo penale erano stati contestati il disastro
innominato aggravato e l’omissione dolosa di cautele contro infortuni sul
lavoro, anch’essa nella forma aggravata, reati che l’imputato avrebbe commesso
nella sua qualità di dirigente di stabilimenti della società Eternit. Mediante
la diffusione di polveri di amianto sarebbero stati cagionati un disastro e un
infortunio, che avrebbero comportato la morte o la malattia di circa 2000
persone, 186 delle quali erano indicate nei nuovi capi di imputazione per
omicidio.
Il
rimettente premette di non poter applicare l’art. 649 cod. proc. pen., che
enuncia il divieto di bis in idem in materia penale, a causa del significato
che tale disposizione avrebbe assunto nel diritto vivente: vi sarebbero infatti
due ostacoli insuperabili per l’interprete che intenda adeguarsi a tale
consolidata giurisprudenza.
In primo
luogo, pur a fronte di una formulazione letterale della norma chiaramente
intesa a porre a raffronto il fatto storico, il diritto vivente esigerebbe
invece l’identità del fatto giuridico ovvero «la coincidenza di tutti gli
elementi costitutivi del reato e dei beni giuridici tutelati».
Il giudice
sarebbe cioè tenuto a valutare non la sola condotta dell’agente, ma la triade
«condotta-evento-nesso di causa», indagando sulla natura dei reati e sui beni
che essi tutelano. Applicando questo criterio al caso di specie il rimettente
afferma che l’omicidio è in sé fatto diverso dal disastro innominato aggravato
e dall’omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro aggravata, posto
che questi sono due delitti di pericolo, anziché di danno, diretti alla tutela
della pubblica incolumità, anziché della vita. Inoltre, l’evento morte, che è
elemento costitutivo dell’omicidio, non figura neppure tra le circostanze
aggravanti previste dal secondo comma degli artt. 434 e 437 cod. pen.,
perché non è necessario per integrare le figure del disastro e dell’infortunio,
alle quali queste disposizioni fanno riferimento.
In secondo
luogo, il rimettente richiama la pacifica giurisprudenza di legittimità secondo
cui l’omicidio concorre formalmente con i reati indicati dagli artt. 434 e 437
cod. pen.,
quando, come è accaduto nel caso di specie, il primo e i secondi sono commessi
con un’unica azione od omissione.
Il diritto
vivente in questo caso esclude recisamente l’applicabilità dell’art. 649 cod.
proc. pen.,
ritenendo che la sola circostanza di avere violato diverse disposizioni di
legge o di avere commesso più violazioni della medesima disposizione di legge
(art. 81 cod. pen.) impedisca di ritenere, ai fini
dell’art. 649 cod. proc. pen., unico il fatto, benché realizzato con una sola azione od
omissione.
Ciò posto,
il giudice a quo rileva, sulla base di un’ampia disamina della giurisprudenza
della Corte europea dei diritti dell’uomo (d’ora in avanti «Corte EDU»), che
l’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU ha invece un significato più favorevole
per l’imputato, poiché, a partire dalla sentenza della Grande Camera,
10 febbraio 2009, Zolotoukhine contro Russia, si
sarebbe stabilito che è ravvisabile identità del fatto quando medesima è
l’azione o l’omissione per la quale la persona è già stata irrevocabilmente
giudicata. Nel caso di specie, in applicazione di questo orientamento, non
osterebbe al divieto di bis in idem, né la diversità dell’evento conseguente
alla condotta, né la configurabilità di un concorso formale di reati.
Il
rimettente conclude che l’art. 649 cod. proc. pen. è di dubbia legittimità
costituzionale, nella parte in cui, in base al diritto vivente nazionale, per
valutare la medesimezza del fatto stabilisce criteri più restrittivi di quelli
ricavati dall’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU. In base a quest’ultima
norma, infatti, l’imputato andrebbe prosciolto per la sola circostanza che le
azioni e le omissioni che hanno causato gli omicidi sarebbero, sul piano
storico-naturalistico, quelle per le quali è già stato giudicato in altro
processo penale in via definitiva. Non avrebbe alcun rilievo in senso contrario
la circostanza che l’evento, ovvero la morte delle vittime, non sia stato in
quella prima sede oggetto di accertamento.
2.– L’Avvocatura generale dello Stato e le parti private hanno avanzato
numerose eccezioni di inammissibilità.
L’Avvocatura
generale sostiene anzitutto che il rimettente sarebbe privo di legittimazione a
proporre la questione di legittimità costituzionale.
L’eccezione
è manifestamente infondata perché il giudice dell’udienza preliminare è senza
alcun dubbio una autorità giurisdizionale tenuta ad applicare la norma
impugnata nel corso del giudizio (art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87,
recante «Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte
costituzionale»).
In secondo
luogo, l’Avvocatura generale deduce che l’omessa indicazione della data di
morte delle vittime rende carente la descrizione della fattispecie. Anche
questa eccezione è manifestamente infondata, in quanto si incentra su un
elemento del fatto che non è necessario per saggiare la rilevanza della
questione di legittimità costituzionale. Quest’ultima è ravvisabile perché il
rimettente postula la medesimezza della condotta, oggetto di una nuova imputazione
dopo un primo giudizio conclusosi definitivamente, e l’impossibilità di
applicare, nonostante ciò, l’art. 649 cod. proc. pen., senza una previa
dichiarazione di illegittimità costituzionale. La data di morte delle vittime
non ha alcuna incidenza sui termini della questione così proposta.
2.1.– L’Avvocatura generale eccepisce inoltre l’inammissibilità della questione,
perché il rimettente avrebbe potuto risolvere il dubbio di legittimità
costituzionale mediante un’interpretazione dell’art. 649 cod. proc. pen. convenzionalmente
orientata.
Anche
questa eccezione non è fondata. Infatti il Giudice ha ampiamente motivato,
rilevando l’esistenza di un diritto vivente contrario a una tale soluzione
interpretativa, e lo ha individuato in numerose pronunce successive alla sentenza della Grande Camera, Zolotoukhine contro Russia, con la quale è stato
definito l’orientamento della giurisprudenza della Corte EDU da ritenere
consolidato. Ciò significa che nella prospettiva del rimettente neppure questo
elemento di novità potrebbe valere a far dubitare della persistenza del diritto
vivente, aprendo la via a un tentativo di interpretazione adeguatrice. In
questo contesto il giudice a quo ha «la facoltà di assumere l’interpretazione
censurata in termini di "diritto vivente” e di richiederne su tale presupposto
il controllo di compatibilità con parametri costituzionali» (sentenza n. 242 del
2014).
2.2.– Una parte privata ha eccepito il difetto di rilevanza della questione
sostenendo che l’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU non è applicabile quando,
come è avvenuto nel caso in esame, la prima pronuncia penale, passata in
giudicato, non ha espresso un giudizio sul merito dell’imputazione. Il testo
francese della disposizione europea esige infatti che l’imputato sia già stato acquitté ou condamné,
e l’acquittement implicherebbe un’assoluzione, mentre
nel caso oggetto del giudizio principale l’imputato è stato prosciolto per la
prescrizione dei reati.
L’eccezione
non è fondata.
Premesso
che il significato delle disposizioni della CEDU e dei suoi Protocolli va
tratto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo (sentenze n. 348 e n. 349 del 2007),
purché consolidata (sentenza n. 49 del
2015), è immediato il rilievo che per tale Corte ciò che rileva è la natura
definitiva di una decisione giudiziale, al fine di stabilire se essa possa
precludere una nuova azione penale per lo stesso fatto, e tale natura si deduce
dall’autorità di cosa giudicata che le attribuisce l’ordinamento nazionale. Di
questo principio ha reso applicazione anche la sentenza della Grande Camera,
27 maggio 2014, Marguš contro Croazia (sentenza n. 184 del
2015).
Posto che
l’ordinamento italiano riconosce il carattere di giudicato anche alle sentenze
di estinzione del reato per prescrizione deve concludersi che l’art. 4 del
Protocollo n. 7 alla CEDU si applica al giudizio a quo.
2.3.– Alcune parti private hanno eccepito il difetto di rilevanza della
questione sostenendo che i fatti già giudicati sono diversi, sotto il profilo
storico-naturalistico, da quelli oggetto della nuova imputazione, perciò, pur
accogliendo la prospettiva del rimettente, neppure l’art. 4 del Protocollo n. 7
alla CEDU potrebbe sottrarre l’imputato al giudizio.
L’eccezione
non è fondata.
Il
rimettente ha infatti svolto un’ampia motivazione per dimostrare l’identità
della condotta dell’imputato. Posto che si tratta di uno dei passaggi logici
preliminari rispetto al dubbio di legittimità costituzionale, questa Corte, per
postularne l’adeguatezza ai fini della motivazione sulla rilevanza, non può che
limitarsi all’apprezzamento del carattere non implausibile della premessa
sviluppata dal giudice a quo.
2.4.– Alcune parti private hanno eccepito l’irrilevanza della questione perché
il primo processo penale non avrebbe accertato, né l’evento della morte delle
vittime, né il nesso di causalità tra quest’ultimo e la condotta. Perciò i
fatti dovrebbero ritenersi diversi anche sulla base della giurisprudenza
europea, che includerebbe nel giudizio di comparazione evento e nesso di
causalità.
L’eccezione
non è fondata in quanto pretende di far valere sul piano dell’ammissibilità un
profilo che attiene al merito della questione. Il rimettente, infatti, parte
dal presupposto che l’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU prescriva di
prendere in considerazione la sola azione o omissione dell’agente, a differenza
dell’art. 649 cod. proc. pen., che attribuirebbe rilievo anche al nesso di causalità e
all’evento giuridico.
Per tale
ragione valutare se la sentenza già passata in giudicato abbia oppure no
apprezzato il nesso di causalità e l’evento eccede il controllo sulla
rilevanza. Questa, infatti, per tale aspetto, dipende dalla sola motivazione
del rimettente sulla medesimezza della condotta, ovvero sul solo requisito che,
a parere del giudice a quo, ha importanza, secondo i criteri europei, per
affermare o escludere l’unicità del fatto.
3.– La difesa dell’imputato nel giudizio principale sollecita, ove la
questione non sia accolta, un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia,
affinché chiarisca se l’art. 50 della Carta di Nizza (Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e
adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007), recante a sua volta il divieto di
bis in idem in materia penale, impedisca o no di riconoscere all’art. 649 cod.
proc. pen. il significato attribuitogli dal diritto vivente.
La
richiesta, al di là di ogni ulteriore considerazione, non può essere accolta,
considerato che il rimettente ha escluso l’inerenza del diritto dell’Unione al
caso di specie e ha delimitato il thema decidendum con riferimento ai profili di compatibilità con
la CEDU (sentenza
n. 56 del 2015).
4.– Venendo al merito della questione, si tratta di verificare se davvero il
principio del ne bis in idem in materia penale, enunciato dall’art. 4 del
Protocollo n. 7 alla CEDU, abbia un campo applicativo diverso e più favorevole
all’imputato del corrispondente principio recepito dall’art. 649 cod. proc. pen.
È anzitutto
opportuno saggiare il convincimento del giudice a quo, secondo cui la
disposizione europea significa che la medesimezza del fatto deve evincersi
considerando la sola condotta dell’agente, assunta nei termini di un movimento
corporeo o di un’inerzia.
È noto che
la sentenza della Grande
Camera, 10 febbraio 2009, Zolotoukhine contro Russia,
è intervenuta per risolvere un articolato conflitto manifestatosi tra le
sezioni della Corte EDU, sulla portata dell’art. 4 del Protocollo n. 7 alla
CEDU. Dopo avere passato in rassegna le tesi enunciate in proposito, la Grande
Camera ha consolidato la giurisprudenza europea nel senso che la medesimezza
del fatto si apprezza alla luce delle circostanze fattuali concrete,
indissolubilmente legate nel tempo e nello spazio. È stata così respinta la
tesi, precedentemente sostenuta da una parte di quella giurisprudenza, che l’infraction indicata dal testo normativo sia da reputare la
stessa solo se medesimo è il reato contestato nuovamente dopo un primo giudizio
definitivo, ovvero il fatto nella qualificazione giuridica che ne dà
l’ordinamento penale.
È perciò
pacifico oramai che la Convenzione recepisce il più favorevole criterio
dell’idem factum, a dispetto della lettera dell’art. 4 del Protocollo n. 7,
anziché la più restrittiva nozione di idem legale.
Il
rimettente pare persuaso che da questa corretta premessa derivi inevitabilmente
il corollario ipotizzato innanzi, ossia che il test di comparazione tra fatto
già giudicato definitivamente e fatto oggetto di una nuova azione penale
dipenda esclusivamente dalla medesimezza della condotta dell’agente.
In altre
parole, secondo il rimettente, qualora non si intenda far rifluire nel giudizio
comparativo implicazioni legate al bene giuridico tutelato dalle disposizioni
penali, e ci si voglia agganciare alla sola componente empirica del fatto, come
è previsto dalla Corte EDU, sarebbe giocoforza concludere che quest’ultimo vada
individuato in ragione dell’azione o dell’omissione, trascurando evento e nesso
di causalità.
La tesi è
errata.
Il fatto
storico-naturalistico rileva, ai fini del divieto di bis in idem, secondo
l’accezione che gli conferisce l’ordinamento, perché l’approccio epistemologico
fallisce nel descriverne un contorno identitario dal contenuto necessario.
Fatto, in questa prospettiva, è l’accadimento materiale, certamente affrancato
dal giogo dell’inquadramento giuridico, ma pur sempre frutto di un’addizione di
elementi la cui selezione è condotta secondo criteri normativi.
Non vi è,
in altri termini, alcuna ragione logica per concludere che il fatto, pur
assunto nella sola dimensione empirica, si restringa all’azione o
all’omissione, e non comprenda, invece, anche l’oggetto fisico su cui cade il
gesto, se non anche, al limite estremo della nozione, l’evento naturalistico
che ne è conseguito, ovvero la modificazione della realtà indotta dal
comportamento dell’agente.
È chiaro
che la scelta tra le possibili soluzioni qui riassunte è di carattere normativo,
perché ognuna di esse è compatibile con la concezione dell’idem factum. Questo
non significa che le implicazioni giuridiche delle fattispecie poste a
raffronto comportino il riemergere dell’idem legale. Esse, infatti, non possono
avere alcun rilievo ai fini della decisione sulla medesimezza del fatto
storico. Ad avere carattere giuridico è la sola indicazione dei segmenti
dell’accadimento naturalistico che l’interprete è tenuto a prendere in
considerazione per valutare la medesimezza del fatto.
Nell’ambito
della CEDU, una volta chiarita la rilevanza dell’idem factum, è perciò
essenziale rivolgersi alla giurisprudenza consolidata della Corte EDU, per
comprendere se esso si restringa alla condotta dell’agente, ovvero abbracci
l’oggetto fisico, o anche l’evento naturalistico.
5.– L’indagine cui si è appena accennato non conforta l’ipotesi formulata dal
giudice a quo. Né la sentenza
della Grande Camera, 10 febbraio 2009, Zolotoukhine
contro Russia, né le successive pronunce della Corte EDU recano
l’affermazione che il fatto va assunto, ai fini del divieto di bis in idem, con
esclusivo riferimento all’azione o all’omissione dell’imputato. A tal fine,
infatti, non possono venire in conto le decisioni vertenti sulla comparazione
di reati di sola condotta, ove è ovvio che l’indagine giudiziale ha avuto per
oggetto quest’ultima soltanto (ad esempio, sentenza 4 marzo 2014, Grande
Stevens contro Italia).
Anzi, in
almeno tre occasioni, il giudice europeo ha attribuito importanza, per
stabilire l’unicità del fatto, alla circostanza che la condotta fosse rivolta
verso la medesima vittima (sentenza
14 aprile 2014, Muslija contro Bosnia Erzegovina,
paragrafo 34; sentenza
14 aprile 2014, Khmel contro Russia, paragrafo 65;
sentenza 23 settembre
2015, Butnaru e Bejan-Piser
contro Romania, paragrafo 37), e ciò potrebbe suggerire che un mutamento
dell’oggetto dell’azione, e quindi della persona offesa dal reato, spezzi il
nesso tra fatto giudicato in via definitiva e nuova imputazione, pur in
presenza della stessa condotta (come potrebbe accadere, ad esempio,
nell’omicidio plurimo).
Certo è
che, perlomeno allo stato, la giurisprudenza europea, che «resta pur sempre
legata alla concretezza della situazione che l’ha originata» (sentenza n. 236 del
2011), non permette di isolare con sufficiente certezza alcun principio (sentenza n. 49 del
2015), alla luce del quale valutare la legittimità costituzionale dell’art.
649 cod. proc. pen., ove si escluda l’opzione compiuta con nettezza a favore
dell’idem factum (questa sì, davvero espressiva di un orientamento sistematico
e definitivo). In particolare, non solo non vi è modo di ritenere che il fatto,
quanto all’art. 4 del Protocollo n. 7, sia da circoscrivere alla sola condotta
dell’agente, ma vi sono indizi per includere nel giudizio l’oggetto fisico di
quest’ultima, mentre non si può escludere che vi rientri anche l’evento, purché
recepito con rigore nella sola dimensione materiale.
Ciò
equivale a concludere che il difetto di una giurisprudenza europea univoca,
tale da superare la sporadicità di decisioni casistiche orientate da fattori
del tutto peculiari della fattispecie concreta, libera l’interprete
dall’obbligo di porre alla base della decisione un contenuto della normativa
interposta ulteriore, rispetto al rilievo storico-naturalistico del fatto,
salvo quanto si dovrà aggiungere in seguito a proposito del concorso formale
dei reati.
6.– Parimenti, un’opzione a favore della più ampia espansione della garanzia
del divieto di bis in idem in materia penale non è stimolata neppure dal
contesto normativo e logico entro cui si colloca l’art. 4 del Protocollo n. 7
alla CEDU.
È intuitivo
che l’accoglimento della posizione propugnata dal giudice a quo, circa
l’apprezzamento della sola condotta ai fini del giudizio sulla medesimezza del
fatto, rassicura al massimo grado l’imputato già giudicato in via definitiva,
che per tale via si sottrarrebbe a un nuovo processo penale, sia nei casi, tra
gli altri, in cui si sia aggravata l’offesa nei confronti della stessa persona,
sia in quelli in cui un’unica condotta abbia determinato una pluralità di
vittime, lese in beni primari e personalissimi come la vita e l’integrità
fisica.
Tuttavia la
tutela convenzionale affronta il principio del ne bis in idem con un certo
grado di relatività, nel senso che esso patisce condizionamenti tali da
renderlo recessivo rispetto a esigenze contrarie di carattere sostanziale.
Questa circostanza non indirizza l’interprete, in assenza di una consolidata
giurisprudenza europea che lo conforti, verso letture necessariamente orientate
nella direzione della più favorevole soluzione per l’imputato, quando un’altra
esegesi della disposizione sia comunque collocabile nella cornice dell’idem
factum.
In primo
luogo, l’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, secondo paragrafo, permette la
riapertura del processo penale, quando è prevista dall’ordinamento nazionale,
se fatti sopravvenuti o nuove rivelazioni sono in grado di inficiare la
sentenza già passata in giudicato. Mentre nell’ordinamento giuridico italiano è
consentita la revisione della sola sentenza di condanna, al fine di assicurare
senza limiti di tempo «la tutela dell’innocente» (sentenza n. 28 del
1969), la Convenzione consente di infrangere la "quiete penalistica” della
persona già assolta in via definitiva solo perché sono maturate, dopo il
processo, nuove evenienze, anche di carattere probatorio.
La finalità
di perseguire la giustizia, in tali casi, prevale sulla stabilità della
garanzia processuale concernente la sottrazione alla pretesa punitiva dello
Stato.
In secondo
luogo, la stessa Grande
Camera (sentenza 27 maggio 2014, Marguš contro
Croazia) ha affermato (in un caso in cui un uomo politico aveva goduto
dell’amnistia, rilevata in giudizio, per crimini di guerra, ma era stato
nuovamente sottoposto a processo per gli stessi fatti) che l’art. 4 del
Protocollo n. 7 è soggetto a bilanciamento con gli artt. 2 e 3 della
Convenzione, in quanto parti di un tutto (paragrafo 128), ed ha aggiunto che
ciò comporta l’inoperatività della garanzia del ne bis in idem in presenza di
episodi estremamente gravi, quali i crimini contro l’umanità, che gli Stati
aderenti hanno l’obbligo di perseguire (paragrafo 140).
Si
manifesta, in tal modo, un ulteriore tratto di appannamento dell’istituto che
la Convenzione giustifica nel quadro del bilanciamento con obblighi di tutela
penale.
È il caso
però di sottolineare che nell’ordinamento nazionale non si può avere un
soddisfacimento di pretese punitive che non sia contenuto nelle forme del
giusto processo, ovvero che non si renda compatibile con il fascio delle
garanzie processuali attribuite all’imputato. Né il principio di obbligatorietà
dell’azione penale, né la rilevanza costituzionale dei beni giuridici che sono
stati offesi, cui le parti private si sono ampiamente riferite, possono rendere
giusto, e quindi conforme a Costituzione, un processo che abbia violato i
diritti fondamentali, e costituzionalmente rilevanti, della persona che vi è
soggetta.
Tra questi
non può non annoverarsi il «principio di civiltà giuridica, oltre che di
generalissima applicazione» (ordinanza n. 150 del
1995) espresso dal divieto di bis in idem, grazie al quale giunge un tempo
in cui, formatosi il giudicato, l’individuo è sottratto alla spirale di
reiterate iniziative penali per il medesimo fatto. In caso contrario, il
contatto con l’apparato repressivo dello Stato, potenzialmente continuo,
proietterebbe l’ombra della precarietà nel godimento delle libertà connesse
allo sviluppo della personalità individuale, che si pone, invece, al centro
dell’ordinamento costituzionale (sentenza n. 1 del
1969; in seguito, sentenza n. 219 del
2008).
In questa
sede, peraltro, non interessa porre a raffronto i livelli di tutela offerti
dalla CEDU e dal diritto nazionale, ma piuttosto trarre conferma che la prima
non obbliga, neppure sul piano logico-sistematico, a optare in ogni caso per la
concezione di medesimo fatto più favorevole all’imputato, posto che la garanzia
del ne bis in idem non assume tratti di assolutezza, né nel testo dell’art. 4
del Protocollo n. 7, né nell’interpretazione consolidata tracciata dalla Corte
di Strasburgo.
Resta, in
definitiva, assodato che, contrariamente all’ipotesi del giudice a quo, allo
stato la Convenzione impone agli Stati membri di applicare il divieto di bis in
idem in base ad una concezione naturalistica del fatto, ma non di restringere
quest’ultimo nella sfera della sola azione od omissione dell’agente.
7.– Una volta chiarita la portata del vincolo derivante dalla CEDU, si tratta
di accertare la compatibilità con esso del diritto vivente formatosi sull’art.
649 cod. proc. pen.
Per quanto
finora è stato precisato, è evidente che la ragione del contrasto non potrebbe
consistere nella ricezione, da parte dell’interprete nazionale, di una visione
di medesimezza del fatto svincolata dalla sola condotta, ed estesa invece
all’oggetto fisico di essa, o all’evento in senso naturalistico, come
suggerisce il rimettente. Piuttosto, la disposizione nazionale avrebbe violato
l’art. 117, primo comma, Cost., solo se dovesse essere
interpretata nel senso di assegnare rilievo all’idem legale, ovvero a profili
attinenti alla qualificazione giuridica del fatto.
È quanto il
giudice a quo ritiene accaduto, per effetto di una torsione curiale della
lettera dell’art. 649 cod. proc. pen., che si riferisce al fatto storico, anche diversamente
considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze.
Bisogna
aggiungere che, se così fosse, a essere violati sarebbero anche gli artt. 24 e
111 Cost., ai quali il principio del ne bis in idem va
collegato in via generale (ordinanza n. 501
del 2000), ma con una particolare pregnanza nella materia penale (sentenza n. 284 del
2003). Benché non riconosciuto espressamente dalla lettera della
Costituzione, tale principio è infatti immanente alla funzione ordinante cui la
Carta ha dato vita, perché non è compatibile con tale funzione dell’ordinamento
giuridico una normativa nel cui ambito la medesima situazione giuridica possa
divenire oggetto di statuizioni giurisdizionali in perpetuo divenire. Nel
diritto penale, questa Corte ha da tempo arricchito la forza del divieto, proiettandolo
da una dimensione correlata al valore obiettivo del giudicato (sentenze n. 6 e n. 69 del 1976,
n. 1 del 1973
e n. 48 del 1967)
fino a investire la sfera dei diritti dell’individuo, in quanto «principio di
civiltà giuridica» (ordinanza n. 150 del
1995; inoltre, sentenze n. 284 del 2003
e n. 115 del
1987), oltretutto dotato di «forza espansiva» (sentenza n. 230 del
2004), e contraddistinto dalla natura di «garanzia» personale (sentenza n. 381 del
2006).
Il criterio
dell’idem legale appare allora troppo debole per accordarsi con simili premesse
costituzionali, perché solo un giudizio obiettivo sulla medesimezza
dell’accadimento storico scongiura il rischio che la proliferazione delle
figure di reato, alle quali in astratto si potrebbe ricondurre lo stesso fatto,
offra l’occasione per iniziative punitive, se non pretestuose, comunque tali da
porre perennemente in soggezione l’individuo di fronte a una tra le più
penetranti e invasive manifestazioni del potere sovrano dello Stato-apparato.
Costituzione
e CEDU si saldano, dunque, nella garanzia che la persona già giudicata in via
definitiva in un processo penale non possa trovarsi imputata per il medesimo
fatto storico, e ripudiano l’intorbidamento della valutazione comparativa in
forza di considerazioni sottratte alla certezza della dimensione empirica, così
come accertata nel primo giudizio. Le sempre opinabili considerazioni sugli
interessi tutelati dalle norme incriminatrici, sui beni giuridici offesi, sulla
natura giuridica dell’evento, sulle implicazioni penalistiche del fatto e su
quant’altro concerne i diversi reati, oggetto dei successivi giudizi, non si
confanno alla garanzia costituzionale e convenzionale del ne bis in idem e sono
estranee al nostro ordinamento.
8.– Ciò premesso, questa Corte ha già avuto modo di prendere atto che
«l’identità del "fatto” sussiste – secondo la giurisprudenza di legittimità
(Cass. Sez. un. 28 giugno 2005, n. 34655) – quando vi sia corrispondenza
storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i
suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle
circostanze di tempo, di luogo e di persona» (sentenza n. 129 del
2008).
È in questi
termini, e soltanto in questi, in quanto segnati da una pronuncia delle sezioni
unite, che l’art. 649 cod. proc. pen.
vive nell’ordinamento nazionale con il significato che
va posto alla base dell’odierno incidente di legittimità costituzionale. E si
tratta di un’affermazione netta e univoca a favore dell’idem factum, sebbene il
fatto sia poi scomposto nella triade di condotta, nesso di causalità, ed evento
naturalistico.
A
condizione che tali elementi siano ponderati con esclusivo riferimento alla
dimensione empirica, si è già testata favorevolmente la compatibilità di questo
portato normativo con la nozione di fatto storico, sia nella sua astrattezza,
sia nella concretezza attribuita dalla consolidata giurisprudenza europea.
Certamente,
a differenza di quanto mostra di credere il rimettente anche con riguardo alla
pronuncia delle sezioni unite appena ricordata, l’evento non potrà avere
rilevanza in termini giuridici, ma assumerà significato soltanto quale
modificazione della realtà materiale conseguente all’azione o all’omissione
dell’agente. Detto questo, e alle ricordate condizioni, non vi è spazio di
contrasto tra l’art. 649 cod. proc. pen.
e l’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU.
Questa
Corte deve però riconoscere che persiste nella stessa giurisprudenza di
legittimità un orientamento minoritario, diverso da quello adottato dalle
sezioni unite fin dal 2005. Lo stesso rimettente ha individuato con esattezza
alcuni esempi di decisioni che si limitano a echeggiare il principio di diritto
affermato dalle sezioni unite, ma lo corrompono aggiungendo che va tenuta in
conto non solo la dimensione storico-naturalistica del fatto ma anche quella
giuridica; ovvero che vanno considerate le implicazioni penalistiche
dell’accadimento.
Queste e
altre simili formule celano un criterio di giudizio legato all’idem legale, che
non è compatibile, né con la Costituzione, né con la CEDU, sicché è necessario
che esso sia definitivamente abbandonato.
Tuttavia il
carattere occasionale di tali interventi giurisprudenziali li rende incapaci di
trasfigurare la lettera e la logica dell’art. 649 cod. proc. pen.,
conferendogli, come invece ipotizza il rimettente, un significato difforme
dalla normativa interposta evocata nel presente processo incidentale. Al
contrario, il diritto vivente, con una lettura conforme all’attuale stadio di
sviluppo dell’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, impone di valutare, con un
approccio storico-naturalistico, la identità della condotta e dell’evento,
secondo le modalità con cui esso si è concretamente prodotto a causa della
prima.
Non vi è
perciò dubbio che nel caso di specie gli indici segnalati dal Giudice
rimettente per ritenere diversi i fatti già giudicati rispetto a quelli di
omicidio oggetto della nuova contestazione non siano adeguati, perché non
possono avere peso a tali fini né la natura di pericolo dei delitti previsti
dagli artt. 434 e 437 cod. pen., né il bene giuridico tutelato, né il «differente "ruolo”
del medesimo evento morte all’interno della fattispecie». Allo stesso tempo, è
chiaro che, anche dal punto di vista rigorosamente materiale, la morte di una
persona, seppure cagionata da una medesima condotta, dà luogo ad un nuovo
evento, e quindi ad un fatto diverso rispetto alla morte di altre persone.
Entro
questi limiti va escluso che sussista il primo profilo di contrasto individuato
dal giudice a quo tra l’art. 649 cod. proc. pen. e la normativa
interposta convenzionale, perché entrambe recepiscono il criterio dell’idem
factum, e all’interno di esso la Convenzione non obbliga a scartare l’evento in
senso naturalistico dagli elementi identitari del fatto, e dunque a superare il
diritto vivente nazionale.
9.– Il secondo profilo di contrasto, segnalato dall’ordinanza di rimessione,
tra l’art. 649 cod. proc. pen.
e l’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU riguarda la
regola, enucleata dal diritto vivente nazionale, che vieta di applicare il
principio del ne bis in idem, ove il reato già giudicato sia stato commesso in
concorso formale con quello oggetto della nuova iniziativa del pubblico
ministero, nonostante la medesimezza del fatto.
Sulla
corrispondenza di tale regola a un orientamento costante della giurisprudenza
di legittimità non vi sono dubbi, posto che essa è stata ininterrottamente
applicata dall’entrata in vigore dell’art. 90 del codice di procedura penale
del 1930 fino ad oggi, anche dopo che a quest’ultima disposizione è subentrato
l’art. 649 del nuovo codice di procedura penale. La sola eccezione ammessa, al
fine di prevenire un conflitto tra giudicati, è quella che la giurisprudenza ha
ravvisato nel caso in cui il primo processo si è concluso con una pronuncia
definitiva perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non lo ha commesso.
Ne consegue
che questa Corte è tenuta a scrutinare la legittimità costituzionale dell’art.
649 cod. proc. pen. postulando che esso abbia il significato che gli è conferito
dal diritto vivente, e la relativa questione, collegata con quella già esaminata
sulla medesimezza del fatto, è fondata nei termini che saranno precisati.
10.– Allo stato attuale del diritto vivente il rinnovato esercizio dell’azione
penale è consentito, in presenza di un concorso formale di reati, anche quando
il fatto, nel senso indicato, è il medesimo sul piano empirico, ma forma
oggetto di una convergenza reale tra distinte norme incriminatrici, tale da
generare una pluralità di illeciti penali.
Va premesso
che, sul piano delle opzioni di politica criminale dello Stato, è ben
possibile, per quanto qui interessa, che un’unica azione o omissione infranga,
in base alla valutazione normativa dell’ordinamento, diverse disposizioni
penali, alle quali corrisponde un autonomo disvalore che il legislatore, nei
limiti della discrezionalità di cui dispone, reputa opportuno riflettere nella
molteplicità dei corrispondenti reati e sanzionare attraverso le relative pene
(sia pure secondo il criterio di favore indicato dall’art. 81 cod. pen.).
Qualora il
giudice abbia escluso che tra le norme viga un rapporto di specialità (artt. 15
e 84 cod. pen.), ovvero che esse si pongano in
concorso apparente, in quanto un reato assorbe interamente il disvalore
dell’altro, è incontestato che si debbano attribuire all’imputato tutti gli
illeciti che sono stati consumati attraverso un’unica condotta commissiva o
omissiva, per quanto il fatto sia il medesimo sul piano storico-naturalistico.
Siamo,
infatti, nell’ambito di un istituto del diritto penale sostanziale che evoca
mutevoli scelte di politica incriminatrice, proprie del legislatore, e in
quanto tali soggette al controllo di questa Corte solo qualora trasmodino in un
assetto sanzionatorio manifestamente irragionevole, arbitrario o sproporzionato
(ex plurimis,
sentenze n. 56
del 2016 e n.
185 del 2015).
Né queste
opzioni in sé violano la garanzia individuale del divieto di bis in idem, che
si sviluppa invece con assolutezza in una dimensione esclusivamente
processuale, e preclude non il simultaneus processus per distinti reati commessi con il medesimo
fatto, ma una seconda iniziativa penale, laddove tale fatto sia già stato
oggetto di una pronuncia di carattere definitivo.
In linea
astratta pertanto la circostanza che i reati concorrano formalmente non
sembrerebbe interferire con l’area coperta dal portato normativo dell’art. 649
cod. proc. pen. Quest’ultima
dovrebbe, al contrario, essere determinata esclusivamente dalla formazione di
un giudicato sul medesimo fatto, sia che esso costituisca un solo reato, sia
che integri plurime fattispecie delittuose realizzate con un’unica azione od
omissione.
Ciò detto,
questa Corte è obbligata a prendere atto che il diritto vivente, come è stato
correttamente rilevato dal rimettente, ha saldato il profilo sostanziale
implicato dal concorso formale dei reati con quello processuale recato dal
divieto di bis in idem, esonerando il giudice dall’indagare sulla identità
empirica del fatto, ai fini dell’applicazione dell’art. 649 cod. proc. pen. La garanzia espressa da
questa norma, infatti, viene scavalcata per la sola circostanza che il reato
già giudicato definitivamente concorre formalmente, ai sensi dell’art. 81 cod. pen., con
il reato per il quale si procede.
Non spetta
a questa Corte pronunciarsi sulla correttezza ermeneutica del principio appena
esposto. È invece oggetto del giudizio incidentale la conformità di esso, e
dunque dell’art. 649 cod. proc. pen., che secondo il diritto vivente lo esprime normativamente,
rispetto all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU.
Ove,
infatti, non vi fossero motivi di contrasto, il rimettente, pure a fronte del
medesimo fatto, sarebbe tenuto a procedere nel giudizio per la sola ragione che
l’omicidio concorre formalmente, secondo la giurisprudenza di legittimità, con
i delitti previsti dagli artt. 434, secondo comma, e 437, secondo comma, cod. pen.,
mentre, nel caso opposto, egli dovrebbe concentrare la propria attenzione sulla
sola identità del fatto, per decidere se applicare o no l’art. 649 cod. proc. pen.
11.– Il nesso di necessità predicato nel diritto vivente tra concorso formale
di reati e superamento del ne bis in idem inevitabilmente reintroduce nel corpo
dell’art. 649 cod. proc. pen.
profili di apprezzamento sulla dimensione giuridica
del fatto, che erano stati espulsi attraverso l’adesione ad una concezione
rigorosamente naturalistica di condotta, nesso causale ed evento.
Per
decidere sulla unicità o pluralità dei reati determinati dalla condotta
dell’agente ai sensi dell’art. 81 cod. pen., l’interprete, che deve sciogliere il nodo dell’eventuale
concorso apparente delle norme incriminatrici, considera gli elementi del fatto
materiale giuridicamente rilevanti, si interroga, tra l’altro, sul bene
giuridico tutelato dalle convergenti disposizioni penali e può assumere
l’evento in un’accezione che cessa di essere empirica.
Questa
operazione, connaturata in modo del tutto legittimo al giudizio penalistico sul
concorso formale di reati, e dalla quale dipende la celebrazione di un
eventuale simultaneus processus,
deve reputarsi sbarrata dall’art. 4 del Protocollo n. 7, perché segna
l’abbandono dell’idem factum, quale unico fattore per stabilire se sia
applicabile o no il divieto di bis in idem.
Nel sistema
della CEDU (e, come si è visto, anche in base alla Costituzione repubblicana),
l’esercizio di una nuova azione penale dopo la formazione del giudicato deve
invece dipendere esclusivamente dal raffronto tra la prima contestazione, per
come si è sviluppata nel processo, e il fatto posto a base della nuova
iniziativa del pubblico ministero, ed è perciò permessa in caso di diversità,
ma sempre vietata nell’ipotesi di medesimezza del fatto storico (salve le
deroghe, nel sistema convenzionale, previste dal secondo paragrafo dell’art. 4
del Protocollo n. 7).
Ogni
ulteriore criterio di giudizio connesso agli aspetti giuridici del fatto esula
dalle opzioni concesse allo Stato aderente.
Difatti, la
sentenza della Grande
Camera, 10 febbraio 2009, Zolotoukhine contro Russia,
non ha aderito a un pregresso orientamento della Corte EDU volto a escludere la
violazione del divieto di bis in idem in presenza di un concours
idéal d’infractions
(paragrafi 72 e 81).
D’altro
canto, è evidente che la clausola di riserva delineata dalla giurisprudenza
nazionale, che fa salvi i casi di assoluzione dell’imputato per l’insussistenza
del fatto o per non averlo commesso, vietando per essi il secondo giudizio pure
in presenza di un concorso formale di reati, tradisce in modo scoperto la mera
finalità di prevenire il conflitto dei giudicati, e con questa l’oscuramento
della componente garantista del principio del ne bis in idem, che invece in
materia penale lo connota profondamente e va anzi ritenuta prioritaria.
Sussiste
perciò il contrasto denunciato dal rimettente tra l’art. 649 cod. proc. pen.,
nella parte in cui esclude la medesimezza del fatto per la sola circostanza che
ricorre un concorso formale di reati tra res iudicata e res iudicanda,
e l’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, che vieta invece di procedere
nuovamente quando il fatto storico è il medesimo.
12.– È il caso di precisare che la conclusione appena raggiunta non impone di
applicare il divieto di bis in idem per la esclusiva ragione che i reati
concorrono formalmente e sono perciò stati commessi con un’unica azione o
omissione.
È infatti
facilmente immaginabile che all’unicità della condotta non corrisponda la
medesimezza del fatto, una volta che si sia precisato che essa può discendere
dall’identità storico-naturalistica di elementi ulteriori rispetto all’azione o
all’omissione dell’agente, siano essi costituiti dall’oggetto fisico di
quest’ultima, ovvero anche dal nesso causale e dall’evento. Tale ultima
posizione, in particolare, è fatta propria dal diritto vivente nazionale e se
ne è già accertata la compatibilità con la Costituzione e con lo stato attuale
della giurisprudenza europea.
Sono queste
le ipotesi a cui va riferita la giurisprudenza di questa Corte per la quale
l’art. 90 del codice di procedura penale del 1930 non si riferiva «al caso di
concorso formale di reati», ove «anche se l’azione è unica, gli eventi, che sono
plurimi e diversi, danno ontologicamente luogo a più fatti, che possono anche
essere separatamente perseguiti» (sentenza n. 6 del
1976; in seguito, sentenza n. 69 del
1976). E sono, altresì, le ipotesi regolate dall’art. 671 cod. proc. pen., che
permette al giudice dell’esecuzione penale di applicare la disciplina del
concorso formale di reati, nel caso di più sentenze irrevocabili pronunciate
nei confronti della stessa persona, e dunque presuppone normativamente che
siano date occasioni in cui la formazione del primo giudicato non preclude il
perseguimento in separato processo del reato concorrente con il primo.
In
definitiva l’esistenza o no di un concorso formale tra i reati oggetto della
res iudicata e della res iudicanda è un fattore
ininfluente ai fini dell’applicazione dell’art. 649 cod. proc. pen., una
volta che questa disposizione sia stata ricondotta a conformità costituzionale,
e l’ininfluenza gioca in entrambe le direzioni, perché è permesso, ma non è
prescritto al giudice di escludere la medesimezza del fatto, ove i reati siano
stati eseguiti in concorso formale. Ai fini della decisione sull’applicabilità
del divieto di bis in idem rileva infatti solo il giudizio sul fatto storico.
Per effetto
della presente pronuncia di illegittimità costituzionale, pertanto, l’autorità
giudiziaria (e quindi lo stesso giudice a quo) sarà tenuta a porre a raffronto
il fatto storico, secondo la conformazione identitaria che esso abbia acquisito
all’esito del processo concluso con una pronuncia definitiva, con il fatto
storico posto dal pubblico ministero a base della nuova imputazione. A tale
scopo è escluso che eserciti un condizionamento l’esistenza di un concorso
formale, e con essa, ad esempio, l’insieme degli elementi indicati dal
rimettente nel giudizio principale (la natura del reato; il bene giuridico
tutelato; l’evento in senso giuridico).
Sulla base
della triade condotta-nesso causale-evento naturalistico, il giudice può
affermare che il fatto oggetto del nuovo giudizio è il medesimo solo se
riscontra la coincidenza di tutti questi elementi, assunti in una dimensione
empirica, sicché non dovrebbe esservi dubbio, ad esempio, sulla diversità dei
fatti, qualora da un’unica condotta scaturisca la morte o la lesione
dell’integrità fisica di una persona non considerata nel precedente giudizio, e
dunque un nuovo evento in senso storico. Ove invece tale giudizio abbia
riguardato anche quella persona occorrerà accertare se la morte o la lesione
siano già state specificamente considerate, unitamente al nesso di causalità
con la condotta dell’imputato, cioè se il fatto già giudicato sia nei suoi
elementi materiali realmente il medesimo, anche se diversamente qualificato per
il titolo, per il grado e per le circostanze.
13.– In conclusione, per le ragioni esposte, l’art. 649 cod. proc. pen. va
dichiarato costituzionalmente illegittimo, per contrasto con l’art. 117, primo
comma, Cost., in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, nella
parte in cui secondo il diritto vivente esclude che il fatto sia il medesimo
per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già
giudicato con sentenza irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo
procedimento penale.
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 649 del codice
di procedura penale, nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo
per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già
giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui è iniziato il
nuovo procedimento penale.
Così deciso
in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 31
maggio 2016.
F.to:
Paolo
GROSSI, Presidente
Giorgio
LATTANZI, Redattore
Roberto
MILANA, Cancelliere
Depositata
in Cancelleria il 21 luglio 2016.