SENTENZA N. 210
ANNO 2013
Commenti
alla decisione di
I. Gioacchino Romeo, Giudicato
penale e resistenza alla lex mitior
sopravvenuta; note sparse a margine di Corte cost. n. 210 del 2013, nella
Rivista telematica Diritto penale
contemporaneo
II. Davide Antonio
Ambroselli, La
Corte costituzionale torna a pronunciarsi sulla retroattività della lex mitior: applicabilità del
giudizio-pilota a fattispecie ad esso assimilabili non pervenute alla Corte di
Strasburgo. Questioni a margine della sentenza n. 210 del 2013 della Corte
Costituzionale, per g.c. di Diritti fondamentali
III. Elisabetta Lamarque e
Francesco Viganò, Sulle
ricadute interne della sentenza Scoppola, nella
Rivista telematica Diritto penale
contemporaneo
IV: Elisabetta Lamarque, Nuove
possibilità di sollevare questioni di costituzionalità per il giudice
dell’esecuzione penale, in Costituzionalismo.it
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco GALLO Presidente
- Luigi MAZZELLA Giudice
- Gaetano SILVESTRI ”
- Sabino CASSESE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 7, comma 1, e 8
del decreto-legge 24 novembre 2000, n. 341 (Disposizioni urgenti per
l’efficacia e l’efficienza dell’Amministrazione della giustizia), convertito,
con modificazioni, dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4, promosso dalla Corte di
cassazione, sezioni unite penali, nel procedimento penale a carico di E.S. con
ordinanza del 10 settembre 2012, iscritta al n. 268 del registro ordinanze 2012
e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima
serie speciale, dell’anno 2012.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nella camera di consiglio del 24 aprile 2013 il Giudice
relatore Giorgio Lattanzi.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza depositata il 10 settembre 2012 e pervenuta a questa Corte
il 6 novembre 2012 (r.o. n. 268 del 2012),
Il giudice a quo premette di essere investito di un
ricorso avverso un provvedimento del Tribunale di Spoleto, in funzione di
giudice dell’esecuzione penale, che aveva rigettato
la richiesta del condannato, ai sensi degli artt. 666 e 670 del codice di
procedura penale, di sostituzione della pena dell’ergastolo con quella
temporanea di trenta anni di reclusione, affermando che «nessuna violazione del
principio di legalità di cui all’art. 7 della CEDU era stata accertata, nel
caso specifico, dalla Corte EDU, sicché non era sopravvenuto all’esecutività
della condanna alcun fatto nuovo».
Aggiunge
Prima della conclusione del
giudizio d’appello, però, era entrato in vigore il decreto-legge n. 341 del
2000, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 4 del 2001, il cui art. 7,
nel dichiarato intento di dare una interpretazione autentica al secondo periodo
dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., come modificato dalla legge n. 479 del
1999, aveva stabilito che l’espressione «pena dell’ergastolo» ivi contenuta
doveva intendersi riferita all’ergastolo senza isolamento diurno e aveva
inserito alla fine della stessa disposizione un terzo periodo, secondo il quale
«Alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di reati
e di reato continuato, è sostituita quella dell’ergastolo».
In applicazione del citato
art. 7
Il ricorso è stato assegnato
alle sezioni unite in considerazione della speciale importanza della questione,
relativa alla possibilità per il giudice dell’esecuzione, in attuazione dei
principi enunciati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (d’ora in avanti:
«Corte EDU») con la sentenza
della Grande Camera 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, di
sostituire la pena dell’ergastolo, inflitta all’esito del giudizio abbreviato,
con la pena di trenta anni di reclusione, in tal modo modificando il giudicato
con l’applicazione, nella successione di leggi intervenute in materia, di
quella più favorevole.
Il rimettente, premesso che
le Parti contraenti della CEDU, ai sensi dell’art. 46 della citata Convenzione,
si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive pronunciate dalla Corte di
Strasburgo nelle controversie nelle quali sono parti e che lo Stato convenuto
ha l’obbligo giuridico di adottare, sotto il controllo del Comitato dei
ministri, «le misure generali e/o, se del caso, individuali per porre fine alla
violazione constatata, eliminarne le conseguenze e scongiurare ulteriori
violazioni analoghe», rileva che
In questa prospettiva, la
giurisprudenza della Corte EDU, originariamente finalizzata alla soluzione di
specifiche controversie relative a casi concreti, si sarebbe caratterizzata nel
tempo «per una evoluzione improntata alla valorizzazione di una funzione
paracostituzionale di tutela dell’interesse generale al rispetto del diritto
oggettivo», fornendo sempre più spesso, nel rilevare la contrarietà alla CEDU
di situazioni interne di portata generale, indicazioni allo Stato responsabile
sui rimedi da adottare per rimuovere il contrasto.
Secondo
Il giudice a quo ricorda il contenuto della sentenza
della Corte EDU, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, che viene in
rilievo nel caso in esame, perché presenta i connotati sostanziali di una
"sentenza pilota”, in quanto, pur non fornendo specifiche indicazioni sulle
misure generali da adottare, «evidenzia comunque l’esistenza, all’interno
dell’ordinamento giuridico italiano, di un problema strutturale dovuto alla non
conformità rispetto alla CEDU dell’art. 7 del decreto-legge n. 341 del 2000,
nella interpretazione datane dalla giurisprudenza interna».
Ne conseguirebbe che
eventuali effetti ancora perduranti della violazione, determinata da una
illegittima applicazione di una norma interna di diritto penale sostanziale
interpretata in senso non convenzionalmente orientato, «devono dunque essere
rimossi anche nei confronti di coloro che, pur non avendo proposto ricorso a
Strasburgo, si trovano in una situazione identica a quella oggetto della
decisione adottata dal giudice europeo per il caso Scoppola».
Secondo la sentenza
Scoppola, l’art. 7 della CEDU non garantisce soltanto il principio di non
retroattività delle leggi penali più severe, ma impone anche che, nel caso in
cui la legge penale in vigore al momento della commissione del reato e quelle
successive approvate prima della condanna definitiva siano differenti, il
giudice debba applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo,
con l’effetto che, nell’ipotesi di successione di leggi penali nel tempo,
costituisce violazione dell’art. 7, paragrafo 1, della CEDU, l’applicazione
della pena più sfavorevole al reo.
Le sezioni unite della Corte
di cassazione aggiungono che per
Secondo la Corte di
cassazione «tale precedente sovranazionale», censurando il meccanismo
processuale col quale si attribuisce efficacia retroattiva all’art. 7, comma 1,
del decreto-legge n. 341 del 2000, qualificato come norma d’interpretazione
autentica dell’art. 442 cod. proc. pen. (nel testo risultante dalla modifica
operata dalla legge n. 479 del 1999) enuncia, in linea di principio, una
«regola di giudizio di portata generale, che, in quanto tale, è astrattamente
applicabile a fattispecie identiche a quella esaminata» e quindi anche al caso
dell’attuale ricorrente.
Ne conseguirebbe che l’avere
inflitto al ricorrente, la cui posizione è sostanzialmente sovrapponibile a
quella di Scoppola, la pena dell’ergastolo, anziché quella di trent’anni di
reclusione, avrebbe violato il suo diritto all’applicazione retroattiva (art. 7
della CEDU) della legge penale più favorevole, e la violazione inevitabilmente
si rifletterebbe, con effetti perduranti in fase esecutiva, sul diritto
fondamentale alla libertà personale.
Questa situazione, anche a
costo di porre in crisi il "dogma” del giudicato, non potrebbe essere
tollerata, perché legittimerebbe «l’esecuzione di una pena ritenuta,
oggettivamente e quindi ben al di là della species facti, illegittima dall’interprete autentico
della CEDU», determinando una patente violazione del principio di parità di
trattamento tra condannati che versano in identica posizione. Il caso sarebbe
diverso da quello dell’applicazione illegittima di una pena esclusivamente
perché avvenuta in seguito a un giudizio ritenuto dalla Corte EDU non equo ai
sensi dell’art. 6 della CEDU, in quanto in questo caso «l’apprezzamento,
vertendo su eventuali errores in procedendo», dovrebbe essere
compiuto caso per caso, sì che solo «un vincolante dictum della Corte di Strasburgo sulla medesima fattispecie»
potrebbe mettere in discussione il giudicato.
Il caso in esame non sarebbe
dissimile da ogni altra situazione in cui vi sia stata condanna in forza di una
legge penale dichiarata ex post,
nella sua parte precettiva o sanzionatoria, illegittima o comunque
inapplicabile perché in contrasto con una norma di rango superiore.
Non sarebbe di ostacolo
l’irrevocabilità del giudicato, la cui crisi sarebbe «riscontrabile nell’art.
2, comma terzo, cod. pen.», secondo cui la pena detentiva inflitta con condanna
definitiva si converte automaticamente nella corrispondente pena pecuniaria, se
la legge posteriore al giudicato prevede esclusivamente quest’ultima, «regola
questa che deroga a quella posta invece dal quarto comma dello stesso art. 2
cod. pen. (primato della lex mitior, salvo
che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile)».
Alla novità normativa
richiesta dall’art. 2 citato sarebbe assimilabile, in via analogica, il novum dettato
dalla Corte EDU in tema di legalità della pena. In entrambi i casi l’esigenza
imprescindibile di far cessare gli effetti negativi dell’esecuzione di una pena
contra legem
dovrebbe prevalere sulla tenuta del giudicato.
Stante la centrale rilevanza
assunta dalla decisione della Corte EDU sul caso Scoppola nella valutazione
della posizione del ricorrente, s’imporrebbe la verifica della compatibilità
degli artt. 7 e 8 del decreto-legge n. 341 del 2000, convertito, con
modificazioni, dalla legge n. 4 del 2001, con il principio di legalità
convenzionale di cui all’art. 7 della CEDU, nell’interpretazione datane dalla
Corte europea, costituente, quale norma interposta, il parametro costituzionale
espresso dall’art. 117, primo comma, Cost.
Il giudice a quo ritiene che non vi siano spazi per
un’interpretazione conforme alla CEDU delle disposizioni suddette, dalla cui
applicazione è derivata e tuttora deriva la violazione del diritto fondamentale
del condannato all’applicazione della norma più favorevole, costituita nel caso
specifico dall’art. 30, comma 1, lettera b),
della legge n. 479 del 1999. Tale conclusione si imporrebbe alla stregua della
espressa qualificazione come "interpretazione autentica”, contenuta nel titolo
del Capo III del decreto-legge n. 341 del 2000, convertito, con modificazioni,
dalla legge n. 4 del 2001, del tenore dell’art. 7 del citato decreto-legge e
del contenuto della relativa Relazione governativa, in cui si precisa che la
disposizione intende risolvere in via interpretativa i dubbi circa
l’applicabilità della disciplina sul giudizio abbreviato nei casi in cui,
stante il concorso di reati, alla pena dell’ergastolo debba aggiungersi anche
la sanzione dell’isolamento diurno.
La legge interpretativa, in
quanto materialmente successiva nel tempo a quella interpretata, con cui si
salda dando luogo ad un precetto normativo unitario, avrebbe efficacia
retroattiva in deroga al principio di irretroattività della legge in generale,
fissato dall’art. 11 delle preleggi.
La disciplina di natura
transitoria di cui all’art. 8 del decreto-legge n. 341 del 2000, come
sostituito in sede di conversione, che prevede la facoltà dell’imputato di
revocare la richiesta di giudizio abbreviato nei casi in cui è applicabile o è
stata applicata la pena dell’ergastolo con isolamento diurno, confermerebbe
l’efficacia retroattiva attribuita dal legislatore all’art. 7 citato.
L’impossibilità di una
interpretazione della normativa interna conforme all’art. 7 della CEDU ha
indotto
Il giudice a quo, premessa la distinzione tra legge
autenticamente interpretativa, che si limita a indicare il vero significato del
testo della legge preesistente e legge che pur formalmente dichiarata
interpretativa si rivela invece innovativa, perché intacca antinomicamente la ratio della legge, osserva che la
cosiddetta «interpretazione autentica dell’art. 442 comma 2 del codice di
procedura penale», operata dall’art. 7 del decreto-legge n. 341 del 2000,
rientra nella seconda categoria di norme. Ciò in quanto il testo dell’art. 442,
comma 2, secondo periodo, cod. proc. pen., così come introdotto dalla legge n.
479 del 1999, non presenterebbe alcuna ambiguità interpretativa, perché la pena
dell’ergastolo (con o senza isolamento diurno) doveva essere sostituita, in
caso di giudizio abbreviato, con la pena di trenta anni di reclusione.
Secondo
Ne conseguirebbe che il
giudice ordinario, non potendo disapplicare la legge formalmente
interpretativa, potrebbe solo sottoporla all’esame della Corte costituzionale.
Sottolinea, inoltre, la
Corte di cassazione che gli aspetti processuali propri del giudizio abbreviato
sono strettamente collegati «con aspetti sostanziali, dovendosi tali ritenere
quelli relativi alla diminuzione o alla sostituzione della pena, profilo questo
che si risolve indiscutibilmente in un trattamento penale di favore». La
richiesta di giudizio abbreviato cristallizzerebbe il trattamento sanzionatorio
vigente al momento di essa, con l’effetto che una norma sopravvenuta di sfavore
non potrebbe retroattivamente deludere e vanificare il legittimo affidamento
riposto dall’interessato nello svolgimento del giudizio secondo le più
favorevoli regole in vigore all’epoca della scelta processuale.
La norma dell’art. 7 e di riflesso
quella del successivo art. 8 del decreto-legge n. 341 del 2000 sembrerebbero
essere in contrasto in primo luogo con il parametro di cui all’art. 117, primo
comma, Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione
interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, e quindi alla norma
interposta contenuta nell’art. 7 della CEDU, che delineerebbe, secondo
l’interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo, un nuovo profilo di tutela
del principio di legalità convenzionale in materia penale: non solo la
irretroattività della legge penale più severa, principio già contenuto
nell’art. 25, secondo comma, Cost., ma anche e implicitamente la retroattività
o l’ultrattività della lex mitior, in
quanto andrebbe ad incidere sulla configurabilità del reato o sulla specie e
sull’entità della pena e, quindi, su diritti fondamentali della persona.
In conclusione, secondo
La citata normativa interna,
stante il suo carattere retroattivo, contrasterebbe inoltre con l’art. 3 Cost.,
violando il canone di ragionevolezza e il principio di uguaglianza. Essa,
infatti, interverrebbe sull’art. 442, comma 2, ultimo periodo, cod. proc. pen.
nel testo risultante dalla legge n. 479 del
In punto di rilevanza,
Aggiunge la Corte rimettente
che l’eventuale dichiarazione di incostituzionalità delle norme interne, avendo
una forza invalidante ex tunc, la cui portata, già implicita nell’art. 136
Cost., è chiarita dall’art. 30, quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione
e sul funzionamento della Corte costituzionale), inciderebbe sull’esecuzione ancora in corso della pena
illegittimamente inflitta in applicazione della più severa norma penale
sostanziale, sospettata, nella parte relativa alla sua efficacia retroattiva,
di essere in contrasto con la Carta costituzionale.
L’art. 30, quarto comma, della
legge n. 87 del 1953 dispone che, quando in applicazione della norma dichiarata
costituzionalmente illegittima è stata pronunciata sentenza irrevocabile di
condanna, ne cessano l’esecuzione e tutti gli effetti penali, e secondo la
Corte di cassazione, da questa disposizione consegue che, «nel caso di
dichiarazione di incostituzionalità di una norma penale sostanziale, la tutela
della libertà personale si unisce alla forza espansiva della dichiarazione di
incostituzionalità e travolge anche il giudicato, con effetti diretti
sull’esecuzione, ancora in atto, della condanna irrevocabile».
Il campo di operatività
dell’art. 30, quarto comma, sarebbe più esteso rispetto a quello dell’art. 673
cod. proc. pen., il quale si riferirebbe all’abrogazione o dichiarazione di
incostituzionalità di fattispecie incriminatrici nella loro interezza, in
quanto impedirebbe anche l’esecuzione della pena o della frazione di pena
inflitta in base alla norma dichiarata costituzionalmente illegittima sul
punto, senza coinvolgere il precetto.
Il citato art. 30, quarto
comma, si porrebbe come eccezione alla regola di cui al quarto comma dell’art.
2 del codice penale, secondo cui si applica al reo la disposizione più
favorevole, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile, e
legittimerebbe quindi il superamento del giudicato di fronte alle primarie
esigenze, insite nell’intero sistema penale, di tutelare il diritto
fondamentale della persona alla legalità della pena anche in fase esecutiva e
di assicurare parità di trattamento tra i condannati che versano in una
identica situazione.
2.– Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le
questioni siano dichiarate inammissibili ed infondate.
L’Avvocatura
dello Stato osserva che in seguito all’entrata in vigore, in data 1° dicembre
2009, del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, ratificato e reso esecutivo
con legge 2 agosto 2008, n. 130, è stata impressa una diversa configurazione al
rapporto tra le norme della CEDU e l’ordinamento interno. In virtù dell’art. 6
del predetto Trattato, indipendentemente dalla formale adesione alla CEDU, da
parte dell’Unione europea, i diritti elencati dalla Convenzione verrebbero
ricondotti all’interno delle fonti dell’Unione sia in via diretta ed immediata,
tramite il loro riconoscimento come «principi generali del diritto
dell’Unione», sia in via mediata, come conseguenza del riconoscimento che
Secondo
l’Avvocatura, a norma dell’art. 49, primo paragrafo, della Carta da ultimo
citata, se successivamente alla commissione del reato, la legge prevede
l’applicazione di una pena più lieve, occorre applicare quest’ultima. In virtù
dell’art. 52 della Carta, inoltre, tutti i diritti previsti dalla CEDU che
trovino un corrispondente all’interno della Carta di Nizza dovrebbero ritenersi
tutelati anche a livello comunitario.
Di conseguenza
il giudice comune sarebbe tenuto a disapplicare qualsiasi norma nazionale «in
contrasto con i diritti fondamentali sanciti dalla CEDU, in base al principio,
fondato sull’art. 11 Cost., secondo cui "le norme di diritto comunitario sono
direttamente operanti nell’ordinamento interno”».
Questa
interpretazione non troverebbe «ostacoli di operatività», in quanto il
principio di retroattività o ultrattività della lex mitior in relazione all’esecuzione
penale si armonizzerebbe con la disposizione di cui all’art. 30, quarto comma,
della legge n. 87 del 1953, che impedisce l’esecuzione di una pena o di una
frazione di pena inflitta in base ad una norma dichiarata illegittima,
incidendo su una situazione non ancora esaurita, «senza coinvolgere il precetto
penale, assicurando la legalità della pena attraverso un’effettiva parità di
trattamento nei confronti di condannati che versano in una identica situazione
di diritto».
Considerato in diritto
1.– Con ordinanza depositata il 10 settembre 2012 e pervenuta a questa Corte
il 6 novembre 2012,
La Corte di cassazione è stata investita con un ricorso contro un
provvedimento del Tribunale di Spoleto che, in sede esecutiva, ha rigettato la
richiesta di un condannato diretta a vedersi sostituire la pena dell’ergastolo,
applicata nel corso di un giudizio abbreviato, con la pena di trenta anni di
reclusione, sostituzione che, secondo il ricorso, si sarebbe dovuta disporre
perché il condannato si trovava in una situazione analoga a quella che nel caso
Scoppola contro Italia aveva formato oggetto della sentenza
della Corte europea dei diritti dell’uomo (d’ora in avanti: «Corte EDU»),
Grande Camera, 17 settembre 2009.
Con questa
sentenza la Corte EDU aveva rilevato la violazione da parte dello Stato
italiano dell’art. 7, paragrafo 1, della CEDU, cagionata dall’applicazione
dell’art. 7 del decreto-legge n. 341 del 2000 e aveva dichiarato che lo Stato
italiano era tenuto ad assicurare che la pena dell’ergastolo, inflitta al
ricorrente, fosse sostituita con una pena non superiore a quella della
reclusione di anni trenta.
Il Tribunale di Spoleto, al quale il condannato si era rivolto per
ottenere la sostituzione della pena, aveva rigettato la richiesta rilevando che
nessuna violazione dell’art. 7 della CEDU era stata accertata dalla Corte EDU
nel caso del richiedente.
Le sezioni unite della Corte di cassazione, che non condividono le
ragioni del rigetto, hanno proposto questioni di legittimità costituzionale
degli artt. 7 e 8 del decreto-legge n. 341 del 2000, ritenendo che queste norme
siano di ostacolo al doveroso accoglimento della richiesta di sostituzione
della pena.
2.– Secondo le sezioni unite, la sentenza
della Corte EDU ha rilevato nel nostro ordinamento un problema strutturale e
gli eventuali effetti, tuttora perduranti, della violazione devono essere
eliminati, perché essa contiene una «regola di giudizio di portata generale,
che, in quanto tale, è astrattamente applicabile a fattispecie identiche a
quella esaminata».
Il giudice a quo, nell’esercizio dei suoi poteri di apprezzamento e
qualificazione della fattispecie sottoposta alla sua cognizione, premette che
il ricorrente si trova in una situazione identica a quella che ha connotato il
caso Scoppola e perciò ritiene che anche nei suoi confronti la pena
dell’ergastolo, applicata in forza della norma convenzionalmente illegittima,
dovrebbe essere sostituita con la pena di trenta anni di reclusione. «Di fronte
a pacifiche violazioni convenzionali di carattere oggettivo e generale, già in
precedenza stigmatizzate in sede europea – aggiunge il giudice a quo – il mancato esperimento del
rimedio di cui all’art. 34 CEDU (ricorso individuale) e la conseguente
mancanza, nel caso concreto, di una sentenza della Corte EDU cui dare
esecuzione non possono essere di ostacolo a un intervento dell’ordinamento
giuridico italiano, attraverso la giurisdizione, per eliminare una situazione
di illegalità convenzionale, anche sacrificando il valore della certezza del
giudicato, da ritenersi recessivo rispetto ad evidenti e pregnanti
compromissioni in atto di diritti fondamentali della persona. La preclusione,
effetto proprio del giudicato, non può operare allorquando risulti pretermesso,
con effetti negativi perduranti, un diritto fondamentale della persona, quale
certamente è quello che incide sulla libertà: s’impone, pertanto, in questo
caso di emendare "dallo stigma dell’ingiustizia” una tale situazione». Il caso,
secondo l’ordinanza di rimessione, non sarebbe dissimile da quello in cui vi è
stata una condanna in forza di una legge dichiarata ex post costituzionalmente illegittima nella sua parte precettiva o
sanzionatoria.
A parere delle sezioni unite,
all’applicazione della regola contenuta nella sentenza
Scoppola si oppone però l’art. 7 del decreto-legge n. 341 del 2000, che,
per i motivi indicati nella sentenza della Corte EDU, appare costituzionalmente
illegittimo e, in base all’art. 30, quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n.
87, recante «Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte
costituzionale» (il quale dispone che quando in applicazione della norma
dichiarata costituzionalmente illegittima è stata pronunciata sentenza
irrevocabile di condanna ne cessano l’esecuzione e tutti gli effetti penali),
la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 7 consentirebbe
l’applicazione dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. nel testo anteriore alla
modificazione operata con il decreto-legge n. 341 del 2000 e, dunque, la
richiesta sostituzione della pena. Infatti, secondo le sezioni unite, l’art.
30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953 dovrebbe operare con un duplice effetto,
per superare sia il limite del giudicato sia quello del quarto comma dell’art.
2 del codice penale, il quale esclude l’applicabilità di disposizioni «più
favorevoli al reo» sopravvenute, qualora «sia stata pronunciata sentenza
irrevocabile».
3.– Il quadro normativo interno nel cui ambito si
pone la questione è caratterizzato da una successione di varie leggi.
La
disposizione originaria dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. prevedeva, nel
caso di giudizio abbreviato, la sostituzione della pena dell’ergastolo con
quella di trenta anni di reclusione. Questa norma è stata però dichiarata
costituzionalmente illegittima per eccesso di delega (sentenza n. 176 del
1991) e, di conseguenza, tra il 1991 e il 1999, l’accesso al rito
abbreviato, sulla base degli artt. 438 e 442 cod. proc. pen., all’epoca
vigenti, è stato precluso agli imputati dei delitti puniti con l’ergastolo.
L’art. 30, comma 1, lettera b),
della legge n. 479 del 1999, entrata in vigore il 2 gennaio 2000, ha modificato
l’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., reintroducendo la possibilità di
procedere con il giudizio abbreviato per i reati punibili con l’ergastolo, e ha
previsto la sostituzione di questa pena con quella di trenta anni di
reclusione.
Il decreto-legge n. 341 del 24 novembre 2000, entrato in vigore lo stesso
24 novembre 2000, e convertito dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4, all’art.
In seguito a quest’ultima modifica normativa, il giudizio abbreviato, che
si conferma applicabile alla generalità dei delitti puniti con l’ergastolo,
consente al condannato di beneficiare della sostituzione della pena dell’ergastolo
senza isolamento diurno con quella di trenta anni di reclusione e della
sostituzione della pena dell’ergastolo con isolamento diurno con quella
dell’ergastolo semplice.
4.– Con la sentenza
del 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, la Grande Camera della Corte
EDU ha preso in considerazione il quadro normativo sopraindicato, e in
particolare la vicenda relativa alla successione tra la legge n. 479 del 1999 e
il decreto-legge n. 341 del 2000, ravvisando una
violazione degli artt. 6 e 7 della CEDU.
In particolare,
5.– Delimitato il quadro normativo in cui si colloca
la questione in esame, va considerato che l’Avvocatura generale dello Stato ne ha eccepito l’inammissibilità, sostenendo
che, in seguito all’entrata in vigore, il 1° dicembre 2009, del Trattato di
Lisbona del 13 dicembre 2007, ratificato e reso esecutivo con la legge 2 agosto
2008, n. 130, è stata impressa una diversa configurazione al rapporto tra le
norme della CEDU e l’ordinamento interno. In virtù dell’art. 6 del Trattato,
indipendentemente dalla formale adesione alla CEDU da parte dell’Unione
europea, i diritti elencati dalla Convenzione sarebbero stati ricondotti
all’interno delle fonti dell’Unione, sia in via diretta e immediata, tramite il
loro riconoscimento come «principi generali del diritto dell’Unione», sia in
via mediata, come conseguenza del riconoscimento che
Secondo
l’Avvocatura dello Stato, a norma dell’art. 49, paragrafo 1, della Carta dei
diritti fondamentali, se successivamente alla commissione del reato sopravviene
una legge che prevede una pena più lieve, è questa che deve trovare
applicazione. In virtù dell’art. 52 della Carta, inoltre, tutti i diritti
previsti dalla CEDU che trovino in essa una corrispondenza devono ritenersi
tutelati anche a livello comunitario. Di conseguenza il giudice comune dovrebbe
disapplicare qualsiasi norma nazionale «in contrasto con i diritti fondamentali
sanciti dalla CEDU, in base al principio, fondato sull’art. 11 Cost., secondo
cui le norme di diritto comunitario sono direttamente operanti nell’ordinamento
interno».
L’eccezione di
inammissibilità è priva di fondamento.
Come è già
stato rilevato, l’adesione dell’Unione europea alla CEDU non è ancora avvenuta,
«rendendo allo stato improduttiva di effetti la statuizione del paragrafo 2 del
nuovo art. 6 del Trattato sull’Unione europea, come modificato dal Trattato di
Lisbona» (sentenze n. 303 e n. 80 del 2011).
Inoltre questa
Corte ha già avuto occasione di chiarire che, «in linea di principio, dalla
qualificazione dei diritti fondamentali oggetto di disposizioni della CEDU come
princìpi generali del diritto comunitario non può farsi discendere la
riferibilità alla CEDU del parametro di cui all’art. 11 Cost., né,
correlativamente, la spettanza al giudice comune del potere-dovere di non
applicare le norme interne contrastanti con la predetta Convenzione» (sentenze n. 303 del 2011;
n. 349 del 2007).
È da aggiungere che «i princìpi in questione rilevano unicamente in rapporto
alle fattispecie cui il diritto comunitario (oggi, il diritto dell’Unione) è
applicabile» (sentenze n. 303 e n. 80 del 2011),
e poiché nel caso di specie non siamo di fronte ad una fattispecie
riconducibile al diritto comunitario non vi è spazio per un’eventuale
disapplicazione da parte del giudice ordinario.
La stessa
Corte di giustizia dell’Unione europea ha del resto ritenuto che il rinvio
operato dall’art. 6, paragrafo 3, del Trattato sull’Unione europea alla CEDU
non regola i rapporti tra ordinamenti nazionali e CEDU né, tantomeno, impone al
giudice nazionale, in caso di conflitto tra una norma di diritto nazionale e la
Convenzione europea, di applicare direttamente le disposizioni di quest’ultima,
disapplicando la norma di diritto nazionale in contrasto con essa (sentenza
del 24 aprile 2012, in causa C-571/10, Kamberaj).
6.– Un profilo di inammissibilità è
invece ravvisabile rispetto alla questione avente ad oggetto l’art. 8 del
decreto-legge n. 341 del 2000, che disciplina, in via transitoria, il potere
dell’imputato di revocare la richiesta di giudizio abbreviato nel termine di
trenta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto in questione.
Infatti, mentre le censure di costituzionalità riguardano sia l’art. 7 sia
l’art. 8 del decreto-legge n. 341 del 2000, nell’ordinanza di rimessione manca
la motivazione sulla rilevanza della questione relativa a quest’ultima norma,
della quale non è indicato l’ambito di applicabilità nel giudizio principale.
Ne consegue l’inammissibilità della
questione relativa all’art. 8.
7.– Dal tenore complessivo
dell’ordinanza di rimessione emerge che la questione di legittimità
costituzionale, pur coinvolgendo formalmente l’intero art. 7 del decreto-legge
n. 341 del 2000, deve intendersi limitata al solo comma 1 di tale articolo,
che, in virtù della sua pretesa natura interpretativa, ne determina l’applicazione
retroattiva. L’art. 7, comma 2, dello stesso decreto-legge, modificando l’art.
442, comma 2, cod. proc. pen., si limita a dettare la nuova disciplina del rito
abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo, da applicarsi "a regime” e
dunque nelle fattispecie successive alla sua entrata in vigore, che non
riguardano il caso oggetto del giudizio a
quo.
7.1.– Una volta limitato il campo delle
censure al solo art. 7, comma 1, del decreto-legge n. 341 del 2000 vanno
esaminati alcuni altri aspetti problematici, con possibili riflessi
sull’ammissibilità della questione di legittimità costituzionale.
L’ordinanza della Corte di cassazione muove dal presupposto che alla sentenza
della Corte EDU emessa nei confronti di Scoppola debba darsi applicazione
anche nei casi, come quello in questione, che presentano le medesime
caratteristiche, senza che occorra per gli stessi una specifica pronuncia della
Corte EDU.
La norma fondamentale in tema di esecuzione delle sentenze della Corte
EDU è costituita dall’art. 46, paragrafo
1, della CEDU, che impegna gli Stati contraenti «a conformarsi alle sentenze
definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parte». Gli altri
paragrafi dell’art. 46 (dal 2 al 5) disciplinano le competenze del Comitato dei
ministri e della stessa Corte nell’esercizio dell’attività di controllo
sull’esecuzione delle sentenze da parte degli Stati responsabili delle
violazioni della CEDU.
L’art. 46 va letto in combinazione con l’art. 41 della CEDU, a norma del
quale, «se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei
suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta parte contraente non permette
che in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte
accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa» (sentenza n. 113 del
2011).
Nell’applicazione delle norme convenzionali ora ricordate,
A partire dalla sentenza
della Corte EDU del 13 luglio 2000, Scozzari e Giunta
contro Italia, si è affermato il principio – ormai consolidato – in forza
del quale, «quando la Corte constata una violazione, lo Stato convenuto ha
l’obbligo giuridico non solo di versare agli interessati le somme attribuite a
titolo dell’equa soddisfazione previste dall’articolo 41, ma anche di adottare
le misure generali e/o, se del caso, individuali necessarie» (Corte
EDU, Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia; Corte
EDU, Grande Camera, 1° marzo 2006, Sejdovic contro
Italia; Corte
EDU, Grande Camera, 8 aprile 2004, Assanidze contro
Georgia). Ciò in quanto, in base all’art. 41 della CEDU, le somme assegnate
a titolo di equo indennizzo mirano unicamente ad accordare un risarcimento per
i danni subiti dagli interessati nella misura in cui questi costituiscano una
conseguenza della violazione che non può in ogni caso essere cancellata (Corte
EDU, Grande Camera, 13 luglio 2000, Scozzari e Giunta
contro Italia).
La finalità delle misure individuali che lo Stato convenuto è chiamato ad
adottare viene puntualmente individuata dalla Corte di Strasburgo nella restitutio in integrum
della situazione della vittima. Queste misure devono porre, cioè, «il
ricorrente, per quanto possibile, in una situazione equivalente a quella in cui
si troverebbe se non vi fosse stata una inosservanza delle esigenze della
Convenzione», giacché «una sentenza che constata una violazione comporta per lo
Stato convenuto l’obbligo giuridico ai sensi dell’articolo 46 della Convenzione
di porre fine alla violazione e di eliminarne le conseguenze in modo da
ristabilire per quanto possibile la situazione anteriore a quest’ultima» (ex plurimis, Corte
EDU, Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia; Corte
EDU, 8 febbraio 2007, Kollcaku contro Italia; Corte
EDU, 10 novembre 2004, Sejdovic contro Italia; Corte
EDU, 18 maggio 2004, Somogyi contro Italia; Corte
EDU, Grande Camera, 8 aprile 2004, Assanidze contro
Georgia).
In una prospettiva più ampia, lo Stato convenuto è tenuto anche a
rimuovere gli impedimenti che, nella legislazione nazionale, si frappongono al
conseguimento dell’obiettivo: «ratificando
7.2.– Particolari obblighi di conformazione alle pronunce della Corte EDU
sono posti dalle cosiddette sentenze pilota, le quali traggono origine dalla
circostanza che spesso vengono presentati alla Corte numerosi ricorsi relativi
alla stessa situazione giuridica interna all’ordinamento dello Stato convenuto.
Normalmente questi ricorsi scaturiscono da un contesto interno di carattere
generale (in quanto coinvolgente una pluralità di persone) in contrasto con la
CEDU, e mettono in evidenza un problema di carattere strutturale
nell’ordinamento dello Stato convenuto. In queste sentenze
Secondo le sezioni unite della Corte di cassazione, la sentenza
della Corte EDU, Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia,
«che viene in rilievo nel caso in esame, presenta i connotati sostanziali di
una "sentenza pilota”, in quanto, pur astenendosi dal fornire specifiche
indicazioni sulle misure generali da adottare, evidenzia comunque l’esistenza,
all’interno dell’ordinamento giuridico italiano, di un problema strutturale
dovuto alla non conformità rispetto alla CEDU dell’art. 7 del decreto-legge n.
341 del 2000, nella interpretazione datane dalla giurisprudenza interna».
Il riferimento alle "sentenze pilota” però nel caso in esame non è
puntuale, dato che sono le stesse parole della sentenza
Scoppola a segnare un distacco da tale modello là dove essa precisa che,
«nella presente causa, la Corte non ritiene necessario indicare delle misure generali
che si impongano a livello nazionale nell’ambito dell’esecuzione della presente
sentenza». La sentenza prosegue concentrandosi sulle misure individuali, che
devono essere «volte a porre il ricorrente, per quanto possibile, in una
situazione equivalente a quella in cui si troverebbe se non vi fosse stata una
inosservanza delle esigenze della Convenzione», e aggiunge, più in generale,
che «una sentenza che constata una violazione comporta per lo Stato convenuto
l’obbligo giuridico ai sensi dell’articolo 46 della Convenzione di porre fine
alla violazione e di eliminarne le conseguenze in modo da ristabilire per
quanto possibile la situazione anteriore a quest’ultima».
Ciò premesso, deve rilevarsi che le modalità attraverso le quali lo Stato
membro si adegua con misure strutturali alle sentenze della Corte di Strasburgo
non sempre sono puntualmente determinate nel loro contenuto da tali pronunce,
ma ben possono essere individuate con un ragionevole margine di apprezzamento.
Perciò non è necessario che le sentenze della Corte EDU specifichino le "misure
generali” da adottare per ritenere che esse, pur discrezionalmente
configurabili, costituiscono comunque una necessaria conseguenza della
violazione strutturale della CEDU da parte della legge nazionale.
Quando ciò accade è fatto obbligo ai poteri dello Stato, ciascuno nel
rigoroso rispetto delle proprie attribuzioni, di adoperarsi affinché gli
effetti normativi lesivi della CEDU cessino. Deve quindi ritenersi che il
cosiddetto contenuto rilevante della sentenza
Scoppola, vale a dire la parte di essa rispetto alla quale si forma
l’obbligo posto dall’art. 46, paragrafo 1, della CEDU, e, più in generale, si
individuano quegli aspetti dei quali lo Stato responsabile della violazione
deve tenere conto per determinare le misure da adottare per conformarsi ad
esse, ha una portata più ampia di quella che, per quanto concerne
specificamente la violazione riscontrata, emerge dal dispositivo, nel quale la
Corte EDU si limita a dichiarare che è «lo Stato convenuto a dover assicurare
che la pena dell’ergastolo inflitta al ricorrente sia sostituita con una pena
conforme ai principi enunciati nella presente sentenza», cioè con la pena di trenta
anni di reclusione.
Al riguardo si deve ricordare che, all’indomani della sentenza
Scoppola, lo Stato italiano ha comunicato al Comitato dei ministri del
Consiglio d’Europa, l’organo preposto al controllo sull’esecuzione delle
pronunce della Corte EDU, di avere, quanto alle misure individuali, attivato,
nella forma dell’incidente di esecuzione, la procedura rivolta alla
sostituzione della pena dell’ergastolo con quella di trenta anni di reclusione.
In particolare nel foglio annesso alla Risoluzione del Comitato dei ministri
CM/ResDH(2011)66 si dà atto che la Procura generale
presso la Corte di cassazione ha trasmesso la sentenza in oggetto alla Procura
generale presso la Corte di appello di Roma, autorità giudiziaria competente ad
eseguire la sentenza di condanna emessa nei confronti di Scoppola, e che la
Procura generale presso la Corte di appello di Roma, a sua volta, ha investito
Nel foglio annesso si precisa ulteriormente che l’11 febbraio 2010 la
Corte di cassazione ha accolto la richiesta del Procuratore generale e che
dunque la pena dell’ergastolo è stata sostituita con quella di trenta anni di
reclusione. Inoltre, con riferimento alle misure generali, lo Stato italiano ha
comunicato che alla luce dell’«effetto diretto» accordato dai giudici italiani
alle sentenze della Corte europea, e in vista delle possibilità offerte dalla
procedura dell’incidente di esecuzione alle persone che possono trovarsi in una
situazione simile a quella del ricorrente nel presente caso, le autorità
italiane considerano che la pubblicazione e la diffusione della sentenza della
Corte europea ai tribunali competenti costituiscono misure sufficienti per
prevenire violazioni simili.
Il Comitato, nella risoluzione citata, adottata l’8 giugno 2011, dopo
avere esaminato le misure individuali e generali, prese dallo Stato italiano
(indicate appunto nel foglio annesso), ha dichiarato che questo aveva adempiuto
agli obblighi previsti dall’art. 46, paragrafo 2, della Convenzione e ha deciso
di chiudere il caso.
Tutte le ragioni considerate inducono a concludere che fondatamente la
Corte di cassazione ha ritenuto che la sentenza
Scoppola non consenta all’Italia di limitarsi a sostituire la pena
dell’ergastolo applicata in quel caso, ma la obblighi a porre riparo alla
violazione riscontrata a livello normativo e a rimuoverne gli effetti nei
confronti di tutti i condannati che si trovano nelle medesime condizioni di
Scoppola.
7.3.– Spetta anzitutto al legislatore rilevare il conflitto verificatosi
tra l’ordinamento nazionale e il sistema della Convenzione e rimuovere le disposizioni
che lo hanno generato, privandole di effetti; se però il legislatore non
interviene, sorge il problema relativo alla eliminazione degli effetti già
definitivamente prodotti in fattispecie uguali a quella in cui è stata
riscontrata l’illegittimità convenzionale ma che non sono state denunciate
innanzi alla Corte EDU, diventando così inoppugnabili. Esiste infatti una
radicale differenza tra coloro che, una volta esauriti i ricorsi interni, si
sono rivolti al sistema di giustizia della CEDU e coloro che, al contrario, non
si sono avvalsi di tale facoltà, con la conseguenza che la loro vicenda
processuale, definita ormai con la formazione del giudicato, non è più
suscettibile del rimedio convenzionale.
Il valore del
giudicato, attraverso il quale si esprimono
preminenti ragioni di certezza del diritto e di stabilità nell’assetto dei
rapporti giuridici, del resto, non è estraneo alla Convenzione, al punto che la
stessa sentenza
Scoppola vi ha ravvisato un limite all’espansione della legge penale più
favorevole, come questa Corte ha già avuto occasione di porre in evidenza (sentenza n. 236 del
2011). Perciò è da ritenere che, in linea di principio, l’obbligo di
adeguamento alla Convenzione, nel significato attribuitole dalla Corte di
Strasburgo, non concerne i casi, diversi da quello oggetto della pronuncia, nei
quali per l’ordinamento interno si è formato il giudicato, e che le deroghe a
tale limite vanno ricavate, non dalla CEDU, che non le esige, ma nell’ambito
dell’ordinamento nazionale.
Quest’ultimo, difatti, conosce ipotesi
di flessione dell’intangibilità del giudicato, che la legge prevede nei casi in
cui sul valore costituzionale ad esso intrinseco si debbano ritenere prevalenti
opposti valori, ugualmente di dignità costituzionale, ai quali il legislatore
intende assicurare un primato.
Tra questi, non vi è dubbio che possa
essere annoverata la tutela della libertà personale, laddove essa venga
ristretta sulla base di una norma incriminatrice successivamente abrogata
oppure modificata in favore del reo: «per il principio di eguaglianza, infatti,
la modifica mitigatrice della legge penale e, ancor di più, l’abolitio criminis,
disposte dal legislatore in dipendenza di una mutata valutazione del disvalore
del fatto tipico, devono riverberarsi anche a vantaggio di coloro che hanno
posto in essere la condotta in un momento anteriore, salvo che, in senso opposto,
ricorra una sufficiente ragione giustificativa» (sentenza n. 236 del
2011).
Il legislatore a fronte dell’abolitio criminis non
ha ravvisato tale ragione giustificativa e ha previsto la revoca della sentenza
(art. 673 cod. proc. pen.), disponendo che devono cessare l’esecuzione della
condanna e gli effetti penali (art. 2, secondo comma, cod. pen.); analogamente
ha stabilito che «Se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore
prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si
converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi
dell’articolo 135» (art. 2, terzo comma, cod. pen.).
A questa Corte compete perciò di
rilevare che, nell’ambito del diritto penale sostanziale, è proprio
l’ordinamento interno a reputare recessivo il valore del giudicato, in presenza
di alcune sopravvenienze relative alla punibilità e al trattamento punitivo del
condannato.
Al giudice comune, e in particolar modo
al giudice rimettente, quale massimo organo di nomofilachia compete, invece, di
determinare l’esatto campo di applicazione in sede esecutiva di tali
sopravvenienze, ovvero della dichiarazione di illegittimità costituzionale
della norma incriminatrice (art. 30, quarto comma, della legge 11 marzo 1953,
n. 87), e, nell’ipotesi in cui tale determinazione rilevi ai fini della
proposizione di una questione di legittimità costituzionale, spiegarne le
ragioni in termini non implausibili.
Nel caso in esame le sezioni unite rimettenti, con motivazione che soddisfa tale
ultimo requisito, hanno argomentato che, in base all’art. 30, quarto comma,
della legge n. 87 del 1953, il giudicato penale non impedisce al giudice di
intervenire sul titolo esecutivo per modificare la pena, quando la misura di
questa è prevista da una norma di cui è stata riconosciuta l’illegittimità
convenzionale, e quando tale riconoscimento sorregge un giudizio altamente
probabile di illegittimità costituzionale della norma per violazione dell’art.
117, primo comma, Cost.
Nell’ambito dell’odierno incidente di
legittimità costituzionale, tale rilievo è sufficiente per concludere che, con
riferimento al procedimento di adeguamento dell’ordinamento interno alla CEDU,
originato dalla pronuncia della Grande Camera della Corte EDU nel caso
Scoppola, il giudicato non costituisce un ostacolo insuperabile che, come
invece accade di regola, limiti gli effetti dell’obbligo conformativo ai soli
casi ancora sub iudice.
Nella prospettiva adottata dalle sezioni
unite rimettenti, non vi sono perciò ostacoli che si frappongano alla
estensione degli effetti della Convenzione in fattispecie uguali a quella
relativa a Scoppola, sulle quali si sia già formato il giudicato.
8.– Bisogna ora chiedersi quale sia il procedimento da seguire per
conformarsi alla sentenza della Corte EDU e, in particolare, se il giudice
dell’esecuzione abbia "competenza” al riguardo. In proposito va rilevato che il
procedimento di revisione previsto dall’art. 630 cod. proc. pen., quale risulta
per effetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale di cui alla sentenza n. 113 del
2011 di questa Corte, non è adeguato al caso di specie, nel quale non è
necessaria una "riapertura del processo” di cognizione ma occorre più
semplicemente incidere sul titolo esecutivo, in modo da sostituire la pena
irrogata con quella conforme alla CEDU e già precisamente determinata nella
misura dalla legge.
Per una simile attività processuale è sufficiente un intervento del
giudice dell’esecuzione (che infatti è stato attivato nel caso oggetto del
giudizio principale), specie se si considera l’ampiezza dei poteri ormai
riconosciuti dall’ordinamento processuale a tale giudice, che non si limita a
conoscere delle questioni sulla validità e sull’efficacia del titolo esecutivo
ma è anche abilitato, in vari casi, ad incidere su di esso (artt. 669, 670,
comma 3, 671, 672 e 673 cod. proc. pen.).
Del resto non è senza significato che, come è già stato ricordato, dopo
la sentenza
Scoppola l’Italia abbia fatto riferimento proprio al procedimento
esecutivo, quando, tra l’altro, ha comunicato al Comitato dei ministri del Consiglio
d’Europa che, in vista delle possibilità offerte dalla procedura dell’incidente
di esecuzione alle persone che possono trovarsi in una situazione simile a
quella del ricorrente nel presente caso, le autorità italiane considerano che
la pubblicazione e la diffusione della sentenza della Corte europea ai
tribunali competenti costituiscono misure sufficienti per prevenire violazioni
simili.
Se la sentenza della Corte EDU cui occorre conformarsi implica
l’illegittimità costituzionale di una norma nazionale ci si deve anche chiedere
se la sua esecuzione da parte del giudice nazionale debba passare o meno
attraverso la pronuncia di tale illegittimità.
Nei confronti di Scoppola si è data, da parte della Corte di cassazione,
direttamente esecuzione alla sentenza della Corte europea con la procedura del
ricorso straordinario ex art. 625-bis cod. proc. pen., ma nel caso in
esame, in cui rispetto al ricorrente manca una pronuncia specifica della Corte
EDU, è da ritenere che occorra sollevare una questione di legittimità
costituzionale della norma convenzionalmente illegittima, come appunto hanno
fatto le sezioni unite della Corte di cassazione.
Una volta considerato anche questo profilo, è chiara la rilevanza della
questione di legittimità costituzionale sollevata dalle sezioni unite della
Corte di cassazione rispetto all’art. 7, comma 1, del decreto-legge n. 341 del
2000, che impedisce di definire la vicenda processuale in osservanza
dell’obbligo costituzionale di adeguamento alla sentenza della Corte EDU, che di
quella norma ha rilevato il contrasto con l’art. 7, paragrafo 1, della CEDU.
Si tratta, com’è chiaro, di una conclusione che riguarda esclusivamente
l’ipotesi in cui si debba applicare una decisione della Corte europea in
materia sostanziale, relativa ad un caso che sia identico a quello deciso e non
richieda la riapertura del processo, ma possa trovare un rimedio direttamente
in sede esecutiva. Le stesse sezioni unite hanno avvertito che «diverso è il
caso di una pena rivelatasi illegittima, esclusivamente perché inflitta
all’esito di un giudizio ritenuto dalla Corte EDU non equo, ai sensi dell’art.
6 della CEDU: in questa ipotesi, l’apprezzamento, vertendo su eventuali errores in procedendo e implicando valutazioni
strettamente correlate alla fattispecie specifica, non può che essere compiuto
caso per caso, con l’effetto che il giudicato interno può essere posto in
discussione soltanto di fronte ad un vincolante dictum della Corte di Strasburgo sulla medesima fattispecie».
Di conseguenza si deve concludere che la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 7, comma 1, del decreto-legge n. 341 del 2000,
sollevata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione
all’art. 7 della CEDU, è rilevante.
La questione di legittimità costituzionale proposta con riferimento
all’art. 3 Cost. invece è inammissibile, perché non attiene alla necessità di
conformarsi a una sentenza della Corte EDU, cioè al solo caso che, come si è
visto, può giustificare un incidente di legittimità costituzionale sollevato
nel procedimento di esecuzione nei confronti di una norma applicata nel
giudizio di cognizione.
9.– Nel merito, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 7,
comma 1, del decreto-legge n. 341 del 2000, sollevata in riferimento all’art.
117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 7 della CEDU, è fondata.
La norma impugnata si colloca al termine di una successione di tre
distinte discipline. La prima è quella dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen.,
come risultava in seguito alla dichiarazione di illegittimità costituzionale
contenuta nella sentenza
di questa Corte n. 176 del 1991, che precludeva la possibilità del giudizio
abbreviato (e dunque della relativa diminuzione di pena) per i procedimenti
concernenti reati punibili con l’ergastolo. La seconda è quella introdotta
dalla legge n. 479 del 1999, il cui art. 30, comma 1, lettera b), aveva reso nuovamente possibile il
giudizio abbreviato per i reati puniti con la pena dell’ergastolo, perché aveva
aggiunto alla fine del comma 2 dell’art. 442 cod. proc. pen. il seguente
periodo: «Alla pena dell’ergastolo è sostituita quella della reclusione di anni
trenta». La terza è quella del decreto-legge n. 341 del 2000, il cui art. 7, nel
dichiarato intento di dare l’interpretazione autentica dell’art. 442, comma 2,
cod. proc. pen., aveva stabilito che l’espressione «pena dell’ergastolo», ivi
contenuta, dovesse «intendersi riferita all’ergastolo senza isolamento diurno»,
e alla fine del comma 2 aveva aggiunto un terzo periodo, così formulato: «Alla
pena dell’ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di reati e di
reato continuato, è sostituita quella dell’ergastolo».
La sentenza
della Corte EDU, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia ha affermato che
l’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. costituisce «una disposizione di diritto
penale materiale riguardante la severità della pena da infliggere in caso di
condanna secondo il rito abbreviato» e che l’art. 7, comma 1, del decreto-legge
n. 341 del 2000, nonostante la formulazione, non è in realtà una norma
interpretativa, perché «l’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. non presentava
alcuna ambiguità particolare; esso indicava chiaramente che la pena
dell’ergastolo era sostituita da quella della reclusione di anni trenta, e non
faceva distinzioni tra la condanna all’ergastolo con o senza isolamento diurno».
Inoltre, aggiunge la sentenza
Scoppola, «il Governo non ha prodotto esempi di conflitti giurisprudenziali
ai quali l’art. 442 sopra citato avrebbe presumibilmente dato luogo».
Si tratta di valutazioni ineccepibili anche in base all’ordinamento
interno.
La natura sostanziale della disposizione dell’art. 442, comma 2, cod.
proc. pen. era stata già chiaramente affermata dalle sezioni unite della Corte
di cassazione con la sentenza 6 marzo 1992, n. 2977. Allora era venuta in
questione una situazione opposta a quella attuale. La Corte costituzionale con
la sentenza n.
176 del 1991 aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale, per eccesso
di delega, del secondo periodo dell’art. 442 cod. proc. pen., uguale a quello
attualmente vigente, e occorreva decidere come trattare le condanne già
intervenute in applicazione della norma di cui era stata dichiarata l’illegittimità
costituzionale. Le sezioni unite hanno ritenuto che non importasse «stabilire
la natura della diminuzione o della sostituzione della pena», ma importasse
«piuttosto rilevare che essa si risolve indiscutibilmente in un trattamento
penale di favore», e hanno affermato che la pronuncia della Corte
costituzionale «non può determinare effetti svantaggiosi per gli imputati di
reati punibili con l’ergastolo che hanno richiesto il giudizio abbreviato prima
della dichiarazione dell’illegittimità costituzionale dell’art. 442, comma 2,
cod. proc. pen. Per questi imputati deve rimanere fermo il trattamento penale
di favore di cui hanno goduto in collegamento con il procedimento speciale», i
cui atti di conseguenza non possono essere annullati.
È vero inoltre che l’art. 7, comma 1, del decreto-legge n. 341 del 2000
costituisce solo formalmente una norma interpretativa: è questa una qualifica
non corrispondente alla realtà, che gli è stata data per determinare un effetto
retroattivo, altrimenti non consentito. Infatti, come è stato precisato da
questa Corte, «la legge interpretativa ha lo scopo di chiarire "situazioni di oggettiva
incertezza del dato normativo”, in ragione di "un dibattito giurisprudenziale
irrisolto” (sentenza
n. 311 del 2009), o di "ristabilire un’interpretazione più aderente alla
originaria volontà del legislatore” (ancora sentenza n. 311 del
2009), a tutela della certezza del diritto e dell’eguaglianza dei
cittadini» (sentenze n. 103 del 2013
e n. 78 del 2012).
Nessuna di queste ragioni sorregge la norma impugnata, dato che, come ha
osservato la sentenza
Scoppola, l’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., cioè l’oggetto della
pretesa interpretazione legislativa, era chiaro, non presentava ambiguità e non
aveva dato luogo a contrasti sulla disciplina relativa alla pena
dell’ergastolo, perché non si dubitava che essa riguardasse sia l’ergastolo
"semplice” sia quello con isolamento diurno.
In sostanza, l’art. 7, comma 1, del decreto-legge n. 341 del 2000, con il
suo effetto retroattivo, ha determinato la condanna all’ergastolo di imputati
ai quali era applicabile il precedente testo dell’art. 442, comma 2, cod. proc.
pen. e che in base a questo avrebbero dovuto essere condannati alla pena di
trenta anni di reclusione.
La Corte EDU, con la
sentenza
Scoppola del 17 settembre 2009, ha ritenuto, mutando il proprio precedente
e consolidato orientamento, che «l’art. 7, paragrafo 1, della Convenzione non
sancisce solo il principio della irretroattività delle leggi penali più severe,
ma anche, e implicitamente, il principio della retroattività della legge penale
meno severa», che si traduce «nella norma secondo cui, se la legge penale in
vigore al momento della commissione del reato e le leggi penali posteriori
adottate prima della pronuncia di una sentenza definitiva sono diverse, il
giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli
all’imputato».
Si tratta,
nell’ambito dell’art. 7, paragrafo 1, della CEDU, di un principio analogo a
quello contenuto nel quarto comma dell’art. 2 cod. pen., che dalla Corte di
Strasburgo è stato elevato al rango di principio della Convenzione.
Posto questo
principio la Corte ha rilevato che «l’articolo 30 della legge n. 479 del 1999
si traduce in una disposizione penale posteriore che prevede una pena meno
severa» e che «l’articolo 7 della Convenzione […] imponeva dunque di farne
beneficiare il ricorrente». Di conseguenza, secondo la Corte, «nella
fattispecie vi è stata violazione dell’articolo 7, paragrafo 1, della
Convenzione».
Com’è noto, a partire dalle
sentenze n. 348
e n. 349 del
2007, la giurisprudenza di questa Corte è costante nel ritenere che «le norme della CEDU – nel significato
loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, specificamente
istituita per dare a esse interpretazione e applicazione (art. 32, paragrafo 1,
della Convenzione) – integrano, quali norme interposte, il parametro
costituzionale espresso dall’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone
la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi
internazionali» (sentenze n. 236, n. 113, n. 80 – che
conferma la validità di tale ricostruzione dopo l’entrata in vigore del
Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 – e n. 1 del 2011; n. 196 del 2010;
n. 311 del 2009),
e deve perciò concludersi che,
costituendo l’art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, rispetto
all’art. 117, primo comma, Cost., una norma interposta, la sua violazione,
riscontrata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza
della Grande Camera del 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, comporta
l’illegittimità costituzionale della norma impugnata.
per
questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’articolo 7, comma 1, del decreto-legge 24 novembre 2000, n. 341 (Disposizioni
urgenti per l’efficacia e l’efficienza dell’Amministrazione della giustizia),
convertito, con modificazioni, dalla
legge 19 gennaio 2001, n. 4;
2)
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale
dell’articolo 7, comma 1, del
decreto-legge 24 novembre 2000, n. 341 (Disposizioni urgenti per l’efficacia e
l’efficienza dell’Amministrazione della giustizia), convertito, con
modificazioni, dalla legge 19 gennaio 2001,
n. 4, sollevata, in riferimento all’articolo 3 della Costituzione, dalla
Corte di cassazione, sezioni unite penali, con l’ordinanza indicata in
epigrafe;
3)
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale
dell’articolo 8 del decreto-legge 24
novembre 2000, n. 341 (Disposizioni urgenti per l’efficacia e l’efficienza
dell’Amministrazione della giustizia), convertito, con modificazioni, dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4,
sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 117, primo comma, della
Costituzione, quest’ultimo in relazione all’articolo 7 della Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali,
ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dalla Corte di cassazione, sezioni unite
penali, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella
sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 luglio 2013.
F.to:
Franco GALLO, Presidente
Giorgio LATTANZI, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 18 luglio
2013.