SENTENZA N. 273
ANNO 2010
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
composta dai signori:
- Francesco AMIRANTE
Presidente
- Ugo DE SIERVO Giudice
- Paolo MADDALENA
"
- Alfio FINOCCHIARO
"
- Alfonso QUARANTA
"
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA
"
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO
"
- Giuseppe FRIGO "
- Alessandro CRISCUOLO
"
- Paolo GROSSI "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità
costituzionale dell’art. 23, comma 4, del decreto legislativo 11 maggio 1999 n.
152 (Disposizioni sulla tutela delle
acque dall’inquinamento e recepimento della direttiva 91/271/CEE concernente il
trattamento delle acque reflue urbane e della direttiva 91/676/CEE relativa
alla protezione delle acque dall’inquinamento provocato dai nitrati provenienti
da fonti agricole), come modificato dall’art. 7 del decreto legislativo
18 agosto 2000, n. 258 (Disposizioni correttive e integrative del decreto
legislativo 11 maggio 1999, n.
Visti gli atti di costituzione di R.A.
ed altri, di C.M. e P.V., nonché l’atto di intervento
del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 7
luglio 2010 il Giudice relatore Gaetano Silvestri;
uditi gli avvocati Tullio Padovani,
Eriberto Rosso, Anna Francini per S.G. ed altri,
Giuseppe Giuffrè e Giandomenico Falcon
per R.A., Gemma Bearzotti per C.M., Paolo Dell’Anno
per P.V. e l’avvocato dello Stato Massimo Giannuzzi
per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. − Con ordinanza depositata il 3 marzo 2009, il Tribunale di
Firenze, sezione distaccata di Pontassieve, ha sollevato, in
riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale dell’art. 23, comma 4, del decreto legislativo 11 maggio 1999,
n. 152 (Disposizioni sulla tutela delle acque dall’inquinamento e recepimento
della direttiva 91/271/CEE concernente il trattamento delle acque reflue urbane
e della direttiva 91/676/CEE relativa alla protezione delle acque
dall’inquinamento provocato dai nitrati provenienti da fonti agricole), come
modificato dall’art. 7 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 258
(Disposizioni correttive e integrative del decreto legislativo 11 maggio 1999,
n.
1.1. – Il rimettente riferisce che il procedimento a quo riguarda soggetti, già responsabili di cantieri approntati
per la realizzazione della tratta ferroviaria ad alta velocità tra Firenze e
Bologna, ai quali si contesta l’indebito impossessamento di acque
pubbliche utilizzate nel corso dei lavori. In particolare, agli imputati è
contestato il delitto di furto aggravato, perpetrato «con più azioni esecutive
di un medesimo disegno criminoso, in concorso tra loro, ciascuno nelle
rispettive qualità ricoperte nell’arco temporale indicato, al fine di trarne un
ingiusto profitto (consistito nell’impiego gratuito di acqua
pubblica a servizio delle proprie attività di cantiere con particolare
riferimento all’impiego di acqua negli impianti di betonaggio e al lavaggio dei
mezzi meccanici e in generale all’impiego di acque chiare nelle attività di
cantiere)».
Il rimettente riferisce ancora che l’acqua oggetto di furto, per un quantitativo stimato in non meno di cinque milioni di
metri cubi, sarebbe stata in parte prelevata dalle falde sotterranee
intercettate durante i lavori di scavo nelle gallerie, in parte estratta
mediante perforazione di pozzi, e in parte prelevata dai corsi d’acqua
limitrofi ai cantieri, il tutto in assenza delle prescritte autorizzazioni e
concessioni del Genio Civile della Provincia di Firenze. Sempre in ipotesi
accusatoria, le condotte contestate sarebbero state poste in
essere nel periodo dal 1997 al 2005 (con l’esclusione del 2001, anno in
cui era stata chiesta la concessione).
Il pubblico ministero – secondo quanto segnala il rimettente – ritiene
ininfluente, in punto di qualificazione penalistica delle condotte, la
disposizione contenuta nell’art. 23, comma 4, del
d.lgs. n. 152 del 1999, che sanziona come illecito
amministrativo la condotta di «derivazione o utilizzo» di acque pubbliche in
assenza di autorizzazione o concessione, perché diverso sarebbe il bene
giuridico tutelato penalmente, attraverso la fattispecie del furto aggravato,
rispetto a quello presidiato dalla sanzione amministrativa: nel primo caso il
patrimonio dello Stato, nel secondo la regolamentazione del prelievo delle
acque e la tutela della salubrità di queste. Di conseguenza, la stessa
condotta, ove accertata, darebbe luogo alla violazione sia del precetto penale
sia di quello amministrativo, con applicazione
concomitante delle due norme indicate.
In senso contrario, prosegue il giudice a quo, le difese degli imputati hanno sostenuto la tesi della
specialità della norma che prevede l’illecito amministrativo, rispetto alla
previsione del delitto di furto, con conseguente irrilevanza penale della
condotta di prelievo di acque sotterranee o
superficiali per fini industriali, a norma dell’art. 9 della legge 24 novembre
1989, n. 681 (Modifiche al sistema penale).
1.2. – Il rimettente considera pregiudiziale, nel contesto
descritto, una verifica della asserita prevalenza della norma che sanziona in
via amministrativa il prelievo abusivo di acqua su quella penale contestata,
«atteso che qualunque verifica in fatto della imputazione deve presupporre
necessariamente la giurisdizione del giudice penale».
Lo stesso rimettente procede quindi a richiamare per grandi linee
l’evoluzione della disciplina delle acque, osservando come, ancor prima della
legge 5 gennaio 1994, n. 36 (Disposizioni in materia di risorse idriche), già
l’art. 1 del r.d. n. 1775 del 1933 avesse attribuito alle acque classificate di
«pubblico generale interesse» il carattere della demanialità. Le acque prive di
rilevanza pubblica, e non inserite espressamente negli elenchi previsti dalla
legge, erano rimaste oggetto delle disposizioni del
codice civile. Con la legge n. 36 del 1994, emanata in una fase storica in cui
era ormai diffusa l’attenzione alla tutela delle risorse idriche, il
legislatore nazionale ha proceduto a ridefinire
l’intera disciplina delle acque pubbliche, in una prospettiva di vero e proprio
rovesciamento dei principi sottesi alla regolamentazione del prelievo e
dell’utilizzo dell’acqua. Per effetto della cosiddetta legge Galli, si è
passati da un regime ordinario di carattere privatistico, che richiedeva una
specifica classificazione da parte della pubblica amministrazione per
qualificare un’acqua come di pubblico interesse, ad un regime «rigidamente
pubblico in ordine alla proprietà della risorsa
idrica», nel quale tutte le acque, superficiali e sotterranee, sono pubbliche,
rimanendo nella discrezionalità della pubblica amministrazione soltanto il
potere di disciplinare diversamente le modalità di utilizzo delle acque, a
seconda dei soggetti e delle finalità.
Successivamente, è entrato in vigore il d.lgs. n. 152 del 1999, di recepimento di
numerose direttive comunitarie, il quale ha dettato norme a tutela delle acque
dall’inquinamento, ed è intervenuto anche sul testo unico approvato con il r.d.
n. 1775 del
A partire quindi dall’entrata in vigore del d.lgs. n. 152 del 1999, si è
posto il problema di individuare la norma sanzionatoria applicabile in relazione a condotte di impossessamento di acque
pubbliche analoghe a quelle descritte nel capo di imputazione.
Il giudice a quo segnala come,
dopo qualche iniziale incertezza, la giurisprudenza di legittimità si sia consolidata su posizioni di «sostanziale abrogazione
della rilevanza penale della condotta descritta», affermando da ultimo (Corte
di cassazione, sentenza n. 25548 del 2007) che la previsione contenuta
nell’art. 23, comma 4, del d.lgs. n. 152 del 1999 costituisce norma speciale
rispetto a quella generale di cui all’art. 624 del codice penale, in quanto
presenta due elementi specializzanti: l’oggetto dell’impossessamento (l’acqua
pubblica) ed il dolo specifico (la finalità industriale).
Il rimettente richiama anche un precedente di segno contrario (Corte di
cassazione, sentenza n. 37237 del 2001), che aveva ritenuto
sussistente un concorso reale e non apparente tra le norme, là dove la
previsione amministrativa sarebbe volta a tutelare la salubrità delle acque e
quella codicistica il bene nel suo valore
patrimoniale. Il Tribunale tuttavia, in assonanza con la giurisprudenza più
recente, ritiene che la verifica del rapporto di specialità debba fondarsi su
una comparazione strutturale tra le fattispecie più che sulla loro funzione
protettiva, ed aggiunge, richiamando ancora la sentenza n. 25548 del 2007 della
Corte di cassazione, che «anche il d.lgs. n. 152 del 1999, art. 23 tutela la proprietà delle acque, sia pure
sotto un peculiare profilo». In particolare, la disposizione che
configura l’illecito amministrativo presidierebbe gli interessi patrimoniali
dell’Erario in quanto stabilisce che il contravventore deve corrispondere, in
ogni caso, i canoni evasi, i quali rappresentano il corrispettivo del bene ai
sensi degli artt. 13 e 18 della legge n. 36 del 1994. Inoltre, nel caso oggetto
del procedimento principale, la condotta di impossessamento
dell’acqua sotterranea e superficiale sarebbe stata posta in essere con
specifica finalità industriale, con la conseguenza che, in base al criterio di
specialità previsto dall’art. 9 della legge n. 681 del 1989, dovrebbe trovare
applicazione la sola sanzione amministrativa.
Tutto ciò premesso, il rimettente ritiene che la disposizione che
configura l’illecito amministrativo sia costituzionalmente
illegittima, per violazione del canone della ragionevolezza e del
principio di uguaglianza.
1.3. – Con riguardo alla rilevanza della questione, il Tribunale precisa, innanzitutto, che fino alla pubblicazione del d.lgs. n. 258
del 2000, di integrazione e correzione del d.lgs. n.
152 del 1999, le condotte di impossessamento di acque
pubbliche per fini di vantaggio patrimoniale erano punite a titolo di furto.
Pertanto, per i fatti antecedenti posti ad oggetto del procedimento a quo, in ipotesi di declaratoria di illegittimità
costituzionale della norma che ha configurato l’illecito amministrativo,
potrebbe nuovamente trovare applicazione la fattispecie incriminatrice,
non ostandovi il principio sancito dall’art. 2 cod. pen.,
a sua volta attuativo dell’art. 25 Cost.
Dopo aver richiamato ampiamente la sentenza n. 394 del
2006 della Corte costituzionale sul tema del sindacato di costituzionalità
con effetti in malam
partem, il giudice a quo afferma che la norma censurata sarebbe sussumibile nella
categoria delle «norme di favore», in quanto avrebbe operato una
«depenalizzazione "di favore” in relazione a
determinati soggetti, con carattere di irragionevolezza con riferimento alla
gerarchia dei beni giuridici tutelati dall’ordinamento».
1.4. – Con riguardo alla non manifesta infondatezza della questione, il
giudice a quo nuovamente si riporta
alla sentenza n.
394 del 2006, nella parte in cui si afferma che «un sindacato sul merito
delle scelte legislative è possibile solo ove esse trasmodino nella manifesta irragionevolezza
o nell’arbitrio». Ciò che ricorrerebbe nel caso odierno, in quanto il regime
sanzionatorio introdotto nel 1999 per le condotte di derivazione e utilizzo
abusivi di acque pubbliche a fini industriali, sarebbe
viziato «da irragionevolezza e grave contraddizione con alcune norme di rango
costituzionale».
In particolare, l’introduzione di una norma di depenalizzazione
dell’impossessamento abusivo, a fini di lucro, di un bene giuridico di cui si è
riconosciuto il valore fondamentale per la collettività, risulta, secondo il
rimettente, «manifestamente privo di razionalità e di armonia
con il sistema di tutela dato», ancor più se si pone mente al fatto che in
precedenza, cioè fino all’anno 2000, le stesse condotte erano sanzionate
penalmente.
L’irrazionalità della scelta legislativa sarebbe ancor più palese
considerando che continua ad essere penalmente
sanzionata la sottrazione di beni patrimoniali i quali, nella scala di valori,
risultano di importanza di gran lunga inferiore alla risorsa idrica.
Sussisterebbero dunque, secondo il Tribunale di Firenze, profili di illegittimità costituzionale della norma censurata, là
dove essa «non soltanto introduce una disparità di trattamento sanzionatorio di
condotte identiche relative allo stesso bene giuridico, ancorché poste in
essere in momenti diversi, senza che emerga ragione a fondamento, ma introduce
una disparità di trattamento sanzionatorio fra beni di diverso valore sociale,
apprestando tutela diminuita proprio a quel bene che, con la medesima legge, si
intende tutelare più incisivamente».
Inoltre, l’illegittimità della norma censurata emergerebbe anche in relazione al diverso trattamento riservato ad «altre
condotte di impossessamento relative al medesimo bene giuridico, e da ritenersi
ancora sanzionate dalla norma incriminatrice generale
di cui all’art. 624 cod. pen.».
A tale proposito il rimettente richiama nuovamente la giurisprudenza della
Corte di cassazione, e in particolare la già citata sentenza n. 25548 del 2007,
per dissentire dalla affermazione ivi contenuta,
secondo la quale le due norme – artt. 624 cod. pen. e 23, comma 4, d.lgs. n. 152 del 1999 – regolano
la stessa materia, vale a dire l’impossessamento di un bene altrui per
trarne vantaggio. Ciò sarebbe vero solo con riferimento alle condotte che, al
pari di quelle contestate nel procedimento principale, consistano in
«derivazione o utilizzo», locuzioni che, peraltro, configurerebbero soltanto
alcuni possibili modi di impossessamento dell’acqua.
Vi sarebbero dunque «casi di impossessamento che non
vengono realizzati attraverso una derivazione, o che non sono finalizzati
all’utilizzo industriale del bene, ma che sono comunque caratterizzati da fine
di lucro, i quali necessariamente sfuggono alla previsione della norma
amministrativa, e ricadono […] sotto l’impero della fattispecie penale, questa
volta essa stessa speciale rispetto alla norma amministrativa».
A titolo esemplificativo, il Tribunale cita il caso di un soggetto il
quale procedesse alla trivellazione di un pozzo di
acque sotterranee, ritenendole di pregio, al fine di farne commercio, «anche
eventualmente mediante la pura e semplice cessione a terzi. In tal caso
l’impossessamento non si realizzerebbe mediante derivazione, né avrebbe come finalità un utilizzo dell’acqua pubblica a fini industriali
(utilizzo che presuppone nella quasi totalità dei casi il rilascio del bene
stesso dopo il suo utilizzo), e quindi necessariamente sarebbe la norma penale
a dispiegare i propri effetti».
Pertanto, la norma censurata avrebbe anche introdotto una
ingiustificata disparità di trattamento sanzionatorio tra condotte di
identico disvalore, relative allo stesso bene, «ancorché poste in essere con
motivazioni differenti».
1.5. – Il Tribunale di Firenze argomenta ulteriormente sul profilo della
rilevanza della questione, con specifico riguardo al fenomeno della successione
delle leggi, osservando come, nella perdurante vigenza della norma censurata,
una parte delle condotte in contestazione – quelle successive alla depenalizzazione – risulterebbe priva di rilevanza penale,
mentre l’altra parte, costituita dalle condotte precedenti, risulterebbe non
più punibile ai sensi dell’art. 2, secondo comma, cod. pen.
In caso di accoglimento della questione, si
verificherebbe «la nuova espansione della norma incriminatrice
penale», quantomeno per i fatti pregressi, al momento non ancora prescritti.
Trattandosi infatti di condotte antecedenti
all’entrata in vigore della norma di favore, non verrebbe in rilievo il
principio di irretroattività della norma penale, bensì il diverso principio
della retroattività della norma penale più mite, che, peraltro, nella specie
non potrebbe spiegare alcun effetto.
In proposito, è ancora richiamata la sentenza n. 394 del
2006 della Corte costituzionale, nella parte in cui si trova affermato che
«è giocoforza ritenere che il principio di
retroattività della norma penale più favorevole in tanto è destinato a trovare
applicazione, in quanto la norma sopravvenuta sia, di per sé,
costituzionalmente legittima».
Le stesse conclusioni sarebbero applicabili, sempre secondo il rimettente,
alla ipotesi della declaratoria di illegittimità di
una norma a carattere amministrativo con effetti di depenalizzazione.
2.− Con atto depositato il 16 febbraio 2010, è intervenuto in
giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente inammissibile o, comunque,
infondata.
La difesa dello Stato osserva come il giudice a quo – il quale dichiara di aderire all’orientamento della Corte di cassazione secondo cui l’art. 23 del d.lgs. n. 152 del
1999 è norma speciale rispetto all’art. 624 cod. pen.
–, non abbia assolto all’onere di verificare se sia
possibile dare un’interpretazione costituzionalmente orientata alla norma in
esame.
Sarebbe questo, a parere dell’Avvocatura generale, il percorso da seguire
nel caso di specie, posto che il citato art. 23, nel sanzionare in via amministrativa
le condotte di derivazione e utilizzo abusivi di acque
pubbliche, intende assicurare la realizzazione degli obiettivi indicati
dall’art. 144 del d.lgs. n. 152 del 2006, come sarebbe dimostrato dalla
previsione della possibilità di presentare domanda di
concessione in sanatoria, ai sensi dell’art. 96, comma 6, del medesimo decreto.
Differente, invece, risulterebbe l’ambito di
applicazione del delitto di furto, sicché tra le due previsioni non
ricorrerebbe un rapporto di specialità, come affermato dal rimettente, bensì un
concorso formale di reati, disciplinato dall’art. 81 cod. pen.
Tale opzione ermeneutica, secondo la difesa dello
Stato, consentirebbe di fugare i dubbi di legittimità costituzionale sollevati
dal rimettente.
3. – Con comparsa depositata l’11 febbraio 2010, si è costituito in
giudizio M.C., imputato nel procedimento principale,
concludendo per la manifesta infondatezza della questione.
La difesa dell’imputato richiama l’ordinanza di rimessione nella parte in
cui il giudice a quo effettua la comparazione tra l’art. 23 del d.lgs. n. 152 del
1999, che punisce la violazione del divieto di derivazione o utilizzo di acqua pubblica con la sanzione amministrativa, e l’art.
624 cod. pen., dando atto che, secondo la
giurisprudenza di legittimità consolidata, la condotta di impossessamento
abusivo di acque pubbliche non riveste (più) rilevanza penale (Corte di
cassazione, sentenza n. 25548 del 2007).
Ciò posto, si osserva come il rimettente, che pure dichiara di aderire a
tale orientamento giurisprudenziale, abbia sollevato questione di legittimità
costituzionale ritenendo la previsione richiamata in contrasto con l’art. 3
Cost., sicché la violazione del principio di
uguaglianza deriverebbe proprio dall’elemento specializzante della «finalità industriale».
In realtà, prosegue la stessa difesa, il rimettente avrebbe omesso di
analizzare le ragioni su cui si fonda la scelta di non sanzionare
penalmente la condotta descritta nell’art. 23, comma 4, del d.lgs. n. 152 del 1999, avendo focalizzato la sua attenzione sulla presunta
contraddittorietà tra il sistema delineato dal d.lgs. n. 152 del 1999,
di tutela rafforzata del bene giuridico costituito dalle acque pubbliche, e la introduzione, in quello stesso sistema, di una norma che
ne depenalizza «l’impossessamento illecito a fini di lucro».
La parte privata segnala inoltre come, nel percorso logico del giudice a quo, il fine industriale venga equiparato al fine di lucro, ciò che appare quanto
meno riduttivo se si considera che il primo, a differenza del secondo,
presuppone un’organizzazione di lavoro e trascende l’interesse del singolo.
Sarebbe poi evidente che, mentre nella fattispecie che punisce il delitto
di furto l’interesse primario è rappresentato dalla
tutela della proprietà privata, in quella delineata dall’art. 23 del d.lgs. n.
152 del 1999 oggetto di tutela è la riserva idrica, all’interno di un regime concessorio, con sanzioni pecuniarie sicuramente elevate se
raffrontate al costo dell’acqua.
Il differente disvalore sociale delle condotte indicate, giustificherebbe
quindi il diverso sistema sanzionatorio.
Del resto, nel bilanciamento tra interessi parimenti meritevoli di tutela,
non di rado il legislatore ha privilegiato l’attività
industriale e commerciale a scapito delle esigenze ambientali, come avviene per
l’inquinamento acustico delle zone limitrofe agli aeroporti e per
l’inquinamento atmosferico prodotto dai mezzi di trasporto urbani. Si tratta di
scelte sicuramente discutibili sul piano politico, ma non prive di
ragionevolezza, sicché la questione sarebbe
manifestamente infondata.
4. – Con atto depositato il 15 febbraio 2010, si sono costituiti in
giudizio R.A., S.C., G.G., Z.F., L.M., M.N.,
F.G., C.U., O.C., M.P.P. e M.C., tutti imputati nel
procedimento a quo, nonché il Consorzio C.A.V.E.T.
Alta Velocità Emilia-Toscana, in persona del legale
rappresentante pro tempore, in
qualità di responsabile civile e civilmente obbligato per la pena pecuniaria.
La difesa delle parti indicate svolge alcune considerazioni sul
ragionamento prospettato dal giudice a
quo a fondamento della questione, concludendo per
l’inammissibilità o, comunque, l’infondatezza della stessa.
4.1. – Si osserva in primo luogo, sotto il profilo della rilevanza, che il
rimettente si sarebbe limitato ad affrontare le
ricadute dell’eventuale pronuncia di accoglimento in rapporto al fenomeno della
successione delle leggi penali nel tempo, regolato dall’art. 2 cod. pen., mentre in realtà, come sollecitato dalla stessa
difesa, il giudice a quo avrebbe
dovuto prioritariamente stabilire se, stante il disposto dell’art. 48 del r.d.
n. 1775 del 1933, nel caso di specie possano trovare applicazione la norma
censurata ovvero quella che punisce il furto, invocata in alternativa
dal medesimo giudice.
Il richiamato art. 48, terzo comma, stabilisce che «quando il regime di un
corso d’acqua o di un bacino di acqua pubblica sia
modificato permanentemente per esecuzione da parte dello Stato di opere rese
necessarie da ragioni di pubblico interesse, l’utente, oltre all’eventuale
riduzione o cessazione del canone, ha diritto ad una indennità, qualora non gli
sia possibile senza spese eccessive di adattare la derivazione al corso di
acqua modificato».
Se infatti, incontestabilmente, l’esecuzione del
tracciato ferroviario per l’alta velocità tra Firenze e Bologna è qualificabile
alla stregua di un’opera di pubblica utilità eseguita dallo Stato, esiste il
presupposto per l’applicazione dell’art. 48, terzo comma, con la conseguenza
che sarebbe esclusa in radice l’antigiuridicità delle condotte, venendo così a
mancare la rilevanza della questione.
4.2. – Nel merito, la difesa osserva come rientri nella piena ed
insindacabile discrezionalità del legislatore, con il solo limite della
ragionevolezza delle opzioni assunte, l’individuazione
delle condotte punibili, nonché la scelta e la quantificazione delle relative
sanzioni.
Nel caso in esame, pur essendo innegabile che
l’acqua pubblica costituisca un oggetto di tutela di primario valore, ciò che
assume importanza nel sistema normativo «non è tanto la materiale fisicità del
bene, quanto la concreta disponibilità dello stesso». Posto dunque che la capacità di disporre delle acque pubbliche non è libera ma amministrata,
la scelta di qualificare come illecito amministrativo il prelievo abusivo delle
predette acque sembra tutt’altro che irrazionale, risultando il naturale
completamento di una disciplina di base amministrativa, e dimostrandosi consona
alla peculiare forma aggressiva in esame.
Più specificamente, mentre il delitto di furto tipizza un’aggressione ad un
potere altrui (che non è proprio, o anche, dell’agente), la fattispecie di
prelievo abusivo di acque pubbliche tipizza «una
aggressione ad un potere che è di tutti, ma che è tale in forza di una
programmata e controllata parcellizzazione ad opera di un soggetto-filtro la
cui volontà, in definitiva, è la prima e più importante ad essere frodata».
Non risulterebbe sussistente neppure la disparità
di trattamento sanzionatorio tra il prelievo abusivo di acque pubbliche
finalizzato al mero commercio della risorsa idrica, in assunto del rimettente
punito come illecito penale, e il medesimo prelievo diretto ad uso industriale,
punito come illecito amministrativo. Il ragionamento del giudice a quo sarebbe sul punto viziato dalla
mancata considerazione del rilievo che riveste, nella fattispecie sanzionata in
via amministrativa, il dolo specifico, che, pur non essendo un elemento
materiale del fatto, nondimeno costituisce elemento
della fattispecie e concorre alla tipizzazione della stessa.
L’elemento del dolo specifico, sottolinea la
difesa, «determina una indubbia specificazione dell’illecito, contribuendo
all’emersione di una peculiarità che poi si riflette sull’intera struttura di
quello, rendendola un unicum e,
conseguentemente, meritevole di un proprio non estensibile giudizio disvaloriale».
La differente struttura delle fattispecie di prelievo abusivo di acque pubbliche finalizzato al commercio delle stesse, e
di prelievo abusivo finalizzato all’uso industriale, esige, contrariamente a quanto
sostenuto dal rimettente, un trattamento differenziato, in ossequio al
principio sancito dall’art. 3, secondo comma, Cost.
5. – Con atto depositato il 15 febbraio 2010 si è costituito in giudizio
P.V., pure imputato nel procedimento a quo, per sostenere la manifesta
infondatezza della questione sollevata dal Tribunale di Firenze.
5.1. – La difesa della parte procede innanzitutto
al riepilogo del quadro normativo di riferimento, per evidenziare come il solo
sintetico esame degli interventi legislativi succedutisi nella regolamentazione
della materia in esame sarebbe sufficiente a smentire le argomentazioni poste
dal rimettente a fondamento dell’incidente di legittimità costituzionale.
È vero infatti che l’art. 17 del r.d. n. 1775 del
1933, come novellato dal d.lgs. n. 152 del 1999, regola la medesima fattispecie
contemplata dalla previsione del furto di cosa pubblica, e che pertanto,
secondo la giurisprudenza consolidata, trova applicazione il disposto dell’art. 9, comma 2, della legge n. 689 del 1981, con
conseguente prevalenza della disciplina amministrativa.
La condotta contemplata dalle due fattispecie è perfettamente coincidente
e consiste nell’impossessamento mediante sottrazione del bene al legittimo
detentore, mentre risulta «irrilevante l’altro elemento
strutturale che caratterizza il reato ex
art. 624, il dolo specifico – finalità di profitto – dal momento che l’illecito
amministrativo è circoscritto alla sola condotta del prelievo volontario ed al
correlato utilizzo della risorsa idrica senza concessione e senza pagamento del
canone».
5.2. – La difesa dell’imputato procede quindi all’esame
delle censure prospettate dal rimettente, secondo il quale la discrezionalità
del legislatore, nell’individuazione delle condotte connotate da disvalore sociale
e nella scelta delle sanzioni applicabili, sarebbe stata male
esercitata.
La stessa difesa richiama sul punto la giurisprudenza costituzionale
secondo cui la discrezionalità legislativa incontra il limite
dell’arbitrarietà, o manifesta irragionevolezza dell’opzione
adottata (sentenze n. 206 del 2003
e n. 287 del
2000), vizi entrambi ravvisabili quando «la sperequazione normativa tra
fattispecie omogenee assuma aspetti e dimensioni tali da non potersi
considerare protetta da alcuna ragionevole giustificazione» (sentenza n. 394 del
2006).
Nella specie, tuttavia, non emergerebbero indizi in tal senso: lungi
dall’aver semplicemente depenalizzato la fattispecie del prelievo abusivo di acque pubbliche, l’intervento legislativo attuato con il
d.lgs. n. 152 del 1999 «ha disciplinato in modo organico, innovativo e globale» la materia delle utenze idriche, introducendo uno
speciale regime amministrativo di consenso.
Nemmeno sarebbe ravvisabile un contrasto con altre norme di rango
costituzionale, peraltro non indicate dal rimettente, giacché la disciplina in
esame risulterebbe perfettamente coerente con il più
ampio disegno governativo di gestione delle risorse idriche, sotto il profilo
sia quantitativo sia qualitativo, che assoggetta a permessi tanto il prelievo
quanto lo scarico di acque dopo l’utilizzo.
A proposito poi della distinzione tra «fruizione»
e tutela delle risorse ambientali, la difesa richiama ancora la giurisprudenza
costituzionale (sentenza
n. 105 del 2008), con riguardo all’affermazione secondo cui l’emersione del
problema ambientale avrebbe spinto il legislatore ad intervenire per la tutela
della risorsa idrica mediante specifica e organica disciplina, superando così
l’impostazione del testo unico del 1933, limitata alla regolamentazione del
solo profilo della fruizione (sentenza n. 1 del
2010).
Risulterebbe del resto opinabile l’idea di fondo che sorregge il percorso
motivazionale seguito dal giudice a quo,
secondo cui per assicurare tutela puntuale ed efficace l’ordinamento non può
fare a meno della sanzione penale detentiva; al contrario, la sanzione
amministrativa, specie se consistente, può rappresentare un efficace deterrente
per enti e imprese.
In una prospettiva più ampia, prosegue la difesa, la scelta legislativa di
trasformare la risorsa idrica in un bene esclusivamente pubblico si giustifica,
come avviene per altri beni del demanio, con la necessità di regolarne l’uso
(con misure di programmata gestione) in modo da consentirne la fruizione diffusa, risultando altresì rilevante la diversità
ontologica della risorsa idrica, come bene pubblico, rispetto agli altri beni
protetti dall’art. 624 cod. pen.
La stessa difesa passa quindi ad esaminare la denunciata disparità di
trattamento sanzionatorio tra la condotta di prelievo non autorizzato di acque, sanzionata in via amministrativa, e
l’impossessamento di altri beni, perseguito a titolo di furto, e ciò perfino in
casi di particolari forme di impossessamento del medesimo bene costituito
dall’acqua pubblica.
Dopo aver segnalato la genericità ed indeterminatezza dell’assunto, si
osserva che, per un verso, i beni protetti dalla norma penale non rivestono
minore significato valoriale rispetto alla risorsa idrica, come agevolmente
desumibile da un pur sintetico esame delle circostanze aggravanti menzionate
dall’art. 625 cod. pen. (la
tutela riguarda, infatti, non solo l’oggetto dell’impossessamento, ma anche le
modalità con le quali si realizza tale effetto), e, per altro verso, che la
denunciata disparità di trattamento sanzionatorio delle possibili diverse
condotte di impossessamento dell’acqua è frutto di un ragionamento privo di
fondamento.
Premessa la condivisibile distinzione tra la condotta di
impossessamento e quella di utilizzazione (in rapporto di
presupposizione), la difesa dell’imputato rileva come la condotta delineata
dalla norma oggetto di censura non distingua tra derivazione e utilizzazione,
né ponga un limite finalistico all’utilizzazione dell’acqua, posto che l’unico
limite esistente, costituito dall’uso domestico, opera in senso inverso,
esentando l’utente dall’obbligo di ottenere la previa concessione.
In realtà, a parere della stessa difesa, l’illecito amministrativo deve
ritenersi integrato per il solo fatto che l’utente abusivo si è sottratto non
solo al potere di controllo dell’amministrazione concedente, ma anche alla
corresponsione del canone per l’uso dell’acqua, con la conseguenza che tutti
gli altri usi, ad eccezione di quello domestico, risulterebbero
ugualmente sanzionabili ai sensi dell’art. 23 del d.lgs. n. 152 del 1999.
La questione di legittimità costituzionale sarebbe dunque inammissibile
perché sollevata su una erronea interpretazione della
normativa censurata.
6. – In prossimità dell’udienza pubblica, la difesa di S.C., G.G., Z.F.,
L.M., M.N., F.G., C.U., O.C., M.P.P., M.C., e del Consorzio C.A.V.E.T.
Alta Velocità Emilia-Toscana, ha depositato memoria
illustrativa nella quale sono riesaminati i profili di censura prospettati dal
rimettente.
6.1. − In via preliminare, la difesa delle parti suddette reputa le
questioni inammissibili in quanto la prevalenza della norma che sanziona in via amministrativa le condotte in esame,
affermata dalla giurisprudenza della Corte di cassazione e condivisa dal
rimettente, costituisce espressione di una scelta politico-criminale riservata
al legislatore, non manifestamente irragionevole né lesiva del principio di
uguaglianza.
Il rimettente, prosegue la difesa, vorrebbe che la norma che configura
l’illecito amministrativo fosse dichiarata illegittima allo scopo di consentire
la «riespansione» della norma penale, in tal modo
richiedendo un intervento con esiti in malam partem, ma
Né varrebbero in senso contrario gli argomenti con i quali la stessa Corte
costituzionale ha ritenuto illegittima la normativa «di favore» in materia di
reati elettorali (sentenza
n. 394 del 2006): nella citata pronuncia si trova affermato che, per
potersi qualificare una norma come «di favore», deve trattarsi di norma di
privilegio in senso proprio, la quale sottrae una certa classe di soggetti o di
condotte all’ambito di applicazione di altra norma
maggiormente comprensiva, e si trovi in rapporto di compresenza con
quest’ultima.
La norma censurata dall’odierno rimettente, viceversa, non presenterebbe i
caratteri indicati, trattandosi di previsione che al più, secondo la
teorizzazione contenuta nella stessa sentenza n. 394 del
2006, «delimita l’area di intervento di una norma incriminatrice», con la quale si esprime una valutazione
legislativa in termini di meritevolezza ovvero di
"bisogno di pena”, cui
6.2. – Un ulteriore profilo di inammissibilità
delle questioni sarebbe collegato alla applicabilità, alle condotte contestate,
della disposizione contenuta all’art. 48, terzo comma, del r.d. n. 1775 del
1933.
L’argomento, sul quale il rimettente non avrebbe preso
posizione nonostante le sollecitazioni provenienti dalle parti, è già
stato esposto nella memoria di costituzione e sintetizzato al paragrafo 4.1.
6.3. – La difesa assume inoltre che la norma che sanziona
il delitto di furto non potrebbe comunque trovare applicazione nel caso in
esame, stante la natura dell’opera eseguita. L’applicazione del richiamato art.
48, pure se non intesa come limite al divieto di derivazione senza
provvedimento concessorio, determinerebbe una
"disponibilità materiale” in capo al soggetto esecutore dell’opera pubblica,
qualificabile come detenzione, tale da escludere a priori la configurabilità del furto. Tutt’al
più si potrebbe ipotizzare l’applicabilità delle diverse fattispecie
dell’appropriazione indebita, sanzionata dall’art. 646 cod. pen.,
ovvero della deviazione di acque e modificazione dello stato dei luoghi, punita
dall’art. 632 cod. pen., dovendosi peraltro
considerare, quanto alla prima fattispecie, che mancherebbe comunque la
querela, e, riguardo alla seconda fattispecie, che essa ricorre solo in presenza
della «totale sottrazione dell’acque dalla sua naturale destinazione, in modo
permanente o anche solo saltuario» (è richiamata la sentenza della Corte di
cassazione n. 48057 del 2009).
Risulterebbe pertanto erronea la individuazione della norma penale che verrebbe a «riespandere» il proprio campo di applicazione, ove la
previsione dell’illecito amministrativo fosse dichiarata illegittima
costituzionalmente.
6.4. − Nel merito, la stessa difesa evidenzia l’infondatezza della
questione.
Richiamati i profili di censura prospettati dal rimettente, si osserva che
oggetto di tutela della norma censurata non è la risorsa in sé, quanto la
funzione amministrativa che garantisce il contemperamento di diversi interessi.
Non vi sarebbe dunque una "intangibilità” assoluta della risorsa idrica, e
l’intero sistema dei «servizi idrici», per quanto fondato sul riconoscimento
delle acque come risorsa da proteggere, è finalizzato a disciplinare «non
l’acqua ma gli usi della stessa».
L’articolato modello organizzativo presuppone che la capacità di disporre delle acque pubbliche non è libera ma, appunto,
amministrata e dunque controllata. In tal senso, la tutela del profilo
quantitativo delle risorse idriche risulta più
appropriata di quella penale, che può invece risultare tecnicamente necessaria
nell’ambito della tutela qualitativa, ove occorre evitare il deterioramento
potenzialmente irreversibile della risorsa e della salute, quali effetti
dell’inquinamento.
La difesa richiama
Quanto alla censura di disparità di trattamento di
condotte diverse, egualmente aggressive del medesimo bene giuridico, la stessa
sarebbe manifestamente infondata per due ordini di ragioni.
In primo luogo, il rimettente muoverebbe da un erroneo presupposto, vale a
dire che il legislatore avrebbe distinto tra le
diverse motivazioni che sorreggono la condotta vietata, mentre in realtà la
distinzione esiste tra "ambiti oggettivi di attività”: da un lato le attività
strumentali all’uso domestico, per le quali non è necessaria autorizzazione, e
dall’altro le attività non strumentali a tale uso. Tra queste
ultime nessuna distinzione può essere fatta: sono tutte vietate, a
prescindere dal fine di lucro, se consistono in derivazione o utilizzazione di
acqua in assenza di provvedimento autorizzativo
dell’autorità competente.
E del
resto, come correttamente posto in evidenza dalla giurisprudenza della Corte di
cassazione, la sanzione amministrativa tutela anch’essa gli interessi
patrimoniali dello Stato, con la conseguenza che la norma censurata e la
fattispecie che punisce il furto si trovano sicuramente in rapporto di
specialità.
In conclusione, si richiama l’attenzione sulla diversità intercorrente tra
la situazione oggetto del procedimento principale, di realizzazione di un’opera
di interesse pubblico, e altri casi di uso della
risorsa idrica a fini di lucro al di fuori di tale contesto. L’eventuale
differente trattamento sanzionatorio non sarebbe irragionevole.
7. – In data 15 giugno
La difesa dell’imputato richiama i termini della questione e quindi
argomenta sui possibili profili di inammissibilità.
7.1. – In primo luogo, si assume l’erronea individuazione della norma
oggetto, in quanto l’esclusione della sanzione penale non sarebbe conseguenza
diretta della disposizione che ha introdotto l’illecito amministrativo, ma
discenderebbe dall’applicazione delle regole che disciplinano il concorso
apparente di norme, e in particolare dall’art. 9 della legge n. 689 del 1981,
che il rimettente non ha censurato.
Sarebbe inoltre incompleta la motivazione in punto di rilevanza della
questione, in quanto lo stesso rimettente dà per scontato che qualora non vi
fosse la sanzione amministrativa, troverebbe applicazione la disposizione che
punisce il furto.
È quindi richiamato l’art. 48 del r.d. n. 1775 del
7.2. – Nel merito, le questioni risulterebbero
infondate.
Con riferimento alla lamentata disparità di trattamento tra condotte
realizzate prima o dopo l’entrata in vigore della norma di depenalizzazione,
la difesa osserva come, a prescindere dalla circostanza che l’effetto
depenalizzante opererebbe anche per le condotte antecedenti, la censura risulti
oltremodo singolare, in quanto tutte le disposizioni che intervengono a
modificare disposizioni precedenti introducono necessariamente una "disparità
di trattamento” tra condotte identiche, né il legislatore ha l’onere di far
emergere ragioni a fondamento delle proprie scelte.
Quanto alla prospettata irragionevolezza della scelta legislativa di
tutelare le risorse idriche in modo meno pregnante rispetto ad altri beni, di importanza sicuramente inferiore, la difesa sottolinea la
differenza esistente tra la condotta di spossessamento del legittimo
proprietario, al quale venga sottratta la cosa mobile, al fine di trarne
profitto, e la condotta di derivazione e utilizzazione dell’acqua in assenza di
provvedimento concessorio o autorizzatorio:
in tale secondo caso non vi è alterazione della destinazione del bene,
costituendo al contrario l’uso industriale uno degli usi consentiti dell’acqua.
Nella specie, verrebbe in rilievo la necessità che l’uso dell’acqua sia
regolato attraverso specifici provvedimenti amministrativi, come confermato
anche dalla previsione della possibile continuazione provvisoria del prelievo in presenza di particolari ragioni di interesse pubblico
generale, purché l’utilizzazione non risulti in palese contrasto con i diritti
di terzi e con il buon regime delle acque.
Con riguardo, infine, alla prospettata ulteriore
disparità di trattamento che il rimettente individua nel mantenimento della
incriminazione di altre condotte, di aggressione al medesimo bene, la difesa
rileva che, nell’ipotesi esemplificativamente
riportata nell’ordinanza di rimessione, quella cioè del soggetto che si
appropri di acqua di pregio per imbottigliarla e venderla, saremmo di fronte ad
un uso non consentito della risorsa, e dunque ad un comportamento che non
potrebbe essere autorizzato.
Peraltro, e conclusivamente, ove mai esistessero altri comportamenti, di
disvalore pari a quello delle condotte in esame, che fossero
sanzionati penalmente, ciò dovrebbe comportare l’illegittimità
costituzionale della perdurante incriminazione, non già della previsione
dell’illecito amministrativo, come invece pretenderebbe il rimettente.
Considerato in diritto
1. − Il Tribunale di Firenze, sezione distaccata di Pontassieve, ha
sollevato, in riferimento all’art. 3 della
Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 4,
del decreto legislativo 11 maggio 1999, n. 152 (Disposizioni sulla tutela delle
acque dall’inquinamento e recepimento della direttiva 91/271/CEE concernente il
trattamento delle acque reflue urbane e della direttiva 91/676/CEE relativa
alla protezione delle acque dall’inquinamento provocato dai nitrati provenienti
da fonti agricole), come modificato dall’art. 7 del decreto legislativo 18
agosto 2000, n. 258 (Disposizioni correttive e integrative del decreto legislativo
11 maggio 1999, n.
La norma è oggetto di censura in radice, per l’irragionevolezza che avrebbe contrassegnato la scelta legislativa di
«depenalizzare» condotte in precedenza perseguite a titolo di furto, a fronte
della finalità, dichiarata nell’art. 1 del d.lgs. n. 152 del 1999, di
rafforzare la tutela della risorsa idrica.
Ulteriori censure sono prospettate sotto il profilo della ingiustificata disparità
di trattamento, derivante sia dal raffronto con la tutela apprestata ad altri
beni, di valore sicuramente inferiore all’acqua, la cui indebita appropriazione
è presidiata dalla sanzione penale, sia dal raffronto tra le stesse condotte di
impossessamento abusivo dell’acqua, a seconda che siano state poste in essere
prima o dopo l’entrata in vigore della norma in esame, ovvero che risultino
sorrette o non dalla «finalità industriale».
Con riferimento a quest’ultimo profilo, l’illegittimità costituzionale è
costruita dal rimettente secondo lo schema della «norma di favore», sul
presupposto che la sanzione amministrativa trovi applicazione nei confronti di
un’unica categoria di soggetti, cioè di coloro i quali
si impossessano abusivamente di acqua pubblica per fini industriali.
2. – Preliminarmente deve essere disattesa la prospettazione
dell’Avvocatura dello Stato, che sostiene l’inammissibilità della questione,
per non avere il rimettente esplorato la possibilità di dare della norma
censurata un’interpretazione costituzionalmente orientata, fondata sulla coesistenza tra sanzione amministrativa e sanzione penale.
In particolare non opererebbe, nel caso di specie, il principio sancito
all’art. 9 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale).
Detto principio è infatti applicabile, secondo la
consolidata giurisprudenza di legittimità, all’ipotesi dell’impossessamento
abusivo di acqua pubblica in forza del necessario riferimento alla struttura
delle fattispecie, piuttosto che al bene protetto, per l’identificazione del
rapporto di specialità tra norma amministrativa e norma penale, con la
conseguenza che l’art. 23 del d.lgs. n. 152 del 1999 deve prevalere sull’art.
624 cod. pen. (ex plurimis,
Corte di cassazione, sentenze n. 21008 del 2010; n. 25548 del 2007; n. 186 del
2006; n. 39977 del 2005; n. 26877 del 2004).
D’altra parte, la coesistenza della sanzione penale e di quella amministrativa non sarebbe necessariamente il frutto
di una interpretazione costituzionalmente orientata. L’effetto di
depenalizzazione, scaturente dall’applicazione del principio di specialità, è stato voluto dal legislatore, che ben conosceva il sistema
normativo nel quale la nuova disposizione andava ad inserirsi. La valutazione
sulle questioni si riduce, dunque, in questa prospettiva, alla verifica della
non manifesta irragionevolezza della scelta compiuta dal legislatore con
l’introduzione della norma censurata.
3. – Le questioni sono inammissibili per ragioni
diverse, di seguito specificate.
3.1. – Il rimettente censura come irragionevole la scelta del legislatore
di depenalizzare l’impossessamento abusivo di acqua pubblica,
perché in contraddizione con il complessivo indirizzo legislativo degli ultimi
decenni, volto a rafforzare la tutela del bene acqua, preservando la sua
fruizione da parte della generalità dei cittadini. Tale orientamento di maggior
tutela dell’ambiente e degli interessi della collettività sarebbe
in contrasto con l’attenuazione del rigore punitivo nei confronti dei soggetti
che sottraggono quantitativi più o meno ingenti di acqua all’uso pubblico, per
realizzare profitti diretti, derivanti da eventuali commercializzazioni
dell’acqua abusivamente captata, o indiretti, derivanti da utilizzazione
dell’acqua stessa per finalità industriali o comunque produttive, ottenendo la
disponibilità del bene senza sostenere alcun costo.
3.2. – Occorre ricordare, con riferimento a tale censura, come questa
Corte abbia costantemente affermato che «il potere di
configurare le ipotesi criminose, determinando la pena per ciascuna di esse, e
di depenalizzare fatti dianzi configurati come reati […] rientra nella discrezionalità
legislativa censurabile, in sede di sindacato di costituzionalità, solo nel
caso in cui sia esercitata in modo manifestamente irragionevole» (sentenza n. 364 del
2004, ed in precedenza, ex plurimis, sentenza n. 313 del
1995, ordinanze n. 110 del 2003,
n. 144 del 2001,
n. 58 del 1999).
A proposito dell’efficacia delle sanzioni penali e di quelle
amministrative, questa Corte ha pure osservato: «La sanzione penale non è
l’unico strumento attraverso il quale il legislatore può cercare di perseguire la effettività dell’imposizione di obblighi o di doveri […].
Vi può essere uno spazio nel quale tali obblighi e doveri sono operanti, ma non
assistiti da sanzione penale, bensì accompagnati da controlli e da
responsabilità solo amministrative o politico-amministrative. Ed è anzi rimesso alla scelta discrezionale del legislatore,
purché non manifestamente irragionevole, valutare quando e in quali limiti
debba trovare impiego lo strumento della sanzione penale, che per sua natura
costituisce extrema ratio, da riservare ai casi in cui non
appaiano efficaci altri strumenti per la tutela di beni ritenuti essenziali» (ordinanza n. 317 del
1996).
4. – In conformità ai principi sopra ricordati, nel caso di specie non si
può ritenere che la scelta di depenalizzazione operata
dal legislatore con la norma censurata sia manifestamente irragionevole.
Deve essere innanzitutto considerato il contesto
normativo in cui si inserisce la disposizione censurata, che attua il disegno
del legislatore di regolare in modo sistematico e programmato l’utilizzazione
collettiva di un bene indispensabile e scarso, come l’acqua, che comporta la
prevalenza delle regole amministrative di fruizione sul mero aspetto
dominicale. L’integrale pubblicizzazione delle acque superficiali e sotterranee
è stata strettamente legata dall’art. 1 della legge 5
gennaio 1994, n. 36 (Disposizioni in materia di risorse idriche) alla
salvaguardia di tale risorsa ed alla sua utilizzazione secondo criteri di
solidarietà. Da questo doppio principio discende la conseguenza che deve essere
la pubblica amministrazione a disciplinare e programmare l’uso delle acque,
allo scopo di consentire un equilibrato consumo per finalità diverse da quelle
domestiche, nel quadro della fondamentale distinzione
contenuta negli artt. 17, comma 1, e 95, primo comma,
del r.d. n. 1775 del 1933. Non viene in rilievo la contrapposizione tra lo
Stato, proprietario del bene, ed i privati, ma l’integrazione tra pubblico e
privato, nel quadro della regolazione programmata e
controllata dell’uso dell’acqua, che costituisce bene di tutti e, in quanto tale,
deve essere distribuita secondo criteri razionali ed imparziali stabiliti da
apposite regole amministrative.
La legge non distingue tra i soggetti privati che si impossessano
di acque sotterranee, ma, a norma del citato art. 95, primo comma, del r.d. n.
1775 del 1933, regola diversamente gli usi domestici, definiti e delimitati
dall’art. 93 del medesimo t.u., e gli usi diversi, per
i quali sono necessarie l’autorizzazione alla ricerca ed
allo scavo e la concessione per l’utilizzo, secondo il piano di massima
allegato alla domanda di autorizzazione.
In questo quadro, spetta alla pubblica amministrazione competente
programmare, regolare e controllare il corretto utilizzo del bene acqua in un
dato territorio, non già in una prospettiva di mera tutela della proprietà
demaniale, ma in quella del contemperamento tra la natura pubblicistica della
risorsa e la sua destinazione a soddisfare i bisogni domestici e produttivi dei
consociati. Questi ultimi hanno titolo ad utilizzare le acque sotterranee, nel
rispetto delle norme amministrative poste a salvaguardia
dell’integrità della risorsa, che non può essere indiscriminatamente
depauperata da prelievi che sfuggono ai poteri regolativi della pubblica
amministrazione.
Da quanto appena detto si deduce che la scelta legislativa di sanzionare solo in via amministrativa eventuali
comportamenti trasgressivi delle regole di utilizzo delle acque non è
manifestamente irragionevole, giacché deve aversi primariamente riguardo al
rapporto tra cittadini e pubblica amministrazione nell’accesso ad un bene che
appartiene in principio alla collettività. Tale rapporto viene
alterato dalla violazione di norme che non sono poste soltanto a presidio della
proprietà pubblica del bene, collocato in una sfera separata rispetto a quella
dei cittadini, ma soprattutto a garanzia di una fruizione compatibile con
l’entità delle risorse idriche disponibili in un dato territorio e con la loro
equilibrata distribuzione tra coloro che aspirano a farne uso. Se tutti hanno
diritto di accedere all’acqua, l’aspetto dominicale
della tutela si colloca in secondo piano, rispetto alla primaria esigenza di
programmare e vigilare sulle ricerche e sui prelievi, allo scopo di evitare che
impossessamenti incontrollati possano avvantaggiare indebitamente determinati soggetti
a danno di altri o dell’intera collettività.
La sanzione amministrativa prevista dalla norma censurata, d’altra parte,
non è irrisoria e priva di efficacia dissuasiva,
giacché i trasgressori, previa cessazione delle utenze abusive, sono tenuti al
pagamento di una somma da
Altre scelte legislative sarebbero astrattamente possibili, ma non spetta
a questa Corte dare valutazioni di merito, una volta rilevata la non manifesta
irragionevolezza di quella che sta alla base della norma censurata.
5. – La non manifesta irragionevolezza della scelta legislativa di
depenalizzazione dell’impossessamento abusivo di acqua
pubblica a fini non domestici, rende manifesta l’inconferenza
del richiamo del rimettente alla sentenza n. 394 del
2006 di questa Corte, in tema di "norme penali di favore”. Tale pronuncia
si basa sul presupposto della compresenza nell’ordinamento di una norma penale
che contiene una fattispecie più ampia e di una norma che irragionevolmente
prevede un trattamento più favorevole per specifiche condotte, altrimenti
rientranti nella previsione generale.
Il caso oggetto del presente giudizio riguarda una norma che ha escluso
dalla rilevanza penale comportamenti che astrattamente avrebbero
potuto essere ricondotti alla previsione generale di cui all’art. 624
del codice penale, secondo una scelta legislativa non riconducibile al fenomeno
delle cosiddette norme penali di favore. Infatti, come si è visto al par. 3,
non si riscontra una palese irragionevolezza nell’orientamento del legislatore
a considerare recessivo il profilo proprietario della tutela delle acque
pubbliche rispetto a quello programmatorio
e gestionale, maggiormente consono, nella valutazione dello stesso legislatore,
alla finalità di regolare un corretto uso, da parte dei cittadini, delle
risorse idriche, alle quali comunque hanno titolo ad accedere.
Il riferimento, operato dal rimettente, all’ipotesi di un’appropriazione
dell’acqua pubblica a mero scopo di commercializzazione – indipendentemente
quindi da un uso industriale, agricolo o comunque
produttivo – esula dall’oggetto del giudizio principale e pertanto non assume
rilevanza nell’attuale incidente di legittimità costituzionale.
Essendo mirata in definitiva ad indurre un sindacato sulle scelte
discrezionali sanzionatorie del legislatore, in una situazione non
caratterizzata dalla manifesta irragionevolezza delle relative opzioni, la questione sollevata dal rimettente risulta
inammissibile.
6. – Parimenti inammissibile è la questione basata sulla presunta
irragionevolezza della depenalizzazione dell’impossessamento abusivo di acqua pubblica, in quanto si doterebbe un bene prezioso
per la collettività di una tutela meno intensa rispetto ad altri beni di minore
rilevanza nella scala dei valori costituzionali. Il rimettente tuttavia non
precisa quali sarebbero tali beni e non indica neppure quali dovrebbero essere
i criteri oggettivi per istituire una simile gerarchia di valori, assunta come
punto di riferimento astratto per motivare l’asserita violazione, sotto questo
profilo, dell’art. 3 Cost. La questione è pertanto inammissibile per carente
motivazione sulla non manifesta infondatezza.
7. – Non ha maggior pregio la questione costruita sulla presunta
arbitrarietà della depenalizzazione sotto il profilo
intertemporale, giacché, ad avviso del rimettente, i comportamenti anteriori
all’entrata in vigore della norma depenalizzatrice
sarebbero sottoposti al rigore della norma penale, mentre quelli successivi
sarebbero assoggettati soltanto alla sanzione amministrativa.
L’affermazione del rimettente prova troppo.
Difatti, se il ragionamento potesse avere ingresso nella considerazione del
giudice costituzionale, tutte le norme di depenalizzazione
sarebbero illegittime, giacché vi è pur sempre un termine temporale della loro
entrata in vigore. A ciò si deve aggiungere che l’effetto discriminatorio
prospettato dal giudice a quo non
potrebbe verificarsi, in ragione dell’art. 2 cod. pen., del quale non si tiene alcun conto nell’ordinanza di
rimessione. La questione pertanto difetta palesemente di rilevanza sotto il
suddetto profilo ed è di conseguenza inammissibile.
8. – Infine, come già rilevato al par. 4, la legge non distingue tra
utilizzazioni industriali, agricole o di altro tipo,
ma soltanto tra usi domestici e altri usi. Non è ipotizzabile pertanto, al
contrario di quanto asserito dal rimettente, una discriminazione tra gli usi
industriali e gli altri usi possibili, che possono
essere di vario genere e sono tutti assoggettabili, in caso di trasgressione
delle norme amministrative, al medesimo regime sanzionatorio. La questione è
quindi inammissibile per erronea ricostruzione del quadro normativo.
per questi motivi
dichiara inammissibili le questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 23, comma 4, del decreto legislativo 11 maggio 1999,
n. 152 (Disposizioni sulla tutela delle acque dall’inquinamento e recepimento
della direttiva 91/271/CEE concernente il trattamento delle acque reflue urbane
e della direttiva 91/676/CEE relativa alla protezione delle acque
dall’inquinamento provocato dai nitrati provenienti da fonti agricole), come
modificato dall’art. 7 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 258
(Disposizioni correttive e integrative del decreto legislativo 11 maggio 1999,
n.
Così deciso in Roma, nella sede
della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il
7 luglio 2010.
F.to:
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in