SENTENZA N. 49
ANNO 2015
Commenti alla decisione di
I. Francesco Viganò, La
Consulta e la tela di Penelope, per g.c. di Diritto Penale Contemporaneo
II. Marco Bignami, Le
gemelle crescono in salute: la confisca urbanistica tra costituzione, CEDU e
diritto vivente, per g.c. di Diritto Penale Contemporaneo
III. Antonio Ruggeri, Fissati
nuovi paletti dalla Consulta a riguardo del rilievo della Cedu
in ambito interno, per g.c. di Diritti Comparati
IV. Roberto Conti, La
Corte assediata? Osservazioni a Corte cost. n.
49/2015, in questa , Studi, 2015/I
V. Vittorio Manes, La
"confisca senza condanna” al crocevia tra Roma e Strasburgo: il nodo della
presunzione di innocenza, per g.c. di Diritto penale Contemporaneo
VI. Deborah Russo, La
"confisca in assenza di condanna” tra principio di legalità e tutela dei
diritti fondamentali: un nuovo capitolo del dialogo tra le Corti, per g.c. di Osservatorio
sulle fonti
VII. Gabriele Civello, La
sentenza Varvara c. Italia "non vincola” il giudice
italiano: dialogo fra Corti o monologhi di Corti?, per g.c.
di Archivio Penale
VIII. Alessandro Dello Russo, Prescrizione
e confisca. La Corte costituzionale stacca un nuovo biglietto per Strasburgo,
per g.c. di Archivio
Penale
IX. Giuseppe Martinico, Corti
costituzionali (o supreme) e "disobbedienza funzionale”, per g.c. di Diritto
Penale Contemporaneo
X. Diletta Tega, La
sentenza della Corte costituzionale n. 49 del 2015 sulla confisca: il
predominio assiologico della Costituzione sulla Cedu,
per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali
XI. Vladimiro Zagrebelsky, Corte
cost. n. 49 del 2015, giurisprudenza della Corte
europea dei diritti umani, art. 117 Cost., obblighi
derivanti dalla ratifica della Convenzione, per g.c. dell’Osservatorio AIC
XII. Domenico Pulitanò, Due
approcci opposti sui rapporti fra Costituzione e CEDU in materia penale.
Questioni lasciate aperte da Corte Cost. N. 49/2015,
per g.c. di Diritto Penale Contemporaneo
XIII. Nicola Colacino, Convenzione
europea e giudici comuni dopo Corte costituzionale n. 49/2015: sfugge il senso
della «controriforma» imposta da Palazzo della Consulta, per g.c. di Rivista OIDU
XIV. Deborah Russo, Ancora
sul rapporto tra Costituzione e Convenzione europea dei diritti dell'uomo:
brevi note sulla sentenza della Corte costituzionale n. 49 del 2015, per g.c. di Osservatorio sulle fonti
XV. Giusi Sorrenti, Sul triplice rilievo di Corte cost., sent. n. 49/2015, che
ridefinisce i rapporti tra ordinamento nazionale e CEDU e sulle prime reazioni
di Strasburgo, per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali
REPUBBLICA
ITALIANA
IN
NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA
CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Alessandro CRISCUOLO Presidente
- Paolo
Maria NAPOLITANO Giudice
- Giuseppe FRIGO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario
Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità
costituzionale dell’art. 44, comma 2, del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia – Testo A),
promossi dal Tribunale ordinario di Teramo, in composizione monocratica, con
ordinanza del 17 gennaio 2014 e dalla Corte di cassazione, terza sezione
penale, con ordinanza del 20 maggio 2014, rispettivamente iscritte ai nn. 101
e 209
del registro ordinanze 2014 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica nn. 26 e 48, prima serie speciale, dell’anno 2014.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio
dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 14 gennaio 2015 il
Giudice relatore Giorgio Lattanzi.
1.– La Corte di cassazione, terza
sezione penale, con ordinanza depositata il 20 maggio 2014 (r.o.
n. 209 del 2014), ha sollevato una questione di legittimità costituzionale
dell’art. 44, comma 2, del d.P.R. 6 giugno 2001, n.
380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia – Testo A), in riferimento agli artt. 2, 9, 32, 41, 42 e 117, primo comma, della
Costituzione, nella parte in cui, in forza dell’interpretazione della Corte
europea dei diritti dell’uomo, tale disposizione «non può applicarsi nel caso
di dichiarazione di prescrizione del reato anche qualora la responsabilità
penale sia stata accertata in tutti i suoi elementi».
Il giudice a quo premette di conoscere
del ricorso proposto contro una sentenza della Corte d’appello di Roma, che,
tra le altre statuizioni, ha disposto la confisca di immobili e terreni oggetto
di lottizzazione abusiva.
Si è trattato, in particolare, della
realizzazione di una struttura residenziale di 285 abitazioni, in contrasto con
gli strumenti urbanistici e in luogo del previsto «complesso di case-albergo
per anziani».
Con riferimento al reato di
lottizzazione abusiva, punito dall’art. 44, comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 380 del 2001, gli imputati sono stati prosciolti
per estinzione del reato conseguente a prescrizione. Al giudizio penale hanno
partecipato anche acquirenti delle abitazioni frutto della lottizzazione, in
qualità di parti civili. Il rimettente riferisce che «almeno per quindici di
esse si pone il problema della confiscabilità degli
immobili», posto che tale misura, disposta dal giudice del merito, li
raggiungerebbe, in quanto proprietari del bene, ai sensi dell’impugnato art.
44, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001.
Tale disposizione stabilisce che la
sentenza definitiva del giudice penale che accerta che vi è stata lottizzazione
abusiva dispone la confisca dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere
abusivamente costruite. Il giudice rimettente precisa che la confisca «può
essere disposta anche in presenza di una causa estintiva del reato, purché sia
accertata – come avvenuto nel caso in esame – la sussistenza della
lottizzazione abusiva sotto il profilo oggettivo e soggettivo, nell’ambito di
un giudizio che assicuri il contraddittorio e la più ampia partecipazione degli
interessati, e che verifichi l’esistenza di profili quantomeno di colpa sotto
l’aspetto dell’imprudenza, della negligenza e del difetto di vigilanza dei
soggetti nei confronti dei quali la misura viene ad incidere».
Per quanto concerne la posizione degli
imputati, la Corte di cassazione esclude di poter accogliere la domanda di
assoluzione per insussistenza del fatto, perché, quanto al proscioglimento per
intervenuta prescrizione, ai sensi dell’art. 129 c.p.p., «non può dirsi che
dagli atti emerga l’assoluta assenza della prova di colpevolezza» a loro
carico. Ne consegue che i ricorsi andrebbero rigettati anche con riguardo ai
«capi della sentenza impugnata con cui è stata disposta la confisca delle aree
e dei terreni lottizzati».
Il rimettente, in altri termini, si
troverebbe a confermare una sentenza che, pur in presenza di una causa
estintiva del reato, reca l’accertamento della lottizzazione abusiva e a
valutare se la confisca, prevista in tal caso dall’art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, possa raggiungere il terzo
acquirente dell’immobile oggetto del reato.
Su quest’ultimo punto, la Corte di
cassazione osserva che «Non emergono […] elementi incontrovertibili da cui
possa escludersi che i 15 acquirenti e i restanti promissari acquirenti gli
immobili abusivamente lottizzati, costituitisi parti civili nel presente
processo, fossero qualificabili come terzi di buona fede», come la Corte
d’appello avrebbe illustrato nella propria decisione oggetto di ricorso. Pertanto
«la disposta confisca dovrebbe essere confermata, con innegabile sacrificio
patrimoniale del diritto di proprietà, non potendo gli stessi qualificarsi come
terzi estranei al reato di lottizzazione abusiva per il solo fatto di non aver
mai rivestito la qualità di persona sottoposta ad indagini od imputato, né
l’intervenuta costituzione di parte civile è decisiva per affermarne
l’estraneità».
Tuttavia, il giudice a quo, dopo aver
dato atto che la consolidata interpretazione dell’art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, anche alla luce della sentenza n. 239 del
2009 di questa Corte, imporrebbe di confiscare i beni, dà conto della
sopravvenienza della sentenza
della Corte europea dei diritti dell’uomo 29 ottobre 2013, Varvara
contro Italia (ric. n. 17475 del 2009), e ritiene che essa abbia modificato
il contenuto della disposizione censurata. La Corte europea, infatti, avrebbe
statuito che, in base all’art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia
dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti «CEDU»),
firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4
agosto 1955, n. 848, e all’art. 1 del relativo Primo Protocollo addizionale, la
confisca non possa mai essere disposta in difetto di una sentenza di condanna
per il reato di lottizzazione abusiva, ed in particolare quando si è verificata
l’estinzione del reato.
Il rimettente osserva che simile
indirizzo, non univoco nella giurisprudenza europea, si pone in conflitto con
una linea di tendenza legislativa volta a prevedere ipotesi di «confisca senza
condanna», come ad esempio disporrebbe, in talune ipotesi, la direttiva 3
aprile 2014, n. 2014/42/UE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio
relativa al congelamento e alla confisca dei beni strumentali e dei proventi da
reato nell’Unione europea). Tuttavia, esso, promanando dalla Corte di Strasburgo,
andrebbe in ogni caso recepito.
Una volta assunto l’art. 44, comma 2,
del d.P.R. n. 380 del 2001 nel significato
attribuitogli in senso conforme alla CEDU, il giudice a quo dubita della
compatibilità di tale significato con gli artt. 2, 9, 32, 41, 42 e 117, primo
comma, Cost., «i quali impongono che il paesaggio,
l’ambiente, la vita e la salute siano tutelati quali valori costituzionali
oggettivamente fondamentali, cui riconoscere prevalenza nel bilanciamento con
il diritto di proprietà».
2.– Il rimettente specifica che la
questione è rilevante, poiché, allo stato, la disposizione impugnata osterebbe
alla confisca dei beni oggetto di lottizzazione abusiva in danno del terzo
acquirente, mentre, ove essa fosse accolta, tale misura, già disposta dalla Corte
d’appello, andrebbe confermata.
3.– Con riguardo alla non manifesta
infondatezza, il giudice a quo enuncia una premessa che accomuna tutte le
censure, svolte poi analiticamente con riferimento ai parametri sopra dedotti.
La confisca del frutto della lottizzazione abusiva sarebbe l’effetto di una
scelta legislativa conseguente agli artt. 2, 9, 32, 41, 42 e 117, primo comma, Cost.
Infatti, il diritto di proprietà, alla
cui salvaguardia sarebbe preposta l’interpretazione dell’art. 44, comma 2,
impugnato, valorizzato dalla giurisprudenza europea, sarebbe destinato a
recedere di fronte a valori costituzionali di maggior rilievo, tra i quali
quelli espressi dalle sopracitate norme costituzionali. La Costituzione,
prosegue il rimettente, «certamente riconosce come diritto fondamentale, da
definire diritto inviolabile dell’uomo, ai sensi dell’art. 2 Cost., non il diritto di proprietà privata senza aggettivi,
ma il diritto di "proprietà personale”, quella riferibile al soddisfacimento
dei bisogni primari dell’uomo», e lo colloca «nel Titolo dedicato ai "Rapporti
economici”». Esso, pertanto, «non costituisce un valore assoluto, un diritto
fondamentale inviolabile, ma un diritto che esiste secondo la previsione della
legge, la quale, tenuto conto del suo obbligo di assicurarne la funzione
sociale e di renderl[o] accessibile a tutti, potrebbe
anche comprimerl[o]», riducendolo a un nucleo
essenziale.
In questo contesto, aggiunge il giudice
rimettente, «È, quindi, la legge che impone, in caso di "accertata” lottizzazione
[…] il sacrificio del diritto di proprietà». La disposizione impugnata verrebbe
invece ad impedire tale sacrificio, esponendosi al dubbio di costituzionalità.
4.– Passando ad approfondire le censure,
il giudice rimettente ritiene leso anzitutto l’art. 2 Cost.,
poiché l’art. 44, comma 2, impugnato, imporrebbe «di considerare il diritto di
proprietà come inviolabile», in contrasto con quanto osservato in senso opposto
dallo stesso giudice.
Sarebbe poi violato l’art. 9 Cost., giacché omettendo la confisca si pregiudicherebbe il
bene dell’ambiente, mentre «La natura di principio fondamentale della nostra
Carta costituzionale della tutela del paesaggio e del territorio giustifica,
nell’ottica del legislatore, il sacrificio della proprietà privata». La disposizione
impugnata assicurerebbe invece la «prevalenza del diritto di proprietà», così
invertendo la contraria scelta costituzionale.
Per le medesime ragioni sarebbe leso
l’art. 32 Cost. Il giudice rimettente premette che la
«legislazione urbanistica» ha «come obiettivo non soltanto la conservazione di
un ordinato assetto territoriale, ma anche quello di garantire la tutela del
diritto ad un "ambiente” salubre e, dunque, la tutela della salute umana».
Ne consegue che «nel conflitto tra tre
diversi interessi quali il mercato, l’ambiente e la persona» è ammessa una
compressione dell’integrità ambientale «in ragione degli interessi economici
delle imprese», ma in nessun caso potrebbe venire compromesso «l’interesse
fondamentale della persona alla difesa della salubrità dell’ambiente (Corte Cost., sentenza n. 127/1990)».
Il giudice a quo conclude che «escludere
[…] la confiscabilità dei terreni e degli immobili
sequestrati determinerebbe, ancora una volta, la prevalenza del diritto di
proprietà sul diritto alla salute», in contrasto con l’art. 32 Cost.
Infine, analogo ragionamento è svolto
con riferimento agli artt. 41 e 42 Cost. La Corte di
cassazione evidenzia che è lo stesso legislatore che, assegnando prevalenza
all’«interesse dello Stato a reprimere» le violazioni urbanistiche, impone «il
sacrificio del diritto di proprietà attesa l’incompatibilità della condotta
integrante l’illecito lottizzatorio con la funzione sociale e con l’utilità sociale».
Il rimettente conclude, rammentando che
«il potere di pianificazione urbanistica» è «funzionalmente rivolto alla
realizzazione contemperata di una pluralità di interessi pubblici, che trovano
il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti».
Venendo meno la confisca, nel caso di
lottizzazione abusiva, «si priverebbe la pubblica amministrazione di un
essenziale strumento di realizzazione di valori costituzionali, quali sono
almeno quelli espressi dagli articoli 9, comma secondo, 32, 42, 44, 47, comma
secondo, Cost.».
5.– Alla luce di queste considerazioni,
il giudice a quo, ripercorsa la giurisprudenza costituzionale in tema di
rapporti tra CEDU e legge nazionale, rammenta che «il rispetto degli obblighi
internazionali non può mai essere causa di una diminuzione di tutela rispetto a
quelle già predisposte dall’ordinamento interno» e reputa la norma impugnata
contraria al principio di «massima espansione delle garanzie», posto che essa
frustra gli interessi costituzionali riassunti dalle disposizioni asseritamente violate. Né sarebbe possibile «attivare la
procedura prevista dal Protocollo n. 16 alla Convenzione» e richiedere il
parere della Corte europea, posto che tale strumento non è ancora entrato in
vigore. A parere del rimettente, non resta perciò che sollevare una questione
di costituzionalità dell’art. 44, comma 2, del d.P.R.
n. 380 del 2001, nel significato da attribuirgli sulla base della
giurisprudenza di Strasburgo.
6.– Con ordinanza depositata il 17
gennaio 2014 (r.o. n. 101 del 2014), il Tribunale
ordinario di Teramo, in composizione monocratica, ha sollevato una questione di
legittimità costituzionale dell’art. 44, comma 2, del d.P.R.
n. 380 del 2001, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost.,
in relazione all’art. 7 della CEDU, «nella parte in cui consente che
l’accertamento nei confronti dell’imputato del reato di lottizzazione abusiva –
quale presupposto dell’obbligo per il giudice penale di disporre la confisca
dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite –
possa essere contenuto anche in una sentenza che dichiari estinto il reato per
intervenuta prescrizione».
Il rimettente si trova a giudicare una
persona imputata del reato di lottizzazione abusiva previsto dall’art. 44,
comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 380 del 2001, in
qualità di proprietario dell’area e committente dei lavori.
Il giudice a quo rileva, anzitutto, che
il reato è prescritto e che pertanto, in difetto delle condizioni per assolvere
l’imputato ai sensi dell’art. 129 c.p.p., è necessario dichiarare di non
doversi procedere per estinzione del reato stesso.
Peraltro, il rimettente reputa integrati
gli estremi dell’illecito penale, anche sotto l’aspetto della responsabilità
personale dell’imputato, se non altro a titolo di colpa. Quest’ultimo, prosegue
il rimettente, ha progressivamente alterato la destinazione urbanistica
agricola dell’area, imprimendole carattere residenziale. Nonostante gli atti di
assenso della pubblica amministrazione, la macroscopica violazione della normativa
urbanistica, e il difetto di un reale nesso strumentale dei beni edificati
rispetto alle esigenze agricole del terreno, convincono il giudice a quo della
colpevolezza dell’imputato.
Ciò premesso, il Tribunale osserva che,
alla luce dell’interpretazione dell’art. 44, comma 2, del d.P.R.
n. 380 del 2001, vigente, a seguito della sentenza di questa
Corte n. 239 del 2009, e seguita dalla Corte di cassazione, sarebbe
necessario disporre la confisca del bene oggetto di lottizzazione abusiva,
poiché essa non richiede inderogabilmente la condanna penale, ma il solo
accertamento della responsabilità della persona verso cui la misura è disposta.
Tuttavia, il rimettente reputa che tale
assetto, che costituisce diritto vivente, dovrebbe ritenersi superato per
effetto della sentenza
della Corte europea dei diritti dell’uomo resa nel caso Varvara
contro Italia, sopra già citata, con la quale si sarebbe stabilito che
l’art. 7 della CEDU vieta di applicare una sanzione reputata penale nei
confronti di chi non sia stato condannato.
Il giudice a quo esclude di potersi
discostare in via ermeneutica dal diritto vivente appena ricostruito,
nonostante l’«ambiguità del dato letterale» offerto dalla disposizione
impugnata, ma ritiene che esso si ponga in contrasto con l’art. 7 della CEDU,
come interpretato dalla Corte di Strasburgo, e conseguentemente con l’art. 117,
primo comma, Cost.
Secondo questa prospettiva, sarebbe
necessario superare «ogni residuo dubbio interpretativo» sull’intrinseca natura
penale della confisca, concludendo per un’attrazione di essa «nell’orbita
garantista sostanziale» assicurata dai «principi di legalità della pena e di
"colpevolezza”» di cui all’art. 25 Cost.
7.– È intervenuto in giudizio il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, e ha chiesto che la questione sia dichiarata non fondata.
L’Avvocatura ritiene che la confisca
prevista dalla norma impugnata non costituisca una sanzione penale, perché non
è diretta a punire, ma a permettere all’amministrazione di recuperare l’area lottizzata,
ripristinando la «situazione ambientale». La misura concernerebbe
esclusivamente la tutela del territorio, come si dovrebbe dedurre dal fatto che
l’amministrazione può scegliere se demolire l’opera o acquisirla al proprio
patrimonio, e dal fatto che la confisca, pur disposta dallo Stato, opera a
favore dell’ente locale.
L’Avvocatura aggiunge che la sentenza
resa nel caso Varvara contro Italia, peraltro
solo a maggioranza dei componenti della Corte europea, «desta allarme prima che
perplessità», perché pone in questione il meccanismo «consolidato» delle
sanzioni amministrative, indebolendo la risposta sanzionatoria nei confronti di
condotte assunte in danno del territorio. Ciò comporterebbe la violazione degli
artt. 9 e 42 Cost.
In ragione della prevalenza da
attribuirsi a tali disposizioni rispetto alle norme della CEDU, l’Avvocatura
reputa «nel potere della Corte costituzionale accertare e dichiarare» la
inidoneità della Convenzione nel caso di specie «ad imporre la conformazione
del diritto interno».
8.– Con memoria depositata il 18
dicembre 2014, l’Avvocatura ha ulteriormente sviluppato gli argomenti già
enunciati per sostenere l’infondatezza della questione.
Dopo aver ripercorso il contenuto delle
pronunce rese dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Sud Fondi srl e altri contro Italia e nel caso Varvara
contro Italia, l’Avvocatura rileva che il «principio di diritto nazionale»,
affermato in quest’ultima sentenza, secondo cui non sarebbe possibile applicare
una sanzione accessoria, come la confisca per la lottizzazione abusiva, in caso
di reato estinto per prescrizione o per altra causa, non sarebbe sancito dalla
Costituzione o da norme legislative dell’ordinamento nazionale e non troverebbe
riscontro nel diritto vivente di fonte giurisprudenziale. Il legislatore
nazionale avrebbe previsto, infatti, diverse ipotesi di confisca senza
condanna, subordinandole all’accertamento della responsabilità colpevole
dell’imputato. Il diritto vivente di origine giurisprudenziale avrebbe
affermato un analogo principio in tema di confisca di cui all’art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001.
La possibilità della confisca senza
condanna sarebbe prevista anche dal diritto dell’Unione europea (art. 4 della
direttiva n. 2014/42/UE) e dal diritto internazionale (art. 54, paragrafo 1,
lettera c, della Convenzione dell’Organizzazione delle Nazioni unite contro la
corruzione del 31 ottobre 2003).
Secondo l’Avvocatura, «L’applicazione
della "pena” della confisca» anche in presenza di una sentenza di
proscioglimento non costituirebbe un esito illogico o incomprensibile del
processo penale. Infatti, se si attribuisse «all’etichetta "condanna penale” il
significato di applicazione di una "pena” (intesa in senso ampio, ex art. 7, Cedu), la sentenza di proscioglimento con confisca
[sarebbe], in realtà nella sostanza, una condanna, e dunque non [costituirebbe]
un controsenso». Ricollegando all’espressione «"condanna penale” il significato
di applicazione delle sole pene formalmente considerate tali dall’ordinamento
nazionale», la confisca di cui all’art. 44, comma 2, del d.P.R.
n. 380 del 2001, non sarebbe ugualmente in «contraddizione» con il principio di
legalità, in quanto essa, nell’ordinamento italiano, costituirebbe una sanzione
amministrativa e non una pena. Il presupposto della condanna, infatti, andrebbe
inteso non come categoria astratta, «ma solo come termine evocativo
dell’accertamento della responsabilità che giustifica la sottrazione definitiva
del bene».
Pertanto, qualora si ritenga che la sentenza
della Corte europea resa nel caso Varvara «abbia
inteso per "condanna” non la categoria formale, ma solo la pronuncia evocativa
di un accertamento pieno accompagnato da tutte le garanzie difensive della
responsabilità dell’imputato», la Corte dovrebbe adottare una sentenza
interpretativa di rigetto. Ove si ritenga, invece, che tale sentenza affermi che
il legislatore «non ha previsto» o «non poteva prevedere» un caso di confisca
senza condanna, allora tale decisione, avente «valore sub-costituzionale»
sarebbe in contrasto con i principi costituzionali che riservano alla Corte
costituzionale e alla Corte di cassazione il compito di «definire il diritto
vivente interno desumibile rispettivamente dalla Costituzione o dalle altre
fonti del diritto», e con l’art. 25 Cost., che
attribuisce al legislatore ordinario la competenza a «definire i presupposti di
applicazione delle pene e dunque della confisca».
L’Avvocatura, inoltre, sottolinea che la
regola affermata dalla Corte europea nel caso Varvara,
secondo cui sarebbe priva di base legale e arbitraria la confisca disposta ai
sensi dell’art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, in
assenza di una condanna penale, rischierebbe di pregiudicare i valori
fondamentali del paesaggio, dell’ambiente, della vita e della salute, destinati
a prevalere, in considerazione del rango sub-costituzionale della Convenzione e
delle decisioni della Corte di Strasburgo. Inoltre, i valori in questione
prevarrebbero nel bilanciamento con il diritto di proprietà, il quale non
costituisce un diritto assoluto inviolabile, dovendo comunque essere rivolto ad
assicurare una funzione sociale.
L’interpretazione dell’art. 44, comma 2,
del d.P.R. n. 380 del 2001, discendente dalla
giurisprudenza europea, fornendo al diritto di proprietà una protezione
maggiore di quella sancita in Costituzione, sarebbe in contrasto con il valore
costituzionale primario del paesaggio di cui all’art. 9 Cost.
Ugualmente, sarebbe violato il diritto alla salute, nella sua accezione di
diritto ad un ambiente salubre, previsto dall’art. 32 Cost.,
e destinato a prevalere sul diritto di proprietà.
1.– Con ordinanza del 20 maggio 2014 (r.o. n. 209 del 2014), la Corte di cassazione, terza
sezione penale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 9, 32, 41, 42 e 117,
primo comma, della Costituzione, una questione di legittimità costituzionale
dell’art. 44, comma 2, del d.P.R. 6 giugno 2001, n.
380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia – Testo A), nella parte in cui vieta di applicare la confisca
urbanistica «nel caso di dichiarazione di prescrizione del reato anche qualora
la responsabilità penale sia stata accertata in tutti i suoi elementi».
La disposizione impugnata stabilisce che
«La sentenza definitiva del giudice penale che accerta che vi è stata
lottizzazione abusiva, dispone la confisca dei terreni, abusivamente lottizzati
e delle opere abusivamente costruite».
Il giudice rimettente è investito del
ricorso proposto da numerose parti contro una pronuncia della Corte d’appello
di Roma, che, rilevato il decorso del termine di prescrizione del reato, ha
ugualmente disposto la confisca urbanistica di beni oggetto di lottizzazione
abusiva, anche nei confronti dei terzi acquirenti di essi. Il giudice
rimettente, dopo avere escluso di poter assolvere gli imputati ai sensi
dell’art. 129 c.p.p., osserva che il capo della sentenza di merito concernente
la confisca meriterebbe conferma, perché non emergono dagli atti «elementi
incontrovertibili da cui possa escludersi» che gli acquirenti «fossero
qualificabili come terzi di buona fede», come avrebbe adeguatamente illustrato
la corte territoriale. Pertanto, l’art. 44, comma 2, del d.P.R.
n. 380 del 2001, secondo la lettura tradizionalmente seguita dalla
giurisprudenza di legittimità, avrebbe comportato la confisca dei lotti
unitamente alla pronuncia penale dichiarativa della prescrizione del reato.
Tuttavia, la Corte di cassazione reputa
che, per effetto della sentenza
della Corte europea dei diritti dell’uomo 29 ottobre 2013, Varvara
contro Italia (ric. n. 17475 del 2009), la norma impugnata abbia assunto il
significato che è preclusa la confisca dei beni quando non viene pronunciata
una condanna per il reato di lottizzazione abusiva.
La misura non potrebbe perciò essere più
adottata, quando il reato è prescritto, e nonostante sia stata, o possa venire,
incidentalmente, accertata la responsabilità personale di chi è soggetto alla
confisca.
Tale assetto appare al giudice a quo in
contrasto con gli artt. 2, 9, 32, 41, 42 e 117, primo comma, Cost., in quanto esso determinerebbe una forma di iperprotezione del diritto di proprietà, nonostante il bene
abusivo non assolva ad una funzione di utilità sociale (artt. 41 e 42 Cost.), con il sacrificio di principi costituzionali di
rango costituzionalmente superiore, ovvero del diritto a sviluppare la
personalità umana in un ambiente salubre (artt. 2, 9 e 32 Cost.).
2.– Con ordinanza del 17 gennaio 2014 (r.o. n. 101 del 2014), il Tribunale ordinario di Teramo, in
composizione monocratica, ha sollevato una questione di legittimità
costituzionale dell’art. 44, comma 2, del d.P.R. n.
380 del 2001, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost.,
quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in
avanti «CEDU»), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva
con la legge 4 agosto 1955, n. 848, nella parte in cui consente che la confisca
urbanistica dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente
costruite venga disposta «anche in una sentenza che dichiari estinto il reato
per intervenuta prescrizione».
Il rimettente premette di procedere
penalmente per il reato di lottizzazione abusiva nei confronti di un imputato,
la cui responsabilità è stata dimostrata nel corso del dibattimento. Tuttavia,
aggiunge, è maturata la prescrizione, con la conseguenza che si impone una
pronuncia di non doversi procedere. In base al diritto vivente formatosi sulla
norma in questione, sarebbe parimenti doveroso disporre la confisca dei beni
oggetto di lottizzazione, posto che a tal fine è sufficiente che sia stata
accertata la responsabilità di colui che la subisce, mentre non è richiesta la
condanna penale. La lettera della disposizione impugnata, infatti, non menziona
tale condanna, ma il solo accertamento della lottizzazione abusiva.
Il rimettente reputa, però, che tale
ultima regola, fino ad oggi pacifica, sia entrata in collisione con l’art. 7
della CEDU, nell’interpretazione da ultimo adottata con la ricordata sentenza
Varvara contro Italia. Con questa decisione, la
Corte di Strasburgo avrebbe escluso la conformità al principio di legalità in
materia penale di una confisca urbanistica applicata unitamente ad una sentenza
dichiarativa della estinzione del reato per prescrizione, e dunque in assenza
di condanna.
Tale contrasto è all’origine
dell’odierno dubbio di legittimità costituzionale, posto che il giudice
rimettente esclude di poterlo risolvere in via interpretativa.
3.– Le questioni sono connesse, giacché
vertono sulla medesima disposizione, e pongono problemi affini. È perciò
opportuno disporre la riunione dei giudizi, affinché possano essere decisi con
un’unica pronuncia.
4.– La questione di legittimità
costituzionale sollevata dalla Corte di cassazione è inammissibile, anzitutto
perché erroneamente ha per oggetto l’art. 44, comma, 2, del d.P.R.
n. 380 del 2001, anziché la legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione
della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale
alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952), nella parte in cui
con essa si è conferita esecuzione ad una norma reputata di dubbia
costituzionalità, ovvero al divieto di applicare la confisca urbanistica se non
unitamente ad una pronuncia di condanna penale.
Questa Corte ha, infatti, già chiarito
che il carattere sub-costituzionale della CEDU impone un raffronto tra le
regole da essa ricavate e la Costituzione, e che l’eventuale dubbio di
costituzionalità da ciò derivato, non potendosi incidere sulla legittimità
della Convenzione, deve venire prospettato con riferimento alla legge nazionale
di adattamento (sentenze n. 349 e n. 348 del 2007;
in seguito, sentenza
n. 311 del 2009).
Il rimettente è convinto che, a seguito
della sentenza
Varvara contro Italia, l’art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, debba assumere, in via ermeneutica,
il significato che la Corte di Strasburgo gli avrebbe attribuito, e che,
proprio per effetto di un simile processo adattativo, tale significato si
presti a rilievi di costituzionalità.
Questo modo di argomentare è errato
sotto un duplice aspetto.
In primo luogo, esso presuppone che
competa alla Corte di Strasburgo determinare il significato della legge
nazionale, quando, al contrario, il giudice europeo si trova a valutare se essa,
come definita e applicata dalle autorità nazionali, abbia, nel caso sottoposto
a giudizio, generato violazioni delle superiori previsioni della CEDU. È
pertanto quest’ultima, e non la legge della Repubblica, a vivere nella
dimensione ermeneutica che la Corte EDU adotta in modo costante e consolidato.
Naturalmente, non è in discussione che,
acquisita una simile dimensione, competa al giudice di assegnare alla
disposizione interna un significato quanto più aderente ad essa (sentenza n. 239 del
2009), a condizione che non si riveli del tutto eccentrico rispetto alla
lettera della legge (sentenze n. 1 del 2013 e
n. 219 del 2008).
Tuttavia, e in secondo luogo, sfugge al
rimettente che il dovere del giudice comune di interpretare il diritto interno in
senso conforme alla CEDU, appena ribadito, è, ovviamente, subordinato al
prioritario compito di adottare una lettura costituzionalmente conforme, poiché
tale modo di procedere riflette il predominio assiologico della Costituzione
sulla CEDU (sentenze n. 349 e n. 348 del 2007).
Il più delle volte, l’auspicabile
convergenza degli operatori giuridici e delle Corti costituzionali e
internazionali verso approcci condivisi, quanto alla tutela dei diritti
inviolabili dell’uomo, offrirà una soluzione del caso concreto capace di
conciliare i principi desumibili da entrambe queste fonti. Ma, nelle ipotesi
estreme in cui tale via appaia sbarrata, è fuor di dubbio che il giudice debba
obbedienza anzitutto alla Carta repubblicana.
Nel caso sottoposto al giudizio di
questa Corte, perciò, il giudice a quo non avrebbe potuto assegnare, in sede
interpretativa, all’art. 44, comma 2, del d.P.R. n.
380 del 2001, un significato che la stessa Corte di cassazione reputa
incostituzionale. La pretesa antinomia venutasi a creare tra il diritto
nazionale interpretato in senso costituzionalmente orientato, e dunque fermo
nell’escludere che la confisca urbanistica esiga una condanna penale, e la
CEDU, che a parere del rimettente esprimerebbe una regola opposta, avrebbe
perciò dovuto essere risolta ponendo in dubbio la legittimità costituzionale
della legge di adattamento, in quanto essa permette l’ingresso nell’ordinamento
italiano di una simile regola.
5.– La questione di legittimità
costituzionale proposta dalla Corte di cassazione è inammissibile anche per
difetto di motivazione sulla rilevanza.
Come si è visto, il rimettente ritiene
che solo per effetto della sentenza
Varvara sarebbe oramai preclusa l’applicazione
della confisca urbanistica nei confronti dei terzi acquirenti dei beni
lottizzati. In assenza di questa sopravvenienza, invece, avrebbe dovuto essere
confermato il capo della sentenza di merito che aveva ordinato la misura
ablativa, nonostante la prescrizione del reato. La motivazione in ordine alla
applicabilità della regola di diritto tratta dalla giurisprudenza europea, e
oggetto del dubbio di costituzionalità, è dunque legata al presupposto secondo
cui, nel caso di specie, essa impedisce un effetto giuridico nel processo
principale, che altrimenti si sarebbe prodotto. Tuttavia, è proprio tale
motivazione a rivelarsi carente, per le ragioni che seguono.
Come è noto, la confisca urbanistica
prevista dalla norma impugnata è una sanzione amministrativa (ordinanza n. 187
del 1998), che per lungo tempo la giurisprudenza nazionale ha ritenuto di
poter disporre sulla base del solo fatto obbiettivo costituito dal carattere
abusivo dell’opera, e dunque senza che fosse necessario muovere un addebito di
responsabilità nei confronti di chi subiva la misura.
Questa Corte ha già avuto modo di
rilevare (sentenza
n. 239 del 2009) che la situazione è mutata in seguito alla sentenza
della Corte di Strasburgo 20 gennaio 2009, Sud Fondi srl
e altri contro Italia, con la quale si è deciso che la confisca urbanistica
costituisce sanzione penale ai sensi dell’art. 7 della CEDU e può pertanto
venire disposta solo nei confronti di colui la cui responsabilità sia stata
accertata in ragione di un legame intellettuale (coscienza e volontà) con i
fatti.
Si è aggiunto che, nel nostro
ordinamento, l’accertamento ben può essere contenuto in una sentenza penale di
proscioglimento dovuto a prescrizione del reato, la quale, pur non avendo
condannato l’imputato, abbia comunque adeguatamente motivato in ordine alla
responsabilità personale di chi è soggetto alla misura ablativa, sia esso
l’autore del fatto, ovvero il terzo di mala fede acquirente del bene (sentenze n. 239 del 2009
e n. 85 del 2008).
Naturalmente, non spetta a questa Corte
soffermarsi sui limiti che l’ordinamento processuale può, di volta in volta e a
seconda della fase in cui versa il processo, imporre al giudice penale quanto
alle attività necessarie per giungere all’accertamento della responsabilità,
benché si possa ravvisare in giurisprudenza una linea di tendenza favorevole ad
un ampliamento di essi (ad esempio, Corte di cassazione, sezioni unite penali,
10 luglio 2008, n. 38834). Resta il fatto che, di per sé, non è escluso che il
proscioglimento per prescrizione possa accompagnarsi alla più ampia motivazione
sulla responsabilità, ai soli fini della confisca del bene lottizzato (misura,
quest’ultima, che il giudice penale è tenuto a disporre con la sentenza
definitiva che accerta che vi è stata lottizzazione abusiva ai sensi dell’art.
44, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001).
È chiaro che, una volta recepito il
principio enunciato dalla sentenza
Sud Fondi srl e altri contro Italia, ed interpretato
alla luce di esso l’art. 44, comma 2, del d.P.R. n.
380 del 2001, tale motivazione non costituisce una facoltà del giudice, ma un
obbligo dal cui assolvimento dipende la legalità della confisca.
Sia che la misura colpisca l’imputato,
sia che essa raggiunga il terzo acquirente di mala fede estraneo al reato, si
rende perciò necessario che il giudice penale accerti la responsabilità delle
persone che la subiscono, attenendosi ad adeguati standard probatori e
rifuggendo da clausole di stile che non siano capaci di dare conto
dell’effettivo apprezzamento compiuto.
Ora, tali considerazioni chiariscono che
il terzo acquirente di buona fede, che ha a buon titolo confidato nella
conformità del bene alla normativa urbanistica, non può in nessun caso subire
la confisca. Va poi da sé che l’onere di dimostrare la mala fede del terzo
grava, nel processo penale, sulla pubblica accusa, posto che una "pena”, ai
sensi dell’art. 7 della CEDU, può essere inflitta solo vincendo la presunzione
di non colpevolezza formulata dall’art. 6, comma 2, della CEDU (ex plurimis, Corte
europea dei diritti dell’uomo, sentenza 1° marzo 2007, Geerings
contro Paesi Bassi).
Tornando al caso oggetto di giudizio, si
è già ricordato che la Corte di cassazione è giunta alla conclusione
dell’applicabilità della confisca nei confronti del terzo acquirente (impedita
dalla sopravvenienza del divieto che sarebbe stato enunciato con la sentenza
Varvara), osservando che non erano emersi dagli
atti elementi incontrovertibili, che permettessero di escludere che i terzi
acquirenti fossero in buona fede, e rinviando sul punto a quanto dedotto dalla
Corte d’appello con la sentenza di merito.
Ora, fermo il pacifico divieto di
integrare per relationem la motivazione
dell’ordinanza di rimessione (ex plurimis, ordinanza n. 33 del
2014), è evidente che il giudice a quo, con tali espressioni, non ha
affatto dato conto del superamento della presunzione di non colpevolezza del
terzo, ma ha adottato un criterio di giudizio esattamente opposto, e perciò
inidoneo a sorreggere la confisca. Ai fini della motivazione sulla rilevanza
della questione, invece, sarebbe stato necessario argomentare il raggiungimento
della prova della responsabilità del terzo acquirente, perché, seguendo il
ragionamento del rimettente, solo in tal caso vi sarebbe stata la necessità di
applicare la contestata regola di diritto tratta dal caso Varvara.
Nell’ipotesi opposta, al contrario, la
confisca non avrebbe potuto essere disposta neppure in applicazione del
"diritto vivente” che ha preceduto quest’ultima pronuncia della Corte EDU.
6.– Un’ulteriore causa di
inammissibilità della questione sollevata dalla Corte di cassazione, e anche di
quella sollevata dal Tribunale ordinario di Teramo, deriva dal fatto che
entrambe sono basate su un duplice, erroneo presupposto interpretativo.
I giudici rimettenti, pur divergendo in
ordine agli effetti che la sentenza
Varvara dovrebbe produrre nell’ordinamento
giuridico nazionale, sono convinti che con tale pronuncia la Corte EDU abbia
enunciato un principio di diritto tanto innovativo, quanto vincolante per il
giudice chiamato ad applicarlo, raggiungendo un nuovo approdo ermeneutico nella
lettura dell’art. 7 della CEDU.
Il primo fraintendimento imputabile ai
giudici a quibus verte sul significato che essi hanno
tratto dalla sentenza della Corte di Strasburgo.
Nonostante le questioni siano state
sollevate, in conformità ai casi oggetto dei giudizi principali, con specifico
riferimento al divieto di adottare una misura riconducibile all’art. 7 CEDU
unitamente ad una sentenza che abbia accertato la prescrizione del reato, è
chiaro che il principio di diritto selezionato dai rimettenti mostra un respiro
ben più ampio. La Corte europea, in definitiva, avrebbe affermato che, una
volta qualificata una sanzione ai sensi dell’art. 7 della CEDU, e dunque dopo
averla reputata entro questo ambito una "pena”, essa non potrebbe venire
inflitta che dal giudice penale, attraverso la sentenza di condanna per un reato.
Per effetto di ciò, la confisca urbanistica, che fino ad oggi continuava ad
operare sul piano interno a titolo di sanzione amministrativa, irrogabile
anzitutto dalla pubblica amministrazione, pur con l’arricchimento delle
garanzie offerte dall’art. 7 della CEDU, sarebbe stata integralmente
riassorbita nell’area del diritto penale, o, per dirlo in altri termini, alle
tutele sostanziali assicurate dall’art. 7 si sarebbe aggiunto un ulteriore
presidio formale, costituito dalla riserva di competenza del giudice penale in
ordine all’applicazione della misura a titolo di "pena”, e perciò solo
unitamente alla pronuncia di condanna.
Ne seguirebbe un corollario: l’illecito
amministrativo, che il legislatore distingue con ampia discrezionalità dal
reato (ordinanza
n. 159 del 1994; in seguito, sentenze n. 273 del 2010,
n. 364 del 2004
e n. 317 del 1996;
ordinanze n. 212
del 2004 e n.
177 del 2003), appena fosse tale da corrispondere, in forza della CEDU,
agli autonomi criteri di qualificazione della "pena”, subirebbe l’attrazione
del diritto penale dello Stato aderente. Si sarebbe così operata una saldatura tra
il concetto di sanzione penale a livello nazionale e quello a livello europeo.
Per effetto di ciò, l’area del diritto penale sarebbe destinata ad allargarsi
oltre gli apprezzamenti discrezionali dei legislatori, persino a fronte di
sanzioni lievi, ma per altri versi pur sempre costituenti una "pena” ai sensi
dell’art. 7 della CEDU (Grande
Camera, sentenza 23 novembre 2006, Jussila contro
Finlandia).
I rimettenti, nell’enunciazione di una
simile premessa, non colgono che essa si mostra di dubbia compatibilità sia con
la Costituzione, sia con la stessa CEDU, per come quest’ultima vive attraverso
le pronunce della Corte di Strasburgo.
6.1.– Su questo piano, non può sfuggire che
l’autonomia dell’illecito amministrativo dal diritto penale, oltre che ad impingere nel più ampio grado di discrezionalità del
legislatore nel configurare gli strumenti più efficaci per perseguire la
«effettività dell’imposizione di obblighi o di doveri» (sentenza n. 317 del
1996), corrisponde altresì, sul piano delle garanzie costituzionali, al
«principio di sussidiarietà, per il quale la criminalizzazione, costituendo
l’ultima ratio, deve intervenire soltanto allorché, da parte degli altri rami
dell’ordinamento, non venga offerta adeguata tutela ai beni da garantire» (sentenza n. 487 del
1989; in seguito, sentenze n. 447 del 1998
e n. 317 del 1996).
Difatti, «Le esigenze costituzionali di tutela non si esauriscono […] nella
(eventuale) tutela penale, ben potendo invece essere soddisfatte con diverse
forme di precetti e di sanzioni» (sentenza n. 447 del
1998).
Tale principio, che si pone alla base
delle scelte di politica criminale operate dal legislatore, si coniuga
armonicamente, del resto, con lo sviluppo della giurisprudenza europea
sull’autonomia dei criteri di valutazione della natura penale di una sanzione,
ai fini dell’estensione delle garanzie offerte dall’art. 7 della CEDU, rispetto
alla qualificazione che l’ordinamento nazionale offre della medesima sanzione.
Come è noto, la Corte EDU, fin dalle
sentenze 8
giugno 1976, Engel contro Paesi Bassi, e 21
febbraio 1984, Öztürk contro Germania, ha
elaborato peculiari indici per qualificare una sanzione come una "pena” ai
sensi dell’art. 7 della CEDU, proprio per scongiurare che i vasti processi di
decriminalizzazione, avviati dagli Stati aderenti fin dagli anni 60 del secolo
scorso, potessero avere l’effetto di sottrarre gli illeciti, così
depenalizzati, alle garanzie sostanziali assicurate dagli artt. 6 e 7 della
CEDU (sentenza
21 febbraio 1984, Öztürk contro Germania).
Non è stata perciò posta in discussione
la discrezionalità dei legislatori nazionali di arginare l’ipertrofia del
diritto penale attraverso il ricorso a strumenti sanzionatori reputati più
adeguati, e per la natura della sanzione comminata, e per i profili
procedimentali semplificati connessi alla prima sede amministrativa di
inflizione della sanzione. Piuttosto, si è inteso evitare che per tale via
andasse disperso il fascio delle tutele che aveva storicamente accompagnato lo
sviluppo del diritto penale, e alla cui difesa la CEDU è preposta.
In questo doppio binario, ove da un lato
scorrono senza opposizione le scelte di politica criminale dello Stato, ma
dall’altro ne sono frenati gli effetti di detrimento delle garanzie
individuali, si manifesta in modo vivido la natura della CEDU, quale strumento
preposto, pur nel rispetto della discrezionalità legislativa degli Stati, a
superare i profili di inquadramento formale di una fattispecie, per valorizzare
piuttosto la sostanza dei diritti umani che vi sono coinvolti, e salvaguardarne
l’effettività.
È infatti principio consolidato che la "pena”
può essere applicata anche da un’autorità amministrativa, sia pure a condizione
che vi sia facoltà di impugnare la decisione innanzi ad un tribunale che offra
le garanzie dell’art. 6 della CEDU, ma che non esercita necessariamente la
giurisdizione penale (da ultimo, sentenza
4 marzo 2014, Grande Stevens e altri contro Italia, con riferimento ad una
sanzione reputata grave). Si è aggiunto che la "pena” può conseguire alla
definizione di un procedimento amministrativo, pur in assenza di una
dichiarazione formale di colpevolezza da parte della giurisdizione penale (sentenza
11 gennaio 2007, Mamidakis contro Grecia).
È perciò da dubitare che la sentenza
Varvara si sia davvero incamminata sulla via
indicata da entrambi i giudici a quibus, introducendo
un elemento disarmonico nel più ampio contesto della CEDU; né i rimettenti si
sono adoperati per risolvere un simile dubbio, impiegando gli strumenti di cui
dispongono a tal fine.
I canoni dell’interpretazione
costituzionalmente e convenzionalmente orientata debbono infatti trovare
applicazione anche nei confronti delle sentenze della Corte EDU, quando di
esse, anche per le ragioni che si diranno, non si è in grado di cogliere con
immediatezza l’effettivo principio di diritto che il giudice di Strasburgo ha
inteso affermare per risolvere il caso concreto (sentenza n. 236 del
2011).
In tali evenienze, non comuni ma pur
sempre possibili, a fronte di una pluralità di significati potenzialmente
compatibili con il significante, l’interprete è tenuto a collocare la singola
pronuncia nel flusso continuo della giurisprudenza europea, per ricavarne un
senso che possa conciliarsi con quest’ultima, e che, comunque, non sia di
pregiudizio per la Costituzione.
Nell’ipotesi definita dalla sentenza
Varvara, questa Corte reputa che una tale
attività per i rimettenti fosse doverosa e che il mancato esaurimento di essa
li abbia indotti ad attribuire a questa pronuncia una portata che era invece
tutta da verificare, anche alla luce del caso concreto.
6.2.– Questa Corte ha già affermato che
«Ancorché tenda ad assumere un valore generale e di principio, la sentenza
pronunciata dalla Corte di Strasburgo […] resta pur sempre legata alla
concretezza della situazione che l’ha originata» (sentenza n. 236 del
2011).
Nel caso Varvara, la Corte EDU, dopo aver preso atto che la
confisca era stata disposta in ragione dell’oggettivo contrasto del piano di
lottizzazione con la normativa urbanistica (paragrafo 22), e nonostante il
reato fosse stato dichiarato estinto per prescrizione, ha concluso che
l’applicazione al ricorrente di una "sanzione penale”, quando il reato era
estinto e la sua responsabilità non era stata accertata con una sentenza di
condanna, contrasta con il principio di legalità enunciato dall’art. 7 della
CEDU (paragrafo 72). Questa disposizione infatti non si concilierebbe con la
punizione di un imputato, il cui processo non si è concluso con una condanna
(paragrafo 61).
La questione da risolvere, secondo i
criteri appena enunciati dell’interpretazione costituzionalmente e
convenzionalmente conforme, consiste allora nel decidere se il giudice europeo,
quando ragiona espressamente in termini di "condanna”, abbia a mente la forma
del pronunciamento del giudice, ovvero la sostanza che necessariamente si
accompagna a tale pronuncia, laddove essa infligga una sanzione criminale ai
sensi dell’art. 7 della CEDU, vale a dire l’accertamento della responsabilità.
Se si fosse realizzata quest’ultima
alternativa, non vi sarebbe ragione di dubitare che essa corrisponda ad una
regola già impostasi nell’ordinamento giuridico nazionale (sentenza n. 239 del
2009), la cui osservanza dipende perciò non dalla normativa vigente, che la
contempla, ma dal modo con cui essa trova applicazione di volta in volta.
Parimenti, si tratterebbe di un
principio tutt’altro che innovativo, e del tutto consono al più tradizionale
filone della giurisprudenza europea, che, in base alla presunzione di non colpevolezza,
non permette l’applicazione di una pena, quando la responsabilità di chi la
subisce non sia stata legalmente accertata (tra le molte, sentenza
1° marzo 2007, Geerings contro Paesi Bassi, in
materia di confisca). Del resto, l’assenza di significativi profili di
innovazione ben spiegherebbe per quale ragione sia stata respinta la richiesta
del Governo della Repubblica di sottoporre il caso Varvara al giudizio della Grande Camera.
Che sia proprio l’accertamento di
responsabilità a premere al giudice europeo è ben argomentabile sulla base sia del
testo, sia del tenore logico della motivazione svolta con la pronuncia
Varvara. Qui si sottolinea, infatti, che l’art. 7
della CEDU esige una dichiarazione di responsabilità da parte dei giudici
nazionali, che possa permettere di addebitare il reato (paragrafo 71), poiché
non si può avere una pena senza l’accertamento di una responsabilità personale
(paragrafo 69). Non è in definitiva concepibile un sistema che punisca coloro
che non sono responsabili (paragrafo 66), in quanto non dichiarati tali con una
sentenza di colpevolezza (paragrafo 67).
Simili espressioni, linguisticamente
aperte ad un’interpretazione che non costringa l’accertamento di responsabilità
nelle sole forme della condanna penale, ben si accordano sul piano logico con
la funzione, propria della Corte EDU, di percepire la lesione del diritto umano
nella sua dimensione concreta, quale che sia stata la formula astratta con cui
il legislatore nazionale ha qualificato i fatti.
Come si è già ricordato,
nell’ordinamento giuridico italiano la sentenza che accerta la prescrizione di
un reato non denuncia alcuna incompatibilità logica o giuridica con un pieno
accertamento di responsabilità. Quest’ultimo, anzi, è doveroso qualora si
tratti di disporre una confisca urbanistica. Decidere se l’accertamento vi sia
stato, oppure no, è questione di fatto, dalla cui risoluzione dipende la
conformità della confisca rispetto alla CEDU (oltre che al diritto nazionale).
Ed è appunto questo compito, che istituzionalmente le spetta in ultima istanza,
che la Corte di Strasburgo ha assolto nel caso di specie, concludendo per la
violazione del diritto, dato che era mancato un congruo accertamento di
responsabilità.
Né va tralasciato che il giudice europeo
deve essere messo nella condizione di valutare con cognizione la natura della
sentenza dichiarativa della prescrizione, affinché sia posto in luce il
contenuto di accertamento che essa può assumere (ed ha eventualmente assunto
nel caso a giudizio) ove il legislatore lo richieda quale condizione per
applicare contestualmente una sanzione amministrativa.
Si tratta quindi non della forma della
pronuncia, ma della sostanza dell’accertamento. La stessa Corte di Strasburgo,
pronunciandosi in altra occasione sulla compatibilità con la presunzione di non
colpevolezza di una condanna alle spese adottata nonostante la prescrizione del
reato, ha infatti escluso di poter decidere la controversia sulla base della
sola natura in rito della sentenza adottata dal giudice nazionale, senza invece
valutare come quest’ultimo avesse motivato in concreto (sentenza
25 marzo 1983, Minelli contro Svizzera).
Questa Corte deve concludere che i
giudici a quibus non solo non erano tenuti ad
estrapolare dalla sentenza
Varvara il principio di diritto dal quale muovono
gli odierni incidenti di legittimità costituzionale, ma avrebbero dovuto
attestarsi su una lettura ad esso contraria. Quest’ultima è infatti compatibile
con il testo della decisione e gli estremi della vicenda decisa, più armonica
rispetto alla tradizionale logica della giurisprudenza europea, e comunque
rispettosa del principio costituzionale di sussidiarietà in materia penale,
nonché della discrezionalità legislativa nella politica sanzionatoria degli
illeciti, con eventuale opzione per la (interna) natura amministrativa della
sanzione.
Le garanzie che l’art. 7 della CEDU
offre rispetto alla confisca urbanistica sono certamente imposte, nell’ottica
della Corte di Strasburgo, dall’eccedenza che tale misura può produrre rispetto
al ripristino della legalità violata (sentenza
20 gennaio 2009, Sud Fondi srl e altri contro Italia),
a propria volta frutto delle modalità con cui l’istituto è configurato nel
nostro ordinamento.
Esse però non pongono in ombra che la potestà
sanzionatoria amministrativa, alla quale tale misura è affidata prima
dell’eventuale intervento del giudice penale, ben si lega con l’interesse
pubblico alla «programmazione edificatoria del territorio» (sentenza n. 148 del
1994), alla cui cura è preposta la pubblica amministrazione. Un interesse,
vale la pena di aggiungere, che non è affatto estraneo agli orizzonti della
CEDU (sentenza
8 novembre 2005, Saliba contro Malta).
Allo stato, e salvo ulteriori sviluppi
della giurisprudenza europea (in seguito al deferimento alla Grande Camera di
controversie attinenti a confische urbanistiche nazionali, nei ricorsi n.
19029/11, n. 34163/07 e n. 1828/06), deve perciò ritenersi erroneo il
convincimento, formulato dai rimettenti come punto di partenza dei dubbi di
costituzionalità, che la sentenza
Varvara sia univocamente interpretabile nel senso
che la confisca urbanistica possa essere disposta solo unitamente ad una
sentenza di condanna da parte del giudice per il reato di lottizzazione
abusiva.
7.– Entrambe le questioni sono altresì
inammissibili, perché i rimettenti erroneamente hanno ritenuto di essere
obbligati a recepire il principio di diritto che avevano ricavato dalla sentenza
Varvara. In tal modo essi hanno attribuito
all’art. 7 della CEDU un significato non immediatamente desumibile da tale
disposizione, benché la pronuncia appena citata non fosse, con ogni evidenza,
espressione di un’interpretazione consolidata nell’ambito della giurisprudenza
europea.
Questa Corte non può che ribadire quanto
affermato fin dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007,
ovvero che alla Corte di Strasburgo compete di pronunciare la «parola ultima» (sentenza n. 349 del
2007) in ordine a tutte le questioni concernenti l’interpretazione e
l’applicazione della Convenzione e dei suoi Protocolli, secondo quanto le parti
contraenti hanno stabilito in forza dell’art. 32 della CEDU. Si tratta di una
«funzione interpretativa eminente» (sentenza n. 348 del
2007), con la quale si assicura che, all’esito di un confronto ermeneutico,
tale da coinvolgere nel modo più ampio possibile la comunità degli interpreti,
sia ricavata dalla disposizione convenzionale una norma idonea a garantire la
certezza del diritto e l’uniformità presso gli Stati aderenti di un livello
minimo di tutela dei diritti dell’uomo.
Tuttavia, sarebbe errato, e persino in
contrasto con queste premesse, ritenere che la CEDU abbia reso gli operatori
giuridici nazionali, e in primo luogo i giudici comuni, passivi ricettori di un
comando esegetico impartito altrove nelle forme della pronuncia
giurisdizionale, quali che siano le condizioni che lo hanno determinato.
Il giudice nazionale non può spogliarsi
della funzione che gli è assegnata dall’art. 101, secondo comma, Cost., con il quale si «esprime l’esigenza che il giudice
non riceva se non dalla legge l’indicazione delle regole da applicare nel
giudizio, e che nessun’altra autorità possa quindi dare al giudice ordini o
suggerimenti circa il modo di giudicare in concreto» (sentenza n. 40 del
1964; in seguito, sentenza n. 234 del
1976), e ciò vale anche per le norme della CEDU, che hanno ricevuto
ingresso nell’ordinamento giuridico interno grazie a una legge ordinaria di
adattamento.
Certamente, il giudice comune non potrà
negare di dar corso alla decisione promanante dalla Corte di Strasburgo che
abbia definito la causa di cui tale giudice torna ad occuparsi, quando
necessario, perché cessino, doverosamente, gli effetti lesivi della violazione
accertata (sentenza
n. 210 del 2013). In tale ipotesi «la pronunzia giudiziaria si mantiene
sotto l’imperio della legge anche se questa dispone che il giudice formi il suo
convincimento avendo riguardo a ciò che ha deciso altra sentenza emessa nella
stessa causa» (sentenza
n. 50 del 1970).
Quando, invece, si tratta di operare al
di fuori di un simile presupposto, resta fermo che «L’applicazione e
l’interpretazione del sistema di norme è attribuito beninteso in prima battuta
ai giudici degli Stati membri» (sentenza n. 349 del
2007).
Ciò non vuol dire, però, che questi
ultimi possano ignorare l’interpretazione della Corte EDU, una volta che essa
si sia consolidata in una certa direzione. Corrisponde infatti a una primaria
esigenza di diritto costituzionale che sia raggiunto uno stabile assetto
interpretativo sui diritti fondamentali, cui è funzionale, quanto alla CEDU, il
ruolo di ultima istanza riconosciuto alla Corte di Strasburgo.
Quest’ultimo, poggiando sull’art. 117,
primo comma, Cost., e comunque sull’interesse di
dignità costituzionale appena rammentato, deve coordinarsi con l’art. 101,
secondo comma, Cost., nel punto di sintesi tra
autonomia interpretativa del giudice comune e dovere di quest’ultimo di
prestare collaborazione, affinché il significato del diritto fondamentale cessi
di essere controverso. È in quest’ottica che si spiega il ruolo della Corte
EDU, in quanto permette di soddisfare l’obiettivo di certezza e stabilità del
diritto.
Questa Corte ha già precisato, e qui
ribadisce, che il giudice comune è tenuto ad uniformarsi alla «giurisprudenza
europea consolidatasi sulla norma conferente» (sentenze n. 236 del 2011
e n. 311 del
2009), «in modo da rispettare la sostanza di quella giurisprudenza» (sentenza n. 311 del
2009; nello stesso senso, sentenza n. 303 del
2011), fermo il margine di apprezzamento che compete allo Stato membro
(sentenze n. 15
del 2012 e n.
317 del 2009).
È, pertanto, solo un "diritto
consolidato”, generato dalla giurisprudenza europea, che il giudice interno è tenuto
a porre a fondamento del proprio processo interpretativo, mentre nessun obbligo
esiste in tal senso, a fronte di pronunce che non siano espressive di un
orientamento oramai divenuto definitivo.
Del resto, tale asserzione non solo si
accorda con i principi costituzionali, aprendo la via al confronto costruttivo
tra giudici nazionali e Corte EDU sul senso da attribuire ai diritti dell’uomo,
ma si rivela confacente rispetto alle modalità organizzative del giudice di
Strasburgo. Esso infatti si articola per sezioni, ammette l’opinione
dissenziente, ingloba un meccanismo idoneo a risolvere un contrasto interno di
giurisprudenza, attraverso la rimessione alla Grande Camera.
È perciò la stessa CEDU a postulare il
carattere progressivo della formazione del diritto giurisprudenziale,
incentivando il dialogo fino a quando la forza degli argomenti non abbia
condotto definitivamente ad imboccare una strada, anziché un’altra. Né tale
prospettiva si esaurisce nel rapporto dialettico tra i componenti della Corte di
Strasburgo, venendo invece a coinvolgere idealmente tutti i giudici che devono
applicare la CEDU, ivi compresa la Corte costituzionale. Si tratta di un
approccio che, in prospettiva, potrà divenire ulteriormente fruttuoso alla luce
del Protocollo addizionale n. 16 alla Convenzione stessa, ove il parere
consultivo che la Corte EDU potrà rilasciare, se richiesta, alle giurisdizioni
nazionali superiori è espressamente definito non vincolante (art. 5). Questo
tratto conferma un’opzione di favore per l’iniziale confronto fondato
sull’argomentare, in un’ottica di cooperazione e di dialogo tra le Corti,
piuttosto che per l’imposizione verticistica di una linea interpretativa su
questioni di principio che non hanno ancora trovato un assetto
giurisprudenziale consolidato e sono perciò di dubbia risoluzione da parte dei
giudici nazionali.
La nozione stessa di giurisprudenza
consolidata trova riconoscimento nell’art. 28 della CEDU, a riprova che, anche
nell’ambito di quest’ultima, si ammette che lo spessore di persuasività delle
pronunce sia soggetto a sfumature di grado, fino a quando non emerga un «well-established case-law» che «normally
means case-law which has been consistently
applied by a Chamber»,
salvo il caso eccezionale su questione di principio, «particularly
when the Grand Chamber has rendered
it» (così le spiegazioni all’art. 8 del Protocollo n.
14, che ha modificato l’art. 28 della CEDU).
Non sempre è di immediata evidenza se
una certa interpretazione delle disposizioni della CEDU abbia maturato a Strasburgo
un adeguato consolidamento, specie a fronte di pronunce destinate a risolvere
casi del tutto peculiari, e comunque formatesi con riguardo all’impatto
prodotto dalla CEDU su ordinamenti giuridici differenti da quello italiano.
Nonostante ciò, vi sono senza dubbio indici idonei ad orientare il giudice
nazionale nel suo percorso di discernimento: la creatività del principio
affermato, rispetto al solco tradizionale della giurisprudenza europea; gli
eventuali punti di distinguo, o persino di contrasto, nei confronti di altre
pronunce della Corte di Strasburgo; la ricorrenza di opinioni dissenzienti,
specie se alimentate da robuste deduzioni; la circostanza che quanto deciso
promana da una sezione semplice, e non ha ricevuto l’avallo della Grande
Camera; il dubbio che, nel caso di specie, il giudice europeo non sia stato
posto in condizione di apprezzare i tratti peculiari dell’ordinamento giuridico
nazionale, estendendovi criteri di giudizio elaborati nei confronti di altri
Stati aderenti che, alla luce di quei tratti, si mostrano invece poco
confacenti al caso italiano.
Quando tutti, o alcuni di questi indizi
si manifestano, secondo un giudizio che non può prescindere dalle peculiarità
di ogni singola vicenda, non vi è alcuna ragione che obblighi il giudice comune
a condividere la linea interpretativa adottata dalla Corte EDU per decidere una
peculiare controversia, sempre che non si tratti di una "sentenza pilota” in
senso stretto.
Solo nel caso in cui si trovi in
presenza di un "diritto consolidato” o di una "sentenza pilota”, il giudice
italiano sarà vincolato a recepire la norma individuata a Strasburgo, adeguando
ad essa il suo criterio di giudizio per superare eventuali contrasti rispetto
ad una legge interna, anzitutto per mezzo di «ogni strumento ermeneutico a sua
disposizione», ovvero, se ciò non fosse possibile, ricorrendo all’incidente di
legittimità costituzionale (sentenza n. 80 del
2011). Quest’ultimo assumerà di conseguenza, e in linea di massima, quale
norma interposta il risultato oramai stabilizzatosi della giurisprudenza
europea, dalla quale questa Corte ha infatti ripetutamente affermato di non
poter «prescindere» (ex plurimis, sentenza n. 303 del
2011), salva l’eventualità eccezionale di una verifica negativa circa la
conformità di essa, e dunque della legge di adattamento, alla Costituzione (ex plurimis, sentenza n. 264 del
2012), di stretta competenza di questa Corte.
Mentre, nel caso in cui sia il giudice
comune ad interrogarsi sulla compatibilità della norma convenzionale con la
Costituzione, va da sé che questo solo dubbio, in assenza di un "diritto
consolidato”, è sufficiente per escludere quella stessa norma dai potenziali
contenuti assegnabili in via ermeneutica alla disposizione della CEDU, così
prevenendo, con interpretazione costituzionalmente orientata, la proposizione
della questione di legittimità costituzionale.
7.1.– I rimettenti sono consapevoli che
la sentenza
Varvara, secondo la lettura che ne hanno dato,
non riflette alcun orientamento consolidato della giurisprudenza europea, e,
anzi, presuppongono dichiaratamente la carica innovativa dell’affermata
incompatibilità con l’art. 7 della CEDU di un provvedimento di confisca
adottato con una sentenza che contestualmente abbia accertato la responsabilità
personale, anziché mediante una sentenza penale di condanna.
In questo contesto, entrambi i
rimettenti avrebbero dovuto vagliare i profili di costituzionalità implicati
dalla vicenda, muovendo dal presupposto che la sentenza
Varvara non li vincolasse ad attribuire all’art.
7 della CEDU il significato che invece ne hanno tratto. La Corte di cassazione,
inoltre, non avrebbe potuto in nessun caso sposare un’interpretazione che lo
stesso giudice rimettente riteneva di dubbia costituzionalità.
L’erroneità del presupposto
interpretativo sul vincolo derivante dalla sentenza
Varvara determina un’ulteriore ragione di
inammissibilità delle questioni.
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara inammissibile la questione
di legittimità costituzionale dell’art. 44, comma 2, del decreto del Presidente
della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia edilizia – Testo A), sollevata, in
riferimento agli artt. 2, 9, 32, 41, 42 e 117, primo comma, della Costituzione,
dalla Corte di cassazione, terza sezione penale, con l’ordinanza indicata in
epigrafe;
2) dichiara inammissibile la questione
di legittimità costituzionale dell’art. 44, comma 2, del d.P.R.
n. 380 del 2001, sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., dal Tribunale ordinario di Teramo, in composizione
monocratica, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della
Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 gennaio 2015.
F.to:
Alessandro CRISCUOLO, Presidente
Giorgio LATTANZI, Redattore
Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 26 marzo 2015.